«Il francese è un animale da cortile così bene addomesticato
che non osa scavalcare alcuna palizzata»
Charles Baudelaire, 1864
Da qualche settimana, i trafficanti di carne umana a capo degli Stati europei lanciano l’allarme sullo sfondo di questioni geopolitiche ed energetiche ben più ampie: alle loro porte orientali si accalcano alcune migliaia di viaggiatori indesiderati che tentano di fuggire dalla miseria, dalla guerra, dall’oppressione. Provenienti dall’Iraq, dalla Siria, dall’Afghanistan, dallo Yemen o dal Kurdistan, sono rimasti incastrati nelle gelide foreste bielorusse di fronte a 15.000 soldati polacchi e ai loro reticolati di filo spinato srotolati in tutta fretta. Nella sola giornata del16 novembre, i cani da guardia delle frontiere d’Europa affermano di aver respinto quasi 160 tentativi di «attraversamento illegale» del confine, due dei quali collettivi e in forze, che hanno lasciato sul selciato durante gli scontri nove fra gendarmi e militari.
Questa situazione, che ricorda su scala ridotta quella del 2015, quando la via dei Balcani era già stata bloccata poco alla volta con l’ausilio di muri (in Bulgaria, Ungheria, Slovenia, Austria), campi recintati con filo spinato e picchiatori in uniforme, ha riportato alla ribalta un’espressione di primo acchito banale: Fortezza Europa.
Più a sud, se si pensa effettivamente all’enorme sbarramento di torrette e sensori eretti nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, o alla recinzione «anti-migranti» lunga 40 chilometri inaugurata questa estate dalla Grecia, o anche ai vari muri in cemento ed acciaio che circoscrivono a nord tutto il porto di Calais, l’immagine si fa quanto meno impressionante. Tuttavia, sarebbe come dimenticare un po’ troppo in fretta che, in mezzo al flusso incessante di merci di cui gli esseri umani fanno certamente parte, le frontiere e i loro miserabili pezzi di carta timbrati (come la loro assenza) servono sia a smistare le diverse categorie di migranti che a proibire ogni passaggio agli indesiderabili, secondo gli imperativi dello sfruttamento o gli accordi interessati fra Stati. E dall’altra parte la blindatura di questi dispositivi non fa che accentuare a titolo dissuasivo il tragico costo del loro attraversamento illegale, trasformando il Mediterraneo in un gigantesco cimitero, o delegando i compiti più bassi a Stati-terzi come la Libia, i cui centri di tortura e di stupro di massa sono al servizio di una politica europea di terrore preventivo. Perché, dopo un viaggio così lungo e pericoloso, è difficile essere disposti a rinunciare di fronte a quelle muraglie finali erette sulla propria strada, come dimostra in mezzo ad altri tentativi il vittorioso assalto di 238 migranti riusciti ad attraversare in forze le recinzioni di Melilla lo scorso luglio, o il record a inizio novembre di 853 traversate illegali della Manica riuscite in una sola giornata (portando il fruttuoso totale a 21.000 dall’inizio dell’anno).
In sostanza, esiste senz’altro una stretta relazione tra le devastazioni ecologiche, la guerra per le risorse o le ristrutturazioni tecnologiche che producono milioni di esseri umani superflui, e gli spostamenti di popolazioni che passano fondamentalmente da un paese povero all’altro. Mentre qua e là la rabbia contro lo spossessamento delle nostre vite trova un facile sbocco nell’odio nei confronti di un fantomatico Altro, o la violenza delle frontiere si manifesta ugualmente senza pietà nel loro medesimo territorio, al tempo stesso sotto forma di gerarchia tra galeotti, che rafforza ulteriormente l’organizzazione sociale dello sfruttamento e del dominio, e di estensione dei dispositivi di controllo contro tutti.
Se occorresse un esempio di quest’ultima sul vecchio continente, si potrebbero osservare i numerosi programmi civili lanciati alle frontiere, sotto la copertura di finanziamento della ricerca (programma Orizzonte 2020 dell’Unione Europea), la cui mole di conseguenze pratiche lasciamo all’immaginazione di ciascuno.
Innanzitutto c’è il progetto Roborder (contrazione di robot e border, ovvero confine) lanciato nel 2017 e attualmente sperimentato in Grecia, Portogallo ed Ungheria, il quale consiste né più né meno che nel dispiegare sciami di droni autonomi forniti di radar, telecamere e sensori di frequenze, che pattugliano insieme in aria, sull’acqua o sott’acqua coprendo grandi distanze, con un’intelligenza artificiale volta ad identificare gli umani che si avvicinano ai confini, poi a distinguere se questi ultimi commettono dei reati (come tentare di passarli illegalmente, o essere armati, o motorizzati, ecc.), prima di inviare in modo mirato verso di loro «il personale operativo» necessario.
