Dopo mesi di trattative col potere, i sindacati all’inizio di dicembre hanno infine partorito il loro sciopero contro «la riforma delle pensioni». Benché ci si ostini a chiamarlo «generale» sia fra i dirigenti sindacali sia all’interno della «base» (senza tralasciare «i radicali», naturalmente!), ciò è palesemente fuori luogo. Nel momento in cui scriviamo, riguarda principalmente i trasporti e i funzionari statali, spalleggiati da qualche bastione più «combattivo» del sindacalismo, come è il caso delle raffinerie. Riaffiora come un mantra il solito ritornello: da un lato c’è il famoso «non molliamo» e dall’altro «non cambieremo il principio della riforma». È improbabile che questo scenario, già visto così tante volte, finisca diversamente del gioco delle tre carte: alla fine, dopo aspre trattative e pugni sbattuti sul tavolo, si fa la conta delle forze presenti. Il sipario si chiude: si molla comunque su qualcosa (creazione di un regime unico) da un lato e si modificherà in parte il principio dall’altro (mantenimento di specificità di deroga, come quelle già accettate per gli sbirri il 12 dicembre).
Ma lungi da noi rimproverare ai sindacati di fare la loro parte del lavoro di cogestione di un esistente che noi vogliamo distruggere. Costoro difendono i propri interessi di mediatori e pacificatori, usano i propri strumenti per fare pressione, inducono i più agitati nei loro ranghi ad apparire positivi e vigorosi, arrivano persino ad affiancare alcuni radicali per aggiungerli al bilancio finale decisivo (ovviamente quantitativo), abbandonando strada facendo i sognatori che hanno dato tanto per «cambiare tutto», e cercando di rafforzare il proprio ruolo di intermediari tra Stato, Capitale e mondo del lavoro, come si suol dire.
No, se qualcosa ci stupisce ancora ingenuamente, non è il rapporto di forza programmato dai sindacati tra due corsie ministeriali, ma i facili entusiasmi dei rivoluzionari che chiamano ad unirsi allo sciopero, al grrrande sciopero generale, appelli che mettono in pausa qualsiasi riflessione critica. In aggiunta all’«effetto mobilitante», il processo invariabilmente impiegato è quello dell’esagerazione e della mistificazione, lasciando parecchio indietro in qualche caso anche i professionisti della propaganda (politici e quadri sindacali). È stato persino scritto «Sciopero generale contro Macron e il suo mondo», ad esempio, mentre si tratta di uno sciopero parziale e riconducibile contro… la riforma delle pensioni (ossia, per questo mondo).
D’altronde, già che ci siamo, forse varrebbe la pena riflettere un momento, al di là della confusione, sulle fanfare sindacali e sugli striscioni «Marx o morte» dei nostri cari radicali abbigliati di nero per l’occasione (non c’è da preoccuparsi, fa solo parte del circo, domani si cambieranno di nuovo indossando i patetici abiti rossi della «dialettica di classe» o del «plusvalore», se non della «ascesa del fascismo» per i più dilettanti), su ciò che è «la pensione». Organizzata dallo Stato, cogestita dai sindacati padronali e dei lavoratori o dalle assicurazioni private, la pensione consiste in favolose somme di denaro che vengono prelevate oggi ai salariati per essere loro restituite (beh, come stiamo vedendo, con qualche fluttuazione) a piccole dosi domani, quando saranno troppo vecchi per produrre ancora a pieno regime. Il dibattito tra pensioni assistenziali e pensioni capitalizzate ha come sfondo in particolar modo la questione dei «pension funds» (per usare un termine inglese), già attivi come integrazione (soprattutto tra i dipendenti pubblici) e introdotti in maniera più ampia a partire da ottobre nella legge attraverso i Piani di risparmio previdenziale (PER), e che la riduzione programmata degli importi versati rafforzerà. Perché le somme raccolte non sono meramente «virtuali», ma alimentano importanti operatori sui mercati finanziari. Proprio come le banche, i fondi di investimento, ecc., i «fondi pensione» speculano su tutto e investono in tutti i campi. Dalla speculazione sulla fame alla speculazione immobiliare, dagli investimenti nelle «energie verdi» al sovvenzionamento delle industrie belliche, dai prestiti allo Stato per finanziare le sue prigioni e i suoi poliziotti allo sfruttamento degli agglomerati industriali. In breve: la pensione non è solo il denaro che un pensionato può ricevere alla fine della sua «carriera», ma rappresenta un’importante leva finanziaria nel mondo capitalista.
Allora, come mai il governo francese, al pari dei suoi omologhi europei, si ostina a voler riformare il sistema pensionistico? Per schiacciare ulteriormente «i precari, le donne e i più poveri» come riassume, ovviamente senza alcun dogmatismo propagandistico, un altro di questi appelli entusiasta della mobilitazione sindacale? Potrebbe certo trattarsi di un effetto della riforma, ma ciò che l’attuale governo francese cerca di fare è adeguare il territorio che amministra al mondo odierno. È la fine dello Stato-papà — che nel complesso dava denaro per comprare pace sociale, per promuovere il «progresso sociale» ed evitare rivoluzioni — un modello che ormai è obsoleto. Quindi, come è possibile non rendersi conto che quasi tutti i movimenti sociali contro questa o quella riforma sono movimenti essenzialmente difensivi e conservatori di uno status quo in via di sparizione? Non siamo più ai tempi in cui insorgevano per demolire pezzi di questo mondo andando all’assalto del cielo o per strappare brandelli della borsa del capitale, il che solleva l’antica domanda sulla possibilità di andare all’offensiva partendo da una posizione strutturalmente difensiva. Questi movimenti difendono il mondo che conoscono, in particolare quello che è riuscito a garantire a determinati strati del proletariato in Europa un livello di vita che consente l’accesso al consumo di massa, allo svago e al divertimento. Un mondo il cui prezzo è sempre stato pagato altrove, da altri proletari, che del consumo di massa hanno visto solo gli scarti e che muoiono in fondo alle miniere in Africa o nelle fabbriche tessili in Asia. Ed è questo che dovremmo difendere? È per questo che dovremmo scioperare?
