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Figli di Eichmann?

Posted on 2022/06/25 - 2022/07/06 by avisbabel
«L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è la velocità del progresso, quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto più è intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione e la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi»
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)

La nostra concezione della storia è rimasta fondamentalmente lineare. A dispetto di mostruose smentite quali Auschwitz o Hiroshima, rapidamente rimosse grazie all’incoscienza macchinica, il mito del progresso ha retto bene negli ultimi decenni. Si è mostrato in grado di incassare colpi, di accettare di includere qualche sfumatura e ancora oggi sembra perfettamente attrezzato per resistere al disincanto ispirato dalla catastrofe climatica che sta accelerando sotto i nostri occhi. «Sotto i nostri occhi» forse non è una bella espressione, essendosi creato da molto tempo un «dislivello» tra le azioni che svolgiamo all’interno dell’apparato produttivo e le conseguenze di tali azioni. Non perché siano impercettibili, troppo insignificanti per essere individuate dai nostri sensi e dalla nostra mente, ma al contrario, perché sono diventate troppo enormi.

L’ondata di caldo — un eufemismo che traduce bene la limitatezza del linguaggio, e quindi della nostra capacità di rappresentare le cose nell’ambito del sensibile e del razionale — che si sta oggi abbattendo su vaste aree del globo è tristemente indicativa a tale proposito. Non è possibile per l’essere umano immaginare l’enormità di ciò che sta accadendo, terribile conseguenza di un secolo e mezzo di industrializzazione. Centinaia di ettari di foreste che vanno a fuoco in Siberia, uccelli disidratati che piombano rigidi dal cielo sopra lo Stato indiano del Gujarat, esseri umani che boccheggiano e muoiono in una canicola dantesca di quasi 50°C abbattutasi su India e Pakistan, mentre torrenti di fango scatenati dall’improvviso scioglimento dei ghiacciai fanno straripare laghi d’alta quota devastando tutto al loro passaggio (compresi città e villaggi pakistani). Oggigiorno, la sopravvivenza di decine di milioni di persone stipate nelle città di questi due Paesi dipende dall’arrivo quotidiano di autocisterne di acqua potabile.

Facendo vacillare ogni schema della linearità tanto cara alla nostra concezione storica, il mondo di domani sta già attraversando l’oggi, un mondo in cui interi territori diventano inabitabili. Ci aggrappiamo disperatamente alle proiezioni provvisorie di ieri rapidamente smentite dall’accelerazione e dall’inattesa instabilità di molti fattori climatici e dal loro effetto retroattivo oggi, così da provare a immaginare il famoso mondo di domani. Da qualche mese si è riproposto, rivelando solo una frazione della sua violenza omicida. E con 1,2 gradi in più, con 2 o 3 gradi in più, aumenta la probabilità che quel mondo di domani si instauri definitivamente e irrimediabilmente.

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, è verso la fine dello sprint che si raggiunge la massima velocità. L’intero essere è allora pronto a compiere lo sforzo supremo, a realizzare la perfetta coordinazione tra il movimento muscolare, la circolazione sanguigna, i battiti del cuore e la respirazione. È questo il momento in cui «diamo tutto», poco prima di dover accettare che la fatica si riaffacci con forza in tutto il nostro organismo. L’accelerazione degli ultimi anni dell’espansione della civiltà termo-industriale e la devastazione planetaria che comporta sembra corrispondere ormai all’ultima fase dello sprint. Si direbbe persino che l’organismo stia già cedendo.
L’anno scorso, ad esempio, sono stati battuti quattro tristi record. Il 2021 è stato uno degli anni più torridi mai registrati. Le concentrazioni di gas serra hanno raggiunto un nuovo picco nel 2020, quando la concentrazione di anidride carbonica (CO2) ha raggiunto le 413,2 parti per milione (ppm) nel mondo, ovvero il 149% del livello preindustriale. Anche la temperatura dell’oceano ha di conseguenza raggiunto un livello record lo scorso anno. E pur assorbendo circa il 23% delle emissioni annue di CO2 di origine umana, rallentando in tal modo l’aumento delle sue concentrazioni nell’atmosfera, per contro l’anidride carbonica reagisce con l’acqua del mare e causa l’acidificazione degli oceani, danneggiando per lungo tempo le condizioni di vita nelle acque. Per di più, l’aumento del livello delle acque ha raggiunto un nuovo record, con un aumento due volte più rapido rispetto all’inizio del XXI secolo. Infine, il buco nell’ozono sopra l’Antartico non è mai stato così ampio e profondo come nel 2021.

In questa corsa verso l’abisso due nuovi confini sono stati valicati all’inizio dell’anno, quando un quinto, poi un sesto «limite planetario» — processi naturali che garantiscono la perpetuazione della vita in condizioni di esistenza «accettabili» — sono stati superati, col superamento della soglia critica dell’«introduzione di nuove entità nella biosfera», ossia dell’inquinamento chimico del nostro ambiente. Prima di questo quinto straripamento, la civiltà industriale aveva già sfondato il tetto del cambiamento climatico e della diversità genetica (provocando l’erosione della biodiversità), compromesso l’utilizzo del suolo e turbato il ciclo del fosforo e dell’azoto. Qualche mese dopo è stata la volta del «sesto limite»: il ciclo dell’acqua dolce. L’acqua dolce è la circolazione sanguigna della biosfera, ed è quindi essenziale al mantenimento di condizioni ambientali e climatiche vivibili. Spesso si opera una distinzione fra «l’acqua blu» — che il nostro consumo non mette ancora in pericolo, corrispondente all’acqua proveniente dalle precipitazioni, poi accumulata nei laghi e nei bacini idrici o riversata nell’oceano — e l’«acqua verde» — anch’essa proveniente dalle precipitazioni atmosferiche, poi assorbita dalle piante. È questa a risentirne. «L’interferenza umana con l’acqua verde ha assunto ormai una tale portata che il rischio di cambiamento non lineare e su larga scala ne è rafforzato, e mette in pericolo la capacità del sistema terrestre di rimanere in condizioni che rientrino nell’Olocene», precisa uno studio dedicato a questo oltrepassamento. L’«acqua verde» è tra l’altro importante per l’evaporazione, e di conseguenza per la regolazione dell’atmosfera e l’umidità del suolo, atte a prevenire l’essiccazione delle foreste. Per illustrarne le conseguenze, si potrebbe evocare l’immagine dell’Amazzonia vicina a un punto di svolta in cui vaste zone potrebbero passare da foreste tropicali a territori simili alla savana. Nello stesso mese di aprile in cui è stato superato quel limite del ciclo dell’acqua dolce verde, si apprende d’altronde che in Amazzonia non ci si aspetta più nemmeno l’essiccazione della foresta, poiché la deforestazione industriale ha polverizzato tutti i record. Nell’arco di un mese sono stati abbattuti l’equivalente di 1.400 campi di calcio.
E con il caldo, il mondo s’inaridisce. In Francia il termometro sale e le riserve idriche diminuiscono. Nel Corno d’Africa, «la peggiore siccità mai vissuta» minaccia di affamare 20 milioni di persone. In Cile, i tagli all’acqua sono ormai consueti. Quest’anno «più di 2,3 miliardi di persone dovranno affrontare lo stress idrico. Dal 2000, il numero e la durata delle siccità sono aumentati del 29%», si legge in un rapporto sulla desertificazione del mondo. La siccità è parte di un circolo vizioso: meno acqua significa meno fotosintesi dalle piante e quindi meno stoccaggio di CO2… e gli ecosistemi si trasformano poco alla volta in emettitori di carbonio, soprattutto nei periodi di siccità estrema. Negli ecosistemi europei, ad esempio, la fotosintesi è stata ridotta del 30% durante la siccità dell’estate 2003, determinando un rilascio netto di carbonio stimato in 0,5 giga-tonnellate. E pur essendo grosso modo equivalente la quantità di pioggia che cade in un anno, non si può comunque ripartire come si fa oggi: schematicamente, ci saranno forti piogge e lunghi periodi di siccità. «Se l’azione non viene intensificata, si prevede che entro il 2030 circa 700 milioni di persone rischiano di essere sfollate a causa della siccità», afferma lo stesso rapporto. Entro il 2050, le siccità potrebbero colpire più di tre quarti della popolazione mondiale e fino a 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare. A quella data, dai 4,8 ai 5,7 miliardi di persone vivranno in aree dove l’acqua scarseggia almeno un mese all’anno, contro i 3,6 miliardi di oggi.

Le tempeste di sabbia che da due mesi colpiscono l’Iraq in modo particolarmente duro sono un altro esempio delle conseguenze della desertificazione. In tutto il mondo, il deserto avanza in maniera inesorabile. Le sue nuvole arancioni seppelliscono le città. Manca l’acqua e i terreni si degradano. In Iraq, mentre migliaia di persone sono ricoverate in ospedale per problemi respiratori dovuti al «diluvio di sabbia», il lago Sawa è completamente scomparso e il Paese dovrà conoscere «272 giorni di polvere» all’anno nel corso dei prossimi due decenni. Si stima che il 70% della superficie terrestre sia già stato trasformato dalle attività umane, e che fino al 40% sia danneggiato principalmente dalla deforestazione, dalle monocolture intensive, dallo sfruttamento minerario e dall’urbanizzazione. Ogni anno va in polvere l’equivalente della superficie del Benin, ovvero 12 milioni di ettari. La desertificazione, la distruzione del suolo e più in generale le conseguenze del cambiamento climatico si intersecano con quasi la metà dei conflitti armati attualmente in corso sul pianeta, se ci limitiamo a questo solo aspetto.

«Se ieri si è verificato il mostruoso, allora non è perché c’è stato “ancora” ieri, ma al contrario perché c’è stato “già” ieri; quindi perché “quelli passati sono stati i precursori dei nostri mostruosi mondi di oggi e di domani”. Perché infatti non c’è dubbio che la macchinizzazione del mondo, e perciò la nostra comacchinizzazione, è terribilmente progredita rispetto a ieri».
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)

Questi abbozzi pieni di cifre dell’agonia del pianeta e del vivente non possono colmare il divario tra la nostra percezione e la nostra rappresentazione. Un evento così abnorme, così mostruoso, così inglobante come il cambiamento climatico e la devastazione delle condizioni del vivente supera decisamente la nostra capacità di comprensione. Sarebbe forse troppo azzardato evocare un possibile parallelo, addirittura una eventuale continuità tra i sistemi che hanno integrato milioni di brave persone come rotelle di una macchina industriale che ha gassato e bruciato più di 6 milioni di persone, o che hanno impiegato milioni di altre persone per la progettazione e l’uso effettivo della bomba atomica… e i miliardi di noi presi oggi nell’ingranaggio di un industrialismo a tappe forzate, il cui orizzonte non può che essere un olocausto del vivente?

