«Ho studiato il fenomeno della dedizione, spesso cieca, dei tecnici per il proprio compito.
Considerando la tecnologia moralmente neutra, costoro erano privi del minimo scrupolo
nello svolgere le loro attività. Più tecnico era il mondo che ci imponeva la guerra,
più pericolosa era l’indifferenza dei tecnici davanti alle conseguenze delle loro attività anonime».
Albert Speer, architetto membro del partito nazista e Ministro per gli armamenti e la produzione bellica dal 1942 al 1945
Nel 1959, un fisico che aveva partecipato al programma di ricerca che ha portato alla costruzione della bomba atomica, fece una curiosa presentazione in una università californiana. Concluse pronunciando parole che volevano essere profetiche, come si addice ai grandi visionari della scienza: «C’è molto spazio in fondo alla scala». Per decenni la sua profezia generò più speculazioni che accurate ricerche. Fino al giorno in cui i primi laboratori di ricerca cominciarono, negli anni 80, a dedicarsi allo studio dell’«infinitamente piccolo». Battezzate «nanotecnologie», queste ricerche comprendono tutti i procedimenti di fabbricazione o di manipolazione di strutture su scala nanometrica (1 nanometro corrisponde ad 1 miliardesimo di metro; un filamento di DNA umano ha una larghezza di 2 nanometri). Il «grande balzo in avanti» è stato fatto nel 2001, quando gli Stati Uniti riconobbero le nanotecnologie come un settore strategico per la ricerca scientifica, irrorando i laboratori col più grande piano di investimenti della loro storia.
Ma le tenebre durarono ancora per un po’ in fondo alla scala. Passò diverso tempo e molti laboratori faticavano a produrre qualcosa di «concreto», nel senso di applicazioni industrializzabili. Diventarono un po’ più discreti, non solo a causa della feroce concorrenza tra differenti potenze, ma forse anche per timore di una contestazione «irrazionale» e «tecnofobica» come quella incontrata dall’introduzione degli OGM in alcune parti del mondo (oggi in gran parte sconfitta, anche se alcuni paesi come la Francia continuano a vietare la loro commercializzazione per l’alimentazione umana nel proprio territorio — il che non impedisce che la quasi totalità delle coltivazioni di mais negli Stati Uniti sia transgenica, così come il riso in India, il grano e la colza in Argentina, ecc.). Assisteremo dunque all’ennesimo inutile annuncio da parte di scienziati che giurano di «rivoluzionare il mondo»? Dappertutto sono stati creati nuovi laboratori, unità di ricerca, cluster che raggruppano istituzioni e aziende, tutti dediti a ricerche sulle nanotecnologie. In Francia, si contano almeno 240 laboratori di nanoscienze. I «poli di competitività» collegati alle nanotecnologie si trovano a Lione (Lyonbiopôle), Grenoble (Minalogic), Besançon (Microtechniques), Provence Alpes-Côtes d’Azur (Optitec e Solutions Communicantes Sécurisées) e Centre-Limousin (Sciences et systèmes de l’énergie électrique). Invece i più importanti istituti di ricerca sono a Grenoble (Institut des Neurosciences), Saclay (Triangle de la Physique), Strasburgo (Centre International de Recherche aux Frontières de la Chimie) e Aix-Marseille (Institut Carnot). Si noti comunque che la maggior parte delle università dispongono ognuna di almeno un laboratorio specifico per le nanotecnologie e che molte regioni si sono dotate di un «centro di competenze» che raggruppa gli attori della ricerca e della produzione nanotecnologica.
Qualche anno fa, lo Stato francese ha istituito un meccanismo di dichiarazione obbligatoria per le imprese che usano nanomateriali nei propri prodotti. Senza ovviamente riportarne i nomi esatti (non esiste alcuna regolamentazione relativa alla segnalazione di presenza di nanoparticelle prodotte, come avviene ad esempio nel caso di additivi negli alimenti), ma l’ultimo rapporto annuale (relativo al 2019) rileva almeno 900 prodotti alimentari contenenti nanoparticelle. Tra questi c’è il latte per bambini, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali o dolci e dessert surgelati. Inoltre l’utilizzo di nanomateriali in altri settori conosce da qualche anno un aumento significativo: nanocomponenti in elettronica, nanoparticelle nei prodotti cosmetici, nanopolveri utilizzate per trattare e migliorare le superfici metalliche, ecc., senza dimenticare — e questo con un po’ meno «trasparenza» — le loro numerose applicazioni in campo militare. E siccome ogni produzione genera la sua parte di rifiuti, i residui dei processi produttivi di nanomateriali si accumulano. Sembra che per il momento questi scarti vengano semplicemente bruciati oppure spediti altrove, preferibilmente verso i campi della morte in Africa (come in Ghana, dove si trova una delle più grandi discariche a cielo aperto per i rifiuti informatici del mondo intero).
