La reclusione non appare paradossalmente in nessun luogo, relegata in un altrove invisibile tra la folla dei cuori addomesticati e dei cervelli anestetizzati, eppure è presente dappertutto. Nel senso di asfissia che afferra la gola ad ogni passo falso, come nella lunghissima catena di obblighi e sanzioni che si trascina come una palla al piede. È dovunque vengano imposte le regole del gioco (e le leggi sono sempre regole imposte dall’autorità, cioè da coloro che esercitano il potere nella società) a scapito della libera associazione tra individui e della loro reciprocità.
La reclusione è nella cella famigliare, con il suo aiuto reciproco forzato per affrontare la sopravvivenza e la riproduzione elementare di ruoli sociali indispensabili all’ordine in atto. È nella scuola, quella caserma posta sotto il segno dell’obbedienza e della formazione di schiavi-cittadini adeguati ai bisogni del dominio, che ruba un tempo infinito a tutta la gioventù. È nel lavoro salariato, la migliore delle polizie, che costringe gli esseri umani a vendersi al miglior offerente, scambiando una vita di sottomissione a beneficio di pochi con merci adulterate quanto effimere. È nella religione che sfrutta la sofferenza nel nome di un’autorità superiore, forte di leggi divine piuttosto terrene, che presuppongono come quelle dello Stato che gli individui non siano in grado, peggio, non debbano avere in nessun caso la libertà di decidere da soli della propria vita, né di come rapportarsi con gli altri. È nelle catene tecnologiche e negli schermi di ogni tipo, che ci privano via via non solo di relazioni dirette, ma anche della capacità autonoma di costruire il nostro mondo interiore in cui pensare, sognare, immaginare, poetare, progettare e distruggere tutto ciò. È nell’architettura totalitaria, diretta al controllo e alla sorveglianza, affinché i flussi di merci (umane o meno) fluiscano senza troppi ostacoli. È nelle camicie di forza chimiche, distillate con o senza camice bianco, per farci continuare a sopportare l’oppressione quotidiana senza ribaltare il tavolo troppo bruscamente. È dovunque uomini e donne, per abitudine, rassegnazione, servitù volontaria o interesse, siano disposti a difendere i privilegi dei ricchi e il potere. È nello stesso espropriarci della possibilità di unirci e accordarci liberamente in tutti gli aspetti della vita, tentando nel contempo di privarci della possibilità di affrontare i conflitti senza l’intervento di una polizia e di una giustizia.
E naturalmente, la reclusione è anche nella prigione cinta da mura, sotto forma di ospedale psichiatrico o di campo detentivo per indesiderabili, di centri di reinserimento per minori o di sepolcri per lunghe condanne. È lì, a prolungare vieppiù la sua vendetta lontano dalle sue garitte, con la spada di Damocle della condizionale, del controllo, del braccialetto elettronico, dell’obbligo di lavoro o di assistenza, dei regimi di semi-libertà… raffinatezze per cercare di tenerci in balìa di sbirri, psichiatri, assistenti sociali, padroni e giudici. Come prede da sottomettere per molti anni ancora prima e dopo essere passati da un tribunale o in un carcere.
«Se consideriamo le prigioni come roccaforti ben isolate, rimarranno intoccabili. Ma la prigione è anche l’architetto che la progetta, la società che la costruisce, la legge che la stabilisce, il tribunale che ti ci manda, il poliziotto che ti ci porta, il guardiano che ti sorveglia, il prete che sugge la tua sofferenza, lo psicologo che spia la tua mente. Essa è tutto questo e altro ancora. È l’impresa che sfrutta il lavoro dei detenuti, quella che fornisce il cibo o gli apparati di controllo; è l’insegnante che la giustifica, il riformatore che la vuole più “umana”, il giornalista che ne tace le finalità e le condizioni reali, è il cittadino che la osserva rassicurato o che distoglie lo sguardo»
Agli ammutinati del carcere sociale, maggio 2000
Il 12 settembre, lo Stato francese ha finalmente annunciato lo schema del suo nuovo piano carcerario, dividendo quello inizialmente previsto nel 2016 di 33 nuove prigioni e i 15.000 posti aggiunti, in 7000 posti entro il 2022 e 8000 in seguito. L’elenco dei siti scelti in tutto il paese dovrebbe seguire a breve, con tutte le possibilità offerte da questo tipo di costruzioni agli ammutinati del carcere sociale.