Si potrebbe argomentare che una tale continuità non esista, non può esistere, dato che lo sterminio degli ebrei (e degli altri) è stato un piano deliberato, architettato dai nazisti; che la scelta delle città di Hiroshima e Nagasaki per perpetrare gli eccidi di massa atomici sia stata una scelta che rispondeva a criteri politici e scientifici stabiliti da un ben preciso gruppo di generali, politici e scienziati. Si può sostenere che non esista un progetto deliberato per distruggere il vivente (anche se i progetti di «eugenetica climatica» hanno sempre accompagnato lo slancio dell’industrialismo per «afferrare per la coda la natura», per «dominare le forze della natura», per correggere i «difetti» o, più di recente, per indirizzare l’umanità verso un destino transumanista o per domare il clima mediante la «geo-ingegneria»). Ciò non toglie che l’intossicazione del mondo sia qui. Che l’esposizione del vivente a migliaia di esplosioni nucleari sia un dato di fatto. Che la sostituzione delle piante con chimere geneticamente modificate in nome del risultato economico sia in corso.

Quando si agisce con cognizione di causa, quando si continua a porre un preciso obiettivo (l’espansione e l’accumulazione) al di sopra di ogni altra considerazione, anche quando le conseguenze sono talmente nefaste da minacciare ormai la continuità stessa della vita sulla terra; quando d’altro canto, riguardo la suddivisione del lavoro, non si fa nulla, o quasi, per opporsi all’avanzata di questa mega-macchina sterminatrice, ma al contrario si prosegue senza storcere troppo il naso (se non forse per pretendere una parte più consistente del bottino della predazione) a fare il proprio lavoro nelle raffinerie, nelle start-up, negli stabilimenti chimici, negli uffici direzionali, quando insomma ci «rifiutiamo espressamente di sapere quel che facciamo», quando «ci rendiamo volutamente ciechi nei confronti [delle conseguenze del nostro agire]… incoraggiamo o addirittura produciamo la cecità degli altri, o… non la combattiamo», non ci troviamo al cospetto di una logica eichmanniana?

Non si può certo ammettere che Eichmann facesse null’altro che il suo lavoro, come si è difeso al processo, tra l’altro non ai suoi esordi. Per organizzare i trasporti verso i campi di sterminio, doveva avere ben chiaro in mente il suo obiettivo. Era «solo» un ingranaggio — anche se, di fronte alla mostruosità, quel «solo» suona in modo inappropriato. Ma è possibile che in seguito egli si sia abituato al proprio lavoro, che si sia lasciato assorbire dai compiti da svolgere e che nella sua mente l’obiettivo abbia ceduto il posto al calcolo, all’approccio prevalentemente tecnico. È in tal senso che oggi possiamo scoprire, davanti alle conseguenze nefaste del nostro agire, un atteggiamento «degno» di un Eichmann all’opera.
Allo scopo di scongiurare tutto ciò che potrebbe sembrare una sorta di «colpa collettiva», si è giunti ​​al punto di provare a sostenere che sotto il regime hitleriano le persone non fossero necessariamente, o semplicemente non fossero, al corrente del destino riservato agli ebrei deportati e agli altri. Che la gassatura e l’incenerimento di sei milioni di esseri umani fossero il ​​segreto ben custodito dal regime hitleriano e dal complesso industriale che erano diventate le SS incaricate di quello sterminio. Eppure, non c’era nessun tedesco che non fosse al corrente, e se mai qualcuno non lo sia stato veramente, era perché non voleva esserlo — il che è più o meno lo stesso. Certo, non si può sostenere che «tutti i tedeschi» avessero come progetto lo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, ma ciò non toglie che una stragrande maggioranza vi abbia contribuito. O direttamente, o indirettamente. Non hanno le stesse responsabilità di un Eichmann o di un guardiano di Dachau, non hanno lo stesso coinvolgimento, ma hanno fatto altrettanto parte della macchina. È qua che si vede in azione l’effetto del carattere macchinico, e in effetti è incontestabile che a partire da Auschwitz il mondo sia diventato più macchinico, non certo meno.
Perciò, come stupirsi che, malgrado il fatto che siamo al corrente, che cominciamo a sentire sulla nostra pelle che la gestione statale dell’informazione non impedisce affatto di sapere che in India e Pakistan gli esseri umani soffocano in quelle fornaci che sono diventate le città in preda alle conseguenze del progetto industriale, continuiamo nonostante tutto a fare il nostro lavoro? E non solo, ma inoltre che si usi la forza contro coloro che si oppongono — coloro che tentano di distruggere ciò che ci distrugge, coloro che malgrado il pessimismo generato dalla loro lucidità critica scelgono di mettersi in gioco piuttosto che continuare a fare il gioco altrui — come fossero terroristi estremisti che meritano d’essere rinchiusi nei campi? Ed anche fra coloro che si dicono lucidi e che non marciano ciecamente al suono dell’industrialismo trionfante, c’è chi si concede fin troppo facilmente al surrogato artificiale piuttosto che all’azione reale, al conforto morale di un lieve distacco dalla frenesia consumistica piuttosto che allo sforzo e al rischio che comporta un tentativo concreto di mandare in cortocircuito quella frenesia, o magari alla cinica rassegnazione che finisce per crogiolarsi nello snobbare, ovvero nel disprezzare, chi ancora parte all’assalto ed osa ancora amare la libertà in un mondo incatenato.
E intanto, la situazione continua a peggiorare. L’instabilità del clima non è più alla nostra porta, è entrata con passo deciso nella casa della civiltà industriale. Carestie e siccità, canicola e tempeste omicide, deforestazione e desertificazione, scioglimento dei ghiacciai ed estinzione di massa delle specie si abbattono sul pianeta in cui l’umano continua tuttavia a credere che alla fine lo aspetti un destino migliore. Ma la realtà smentisce definitivamente questa convinzione. Prenderne atto e agire di conseguenza significa contribuire a spezzare l’abbraccio mortale della logica eichmanniana.

[Avis de tempêtes, n. 54, giugno 2022, tradotto da Finimondo]
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Storm Warnings #53 (May 2022)

Posted on 2022/06/22 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 53 (May 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

Storm warnings, issue 53 (May 15, 2022) :

For reading

For printing (A4)

For printing (Letter)

“Thanks to the steamroller of industrial civilization and progress, one of the last sensuous worlds populated by terrifying imaginations and enchanted fantasies is disappearing before our eyes: that of the forests. Those which could have been the domain of the lords where the convicted were hung, and the refuge for fleeing persecution. Those which could have been the darkness where one could abandon starving offspring, and the bushy haven from which to launch an assault on the existent. Those which may have been the home of mysteries inhabited by dryads and lycanthropes, and the place were warship builders and other blacksmiths came to plunder them en masse. Those which have seen daring bandits robbing the rich in Sherwood, soot-faced maidens setting fire to and pillages castles in Ariège, revolutionaries continuing to strike their ferocious blows against tsarist tyranny in Courland, but also witnessing in the Alps or in Poland the freezing to death of migrants hunted down by the European border guards.”

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Storm Warnings #52 (April 2022)

Posted on 2022/06/22 - 2022/06/22 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 52 (April 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

Storm warnings, issue 52 (April 15, 2022) :

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For printing (Letter)

“Denouncing the technological control used by the Chinese state or Russia’s current war drive, suggesting that the capillary control in effect on this side and its multiple “anti-terrorist and humanitarian operations” across the planet would be the lesser evil to hope for, does not make much sense. Of course, one cannot reasonably argue that fighting in a territory dominated by an omnipresent and over-equipped State would be equivalent to fighting in a territory controlled by a less developed State. But this does not change that in each of the two cases, one of the deadly traps to be avoided is to participate voluntarily, by our very struggles, to the ongoing readjustment or accommodation of domination (the caricature of which certainly resides in our latitudes in the struggles for more inclusive technologies guaranteed by the State). That’s why we need to focus our attention, trying to hit where it hurts, where the system could less easily bounce back by retreating slightly in order to better regain control later on. In short, it is not simply a question of making ourselves uncontrollable or ungovernable, but of being able to aim directly at its blind spots with an effort of analysis and projectuality.”

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Todas e todos implicados

Posted on 2022/06/21 - 2022/06/22 by avisbabel

Na primeira luz do amanhecer, um caminhão de 40 toneladas começa a se mover sob uma ligeira chuva. Mas não é um dos milhares de caminhões que transportam mercadorias por estrada, e sua missão é muito menos trivial. Com seus faróis acesos, o caminhão passa pelos subúrbios da capital bávara, Munique (Alemanha). Ao passar, aparece a silhueta sombria de um guindaste, aparentemente pronto para afundar suas garras mecanizadas em alguma presa. É um verdadeiro comboio: o caminhão é escoltado por carros da polícia com as luzes apagadas. Quando chegam ao seu destino, os policiais saltam de seus veículos, arrombam uma porta e correm para os quartos. A operação não se trata de descobrir algo, eles estão lá para apreender. Ao contrário do que se poderia imaginar, eles não colocam suas mãos em nenhum suspeito. Tampouco encontram latas explosivas herméticas ou armas bem escondidas, cuja ausência não é de modo algum prova de uma inocência que não é de modo algum louvável neste mundo mortal. Nem mesmo um galão de gasolina espalhado por aí. Não era isso que a polícia estava procurando de qualquer forma. Eles tinham vindo para pegar uma arma completamente diferente, uma arma que aguça a mente e fortalece o espírito. Em Munique, em 26 de abril de 2022, a polícia veio confiscar… uma prensa de impressão dedicada a escritos anarquistas.

De acordo com relatórios posteriores dos camaradas de lá, os policiais tiraram toda a prensa de impressão: “Do Risograph (uma máquina de impressão) com os tambores correspondentes à guilhotina, da empaginadora à máquina de colagem, e até mesmo uma prensa de impressão histórica com seus conjuntos de chumbo, tudo acabou na sala de provas da polícia”. Dezenas de milhares de folhas de papel em branco, litros de tinta e outros consumíveis de impressão, assim como milhares de livros, panfletos e jornais também foram apreendidos. Um transporte de grande porte, o que explica a presença do caminhão e da grua neste detestável comboio matinal.