E allora? In cosa i nanomateriali differiscono da qualsiasi altro prodotto industriale? Da qualsiasi tossicità prodotta dall’economia? Oseremmo dire, a rischio di dare forse troppo credito all’entusiasmo dei ricercatori, che un’altra soglia qualitativa può essere superata coi nanomateriali, e che non si tratta di una mera estensione quantitativa di ciò che già esiste. Per fare il parallelo con gli OGM: questi costituiscono, sì o no, una soglia-limite in rapporto alla devastazione già provocata dall’agricoltura industriale? Sono semplicemente «un po’ più della stessa cosa» o stanno aggiungendo «qualcosa d’altro» alla somma delle schifezze esistenti? Per gli OGM, non v’è dubbio che la risposta sarebbe generalmente affermativa, trattandosi di manipolazioni che influenzano la struttura stessa del vivente e della sua diffusione nell’ambiente. Ebbene, noi saremmo piuttosto propensi a dare la stessa risposta in materia di nanotecnologie.
La sintetizzazione di composti chimici non è certo nuova. Durante la Seconda guerra mondiale, i complessi chimici del Terzo Reich producevano già un «petrolio sintetico» per rispondere ai bisogni della Wehrmacht. La novità con le nanotecnologie è la scala su cui è possibile lavorare, e soprattutto il fatto che su scala nanometrica le proprietà della materia cambiano. Non si comporta più secondo le medesime leggi fisiche. Il carbonio ad esempio può diventare più resistente dell’acciaio. Il rame può diventare trasparente e l’alluminio esplosivo. Basta e avanza per suscitare l’entusiasmo degli apprendisti stregoni in questo mondo in cui l’artificiale prevale sempre più sul «naturale». Modificare le proprietà della materia potrebbe semplicemente trasformare nel tempo l’insieme della produzione attuale e generare nuovi «insormontabili problemi» (rifiuti, tossicità, limiti fisici…). Basti pensare a come potrebbe essere sconvolto il panorama del trasporto di elettricità, considerata l’attuale perdita di quasi il 5% sulla linea, se alcuni nanomateriali superconduttori venissero usati per sostituire i cavi odierni, costituiti per lo più da una lega di alluminio. O se i microchip diventassero così microscopici (oggi, la loro miniaturizzazione è limitata dalle proprietà dei materiali usati, di solito il silicio) da non essere quasi più rilevabili.
Parlando di irrilevabile, istituzioni di controllo come l’Anses (Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria) ammettono da parte loro che è molto difficile e per il momento abbastanza aleatorio rilevare le nanoparticelle nei prodotti o nell’ambiente. Inoltre le nanoparticelle sono «indistruttibili», non scompaiono mai, viaggiano di corpo in corpo, dai laboratori ai prodotti, dai prodotti alla terra, dalla terra al cibo, ecc. Queste particelle, le cui proprietà sono state modificate, trapassano per di più tutte le membrane e i «filtri» protettivi di cui sono dotati la maggior parte degli organismi viventi. Pertanto, una nanoparticella può passare dallo stomaco o dal polmone al sangue, quindi dal sangue al cervello e così via, e sono disponibili pochissimi dati sulla loro tossicità. A titolo di esempio, lo Stato francese ha vietato nel 2019 in base al «principio di precauzione» l’additivo E171, il biossido di titanio, in tutti i prodotti alimentari ma non nei 4000 farmaci che lo contengono. Secondo cifre ufficiali, lo stesso biossido di titanio utilizzato dall’industria può contenere fino al 2,3% di nanoparticelle. Come per gli altri veleni industriali, la tossicità nanometrica è legata principalmente a una questione di gestione, con soglie modificabili all’infinito in funzione delle necessità del momento.
Per il momento, i «limiti» contro cui si scontra l’attuale produzione capitalistica sono parecchi, ma non costituiscono ostacoli insormontabili tali da annunciare la fine della loro preziosa crescita. Al contrario, costituiscono altrettante «sfide» per un’economia in perpetua ristrutturazione. Ad esempio, le previsioni di penuria di petrolio (tra l’altro abbastanza discutibili) incitano da decenni alla ricerca, alla commercializzazione e alla produzione di idrocarburi alternativi, e oggi possiamo vedere dovunque i disastri causati dal superamento di tale «limite»: monocolture di mais e colza per produrre idrocarburi, esplosione del fracking, sostituzione dei tradizionali motori a combustione con motori elettrici (e domani forse a idrogeno) e così via. Le nanotecnologie svolgeranno sicuramente un ruolo fondamentale nell’ulteriore artificializzazione del mondo. In questo senso, ogni attesa non fa che contribuire al progresso del dominio e delle sue opprimenti prospettive. Perdersi in interminabili discussioni sui gradi di pericolosità delle nanoparticelle rischia allo stesso modo di far perdere di vista che si tratta anzitutto di una via importante per l’economia allo scopo di superare determinate soglie e perpetuare così, ipotecando permanentemente il mondo, la sua mortifera esistenza.
In fondo, come davanti alle altre promettenti tecnologie del dominio, la sola questione di qualche interesse da porre, qui e ora, resta quella dell’attacco distruttivo.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 30, 15 giugno 2020]