Al di là di questa fase preparatoria, tuttavia, ci sembra che un ulteriore aspetto, lungi dall’essere trascurabile, debba attirare la nostra attenzione. Finché non saremo in grado di percepire la prigione, non come un problema specialistico legato al sostegno dei prigionieri, ma piuttosto come il riflesso della società nel suo insieme di spaventare e reprimere i refrattari (alla proprietà, alle frontiere, all’ordine o al lavoro salariato) in particolare e i ribelli in generale, resteremo incapaci di cogliere le mutazioni indotte da questo progetto carcerario, sia in termini di cambiamenti di mentalità promossi all’interno che di nuovi possibili angoli di attacco dall’esterno. Nello stesso modo in cui la ristrutturazione del mercato del lavoro e la tecnologia hanno trasformato le antiche forme di sfruttamento, aumentando la flessibilità, l’auto-imprenditorialità e l’autocontrollo, questo progetto di gestione carceraria vuole effettivamente accrescere il processo di differenziazione tra la maggior parte dei prigionieri, basata non più unicamente sulla pena o sul reato iniziale, ma su una maggiore partecipazione e collaborazione alla propria detenzione. Un po’ come se tutto il sistema di reclusione, dipendenza, arbitrarietà e tortura non fosse altro che una vasta condizione contrattuale. Una condizione in cui ci viene ordinato di diventare sempre più “responsabili” di una pena da scontare e cogestire con l’amministrazione, essendo paradossalmente frammentata all’interno di una struttura di massa, diventando il secondino degli altri in nome dell’evoluzione del proprio percorso carcerario. Va da sé che un tale processo di totalitarismo democratico, in cui partecipare significa dividere, non potrà che accompagnarsi ad un ulteriore giro di vite contro la minoranza di ribelli che non accetterà di collaborare.
In pratica, si giunge così da un lato di fronte ad uno sviluppo di «moduli di rispetto che si ispirano ai moduli “respecto” diffusi in Spagna, con la responsabilizzazione come filo conduttore: i prigionieri firmano una carta d’impegno basata sul rispetto del personale, dei co-detenuti, dell’igiene, delle regole di vita in collettività. In cambio, possono godere di una certa libertà di movimento [muniti di tesserini] e di un maggiore accesso ad alcune attività». Dall’altro lato, si verifica un’estensione delle cosiddette «strutture stagne» (riservate per il momento ai “terroristi” e ai “radicalizzati”), che sono molto più che reparti di isolamento in seno alla detenzione, ma costituiscono una vera e propria prigione nella prigione (sul modello italiano o tedesco delle carceri speciali degli anni 70 o degli ex-FIES spagnoli), destinati a lungo termine a tutti gli irrecuperabili che rifiutano di sottomettersi o rinnegarsi, a coloro che non passerebbero né ai test di valutazione regolari né alle osservazioni dei servizi di intelligence penitenziaria. Se a questo aggiungiamo, all’altra estremità della catena, la costruzione di due carceri “sperimentali” interamente dedicate al lavoro d’impresa (dalla fabbrica-prigione alla prigione-fabbrica) e l’aumento di misure esterne alternative, del braccialetto elettronico e della semi-libertà (con obblighi di tirocinio, formazione e lavoro) per le innumerevoli condanne di meno di un anno, possiamo iniziare ad avere un quadro completo.
Con il rafforzamento delle condizioni di detenzione sotto forma di percorsi, statuti, interessi, e le più disparate carote per costringere a cogestire la propria condanna con le autorità, non sono solo le proposte di lotta di tipo sindacale a integrare più che mai nel processo di reclusione, ma sono anche i margini tra piena cooperazione e messa alla prova che tendono a ridursi per ciascun individuo, ancor più con la collaborazione di altri detenuti riluttanti a veder crollare tanti sforzi pagati a caro prezzo di rispetto per «le regole di vita in collettività». Su immagine dell’esterno, insomma, dove la figura dell’operaio-massa è stata liquidata da tempo a favore di una competizione generalizzata.
Di fronte a questo progetto di potere, rimane ancora un piccolo elemento che i loro calcoli miserabili non potranno mai controllare completamente, e che può rompere in qualsiasi momento il circolo vizioso della collaborazione: la sete di libertà. Da un lato attraverso la ribellione provocata dalla detenzione, come ci ricorda la rivolta devastante della prigione moderna di Vivonne nel settembre 2016. Partita dall’iniziativa di alcuni individui, è durata più di sei ore, portando alla chiusura dell’ala del carcere per 18 mesi per lavori e provocando 2 milioni di euro di danni. D’altro canto, col fatto che la moltiplicazione di attori esterni di ogni tipo per valutare, far partecipare, far lavorare e controllare i prigionieri, accresce a sua volta le possibilità di intervento dall’esterno, vedi le diverse auto di secondini che sono bruciate nel parcheggio di Fresnes dal mese di maggio.
L’unica riforma accettabile delle carceri è raderle al suolo, insieme alla società autoritaria che le produce e ne ha bisogno.
[Avis de tempêtes, n. 9, 15 settembre 2018]