Em outros lugares da cidade, outras equipes policiais coordenadas pelo Serviço de Proteção do Estado (Seção K43, “Crimes motivados politicamente”) arrombaram as portas de quatro andares, revistaram vários sótãos e a biblioteca anarquista Frevel. O pretexto judicial para toda a operação não é muito original: é o §129, a seção do código penal alemão que processa “a criação de uma organização criminosa”. Desde tempos imemoriais, os anarquistas, os fora-da-lei por excelência – pelo menos na ideia (pois suas fileiras não estão livres da doença do legalismo e do medo paralisante ou calculado de qualquer transgressão da lei) – têm sido perseguidos pelos Estados que utilizam tais artigos do código penal. Hoje, vemos como os Estados recorrem a esses instrumentos legais para reprimir grupos anarquistas, para atacar a informalidade organizacional e as constelações de afinidade que fogem dos esquemas demasiado rígidos de uma organização capitalizada, para limitar a margem sempre precária das iniciativas públicas e dos espaços de encontro e de divulgação, para dissuadir aqueles que escrevem e distribuem escritos anarquistas, como o semanário anarquista Zundlumpen, que está na mira da polícia bávara e que parece ser um dos suportes em que a polícia pretende pendurar outros elementos de sua investigação.

Ao contrário de certa retórica, infelizmente ainda em voga entre camaradas, que parece ser mais uma terapia de auto-conforto, não pensamos que o Estado esteja atacando nossos espaços, publicações e impressoras porque tem medo do discurso anarquista, ou se sente ameaçado por nossa distribuição de livros e jornais. É simplesmente, para ele, uma daquelas coisas que se tornaram tão fáceis de fazer. O “movimento” anarquista e antiautoritário de hoje não é capaz de trazer milhares de pessoas para as ruas quando uma de suas prensas de impressão é apreendida (embora o tenha feito em momentos ocasionais da história), nem é capaz de se levantar quando suas iniciativas públicas são asfixiadas pelo excesso de policiais. E isto tem a ver não apenas com uma redução quantitativa – e muito importante – das fileiras anarquistas, mas também com a profunda transformação das relações sociais nas últimas décadas. A reestruturação tecnológica da exploração capitalista, a inclusão de quase todas as esferas da vida na gestão estatal e na esfera capitalista, a erradicação de qualquer outra comunidade que não aquela (múltipla, é verdade) produzida pela hidra tecnológica, sem mencionar o atroz ataque à linguagem, seu terrível empobrecimento e substituição pelas imagens transmitidas nas telas onipresentes, ou o abismo de inconsciência e brutalização no qual uma boa parte da humanidade está sendo jogada (ou empurrada, no final, não importa): tudo isso não está isento de consequências para a ação e disseminação de ideias anarquistas. Na mesma linha, os anarquistas também não permanecem incólumes: eles também são afetados, mesmo absorvidos, pela avalanche de novas tecnologias, pela comunicação mediada instantânea, pela dificuldade de projetar-se para além do amanhã, ou pela incapacidade de distinguir entre o que seria importante publicar e difundir hoje, e o que é apenas um triste testemunho do vazio existencial que está se apoderando deles e de seus contemporâneos.

Em resumo, o fato de o Estado atacar regularmente e com cada vez mais descuido os poucos espaços anarquistas que ainda são visíveis não é um testemunho de nossa força, mas de nossa fraqueza. Francamente, tudo o mais parece ser mera verborreia que não faz avançar a reflexão necessária, um jogo retórico para evitar ter que enfrentar a pergunta que se torna inescapável a cada apreensão de um jornal, a cada perseguição aos anarquistas sob o pretexto pobre de organização ilícita (com a variante de “criminoso”, “terrorista”, “subversivo”, “ilegal”…): Como continuar agindo nesta era de escuridão tecnológica na qual a consciência se extingue e nossas florestas mentais são arrasadas?

Com que metodologia, com que formas de organização, com que intentos de cometer os mesmos erros? Se só podemos compartilhar a orgulhosa afirmação de que nos recusaremos a adaptar nossas ideias até o fim, que resistiremos à subjugação, mesmo que isso signifique se tornar o último dos moicanos a defender a ideia de liberdade total, acreditamos que devemos apreender as condições em que agimos e não ignorá-las.

Uma operação tão grosseiramente totalitária quanto a apreensão de prensas de impressão (lembremos que na era da censura sistemática das publicações anarquistas, o Estado se limitou acima de tudo a atravessar passagens consideradas demasiado virulentas ou indo além da “liberdade de expressão” para se tornar “incitação ao crime”) e, nos casos mais extremos à apreensão de material impresso – não ferramentas de impressão) é algo que diz respeito a todos os anarquistas, independentemente das atividades em que eles se envolvem ou dos caminhos que escolhem seguir. Não porque oferece provas de que o discurso anarquista permanece uma ameaça à estabilidade do Estado, nem porque atualiza a velha crença que imagina o advento da revolução como resultado do despertar das consciências adormecidas graças aos esforços incansáveis dos propagandistas anarquistas que nunca dormem. Não, diz respeito a todos nós porque é indicativo do estado do mundo, do estado das relações sociais e do futuro próximo no qual seremos obrigados a agir – ou desistir. Sem se juntar ao coro da indignação legalista, pode-se dizer que a apreensão de prensas de impressão, o fechamento de locais públicos, a dissolução de grupos relativamente abertos, nos transportam para outra dimensão que não a da repressão, em última análise “normal” ou “lógica”, que visa colocar fora de jogo aqueles que atacam fisicamente as estruturas e as pessoas da dominação. Embora estas duas dimensões vão sempre juntas e não sejam tão separadas como alguns gostariam de acreditar, trazer um caminhão de 40 toneladas para apreender uma guilhotina e uma prensa de impressão de chumbo é bastante reminiscente das medidas tão usuais em outros regimes. E nesta era de uma corrida industrial e tecnológica abertamente pluralista, mas profundamente totalitária, uma prática que parecia obsoleta poderia nos surpreender novamente, especialmente porque a melhor maneira de desarmar qualquer perigo possível da disseminação de textos anarquistas é, naturalmente, sua contínua virtualização, sua desrealização tecnológica. Mas nada desaparece para sempre e tudo permanece potencialmente presente.

A generalização do trabalho assalariado não aboliu definitivamente a escravidão, a criação de usinas nucleares não fez desaparecer as minas de carvão, a racionalização da produção não enviou as minas artesanais para o caixote do lixo da história. Este mito de progresso agora parece estar sofrendo os reveses da realidade, que está rasgando o véu da desrealização. Muitas das coisas que este mito havia relegado a um passado que jamais voltaria agora tomam seu lugar em uma realidade da qual, afinal de contas, nunca haviam desaparecido completamente. A guerra irrompe novamente no continente europeu, a escassez é visível até mesmo nas prateleiras dos supermercados, a ameaça de aniquilação nuclear se soma às práticas genocidas que acompanham o conflito, a mudança climática eleva o espectro da fome e do extermínio para cada vez mais habitantes deste planeta moribundo. Neste cenário, a apreensão de uma prensa anarquista não deve ser uma surpresa. O tempo em que as prensas de impressão tinham que ser escondidas, quando era preciso obter estoques discretos de papel, quando as notícias da luta e do aprofundamento do pensamento tinham que ser organizadas clandestinamente e através de uma rede capilar, não desapareceu definitivamente do cenário da história. As condições para tais cenários, mesmo à sombra das democracias ocidentais tolerantes, são cada vez mais comuns e se tornarão mais pronunciadas à medida que as pressões sociais aumentarem e os desequilíbrios se disseminarem.

É por isso que a apreensão de uma impressora anarquista em Munique é uma questão que nos preocupa a todos.

(Avis de Tempetes, n. 53, maio de 2022. Traduzido por Agência de Notícias Anarquistas)

Posted in Portugués

Todxs los implicadxs

Posted on 2022/06/09 - 2022/06/09 by avisbabel

Con las primeras luces del alba, un camión de 40 toneladas se pone en marcha bajo una ligera lluvia. Sin embargo, no es uno de los miles de camiones que transportan mercancías por carretera, y su misión es mucho menos trivial. Con los faros encendidos, el camión atraviesa los suburbios de la capital bávara, Múnich. A su paso aparece la tenebrosa silueta de una grúa que parece dispuesta a clavar sus garras mecanizadas sobre alguna presa. Es un auténtico convoy: el camión va escoltado por coches de policía con las luces apagadas. Cuando llegan a su destino, los agentes de policía saltan de sus vehículos, derriban una puerta y se apresuran a entrar en las habitaciones. La operación no consiste en descubrir algo, están ahí para requisar. En contra de lo que se podría imaginar, no ponen sus manos sobre ningún sospechoso. Tampoco encuentran botes herméticos de explosivos ni armas bien escondidas, cuya ausencia no es en absoluto prueba de una inocencia poco recomendable en este mundo mortal. Ni siquiera alguna garrafa de gasolina por ahí. De todos modos eso no era lo que la policía buscaba. Habían venido para hacerse con un arma completamente diferente, una que agudiza la mente y fortalece el espíritu. En Munich, el 26 de abril de 2022, la policía vino a confiscar… una imprenta dedicada a escritos anarquistas.

Según relataron posteriormente compañeros de allí, los policías se llevaron toda la imprenta: “Desde el Risograph (una máquina de impresión) con los correspondientes tambores hasta la guillotina, desde la compaginadora hasta la encoladora, e incluso una histórica tipografía con sus juegos de plomo, todo acabó en la sala de pruebas de la policía“. También se han secuestrado decenas de miles de hojas de papel en blanco, litros de tinta y otros consumibles de impresión, así como miles de libros, folletos y periódicos. Un transporte considerable, lo que explica la presencia del camión y la grúa en este detestable convoy matutino.

En otros lugares de la ciudad, otros equipos policiales coordinados por el Servicio de Protección del Estado (Sección K43, “Delitos de motivación política”) echaron abajo las puertas de cuatro pisos, registraron varios sótanos y la biblioteca anarquista Frevel. El pretexto judicial para toda la operación no es muy original: se trata del sulfuroso §129, el artículo del código penal alemán que persigue “la creación de una organización criminal“. Desde tiempos inmemoriales, los anarquistas, los proscritos por excelencia – al menos en idea (pues sus filas no se han librado de la enfermedad del legalismo y del miedo paralizante o calculado a cualquier transgresión de la ley) –, han sido perseguidos por los Estados utilizando dichos artículos del código penal. A día de hoy, vemos cómo los Estados recurren a estos instrumentos legales para reprimir a los grupos anarquistas, para atacar la informalidad organizativa y las constelaciones de afinidad que huyen de los esquemas demasiado rígidos de una Organización capitalizada, para limitar el margen siempre precario de las iniciativas públicas y los espacios de encuentro y difusión, para disuadir a quienes escriben y distribuyen escritos anarquistas, como el semanario anarquista Zundlumpen, que está en el punto de mira de la policía bávara y que parece ser uno de los bastidores en los que la policía pretende colgar otros elementos de su investigación.

