Per affrontare l’argomento complesso quanto sconsolante che viene spesso definito «perdita del linguaggio», forse potremmo partire da qualche esempio. Sebbene molto utilizzato, non sempre è il modo più onesto di procedere. Nello scegliere gli esempi, infatti, si può facilmente falsare il ragionamento o magari portare il lettore o l’interlocutore a conclusioni già preesistenti nella mente di chi scrive o parla. Partire dall’esempio, da ciò che comunemente viene chiamato «un fatto», sottolinea il più delle volte una deduzione logica che cammina su un solo piede: si sceglie il «fatto» per arrivare più facilmente ad una conclusione. Ma il ragionamento diventerebbe monco se un altro «fatto» venisse preso come punto di partenza. Da notare che le discussioni o i dialoghi girano spesso a vuoto proprio a causa di tali procedimenti: viene sollevato un fatto per «provare» una tesi, un altro viene sollevato per contestarla, e così via… Alla fine, la discussione ristagna perché non riesce ad andare oltre, verso un dialogo reciproco sulle idee, cosa ben diversa da un duello di fatti, sempre interpretabili e re-interpretabili a volontà, con l’ausilio delle acrobazie del linguaggio.
Ciò detto, procediamo con brio. Poniamo che alcuni anarchici si ritrovino in una piazza a distribuire volantini contenenti un testo con un linguaggio conciso, che parlano di qualcosa che è accaduto (una rivolta, una bella azione diretta, l’annuncio di un progetto del potere, una repressione particolare, poco importa), che bene o male analizzano il contesto in cui la cosa ha avuto luogo e che arrivano, talvolta a colpi di slogan un po’ scontati ma non sempre, a proporre in quella piazza un ragionamento o un’evocazione delle loro idee generali contro questo mondo e sulla vita. Siamo veramente sicuri che un tale volantino possa ancora essere compreso? Perché per arrivare ad una «comprensione» (a titolo contro-informativo, per sollevare i cuori e le braccia, per cercare complicità, per identificare il nemico, poco importa), sono comunque necessari alcuni elementi di base. Ciò che per l’uno è un «fatto che è successo» non lo è necessariamente per l’altro, perché non può collegare l’evocazione di quel fatto con nulla di quanto abbia visto su youtube e seguito sulla sua bacheca facebook. Per quanto riguarda l’analisi di quel fatto, alcuni strumenti della ragione sono altresì indispensabili — è difficile cogliere un’analisi unicamente col sentimento — come i procedimenti logici o una certa capacità di concettualizzare, al fine di poter passare da un fatto ad un contesto o di poter mettere in relazione due fatti singolari. Una tale lettura finalizzata alla comprensione di un semplice volantino, pur essendo ovviamente diversa a seconda di ogni individuo, richiede inoltre un minimo di tempo e una certa concentrazione. Infine, per effettuare il salto dall’analisi all’ambito delle idee, si impongono all’individuo altre esigenze ancor più stravaganti: immaginazione, astrazione, creatività, capacità di ragionamento… Insomma, siamo davvero sicuri che il nostro volantino possa ancora essere compreso?
In passato, nonostante il loro numero sovente limitato, gli anarchici hanno prodotto incredibili quantità di carta. Volantini, giornali, riviste, opuscoli, libri. Accanto all’agitazione orale, venivano usati tutti i mezzi scritti per far vacillare le certezze, nutrire le menti, scuotere il pensiero, spezzare le catene della superstizione e del pregiudizio, diffondere l’idea. Al confronto, malgrado il loro numero spesso ben più superiore, socialisti e comunisti non si sono impegnati in maniera così insistente e stupefacente quanto gli anti-autoritari.
Certo, la lotta contro l’analfabetismo non è stata condotta solo dagli anarchici. Socialisti, progressisti, filantropi ed a partire da un certo momento anche religiosi se ne sono occupati. Infine, con la crescente necessità del capitalismo di disporre di una manodopera leggermente più istruita, con la tendenza dello Stato a rafforzare sempre più il suo controllo sugli individui al fine di trasformarli in «cittadini», specialmente attraverso l’educazione scolastica e, perché no — non siamo pii credenti del solo determinismo economico — con una certa volontà liberale di emancipare i «poveri di spirito», l’analfabetismo non è più stato considerato dal dominio una virtù, ma una piaga. Ovviamente, saper leggere e scrivere non è una capacità «neutra». È intrinsecamente legata al linguaggio, che a sua volta è «creatore di mondi». Le campagne di alfabetizzazione e scolarizzazione di quasi tutte le popolazioni europee non hanno quindi dato il risultato tanto atteso dagli anarchici del secolo scorso: piuttosto che menti libere ed emancipate, con idee proprie e dotate di facoltà di ragionamento e d’immaginazione, ciò che è venuto fuori dalle scuole e dalle loro caserme sono stati generalmente esseri obbedienti e indottrinati.
