Cari compagni, care compagne,
Per noi anarchici, le parole possono costituire una trappola. Possono colpirci e potremmo costruirci attorno un labirinto da cui sarebbe difficile uscire. Le parole restano sempre approssimative, nient’altro che un tentativo di cogliere la realtà ed esprimere idee. Tuttavia costituiscono uno degli strumenti a nostra disposizione per avvicinarci, per gettare un ponte verso altri compagni, verso altri ribelli. Essendo cosciente dei limiti delle parole, posso solo sperare che queste poche parole riusciranno ad attraversare l’oceano, a sorvolare i mari e le terre, a superare le frontiere e ad arrivare fino a voi in questa occasione della commemorazione della morte dell’anarchico Sebastián Oversluij, abbattuto da una guardia nel corso di un esproprio in banca a Santiago del Cile l’11 dicembre 2013 (1).
Qualche volta, magari in momenti tragici come quello della morte di Sebastián, o semplicemente quando i nostri occhi rifiutano di chiudersi, quando le nostre membra rifiutano di riposarsi, quando la notte nel nostro letto continuiamo a fissare il soffitto, una domanda, una domanda fondamentale può venirci in mente ed ossessionarci. Perché siamo anarchici? Cosa significa essere anarchici? Qualcuno potrebbe dire che si tratta solo di una domanda retorica e quindi sarebbe una perdita di tempo, ma io non sono d’accordo. Dato che le parole possono anche costruire dei labirinti invece che renderci capaci di agire — e quando parlo di agire, non intendo il semplice fare —, non dovremmo esitare a fare appello al nostro spirito critico, nutrito dalla nostra esperienza. Allora, perché siamo anarchici? Perché, e questo a differenza di altre correnti più o meno rivoluzionarie, abbiamo identificato il male eterno, la fonte di ogni sofferenza e oppressione, in quel principio che domina il mondo in cui viviamo: il potere. Contrariamente alla «forza» o alla «potenza», che potremmo intendere come la capacità di fare qualcosa, di rispondere alle sfide poste dalla lotta, è il potere che combattiamo, e lo combattiamo perché è incompatibile con la libertà. Non può esserci libertà finché esiste potere. Quindi, proseguendo col ragionamento: se vogliamo la libertà, dobbiamo distruggere il potere. Non possiamo riformarlo, non possiamo renderlo più accettabile, non possiamo migliorarlo. Possiamo fare solo una cosa: distruggerlo, distruggerlo da cima a fondo. In fondo, l’anarchismo non è solo quel sogno che possiamo avere di libertà, di una vita senza costrizioni né sfruttamento, di una vita profonda, ricca, di bellezza, di gioia, gioco, esplorazione — l’anarchismo può anche essere questo, e la fiamma di questo sogno di cui sono innamorato continua a bruciare nel mio cuore — ma l’anarchismo vuol dire anche, e persino soprattutto, distruzione.
La distruzione di tutto ciò che incarna il potere, non solo come idea, ma anche in quanto strutture fisiche e persone. Lo Stato sarebbe uno spettro se fosse solo un’idea, ma non è uno spettro, dato che si materializza in strutture e uomini. Negli edifici governativi, nei commissariati, nelle prigioni, nelle scuole, ed anche nei politici, nei poliziotti, nei secondini e nei preti. A mio avviso, la dimensione distruttiva dell’anarchismo è duplice: corrode l’idea di potere e le sue ideologie, quell’obbedienza che appare perpetua e di cui gli sfruttati sono capaci; e attacca, per distruggere, non per convincere o persuadere, le strutture fisiche e le persone che incarnano il potere. A partire da qui, non può esserci pace, non può esserci tregua nelle ostilità: l’anarchismo conduce una guerra contro il potere, una guerra difficile, incessante, a volte dolorosa, ma anche gioiosa. Contro il potere e per la libertà.
Ed io, come anarchico? Non sono certo un soldato in questa guerra dell’anarchismo contro il potere. Non c’è ordine a cui obbedire, non ci sono leader da seguire, la scelta è sempre mia, come individuo, proprio come rimane ai miei compagni, agli altri individui. Ma non sono nemmeno un semplice ribelle che reagisce, ogni tanto magari con ferocia, alla sofferenza che gli viene imposta. Sì, mi ribello, mi rivolto, ma aspiro ad essere qualcosa di più. Conosco molti compagni anarchici che sono certamente dei ribelli, ma che sono anche qualcosa di più. A volte ciò li differenzia anche da altre persone che si ribellano. E lo sto dicendo senza alcun disprezzo per i ribelli, senza alcun sentimento di superiorità. Semplicemente, l’anarchismo non è soltanto rivolta, non è solo re-agire, anche violentemente, alla violenza e alla brutalità del potere. Secondo me, l’anarchismo cerca di proiettarci in un un’altra dimensione, nella dimensione dell’agire. Di nuovo, le parole possono tradire, ma io definisco questa una dimensione rivoluzionaria. Rivoluzionaria, perché come anarchico non voglio solo ribellarmi contro ciò che mi viene imposto e viene imposto al resto del mondo: voglio andare oltre, voglio sviluppare un progetto distruttivo per cancellare, annientare, radere al suolo ciò che è alla radice della sofferenza illimitata in questo mondo, dei bagni di sangue e dei massacri su cui poggia tutto il potere (sia esso dittatoriale, democratico, socialista o religioso). Questa coscienza fa degli anarchici qualcos’altro che dei meri ribelli. Ribelli con una visione, con un progetto, con una prospettiva, con un sogno particolare.