Contrariamente a cierta retórica, desgraciadamente todavía en boga entre compañerxs, que parece tratarse más bien de una terapia de autoconsuelo, no pensamos que el Estado esté atacando nuestros espacios, publicaciones e imprentas porque tenga miedo del discurso anarquista, o se sienta amenazado por nuestra distribución de libros y periódicos. Simplemente, para él, es una de esas cosas que se han vuelto tan fáciles de hacer. El “movimiento” anarquista y antiautoritario de hoy en día no es capaz de sacar a miles de personas a la calle cuando se incauta una de sus imprentas (aunque sí lo ha hecho en momentos puntuales de la historia), ni es capaz de levantarse cuando sus iniciativas públicas son sofocadas por el ensañamiento policial. Y esto no sólo tiene que ver con una reducción cuantitativa -muy importante- de las filas anarquistas, sino también con la profunda transformación de las relaciones sociales de las últimas décadas. La reestructuración tecnológica de la explotación capitalista, la inclusión de casi todos los ámbitos de la vida en la gestión estatal y la esfera capitalista, la erradicación de cualquier comunidad que no sea la (múltiple, es cierto) producida por la hidra tecnológica, por no hablar del atroz asalto al lenguaje, de su terrible empobrecimiento y sustitución por las imágenes transmitidas en las omnipresentes pantallas, o del abismo de inconsciencia y embrutecimiento al que se está arrojando (o empujando, al fin y al cabo, da igual) una buena parte de la humanidad: todo esto no está exento de consecuencias para la acción y la difusión de las ideas anarquistas. En la misma línea, los anarquistas tampoco permanecen indemnes: ellos también se ven afectados, incluso absorbidos, por la avalancha de las nuevas tecnologías, de la comunicación mediada instantánea, por la dificultad de proyectarse más allá del mañana, o por la incapacidad de distinguir entre lo que sería importante publicar y difundir hoy, y lo que sólo es un triste testimonio del vacío existencial que se apodera de ellos y de sus contemporáneos.

En resumen, el hecho de que el Estado ataque regularmente y con una despreocupación cada vez más temeraria los pocos espacios anarquistas que aún son visibles no es un testimonio de nuestra fuerza, sino de nuestra debilidad. Sinceramente, todo lo demás parece ser mera verborrea que no hace avanzar la necesaria reflexión, un juego retórico para no tener que enfrentarse a la cuestión que se hace ineludible con cada incautación de un periódico, con cada persecución de anarquistas con el pobre pretexto de la organización ilícita (con la variante de “criminal”, “terrorista”, “subversivo”, “ilegal”…): ¿Cómo seguir actuando en esta época de oscuridad tecnológica en la que la conciencia se extingue y nuestros bosques mentales son arrasados?

¿Con qué metodología, con qué formas de organización, con qué intentos para [evitar] cometer los mismos errores? Si sólo podemos compartir la orgullosa afirmación de que nos negaremos a adaptar nuestras ideas hasta el final, de que nos resistiremos al sometimiento, aunque eso signifique convertirnos en el último de los mohicanos para defender la idea de una libertad total, creemos que debemos aprehender las condiciones en las que actuamos y no ignorarlas.

Una operación tan burdamente totalitaria como la incautación de las máquinas de impresión (recordemos que en la época de la censura sistemática de las publicaciones anarquistas, el Estado se limitaba sobre todo a tachar los pasajes considerados demasiado virulentos o que iban más allá de la “libertad de expresión” para convertirse en “incitación al crimen”, y en los casos más extremos a la incautación del material impreso — no de las herramientas de impresión) es algo que concierne a todxs lxs anarquistas, independientemente de las actividades a las que se dediquen o de los caminos que elijan seguir. No porque ofrezca pruebas de que el discurso anarquista sigue siendo una amenaza para la estabilidad del Estado, ni porque actualice la vieja creencia que imagina el advenimiento de la revolución como el resultado del despertar de las conciencias dormidas gracias a los incansables esfuerzos de los propagandistas anarquistas que nunca duermen. No, nos concierne a todxs porque es indicativo del estado del mundo, del estado de las relaciones sociales y del futuro próximo en el que nos veremos abocados a actuar – o a renunciar. Sin sumarse al coro de la indignación legalista, puede decirse que la incautación de imprentas, el cierre de locales públicos, la disolución de grupos relativamente abiertos, nos transportan a otra dimensión distinta a la de la represión, en última instancia “normal” o “lógica”, que pretende dejar fuera de juego a quienes atacan físicamente las estructuras y las personas de la dominación. Aunque estas dos dimensiones siempre van juntas y no están tan separadas como algunos quieren creer, traer un camión de 40 toneladas para incautar una guillotina y una imprenta tipográfica de plomo recuerda bastante a las medidas habituales en otros regímenes. Y en esta época de carrera hacia adelante industrial y tecnológica abiertamente pluralista pero profundamente totalitaria, una práctica que parecía obsoleta bien podría sorprendernos de nuevo, sobre todo porque la mejor manera de desactivar cualquier posible peligro de la difusión de textos anarquistas es, por supuesto, su continua virtualización, su desrealización tecnológica. Pero nada desaparece para siempre y todo permanece potencialmente presente.

La generalización del trabajo asalariado no ha abolido definitivamente la esclavitud, la creación de centrales nucleares no ha hecho desaparecer las minas de carbón, la racionalización de la producción no ha enviado las minas artesanales al basurero de la historia. Este mito del progreso parece sufrir ahora los reveses de la realidad, que desgarra el velo de la desrealización. Muchas de las cosas que este mito había relegado a un pasado que nunca volvería ocupan ahora su lugar en una realidad de la que, al fin y al cabo, nunca habían desaparecido del todo. La guerra vuelve a estallar en el continente europeo, la escasez se hace visible incluso en los estantes de los supermercados, la amenaza de aniquilación nuclear se suma a las prácticas genocidas que acompañan a los conflictos, el cambio climático agita el espectro del hambre y el exterminio para cada vez más habitantes de este planeta que agoniza. En este escenario, la incautación de una imprenta anarquista no debería sorprender. La época en la que había que ocultar las imprentas, en la que había que conseguir discretas reservas de papel, en la que había que organizar las noticias de la lucha y de la profundización del pensamiento de forma clandestina y a través de una red capilar, no ha desaparecido definitivamente de la escena de la historia. Las condiciones para estos escenarios, incluso a la sombra de las tolerantes democracias occidentales, son cada vez más comunes y se acentuarán a medida que aumenten las presiones sociales y se extiendan los desequilibrios.

Por eso, la incautación de una imprenta anarquista en Múnich es un asunto que nos concierne a todas y todos.

[Avis de Tempetes, n. 53, mayo 2022, traducción recibida por mail]

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Golpear donde más duele

Posted on 2022/06/08 - 2022/06/09 by avisbabel

Las cadenas a romper

Alcanzar las largas y mórbidas raíces que el arado olvida,
Descubrir las profundidades; dejar los largos y pálidos zarcillos
Gastarlo todo para descubrir el cielo; ahora nada va bien
Excepto los espejos de acero del descubrimiento ….
Y los magníficos y enormes amaneceres del tiempo,
Después de que hayamos muerto.

Robinson Jeffers,
The broken Balance (1929)

El poeta estadounidense que escribió estos versos era un hombre al que no le gustaba la vida en sociedad. Estaba demasiado enamorado de la belleza de la naturaleza salvaje como para inclinarse ante los miserables logros de la civilización humana, prefiriendo la libertad solitaria a una vida en compañía de los horrores, genocidios y devastaciones que se producían y que él consideraba rasgos distintivos de la civilización. Llegó a definir su poesía filosófica, que fue una importante fuente de inspiración para el despertar ecológico de los años sesenta, como “inhumanismo”: “Debemos descentrar nuestras mentes de nosotros mismos / Debemos deshumanizar un poco nuestros puntos de vista y volvernos más confiados / Como la roca y el océano de los que estamos hechos“. Estas llamadas aún resuenan hoy en día, en los bosques oscuros y en los valles remotos, y quizás incluso en los pasillos de las ciudades-prisión donde ya nada nos une a la realidad, aparte de la mercancía concreta. Y si hay un obstáculo que todavía nos impide querer derribarlo todo para no prolongar la morbosa expectativa que nos asedia, un obstáculo que debemos eliminar urgentemente, es sin duda al famoso mito del progreso al que deberíamos dar la vuelta, a la creencia del pasado de que la historia humana avanza inexorablemente hacia una mayor libertad y felicidad. A estas alturas, ya es imposible ignorar que los grandes ecosistemas están colapsando, o que el empobrecimiento y la dependencia producidos por un siglo de industrialismo a marchas forzadas nos están aplastando, y de hecho es siempre detrás de los mismos clarines del progreso que se despliega cualquier adhesión a la civilización.

Al abrirse ante nosotros una nueva causa a la que adherirse, una nueva perspectiva amanece por fin para la humanidad, una nueva era se anuncia con bombo y platillo: la transición ecológica que hará frente al cambio climático. Se librará otra apasionada batalla política contra el pesimismo, ese que cobra fuerza cuando nos enfrentamos a la realidad de las cosas y no a su doble digital. La transición energética, las nuevas tecnologías, la desmaterialización, la ecologización de los procesos de producción ya tienen sus profetas, mientras que los capitanes llamados al rescate para dirigir las operaciones ya han ocupado sus puestos a bordo. Para finalizar, no faltan las masas, todavía algo reticentes. Porque, a pesar de la adhesión entusiasta de multitudes de consumidores, queda la desilusión y el desencanto generados por un mundo cubierto por el velo tecnológico, por una artificialización exacerbada del mundo sensible y por una negación de lo vivo, que no conducen necesariamente a la producción de un nuevo consenso tan simple. No es de extrañar, pues, que ese desencanto pueda manifestarse en todas las direcciones, y no necesariamente en las más gratificantes para el individuo, recurriendo quizá a la mítica nostalgia de una época dorada cercana, o al renacimiento del fanatismo religioso, hasta las evocaciones más militaristas que desean una aceleración hacia el fin del mundo y el apocalipsis final.

En el mundo que conocemos, ni los desequilibrios de los mercados mundiales, ni las guerras en curso y por venir, ni los populismos modernos ni los fantasmas divinos deben hacer que la megamáquina se desvíe de la carrera de velocidad en la que está inmersa. La transición energética tendrá que realizarse por las buenas o por las malas, la tierra tendrá que ser batida, perforada y triturada aún más, como nunca antes, para extraer de ella todas las materias primas y los metales necesarios para la perpetuación de esta civilización mortífera. Las fábricas tendrán que funcionar a pleno rendimiento para inundar el mundo con sus motores eléctricos, sus circuitos electrónicos, sus semiconductores y sus nanomateriales. El fanatismo de los cruzados del progreso no está dispuesto a retroceder ante nada ni nadie. Construirán presas para hacer frente a la subida del nivel del mar. Levantarán nuevas centrales nucleares y cubrirán la superficie de la tierra con paneles solares y turbinas eólicas para asegurar el flujo continuo de electricidad. Desarrollarán procesos de detección de gases de efecto invernadero para sustituir a los “pulmones del planeta”, talados, esquilmados y devastados sin cesar. Sin embargo, ante las fuerzas que se están desencadenando, todo su ingenio y su insensata fe en las soluciones técnicas sólo servirán para prolongar la agonía. Sólo conseguirán hacer cada vez mas improbable un cambio de rumbo radical hacia una perspectiva de libertad y autonomía, dentro de un cambio climático ya irreversible. ‘La naturaleza bate por última vez’, la naturaleza está jugando su última carta.