Se ciò non ha impedito l’esplosione di grandi sollevamenti contro l’esistente — la voce del ventre, della miseria e dell’oppressione ha le proprie ragioni — la mancanza di spiriti liberi e di individualità ha tuttavia costituito un limite enorme nel momento dell’arrivo di nuovi poteri: l’adesione popolare ai fascismi, l’accettazione dello spossessamento dei soviet da parte dei bolscevichi o della partecipazione della CNT al governo per trasformare la rivoluzione in guerra, non si spiegano solo con i rapporti di forza o con basse considerazioni tattiche. Di fronte alle logiche del quantitativo e dell’efficienza, la libertà di spirito individuale è ciò che consente sia di mantenere una visione critica, anche su ciò che ci è vicino al di là di ogni ideologia, e sia di aprire le porte verso altri mondi, verso altre possibilità diverse da quelle dettate dai bisogni materiali, tecnici o militari. Una piccola qualità indispensabile per approfondire qui e ora l’agire contro questo mondo, così come per evitare i tranelli della facilità e della riproduzione del potere, una volta messo con le spalle al muro dai grandi sconvolgimenti sociali.
E se questo problema era già presente nel secolo scorso, cosa possiamo aspettarci oggi, nel mondo attuale, in cui la voce e l’immaginario del potere non sono più dotati solo di scuole, ma anche di televisori in ogni casa, di telefoni intelligenti in ogni tasca, di un incessante bombardamento di flussi di «fatti» e «informazioni»? Di incontrare spiriti liberi ed emancipati?
Il fatto che la capacità di leggere e scrivere non dica in fondo granché, è dimostrato da ciò che ormai è definito «analfabetismo funzionale», ovvero la capacità di leggere e scrivere accompagnata da una incapacità di comprenderne il significato. Se vogliamo per un istante dimenticare il nostro orrore delle statistiche — per quanto sembrino confermare il nostro vissuto quotidiano —, questo fenomeno starebbe sommergendo il mondo assumendo proporzioni di pandemia. In Francia, oltre il 60% degli adulti ne sarebbe interessato, mentre in Italia e in Spagna i tassi sfiorerebbero l’80%. Stupore, perché ciò vorrebbe dire che meno di una persona su due sarebbe ancora in grado non di leggere, ma di cogliere il significato di un discorso, di un’analisi, di un’idea. È davvero così? Difficile da dire. Ma quando constatiamo quotidianamente che le idee anarchiche hanno, ancor più che nel passato, pochi immaginari collettivi a cui ricorrere per facilitarne la comprensione, la «perdita del linguaggio», la perdita del «linguaggio della ribellione», diventano innegabili. Come dialogare, scambiare, discutere, approfondire, nutrire la mente, esacerbare l’immaginazione quando la persona che ci sta davanti non coglie il significato generale di ciò che diciamo, ma ne afferra al massimo un dettaglio particolare (il che, detto per inciso, è una sindrome che si manifesta sempre più spesso nelle assemblee anti-autoritarie)? Quando non esiste un mondo interiore a cui collegare ciò di cui vogliamo parlare? Quando il linguaggio è a volte privo di vocabolario, o quando questo diventa essenzialmente funzionale? Quando in aggiunta a tutto ciò, in materia di idee anche vaghe e generali, si mescolano i grandi trafficanti di senso come i predicatori religiosi, i confusionisti youtuber, o gli abbreviatori di tale o tal’altra applicazione (del tipo snapchat o whatsapp, per essere chiari)? Quando il luogo del detto e della parola viene respinto ad esclusivo beneficio dell’immagine?
Quando un fenomeno assume una tale portata, la nostra mente scettica non può accontentarsi di liquidarlo nel lungo elenco della stupidità umana. È la differenza tra una rissa fra due persone che si picchiano per una ragione che può sfuggirci, e milioni di persone che si uccidono a vicenda durante una guerra. La prima situazione può provocare un’alzata di spalle, è un incidente che capita sul cammino della vita, né più né meno. La seconda situazione ci incita necessariamente a voler sondare le ragioni di quella guerra, gli interessi, i meccanismi che sono in gioco. Allora, in un mondo in cui prevale il valore dell’«informazione», come è possibile che l’oscurantismo nella sua versione «analfabetismo funzionale» sembra essere diventato la nuova norma? Così come l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è comparsa negli anni 80, ed è stata effettivamente pensata come un superamento dell’antagonismo di classe derivante da un certo modello di capitalismo industriale (le grandi fabbriche, le grandi concentrazioni di proletari che vivono in condizioni simili, facilitando la possibilità dell’emergere di comunità di lotta che si oppongono alla classe ben circoscritta dei padroni), ed era quindi un progetto del dominio, la distruzione del linguaggio diverso da quello funzionale allo Stato e al capitale a nostro avviso deriva anch’esso da un progetto. Se è impossibile prevenire — cioè impedire che si manifestino — le febbri di rabbia contro il vuoto assoluto di questo mondo o contro la sua sanguinosa ferocia, rimane di certo possibile prevenire l’emergere, la diffusione, la contaminazione di idee rivoluzionarie ed emancipatrici.