In fondo la pensione è un prestito che i salariati concedono allo Stato e al capitale, sperando che costoro mantengano la loro promessa quarant’anni dopo. Quindi, in tutta franchezza, tutto questo cosa può mai avere a che fare con… gli anarchici? Se i sindacati vogliono un regime pensionistico, ciò implica di fatto l’esistenza dello Stato, e perfino il mantenimento di un maggiore intervento dello Stato nella vita sociale. Certo, noi non vogliamo portare acqua al mulino degli ultra-liberali, ma l’anarchico è ancora un nemico dello Stato, giusto? E non vuole che lo Stato conservi o accresca il suo potere, giusto? Non vuole far sì che lo Stato si appropri di ulteriori leve per dominare, giusto? Ma allora…
La cosa più insopportabile in tutto ciò è in definitiva l’iperbole del noi che infesta i discorsi radicali. «Noi salariati», «la nostra collera», «è in tutte le teste». Ma cos’è questo «noi» di cui parlano? Della condizione di sfruttati che si condivide (per forza, non volontariamente)? Dell’opposizione «comune» che c’è contro «la riforma», così ampia da radunare inevitabilmente una folla e gli interessi più eterogenei? È il ritornello di sempre, della convergenza come della composizione o di alleanze oggettive, quello che ha sempre condotto alla stessa via senza uscita: la famosa condizione che creerebbe la coscienza. Eppure, sembra piuttosto che la coscienza sia il rifiuto di tale condizione… e del suo mondo. Lo sfruttato che non vuole più essere tale non implora una pensione, chiede la fine del salariato. L’oppresso che non vuole più essere comandato non segue le parole d’ordine che arrivano dall’alto, ma canta la propria canzone. Il suddito che non vuole più essere governato non rivendica più uno Stato, ma lo respinge sempre più incalzandolo e disorganizzandolo per annientarlo. Non esiste una dialettica da funamboli che possa spezzare un ragionamento così chiaro: tutto ciò che rafforza lo Stato ci allontana dalla sua distruzione.
Quindi cerchiamo, per parte nostra, di evitare i facili entusiasmi, aguzzando piuttosto il nostro sguardo critico. L’anno scorso, ondate di rabbia selvaggia hanno invaso la Francia malgrado l’iniziale scetticismo di tanti. Una rivolta che è sfuggita alle tradizionali mediazioni sindacali e politiche (non senza tuttavia produrne di nuove), che ha moltiplicato gli scontri, gli incendi, le interruzioni e le devastazioni, il sabotaggio… la distruzione. Per ragioni talvolta futili, con motivazioni spesso molto divergenti, al limite ripetendo sciocchezze lette o viste qui e là (come l’interpretazione talvolta complottista del mondo), ma una rivolta che ha comunque scatenato qualcosa, che ha aperto possibili spazi a tutte e tutti respingendo in un primo tempo partiti e sindacati. Viceversa, uno sciopero guidato dai sindacati e che non riesce a sbarazzarsene non scatena affatto, bensì incatena. Contrariamente alle speranze di sempre che «della rivolta rimanga pur qualcosa», temiamo che questo sciopero produca l’esatto contrario: portare ordine nella protesta sociale, a fronte del carattere spesso incontrollato che ha prevalso a lungo nel movimento dei gilet gialli in numerose città. D’altronde è questo il ruolo per eccellenza dei sindacati. E per lo Stato, questo risultato val bene alcune settimane di disordine nei trasporti.
Rimane una domanda: ci sono analisi, segnali o intuizioni che sembrano indicare che questo sciopero potrebbe deragliare verso qualcosa di diverso da un rapporto di forza tra Stato e sindacati, sostenuti all’occorrenza da una manodopera radicale? Per il momento, nonostante i resoconti infuocati di questo o quell’evento, nonostante la sovrabbondanza di appelli a partecipare, nonostante i pallet che bruciano all’entrata delle raffinerie (che ovviamente continuano a rifornire a profusione gli sbirri di carburante prosciugando nel contempo le pompe dove si servono i dimostranti), siamo propensi a rispondere in modo negativo.
Possiamo ancora provare a far deragliare questo sciopero in totale autonomia e contro i pastori che attualmente guidano il gregge protestatario? Certamente! Ogni interruzione del tran tran quotidiano apre possibilità a coloro che intendono afferrarle, soprattutto se ci si è sbarazzati dell’illusione del quantitativo e si sono chiarite le proprie prospettive. Comunque sia: «La gioia del risultato è già nella gioia dello sforzo. Chiunque muova i primi passi in una direzione che ha tutti i motivi di ritenere buona, arriva già all’obiettivo, vale a dire che ha la ricompensa immediata della sua fatica». Non abbiamo bisogno di miraggi per metterci in cammino.
[Avis de tempêtes, n. 24, 15 dicembre 2019. Tradotto da Finimondo]