Frente a esta verdadera máquina de guerra, al servicio de la cual las cornetas del progreso siguen afirmando que la felicidad y la libertad se obtendrán contra la naturaleza, sometiéndola indefinidamente a los imperativos de la sociedad humana, otros siguen susurrando que la libertad sólo puede existir en la naturaleza. Que la autonomía nunca será compatible con la dependencia tecnológica, sea cual sea. Que las cadenas que hay que romper son las que la sociedad nos ha impuesto a la fuerza en nombre de nuestro bien, por nuestra seguridad, nuestra supervivencia o nuestra comodidad. Un bien del que ya conocemos el inmensurable precio a pagar, empezando por nuestra libertad.

 

Golpear donde más duele

Si alguien te golpea con un puño, no puedes defenderte de forma eficaz golpeando su puño: no puedes herirlo de esta forma. Para vencer el combate debes golpearlo donde mas le duele. Lo que significa esquivar el puño y golpear las partes mas vulnerables del cuerpo del adversario. […] atacar el sistema es como golpear un neumático. Un golpe de mazo puede destrozar el hierro fundido, ya que es rígido y quebradizo. Pero se puede martillar un trozo de goma sin causarle ningún daño, ya que es flexible. Esto contribuye inicialmente a que la protesta se desvanezca hasta perder su fuerza e impulso. Y el sistema se recupera.
Por eso, para golpear al sistema donde más le duele, hay que seleccionar los elementos que le impiden recuperarse y por los que luchará hasta el final. Lo que necesitamos no es un compromiso con el poder, sino una lucha a muerte.

Ted Kaczynski

El sistema se apoya más que nunca en sus capacidades elásticas de defensa. Conceder nuevos derechos flexibles cuando sea necesario, incluso integrando a las minorías, con la supresión por otro lado de los más arcaicos y recuperando cualquier ímpetu inicialmente subversivo que no pueda ser erradicado: esta es una de las vías recomendadas por el proyecto tecnológico en desarrollo en los países occidentales. En otros continentes (como en Asia o Sudamérica), el mismo proyecto puede incluso adoptar rasgos más abiertamente autoritarios, hasta el punto de que no dejan de surgir conflictos entre los distintos modelos, entre las diferentes formas de gestionar y desarrollar el poder tecno-industrial. Hoy, estos conflictos estallan en la periferia, pero mañana podrían estallar en otros lugares.

Por lo tanto, oponerse sólo a las formas que adoptan sin incidir en su fondo tiene poco sentido. A lo sumo, esto sólo llevará agua al molino de uno de los modelos en conflicto, como el denunciar superficialmente el control tecnológico que utiliza el Estado chino o el actual fervor belicista de Rusia, sugiriendo que el control capilar vigente por estos lares y sus múltiples “operaciones antiterroristas y humanitarias” en todo el planeta son, en todo caso, lo menos malo que se puede esperar. Por supuesto, no se puede afirmar de forma razonable que luchar en un territorio dominado por un Estado omnipresente y súper equipado sea equivalente a luchar en un territorio controlado por un Estado menos actualizado. Pero esto no impide que en cualquiera de los dos casos, una de las trampas mortales a evitar sea la de participar voluntariamente, con nuestras propias luchas, en el reajuste o adaptación en curso de la dominación (cuya caricatura reside ciertamente en nuestras latitudes en las luchas por tecnologías más inclusivas garantizadas por el Estado). Por eso hay que prestar más atención, tratando de golpear donde más duele, donde el sistema tenga menos facilidad para recuperar el control más adelante. En definitiva, no sólo debemos volvernos incontrolables o ingobernables, sino ser capaces de apuntar directamente a sus puntos débiles haciendo un esfuerzo de análisis y proyectualidad.

En varias ocasiones, tanto en escritos como en susurros, en intercambios y en observaciones, se han identificado las “infraestructuras críticas” como uno de los puntos vulnerables, porque irrigan el cuerpo de la sociedad y sus órganos con datos y energía, igual que las venas. Venas que pueden ser cortadas, incluso por pequeños grupos con medios bastante rudimentarios. Esto es lo que nos muestra la continuidad de los sabotajes de antenas y repetidores en varios países europeos, con una intensidad notable en ciertas regiones como Occitania donde, desde principios de año, estas verdaderas torres de control de la sociedad tecnológica han sufrido varios asaltos en caliente en Toulouse (12 de enero), Renneville (18 de enero), Lacroix-Falgarde (26 de febrero) o Carbonne (31 de marzo), con más de una docena de estructuras de telefonía móvil reducidas a cenizas desde el año pasado en la zona. Por no hablar del hecho de que esto haya llevado a los operadores a plantearse una serie de enigmas técnicos, como por ejemplo: ¿cómo sustituir adecuadamente un pilón excesivamente dañado e inseguro por antenas temporales, sin retrasar aún más la vuelta a la normalidad?

Otro ejemplo de arterias imprescindibles para esta sociedad hiperconectada es la fibra óptica, por la que fluyen los datos que hacen funcionar este mundo, y que también es objeto de cortes intencionados, y a veces coordinados, en plena naturaleza… o a pocos metros de una comisaría, como ocurrió en Quimper el pasado enero, cuando se fueron quemados dos armarios de telecomunicaciones. Y, por último, no podemos olvidar otras instalaciones cada vez más específicas que aseguran la continuidad de la energía eléctrica, la que hace girar los brazos de las máquinas, la que enciende las luces que ocultan las estrellas, la que asegura que todo funcione y que todo siga adelante. Ataques que han afectado a centrales de transformación, torres de alta tensión o armarios de media tensión, provocando a menudo cortes de electricidad, algunos de corta duración y otros más prolongados.

Aguas arriba

Todos los hombres sueñan, pero no de la misma manera. Los que sueñan por la noche en los recovecos polvorientos de su mente, se despiertan durante el día para descubrir la vanidad de esas imágenes: pero los que sueñan durante el día son peligrosos, porque pueden poner en práctica sus sueños para hacerlos posibles.

T. E. Lawrence

Son las 2.40 del lunes 4 de abril de 2022. En la industria STMicroelectronics de Crolles, en Isère, las máquinas se detienen, entonces intervienen las baterías de emergencia para restablecer el alumbrado mientras se activan los procedimientos de seguridad. La empresa, cuya producción está asegurada las 24 horas del día, está temporalmente paralizada, que no es poco, ya que STMicro es uno de los líderes mundiales en la producción de semiconductores, los elementos básicos de la industria tecnológica, un sector que con la pandemia de Covid y los problemas de las cadenas de suministro está pasando por dificultades a nivel mundial, con una escasez de semiconductores que ha frenado la recuperación económica. El origen de la parada de esta industria estratégica se encuentra en un emplazamiento de alta tensión un poco más lejos, en Froges. En el recinto de esa estación eléctrica, “quemaron algunos elementos de cableado muy concretos en un transformador”, lo que afectó “a la puesta en marcha de las líneas subterráneas de muy alta tensión (225.000 voltios) que conectan con el transformador de STMicro en Crolles. En el lugar aparecieron pintadas con aes circuladas a modo de punto de mira sobre la empresa ST Microelectronics.”

Son las 1.44 horas del martes 5 de abril. Las luces se apagan en las ciudades de Crolles y Bernin. En la importante zona industrial, se ha cortado la corriente. Decenas de empresas punteras han dejado de funcionar, y en los dos gigantes del Silicon Valley de Grenoble, STMicroelectronics y Soitec (con 4.300 y 1.700 empleados respectivamente), la producción de semiconductores y chips electrónicos se ha paralizado por completo. El parón fue causado por el incendio provocado de ocho líneas de 20.000 voltios y una de 225.000 voltios bajo el puente de Brignoud, que cruza el río Isère entre Villard-Bonnot y Crolles. El incendio duró varias horas y afectó a la estructura del puente, un importante punto de paso para los automovilistas y los trabajadores de la zona industrial de Grésivaudan. En la zona, tanto internet como la telefonía estuvieron interrumpidos. Al día siguiente, se conectaron algunos generadores de emergencia y se llevó una línea eléctrica provisional a Soitec para restablecer parte de la corriente, lo cual no impidió la caída en bolsa de STMicro y Soitec.

En cualquier caso, la vuelta a la normalidad no será inmediata, ya que “la industria de los semiconductores es muy sensible a los problemas eléctricos… Reanudar la producción lleva tiempo, porque es necesario inspeccionar todas las máquinas y ponerlas en marcha de nuevo cuando sea necesario”. Esto puede llevar días, o incluso semanas. Las salas utilizadas en procesos de producción de la industria de semiconductores dependen sobre todo de sistemas de ventilación filtrada y de diversos sensores (temperatura, humedad, etc) para asegurarse un nivel bajísimo de partículas y polvo en el aire, las cuales tienen que recalibrarse, especialmente tras un reinicio. Por no hablar de los ajustes de las propias máquinas de producción, que deben garantizar la combinación de un alto nivel de calidad y de producción en volumen, al tiempo que se producen a una escala muy pequeña, del orden del nanómetro“. La evaluación de los daños todavía está en curso, pero al parecer asciende a “decenas de millones de euros” sólo para los dos gigantes de semiconductores. El vicepresidente de Soitec también quiso señalar que “los incidentes de los dos últimos días se produjeron fuera de las empresas. Todo el mundo reconoce que somos una industria estratégica para el país, pero vemos que hoy en día algunos actos intencionados, algunos ataques, están consiguiendo golpear a esta industria. La redundancia de las fuentes de energía no ha sido suficiente para protegernos, ya que los malhechores han atacado todas las líneas de suministro eléctrico“.

Son las 15.30 horas del miércoles 13 de abril. En 380 empresas del sector de la tecnología digital y situadas en una importante tecnópolis de la aglomeración de Grenoble, Innovallée, la corriente se corta. Un total de 10.000 clientes, entre particulares, instituciones y empresas, están privados de electricidad en 6 municipios. El origen del bloqueo temporal está en lo que parece ser un nuevo sabotaje: en el interior del recinto de una central de alta tensión de Enedis, una instalación situada entre los edificios de la empresa y la A41, en el corazón de la tecnópolis, un incendio “probablemente criminal” dejó fuera de juego “una de las dos unidades del recinto, cuya función es transformar la alta tensión en media tensión (20.000 voltios)“. Según Enedis, “la corriente se restableció muy rápidamente“.