In passato, gli anarchici venivano inviati alla Guyana solo per aver distribuito un volantino (grazie alle leggi scellerate). I giornali venivano sequestrati, i loro redattori o amministratori gettati in prigione. Lo Stato imperversava censurando, ostacolando la diffusione, rinchiudendo i propagatori e gli agitatori dell’idea. Oggi, non solo può continuare a far ciò in base ai suoi bisogni (anche in Europa; è una costante della repressione prendere di mira coloro che animano locali, pubblicazioni, iniziative), ma dispone inoltre anche di strumenti formidabili per tagliare, dall’altra parte, la potenziale ricezione del messaggio. Distruggendo la capacità umana di comprendere il significato, il senso di un’espressione, il dominio mina anche la potenzialità che la sua rabbia, la sua rivolta si faccia idea, visione, sogno. Creatore di mondi, il linguaggio — orale o scritto — è uno dei veicoli, ci piaccia o no, attraverso cui passa «l’elevazione individuale della mente». E per distruggere il dominio, non abbiamo bisogno solo della dinamite e della rivolta, ma anche di questa «elevazione».
Per tornare al nostro esempio iniziale, è sempre meno certo che la nostra agitazione scritta possa ancora venire compresa, in ogni caso non da sola (e ancor meno quando idea e azione non si alimentano più come vasi comunicanti). Dobbiamo allora rinunciarvi, dobbiamo rassegnarci al progetto del dominio di abbrutimento dello spirito umano? Sicuro, potremmo farlo. Ma finché ci siamo, andiamo fino in fondo. Basta libri (ad ogni modo ce ne sono già tanti, bastano al pugno di anarchici che tentano ancora di appropriarsi del loro contenuto), basta riviste e bollettini (a che serve la teoria?), basta occasioni per scambiare e dibattere (solo gli sbirri se ne interessano), limitiamoci ai fatti e al concreto. E il clamore della nostra agitazione si muterà in sussurri, ed i sussurri in silenzio, e il silenzio alla fine concluderà l’idea. Storia finita. È una china fatale.
Oppure, preferendo l’esagitato che cerca tenacemente di abbattere i mulini a vento al piccolo ragioniere che ci vede poca efficacia e soprattutto solo illusioni, non possiamo non tener conto della progressiva distruzione del linguaggio. Se rifiutiamo le soluzioni, sempre più sostenute persino da alcuni anarchici (i militanti di sinistra non avevano esitato un secondo), che consistono grosso modo nell’adattarsi al «livello» di questo mondo — trasformando l’idea in immagine, riducendo l’analisi ad alcuni slogan premasticati, ripetendo banalità pensando di usare un linguaggio «chiaro e conciso» — quale avvenire è riservato all’agitazione anarchica?
Nel rileggere le pubblicazioni del passato, vi troviamo non solo l’amore per l’idea e un linguaggio che è per l’appunto «creatore di un mondo», ma il più delle volte anche un linguaggio «chiaro e conciso» che non ha il gusto amaro della banalità. La confusione era ovviamente diffusa anche tra gli anarchici, ma si cercava instancabilmente di superarla piuttosto che di mantenerla. Ci si dirà che ciò corrispondeva a un mondo che oggi non c’è più, un mondo in cui si lottava accanitamente, dove il nostro sangue scorreva spesso, così come quello dei nostri nemici, dove degli immaginari collettivi accompagnavano gli accessi di febbre. Questo è vero, e non si può resuscitare un passato che in ogni caso non può ritornare.
Ma perché ciò dovrebbe impedire alla nostra agitazione di continuare ad accarezzare gli stessi slanci di vita: combattere i luoghi comuni e i pregiudizi del tempo, rafforzare le capacità di ragionamento e la sensibilità degli individui, identificare il nemico e abbozzare dei suggerimenti su come colpirlo, infrangere le porte del realismo per incitare ad avventurarsi nelle vaste pianure, negli oceani tempestosi e sulle maestose montagne dell’idea, dell’utopia? Non foss’altro perché rinunciarvi non farebbe che portare acqua al mulino del progetto di abbrutimento del dominio.
[Avis de tempêtes, n. 8, 15 agosto 2018]
Tradotto da Finimondo.