Certo, forse obietterete che molti anarchici oggi non vogliono sentir parlare di prospettive, o forse che ne hanno una ma poi passano il tempo a chiacchierare, a commentare quanto accade. È vero, ma in fondo tutto ciò non dovrebbe riguardarci. Non siamo missionari che vogliono sedurre gli altri, nemmeno gli altri anarchici, affinché raggiungano una cappella. Non siamo ossessionati dal fascino magico del numero, di quanti siamo. Noi vogliamo agire, qui ed ora, vogliamo sviluppare
un progetto di lotta — anche provvisorio — che ci permetta di fare incursioni nella realtà, di trasformarla (attraverso la distruzione), non solo di sopportarla in un modo o nell’altro. Cari compagni, mi pesa esprimermi con le parole, da tanto sono limitate, da tanto possono diventare rapidamente delle trappole in cui precipita ogni comprensione reciproca, ma io posso solo tentare. Lasciatemi fare un esempio. Nel 1930, a Montevideo, diversi prigionieri anarchici evasero dalla prigione di Punta Carretas attraverso un tunnel scavato sotto il muro di cinta. Un’azione meravigliosa, ma voglio spingere la riflessione oltre l’ammirazione. Quel tunnel non è venuto giù dal cielo, non era qualcosa di improvvisato, non era solo una reazione rapida ed intelligente da parte di alcuni anarchici rinchiusi in una prigione che hanno colto l’occasione per scappare. No. Diversi mesi prima dell’evasione, un compagno era andato ad affittare una casa di fronte alla prigione. Vi aveva installato una rivendita di carbone, dove vendeva e consegnava carbone. Gli affari andavano bene, tutto sembrava normale. Ma un po’ più tardi arrivarono altri compagni, di nascosto, ed iniziarono a scavare un tunnel partendo da quella rivendita di carbone. Trascorsero mesi a scavare, rischiando ogni giorno di venire scoperti. Ciò che voglio dire è che quei compagni avevano un progetto, e con molti sforzi e tanta pazienza hanno assemblato i pezzi, gli elementi del loro progetto, per riuscire finalmente a realizzare un obiettivo. Bene, è solo un esempio, ma lo do perché mostra ciò di cui si può diventare capaci quando si ha un progetto. L’organizzazione dell’evasione dei compagni imprigionati è solo un esempio. Possono essere immaginati progetti ancora più ambiziosi, ancora più vasti, che forse proprio in questo momento vengono immaginati e attuati da compagni.
Ma quello che conta è che un progetto non cade dal cielo. E ha bisogno di tutto. Ha bisogno di riflessione, di analisi della situazione, dell’acquisizione di mezzi e conoscenze tecniche; probabilmente richiede il concorso di altri compagni, compagni con cui siamo in affinità (che è qualcosa di diverso della semplice definizione di «anarchico», perché l’affinità ci consente di agire insieme, mentre il fatto che qualcuno sia anarchico non mi permette automaticamente di agire insieme, occorre qualcosa di più). Il progetto ha bisogno di una sorta di organizzazione, non dell’Organizzazione con la maiuscola, ma di un’organizzazione nel senso di riunire gli elementi per il nostro progetto, di un’organizzazione informale. Forse avere un progetto è come avere un piano, un piano rivoluzionario. A volte un progetto può anche avere obiettivi più limitati (il che non toglie nulla alla sua importanza), ad esempio la liberazione di compagni rinchiusi, o la distruzione di una struttura di potere particolarmente odiosa come una nuova miniera, una nuova prigione, una nuova fabbrica; ma può anche arrivare lontano quanto una vasta insurrezione di tutta una regione, un paese, un continente! Il progetto è uno dei modi che possono consentirci di andare oltre il fare (fare, nel senso di ciò che gli anarchici fanno comunque: diffondere le proprie idee, partecipare a manifestazioni, aprire locali, colpire il nemico) e farci entrare nell’ambito dell’agire, in una dimensione in cui l’iniziativa diventi nostra. Ovviamente, quelli che vogliono garanzie in anticipo che questo o quel progetto funzioneranno, che saremo in grado di realizzare l’obiettivo che vogliamo raggiungere, resteranno delusi: non c’è certezza, non ci sono garanzie, tutto può fallire. Ma non la considero una ragione sufficiente per rinunciare ad avere una progettualità.