Evidentemente, estos sabotajes no han dejado de provocar patéticas declaraciones de las autoridades, acompañadas de peticiones de contar con más medios para que la policía pueda atrapar a los que la prensa ha calificado en esta ocasión de “saboteadores elusivos“, no sin añadir que “hay un reproche que sólo puede dirigirse a los grupos anarquistas sospechosos de estar detrás de las dos últimas acciones dirigidas contra este vasto recinto de alta tecnología en que se ha convertido el Grésivaudan: la falta de coherencia en lo que consideran una lucha noble“. Sin embargo, lo más importante sigue siendo, con mucho, el hecho de que incluso las industrias más grandes, especialmente vigiladas y consideradas estratégicas, pueden ser saboteadas. Un hecho y una sugerencia operativa que quizá aprecien todos aquellos que sueñan de día con poner de forma real y concreta un bastón en las ruedas de aquello que devasta este mundo y explota la vida: golpear río arriba para golpear donde más duele.

[Avis de tempêtes, n. 52, Abril 2022, traducción recibida por mail]

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Al alba de una nueva era

Posted on 2022/06/07 - 2022/06/09 by avisbabel

«Uno de los aspectos de esta cuarta revolución industrial
es que no cambiará lo que estamos haciendo,
nos cambiará a nosotros
»

Klaus Schwabb, fundador y presidente del Foro Económico Mundial (WEF), que acaba de publicar The Four Industrial Revolution, seguido de otra obra – en plena pandemia de Covid19, The Great Reset – en la cual llama a aprovechar la crisis sanitaria para acelerar el nacimiento de la «economía 4.0»

Si aceptamos la calificación de “revolución” para designar las transformaciones de la economía capitalista en el curso de su historia, es por supuesto en el sentido de que ciertas transformaciones han implicado una importante alteración en las relaciones de producción, las relaciones sociales, las jerarquías sociales, los hábitos y las costumbres. Pero el término sería engañoso si también lo entendiéramos como un “cambio de rumbo” radical y profundo. De hecho, desde la introducción del agua y el vapor para mecanizar la producción sustituyendoparte del trabajo manual por máquinas, hasta la extracción de uranio para su uso en las centrales nucleares que alimentan el complejo de producción, no ha habido ninguna “revolución” ni en la orientación ni en la lógica subyacente. Sigue siendo una cuestión de acumular beneficios, y para acumular, la economía debe crecer continuamente. Sin crecimiento, los márgenes para reinvertir y rentabilizar los beneficios son demasiado pequeños. Así que lo que llamamos progreso moderno cumple dos requisitos fundamentales: aumentar la dominación y la acumulación. Los dos aspectos –a menudo falsamente enfrentados en las figuras del “estado regulador” y del “libre mercado”– siempre han avanzado juntos. La apertura de nuevos mercados, la mercantilización de ciertos sectores, la extracción de recursos, la construcción y el mantenimiento de la infraestructura necesaria para la producción, todo ello no habría sido posible sin el crecimiento del poder estatal, y al revés, este crecimiento no hubiera sido posible sin el aporte de créditos, productos, armas y tecnologías por parte de los complejos industriales capitalistas. Los aburridos debates sobre los tipos del impuesto de sociedades, los costes salariales y la competitividad que parecen enfrentar al Estado con el mercado son básicamente pura palabrería: el “libre mercado” nunca existió y el Estado ha desempeñado un papel importante, si no indispensable, en el crecimiento de los grandes complejos económicos. Por poner un ejemplo reciente: los mercados financieros mundiales, base del sistema monetario mundial y que a menudo son presentados como el reino del capitalismo más auténtico, es decir, el menos restringido por regulaciones, simplemente no pueden existir sin los Estados. El “rescate” llevado a cabo tras el colapso financiero de 2008 es revelador a este respecto, y no puede sino asombrar a quienes creen en esa fábula tan interesada del Estado frente al capital.

* * *

Después de un período inicial de mecanización de la producción, que sufre una aceleración con la extracción masiva de carbón para alimentar los hornos industriales, entre 1760 y 1870 llega una segunda “revolución industrial” que generaliza la producción en masa y la expansión del complejo metalúrgico y energético. Esta fue la era del petróleo y la electricidad, las siderúrgicas y el motor de combustión. La “liberación” de fuerzas energéticas nunca antes vista, a través de la extracción de petróleo, hizo posible un aumento vertiginoso de la producción, y la primera gran hecatombe mundial de una magnitud sin precedentes. Cuanto más fuentes de energía se inyecten en la máquina, más se extiende por todo el mundo. La construcción de cientos de centrales nucleares, que prometían una fuente inagotable de energía eléctrica (pero menos manejable y flexible que el petróleo), selló el advenimiento de la megamáquina: un “complejo de civilización” en el que todos los sectores y aspectos se vuelven interdependientes. Cuando casi todos los territorios del mundo terminaron por integrarse en esta megamáquina y la producción en masa hizo bajar las tasas de beneficio con sobreproducciones cíclicas y saturaciones de mercado, comenzó una nueva era. Por un lado, era necesario superar el problema de la caída de las tasas de beneficio, por otro lado era necesario responder a los desafíos y amenazas que planteaban los movimientos revolucionarios de los años 60 y 70. A principios de losaños 80, la electrónica y las tecnologías digitales desarrolladas en el complejo militar-industrial se integraron en un número cada vez mayor de procesos de producción. La disponibilidad de un dispositivo gigantesco capaz de proporcionar cada vez más energía a bajo costo fue fundamental para permitir, por un lado, la automatización de ciertos procesos productivos y, por otro, la deslocalización de fábricas en regiones más periféricas. Para liberar y estimular la acumulación necesaria para estas inversiones masivas, se han superado las divisiones tradicionales (entre la ciudad y el campo, por ejemplo) y se han “liberalizado” sectores que hasta ahora habían permanecido al margen, proceso que está llegando a su fin en la mayoría de los países. Junto con el endeudamiento endémico de los países llamados “periféricos”, sometidos a programas masivos de desarrollo de infraestructuras (al servicio de la extracción de materias primas), la fuerza financiera así liberada ha permitido un mayor crecimiento de la capacidad productiva.

Hoy se puede ver claramente, con el gran salto hacia delante experimental, ligado a la pandemia del Covid19, hasta que punto se han generalizado los procesos de automatización, también en la mayor parte de las regiones que se consideraban secundarias dentro de la economía mundial. Gracias a las tecnologías disponibles, ya es posible ir disminuyendo el “trabajo manual”. La gran mayoría de procesos productivos ya son guiados y gestionados digitalmente. La experiencia actual de asignar partes importantes de la actividad económica al “teletrabajo” permite percibir el terrorífico potencial. Estamos a la vigilia de lo que el fundador del Foro de Davos define, junto a otros “visionarios”, la “cuarta revolución industrial”. Se trata de la integración y convergencia de las tecnologías digitales, físicas y biológicas en una nueva visión del planeta y de la humanidad. La industria 4.0 implica una conectividad de masa (particularmente a través del 5G), la inteligencia artificial, la robótica, la automatización de la logística y el transporte, las nano- y bio-tecnologías, el internet de las cosas (IoT), el blockchain, la ingeniería genética y de materiales, las redes energéticas inteligentes, etc. Todo tecnologías “disruptivas”, es decir, con el potencial de cambiar radicalmentelos procesos productivos precedentes y las técnicas de acumulación “tradicionales”. Si por una lado su impacto sobre el clima se prevé desastroso, por el otro hasta los grandes capitales de la industria tecnológica advierten desde hace años que las tecnologías digitales y a la nueva etapa robótica provocará una desocupación de masa sin precedentes.

Si buena parte de los procesos productivos en las fábricas están ya ampliamente automatizados, también otros sectores están por experimentar transformaciones análogas. Según algunas estimaciones, hacia el 2035 podrían estar automatizados hasta el 86% de todos los empleos en el sector de la restauración, el 75% en el del comercio y el 59% en el de entretenimiento. En Reino Unido, durante el período comprendido entre 2011 y 2017, se han perdido el 25% de puestos de trabajo en cajas de supermercado debido a la introducción del pago tramite máquina. El sector de las compras a distancia y los envíos a domicilio es otro sector en plena automatización, cuyo modelo es la organización del trabajo de los almacenes de Amazon o Alibaba . En diferentes ciudades del mundo se están llevando a cabo notables experimentos para sustituir a los carteros humanos por robots y drones. Otras estimaciones mas generales temen una pérdida del 54% de los puestos de trabajo en Europa durante las próximos dos décadas si la expansión y el desarrollo de la automatización mantienen el ritmo actual. Pensemos también en la previsible generalización de las impresoras 3D, que permitirán sustituir obreros que fabrican objetos por máquinas que los imprimen. O en la posibilidad que ofrecen los algoritmos y el Big Data para reemplazar a los empleados de taquilla u oficina; en un contrato con una aseguradorao incluso en un diagnóstico médico, efectuado en base a decisiones automáticas. Está claro que la naturaleza del trabajo cambiará en los años que vendrán.