Poi c’è il progetto IborderCtrl, lanciato nel 2018 e sperimentato in Grecia, Ungheria e Lettonia fino all’anno scorso, ossia un sistema di rilevazione di menzogne basato sul riconoscimento emotivo gestito dall’intelligenza artificiale (con l’esame di «38 micro-movimenti del volto», come l’angolo della testa o il movimento degli occhi): se l’algoritmo reputa che una persona dice «la verità», le viene dato un codice per passare il controllo; in caso contrario, sarà indirizzata in una seconda fila, verso guardie di frontiera in carne e ossa il cui interrogatorio ovviamente non sarà né indiretto né dei più teneri.
C’è pure il progetto TressPass, lanciato nel 2018 e sperimentato presso l’aeroporto di Schiphol (Paesi Bassi), il posto di confine terrestre di Nadbużanski (Polonia) e il porto crocieristico del Pireo (Grecia), allo scopo di sviluppare un controllo non più basato sulla validità complessiva dei documenti presentati da un flusso di passeggeri, ma su un approccio in termini di «rischio» individualizzato, ovvero «l’uso di dati per la profilazione». In pratica, abbina tramite l’intelligenza artificiale l’insieme dei dati passivi di una persona (database passeggeri, scansione dei bagagli, convalida biometrica dell’identità, database della polizia, itinerari e scali, in particolare quelli che combinano diversi mezzi di trasporto) al fine di stabilire un profilo di coerenza che sarà a sua volta incrociato in tempo reale con un’analisi comportamentale attiva grazie a telecamere e sensori (modo di camminare, movimenti nella folla, oggetti spostati, frequenza cardiaca del volto umano, fattori di stress)… il tutto per costruire una scala «preventiva» di quattro livelli di «minaccia» individuale, permettendo di «regolare il numero e i tipi di controlli di sicurezza richiesti per ogni viaggiatore».
Infine, c’è anche il progetto Foldout, lanciato nel 2018 e sperimentato d’estate in Bulgaria e in Grecia, d’inverno in Finlandia e il resto del tempo nella Guiana francese allo scopo di testare tutti i tipi di temperature e tassi di umidità, poiché consiste nel fornire «una rapida rilevazione di attività illegali alle frontiere che ripercorre i movimenti e gli itinerari delle persone» servendosi di dati gestiti in tempo reale dall’algoritmo, presi dai sensori di terra (acustici e sismici), da telecamere termiche nascoste, da droni, da palloni stratosferici, da lidar e radar, e da micro-veicoli senza pilota dotati di scanner… il tutto in un ambiente composto da foreste o giungle. Ossia, nella neolingua tecnopoliziesca, «sotto la copertura di alberi e di altro fogliame denso su vaste aree».
Ci fermiamo qui in questa recensione non esaustiva delle sperimentazioni in corso su grande scala, che hanno il tratto comune di rendere le frontiere ancora più mortali, non senza sottolineare che esse non implicano solo la collaborazione di diverse istituzioni poliziesche, ma soprattutto di molte aziende e start-up di punta talvolta ridicolmente piccole quanto specializzate, oltre ad università pubbliche la cui responsabilità viene troppo spesso trascurata. Solo per i quattro progetti di cui sopra, si possono rispettivamente citare le università di Atene, Sheffield Hallam e l’italiano Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni (CNIT); l’Università Leibnitz di Hannover e l’Università Metropolitana di Manchester; l’Università di Friburgo, l’Università nazionale d’Irlanda Maynooth e l’Università di Reading. E più vicino a noi, aggiungiamo quelle di Namur e di Scienze-Po Parigi, entrambe parti integranti del progetto Bodega, che mira in particolar modo a «migliorare le prestazioni [umane] delle guardie di frontiera nelle attività critiche».
Poiché è così che a fianco degli incravattati in ingegneria, degli impomatati in informatica e degli incamiciati in optronica, collabora anche tutta una sfilza di sociologi, psicologi e linguisti in jeans e scarpe da ginnastica, che si lavano le mani per bene dal sangue versato alle frontiere, dato che in fondo fanno tutti solo il loro sporco lavoro. Quello di costruire e perfezionare droni, sensori, telecamere, algoritmi ed altre analisi pseudo-comportamentali per conto del più freddo dei mostri freddi.
Nella versione in prosa del suo Invito al viaggio, un critico della religione del progresso — «questa idea grottesca, che è fiorita sul terreno marcio della fatuità moderna» — domandava con una certa malinconia: «dalla nascita alla morte quante ore di gioia effettiva, di azione decisa e riuscita possiamo contare?». Il celebre poeta non si riferiva certo ai boriosi zelatori del vapore, dell’elettricità e del gas, ma a chi come lui cominciava a subire la tirannia industriale della «serie indefinita», di fronte ad ogni singolarità individuale. Ora che alcune migliaia di indesiderati stanno combattendo con i loro scarsi mezzi, stretti nella partita a biliardo che stanno giocando la Russia e la NATO in relazione al gasdotto Nord Stream 2 (la stessa che fa infiammare anche i prezzi del gas europeo), non potrebbe qualche «azione decisa e riuscita» ricordare ai potenti che poiché la loro cara energia non conosce frontiere, nemmeno gli amanti della libertà le conoscono? Perché, dopo tutto, esiste poesia più meravigliosa di quella che viene inaspettatamente a recidere le camicie di forza del reale?
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 47, 15 novembre 2021]