Forse queste parole vi suonano vuote, è possibile, perché no? Ma forse no, e allora si aprono altri orizzonti. Il momento è adesso, cari compagni. Vi scrivo dall’Europa, e sì, posso dirvi che il momento è adesso. La società sta cambiando rapidamente, le tecnologie non stanno cambiando semplicemente le abitudini degli sfruttati e le capacità di sfruttarli da parte degli sfruttatori, ancor più, stanno anche cambiando l’essere umano. Stanno appiattendo l’essere umano, rendendolo più stupido, vuoto, superficiale, senza passione né odio: uno schiavo che non ha più la capacità di capire che è schiavo. E nel frattempo, il massacro continua, quei massacri alle porte di ciò che con supponenza si chiama «il vecchio continente», ed anche al suo interno. Un nuovo mondo è in procinto di nascere, non un mondo di anarchia, ma un mondo di sottomissione durevole, di maggior carneficina, di maggior sofferenza. Non possiamo restare semplicemente immoti ad osservare. Le previsioni sono certo contro di noi, almeno qui in Europa, ma rinunciare equivarrebbe a rinunciare alla vita stessa che molti di noi hanno scelto: una vita di guerra contro il potere, una vita di lotta per un sogno, per l’idea di cui mi sono innamorato: la libertà. Analizziamo il passato delle esperienze anarchiche per trarne ispirazione (solo per dare un breve esempio: pensate a quei compagni che proposero azioni relativamente semplici, diffuse su tutto il territorio, contro le strutture periferiche del dominio, come negli anni 80 in Italia quando centinaia di tralicci elettrici vennero segati o dinamitati — immaginate una simile ondata di sabotaggi contro le strutture energetiche che fanno funzionare quasi tutte le strutture dello Stato e del capitale!), ma gettiamo nella spazzatura anche la merda in cui il movimento anarchico si è ritrovato immischiato nel passato; contro tutti quelli che sembrano desiderare solo l’ultimo oggetto tecnologico, affermiamo il nostro amore per la libertà — e il nostro odio per il potere. La guerra degli anarchici contro il potere si muove su terreni difficili, ma non è ancora finita. Niente è impossibile, ma bisogna dedicarvisi. Riunire i mezzi e le capacità per il progetto che abbiamo in mente, prepararsi per gli sforzi che potrebbe richiedere, o meglio, che richiederà.
Per concludere, vorrei ricordare alcune frasi di un giornale nato negli Stati Uniti, Cronaca Sovversiva, il giornale degli anarchici che avevano dichiarato guerra allo Stato nel momento in cui tante persone si univano ai ranghi degli eserciti che si massacravano a vicenda nel corso della Prima Guerra mondiale, il giornale di quegli anarchici che parlavano di un «anarchismo autonomo», di un anarchismo che non è ossessionato dalle organizzazioni quantitative, il giornale di quegli anarchici che hanno colpito instancabilmente le persone più potenti degli Stati Uniti. Nel numero del 13 marzo 1915, in piena propaganda bellica, questi anarchici affermavano: «Cosa fare? Continuare la buona guerra, la guerra che non conosce paure, né scrupoli, né pietà, né tregua, anche se attraverso la quotidiana esperienza dell’agguato, dinnanzi alle legioni soverchianti del nemico, l’audacia e il coraggio debbano cingersi d’avvedutezza e di cautela; la guerra di sterminio ai vampiri del capitale, alle belve dell’ordine, in ogni covo».
Continuiamo a condurre la sola buona guerra: la guerra per la distruzione del potere.
(Contributo letto a Santiago del Cile durante un’iniziativa in omaggio a Sebastián Oversluij, a fine dicembre 2018).
1. La mattina dell’11 dicembre 2013, il compagno Sebastián Oversluij si preparava ad espropriare un’agenzia bancaria nel comune di Pudahuel nella capitale cilena. Entrando nell’agenzia, il compagno «Angry» tirò fuori il mitra che portava sotto i vestiti annunciando l’assalto. Una miserabile guardia ha immediatamente abbattuto il compagno. Questa spazzatura in uniforme aveva avuto un addestramento militare e una grande esperienza da mercenario ad Haiti e in Iraq. Più tardi, due anarchici trovati fuori dalla banca sono stati arrestati e condannati per complicità nella rapina.
[Avis de Tempêtes, n. 13, 15 gennaio 2019. Tradotto da Finimondo]