La cuestión del trabajo y la ocupación por lo tanto seguirán siendo prioritarias. El endeudamiento de los Estados, que permite conceder incentivos de supervivencia en forma de asistencia social o de indemnización a los expulsados del mercado laboral, puede parecer una solución,pero la volatilidad y la inestabilidad permanente de los mercados financieros no permitirán continuar durante mucho tiempo por el camino tomado por los grandes Estados capitalistas a lo largo del siglo pasado. Las luchas para defender el empleo no pueden, ahora más que nunca, llevarnos a ningún sitio. Estas muy raramente, por no decir nunca, afrontan la pregunta que realmente habría que plantear: ¿queremos la perpetuidad de un sistema industrial que está devastando el planeta y sus habitantes? ¿A qué estamos ofreciendo nuestra “fuerza de trabajo”? En este sentido, todo el batiburrillo de luchas “contra el capital” a menudo defendidas por la izquierda deben ser criticadas, o mejor, desertadas radicalmente. ¿Qué está ocurriendo últimamente en Francia?. ¿La anunciada deslocalización o el cierre de fábricas de automóviles, de neumáticos, de aeronáutica (civil y militar)?. Ciertamente, el cierre o la deslocalización de una nocividad no impide la continuidad del crecimiento mortífero, gracias sobre todo a la automatización, y en efecto, esto determina un potencial empobrecimiento de los viejos trabajadores. Pero la “defensa del puesto de trabajo”, la aceptación siempre mayor de las nuevas formas de (tele) trabajo por parte de sindicatos y explotados, los grotescos anuncios de un gobierno que pretende “reimpulsar la industria nacional”… todo esto forma inexorablemente parte de lo que hay que combatir. Cierto, una reestructuración de la producción siempre implica una parte de inestabilidad y de incertidumbre(esta inestabilidad por otra parte se ha convertido en el “sistema” nervioso central de la economía contemporánea): de aquí la necesidad de pasar a la ofensiva y no quedarse a remolque de los conflictos de “retaguardia”. Si no, terminaremos llevando agua a un molino no solamente decrépito, sino éticamente inaceptable y obsoleto en la práctica. No deberíamos prestarnos a defender la ocupación en una industria de aviones cazabombarderos (como Airbus, por poner un ejemplo), en un puerto que siempre han sido punto neurálgico para el comercio internacional y ahora en curso de automatización total, en una casa automovilística, en una central nuclear, una refinería… Ni deberíamos prestar nuestras (escasas) fuerzas a aquello que contribuye a la renovación capitalista del mundo, como los innumerables proyectos definidos como “sostenibles”, a imagen de los eólicos industriales. Lo que hace falta es intentar atacar la producción misma, con la perspectivade su destrucción (y no de su reajuste o para conseguir algunas concesiones salariales). Ya sea apuntando a los nuevos proyectos en vías de realización, golpeando directamente fábricas y centros de producción o saboteando lo que permite su funcionamiento (infraestructuras energéticas y de comunicación, redes logísticas e interdependencias variadas), Cuando los trabajadores, intentandoconservar su propio salario y sufriendo una panoplia de enfermedades causadas por la actividad que realizan, empiecen a destruir los instrumentos de producción (mas o menos mortíferos), podrán encontrar en nosotros cómplices e individuos solidarios; en cambio, si “luchan” por preservar esos instrumentos, concediéndoles la mistificación de una cierta “utilidad social”, no dejaremos de señalar y atacar su responsabilidad en el mantenimiento y la defensa de un aparato productivo que nos destruye, a nosotros junto con el planeta. Menos que nunca, la perspectiva de autogestión de las herramientas de producción existentes es una perspectiva verdaderamente revolucionaria:la única perspectiva revolucionaria, si, la única, es la destrucción de la producción, y por lo tanto, del trabajo.

La “cuarta revolución industrial” no es una simple evolución lógica y lineal que seguirá a la “tercera”. Surge en un momento en el que los imprevistos y las incertidumbres se acumulan por encima de su cabeza. El desempleo masivo es solo uno de estos aspectos, y no necesariamente el mas importante (el dominio nunca se ha privado del sacrificio de millones de personas). Por contra, el problema del clima se presenta siempre mas urgente a través de la aceleración de fenómenos increíbles (como incendios forestales, tormentas rabiosas, pandemias, extinción exponencial de especies…) ; los límites de la disponibilidad energética a bajo coste (principalmente en forma de petróleo) hacen previsible un colapso económico en pocas décadas (De ahí la aceleración de las “energías renovables”, aunque insuficiente para proporcionar el combustible necesario para mantener el crecimiento de la megamáquina); la “pérdida del alma”, de toda brújula, la creciente dificultad de gestionar las poblaciones (cada vez mas regiones se encuentran en una especie de estado permanente de guerra civil), el auge de fundamentalismos de todo tipo, las explosiones de rabia y desesperación que ya no se corresponden con los contextos “tradicionales” de la protesta. Todo esto implica a diferentes niveles cabos sueltosy potencialmente peligrosos a superar por los Estados, que se dopan a base de vigilancia de masas, militarización creciente, estrategias y fuerzas contra-insurreccionales, cárceles “inteligentes”…

El terrible auspicio del fundador del Foro de Davos de que la “cuarta revolución industrial terminará por “cambiarnos” nos ayuda a comprender donde se sitúan los nuevos terrenos de acumulación y depredación capitalista. Porque ya no trata solo de inducir al consumismo frenético, destruir los restos de una cierta autonomía o guiar el comportamiento mediante una incesante propaganda. Las nuevas tecnologías e industrias apuntarán cada vez más a “desacoplarnos de nuestros propios cuerpos y de nuestra comprensión de nosotros mismos como parte de una biosfera y un ritmo biológico, paraquetambién sean vistos como algo que comprar, actualizar y “arreglar” siempre como un conjunto de piezas mecanizadas intercambiables.” (La Cuarta y Quinta Revoluciones Industriales,de la publicación 325 nº 12, verano 2020). A groso modo, la creación de un ser dependiente de la cirugía, de medicamentos, de tecno-psiquiatría y dispositivos, permanentemente conectado a grandes bancos de datos, sumiso a influencias, sugestiones e imposiciones calculadas por algoritmos.

Diez años después de las bombas atómicas lanzadas sobre Hiroshima y Nagashaki, un erudito daba rienda suelta a sus peores temores respecto a la transformación en curso del ser humano: “Al crear la máquina pensante, el hombre ha dado el último paso hacia la sumisión a la mecanización, y su abdicación final ante el producto de su propio ingenio le dará un nuevo objeto de culto: un dios cibernético. Es verdad que la nueva religión exigirá a su fieles una fe todavía mas ciega que el Dios del hombre axial: la certeza que este demiurgo mecánico, cuyos cálculos no se podrán verificar humanamente, dará solo respuesta correctas…“. ¿Qué sería ese “dios cibernético” sino el advenimiento de la Inteligencia Artificial? La carrera definitivamente a empezado, el moloch digital se alimenta día tras día de datos que necesita para ganar potencia, las máquinas aprenden día tras día y aumentan su “capacidad de autonomía” (es decir, ejecución de tareas complejas sin intervención humana), la potencia de cálculo necesaria aumenta cada vez mas espectacularmente, los tentáculos de fibra óptica y ondas que conectan humanos, máquinas, plantas, terrenos y objetos se expanden rápidamente. Además, los científicos implicados en la creación de este demiurgo pueden basarse sólidamente, en ausencia de legitimidad, en mas de un siglo de racionalidad científica como única fuente de verdad (y, a fin de cuentas, de valor) barriendo todo lo que se le opone como si fuera oscurantismo, fundamentalismo o pesimismo paralizante.
La hora de la aparición de este “dios cibernético” puede estar más cerca de lo que pensamos,
o puede que ya esté aquí, tratando, paso a paso, de instalarse en el mundo en lugar de anunciar su llegada definitiva al son de trompetas. Lo que si es cierto es que la velocidad con la que convergen los diferentes sectores de la investigación, de producción y de gestión de población aumenta rápidamente. Las tecno-fantasías de ayer están a un paso de convertirse en realidades. ¿Quién habría pensado que el sistema productivo pudiera realmente permitirse pasar un gran número de empleos a teletrabajo en un abrir y cerrar de ojos y sin poner en peligro los procesos productivos?

* * *

Es difícil comprender todos los aspectos que determinarán esta nueva era. Incluso los visionarios modernos van a ciegas. Pero están emergiendo ciertos procesos de la cada vez más clara nebulosa que dará vida al nuevo mundo. La implantación de la red 5G es seguramente uno de estos, y es una batalla que hay que librar ahora. El 5G forma parte de los pilares de la transformación de la economía y ofrecerá al Estado una herramienta particularmente potente de control de la población. Esta puede ser la “primera” batalla relevante a la vigilia de la “cuarta revolución industrial”, una batalla que merece la pena combatir con toda la creatividad y la audacia que tenemos dentro.
Un primer paso, en suma, para entrar de lleno en la danza y encontrase en medio de la
hostilidad, cara a cara con un enemigo que no cesará de anestesiar las consciencias y el pensamiento a golpe de promesas terriblemente fabulosas.

[Avis de tempêtes, nº 35, Noviembre 2020, traducción recibida por mail]

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Cuando el sol y el viento…

Posted on 2022/06/06 - 2022/06/09 by avisbabel

«Cambiar todo para que no cambie nada»
Tancredi, Il gattopardo (1958)

¿Cómo hacer que la sociedad industrial sea eterna? He aquí la vieja pregunta que los líderes del mundo se ven obligados a plantearse ahora de una manera diferente. Obligados, en el sentido de que ciertos patrones de explotación corren el riesgo de salirse de control si las sociedades continúan siguiendo el mismo patrón. Cada verano, los bosques arden en proporciones cada vez más apocalípticas, y hasta el Círculo Polar Ártico. Las tierras se secan. Las aguas del mar suben. Los océanos se vacían de peces. La contaminación mata irremediablemente a la fauna y a la flora, y hace que el ser humano dependa aún más de la industria farmacéutica para hacer frente a todo ello. Cuanto más avanza la devastación, más se acepta la artificialización de lo todo lo vivo como única solución.

Y de hecho es la única solución. En cualquier caso para seguir por el mismo camino. Regular aún más los territorios, modificar genéticamente los organismos, construir presas, reorganizar los bosques, fertilizar el suelo con ayuda de productos industriales… son las únicas formas de dar un atisbo de vida a lo que ya está muerto. En nombre de la preservación del planeta, se está destruyendo lo que queda de él para construir un simulacro. Algo que se parece a nosotros, pero no lo es. Ser o parecer, esa es la cuestión, podría haber dicho el famoso poeta inglés. Nuestra época se dedica a las apariencias y a los fantasmas. Esta “desrealización” está en marcha y se hace palpable en todas partes, incluso en las relaciones humanas, hasta en lo más profundo del individuo, que se ve sometido a esta carrera hacia delante que lo mutila, lo adapta, lo convierte en artificial, en una copia empobrecida de lo que podría haber sido.

Hace unas décadas, Francia eligió con orgullo la opción totalmente nuclear. Instaladas por doquier, las centrales se prometen un futuro brillante como garantes de la famosa “independencia energética” del país. De hecho, se ha demostrado que es más “fácil” mantener el puño de hierro sobre un país como Níger, principal proveedor de uranio francés y también uno de los más pobres del mundo, que preservar las posiciones estratégicas en el tablero del petróleo en Oriente Medio. Hoy, el “ciclo francés” de la producción nuclear no ha terminado. Quedan por delante una serie de centrales cada vez más envejecidas – cuyo desmantelamiento no será más que un enorme experimento a cielo abierto sin garantías de éxito –, la irradiación de larga duración de ciertas zonas y, sobre todo, los consabidos residuos, para los que actualmente no hay más solución que enterrarlos y ver qué pasa con el tiempo. El proyecto de enterramiento de los residuos nucleares en Bure es, por tanto, una de las piedras angulares de todo el proyecto nuclear francés, y enseguida se entiende por qué la resistencia local choca con una represión que no piensa ahorrar golpes. Una lucha especialmente importante, como debería haber sido la de esta otra “perla” atómica francesa, lanzada en 2006: el proyecto ITER en Provenza, probablemente uno de los proyectos más ambiciosos en el campo de la energía, apoyado por 35 países, para investigar, con el año 2035 como nuevo horizonte práctico, la fusión nuclear (técnica experimental que pretende imitar al sol fusionando pequeños núcleos atómicos para liberar una energía gigantesca, lo que difiere de la fisión actualmente implantada en las centrales, que “rompe” grandes átomos para recuperar su energía).

Pero sin esperar a la realización de los proyectos a largo plazo de los nucleócratas, otros avances tecnológicos han permitido ya la exploración masiva de “nuevas” fuentes de energía, las más emblemáticas de las cuales son, sin duda, la energía eólica, la fotovoltaica y lo que se conoce con el engañoso nombre de “biomasa”, es decir, el buen proceso antiguo de quemar materiales orgánicos para producir calor (y posiblemente electricidad). En medio del encierro decidido para hacer frente a la pandemia del Covid 19, el Estado francés presentó su “planificación energética plurianual”, una especie de hoja de ruta para el desarrollo del sector energético. Anunciado como una demostración de los esfuerzos del Estado por avanzar hacia una “transición energética” (es decir, reducir las emisiones de CO2), este proyecto es sobre todo un indicador de lo que, en gran medida, debería hacerse en los próximos años. Para captar el alcance de esta “planificación” (a la que el Estado, en su mejor tradición burocrática, ha dotado de un bonito acrónimo que probablemente se repita con frecuencia en el discurso: EPP), es desgraciadamente inevitable echar un vistazo a las cifras de la evolución prevista entre 2018 y 2028. Cuando el proyecto se refiere a la energía, incluye tanto la producción de calor y electricidad como el uso de hidrocarburos (principalmente petróleo). A menudo se comparan los limones y las peras, pero vamos a pasar por alto eso.

En concreto, el PPE prevé un descenso del 15,4% en el consumo de energía para 2028. Para reducir este consumo, tiene previsto producir más que nunca: la industria tendrá que fabricar coches que consuman menos energía, construir edificios mejor aislados, instalar redes de calor, sustituir los camiones y autobuses diésel por vehículos de gas, etc. Toda esta producción industrial 2.0 y 3.0 implica, obviamente, un importante consumo de energía, y a nadie le apetece calcular cuánta energía se “ahorrará” realmente, al final, si se incluye la producción de estos nuevos productos que consuman menos energía. Pero si este problema no se discute nunca, sigue siendo fundamental y sólo impone una conclusión: si se considera el sistema industrial en su conjunto, no existe ninguna manera dulce de reducir el consumo energético. La única manera sería detener las máquinas, abandonar las necesidades inducidas, renunciar al modo de vida industrial, y ese “futuro” obviamente no se contempla, ni en los gabinetes de los ministerios, ni en la gran mayoría de los hogares.

Sigamos con los datos, porque tienen cierto interés y son un poco más “palpables” que la palabrería habitual sobre “descarbonización” y “transición”.

En 2018, con algunos territorios ya totalmente sacrificados, como el norte de Francia, el parque eólico produce 15 gigavatios. El objetivo para 2028, es decir, a menos de diez años, es duplicar esta producción hasta los 33 Gw. Para verlo en perspectiva, el parque nuclear francés produce actualmente unos 60 Gw. De los 8.000 aerogeneradores instalados hoy, se pasará a 14.500 en 2028, es decir, casi el doble, de los cuales una pequeña parte (5 Gw) se instalará en el mar, principalmente en la costa bretona.

Continuemos. En 2018, la producción fotovoltaica en Francia (tanto los “parques solares” como los paneles solares instalados en los tejados de las empresas y los domicilios particulares) alcanzó los 10 Gw; en 2028, deberá aumentar hasta los 44 Gw, es decir, se cuadruplicará. Por último, para seguir en el sector de las llamadas “energías renovables”, está el sector de la biomasa (bio no se refiere a la producción “orgánica”, sino a que consume materia orgánica). Dedicado principalmente a la producción de calor, este sector también produce electricidad. La mitad de lo que se quema son residuos domésticos, seguido de los combustibles sólidos (madera, maíz, colza) y, por último, el biogás (metanización de residuos por fermentación). En 2018, para 42 centrales eléctricas en funcionamiento, el sector de la biomasa produjo menos de 1 Gw y sólo aumentará ligeramente de aquí a 2028, siguiendo el ejemplo de la hidroelectricidad (22 Gw hoy, 26 Gw en 2023 gracias, en particular, a la optimización de las presas existentes en el Ródano).

Conclusión del “PPE”: el Estado apuesta por la energía eólica y la fotovoltaica para poder “cerrar” de cuatro a seis reactores nucleares de aquí a 2028. Sin embargo, el Estado es consciente de que “el consenso en torno a la energía eólica se está debilitando”. Tras la campaña de propaganda lanzada para promover el 5G, el PPE planea una gran campaña de “concienciación” para que los parques eólicos sean aceptados en todas partes. Sabiendo que tres de cada cuatro proyectos son objeto de diversas objeciones (lo que conlleva algunos retrasos, aunque el 90% de los procedimientos judiciales de impugnación de los parques no llegan a su fin — reservado a los maniáticos legalistas), es fácil prever que la futura instalación de más y más parques eólicos pueda provocar nuevas resistencias. En casi todas partes existen ya colectivos y comités, a menudo con una molesta tendencia ciudadana, que protestan contra estos proyectos, sean nuevos o ya existentes. Pero lo más interesante es que también se están llevando a cabo sabotajes en casi todas partes contra los postes de medición del viento (que son esenciales para la instalación de un futuro parque eólico), contra los propios parques eólicos y contra las obras en curso. Sin embargo, ante la avalancha de “críticas” contra los parques eólicos, que al mismo tiempo apoyan la energía nuclear, parece importante incorporar a esta resistencia un claro rechazo a estas estructuras… así como al mundo resultante. Oponerse a los parques eólicos sin criticar el industrialismo y el modo de vida que ha generado sólo puede conducir a la búsqueda de otras estructuras, tal vez menos horribles a simple vista, menos ruidosas o menos exterminadoras de aves y vegetación, pero que siempre tendrán el objetivo de garantizar un futuro para la sociedad tecno-industrial. Se trata de la misma trampa en la que cayeron un buen número de ecologistas decididamente antinucleares que planteaban la explotación del viento y del sol en lugar del átomo: hoy pueden recoger lo que han sembrado.

¿Es necesario seguir insistiendo en lo fundamental y “crítica” que es la producción de energía para el Estado y el capital? En todo el mundo, los Estados corren detrás de sus fuentes, librando guerras, colonizando territorios para asegurarlo. Sin embargo, la carrera por encontrar “alternativas” (o más bien complementos) para satisfacer una demanda de energía cada vez mayor: gas de esquisto, arenas bituminosas, aceite de colza y maíz modificados genéticamente, centrales marinas, parques eólicos, centrales solares fotovoltaicas, nanoestructuración de materiales conductores… la investigación es desenfrenada y la competencia feroz. Por otro lado, los Estados que pueden permitírselo también están desarrollando proyectos para aumentar la resiliencia de sus redes energéticas, advirtiendo de la vulnerabilidad de la economía y el gobierno del Estado, que dependen en gran medida de una red que, en última instancia, es demasiado frágil para los intereses que representa.

Sin ninguna pretensión, ¿qué podría hacer un individuo, un puñado de individuos, con­tra el monstruo industrial? Tal vez por si solo no sea muy deci­si­vo, y en cualquier caso no lo haga caer. Pero si puede aco­sarlo, retrasar sus proyec­tos, molestarlo hasta el hartazgo — todo eso si pue­den hacerlo. Con medios sencillos, mucha imaginación y un poco de coraje. Cuando el sol y el viento se po­nen al servicio de la dominación, son la oscuridad de la noche y la calma de los cielos estrellados las que nos llaman. Se trata, más que nunca, de permanecer libre y vivo en un mundo mortífero, de vivir resueltamente en un mundo en plena descomposición…

[Avis de tempêtes, n. 31-32, 15 agosto 2020, traducción recibida por mail]

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Silvaticus

Posted on 2022/05/30 - 2022/06/09 by avisbabel

Davanti ai rulli compressori della civiltà industriale e del progresso, uno degli ultimi mondi sensibili popolato da immaginari terrificanti e fantasie incantate sta scomparendo sotto i nostri occhi: quello delle foreste. Quelle che erano un feudo dei signori i quali vi allineavano gli impiccati, o un riparo per sottrarsi alle persecuzioni. Quelle che rappresentavo l’oscurità dove poter abbandonare la propria prole affamata o il folto rifugio da cui partire all’assalto dell’esistente. Quelle che ospitavano misteri popolati da driadi e licantropi o che vedevano passare i costruttori di navi da guerra e altri mastri forgiatori giunti a spogliarle in massa. Quelle che vedevano a Sherwood audaci banditi depredare i ricchi, in Ariège Demoiselles (*) col volto coperto di fuliggine bruciare e saccheggiare i castelli, in Courlande dei rivoluzionari continuare a sferrare feroci colpi contro la tirannia zarista, ma anche assistere sulle Alpi o in Polonia alla morte per assideramento dei migranti cacciati dalle guardie di frontiera europee.
Fondamentalmente, le foreste sono ambigue anche per la loro stessa etimologia, dal momento che foresta stava ad indicare anzitutto lo spazio esterno non utilizzato dagli abitanti del villaggio — la stessa parola selvaggio proviene da silvaticus, cioè silvestre — prima di designare vaste zone boschive riservate alla nobiltà e ai monasteri protetti dagli usi contadini. Per una singolare inversione di significato, la parola foresta, l’ignoto periglioso che la civiltà romana non poteva soggiogare, finì col qualificare in capo a qualche secolo il territorio per eccellenza del dominio religioso e feudale, prima di diventare infine un termine generico e piuttosto vago.

Perché, se con foreste ci si riferisce ad immense distese naturali di alberi lasciati più o meno a se stessi che formano un ecosistema autonomo allo stesso tempo ricco e complesso, quasi un’eco lontana dai racconti della nostra infanzia, come definire allora quei tristi allineamenti di conifere, tutte della stessa età e della medesima dimensione, su un terreno disseminato d’aghi dove il canto degli uccelli è ammutolito? E nell’incedere all’ombra di maestosi pioppi, come immaginare che questi alberi hanno avuto la sventura nel 2006 d’essere i primi il cui genoma è stato interamente sequenziato, per utilizzarne lo sviluppo nel mondo dei pioppeti per la cellulosa o per i biocombustibli, sotto forma di immense piantagioni di cloni? E poiché bisogna a tutti i costi rinfrancare l’economia alimentando il mercato delle compensazioni di carbonio (ossia i permessi di inquinare altrove), possiamo ancora chiamare foresta la recente piantagione industriale di 40.000 ettari di acacie a crescita rapida importati dall’Australia dalla Total… distruggendo la savana gabonese per impiantarvi per di più una fabbrica di legnami all’avanguardia ? Infine, se ci avviciniamo un po’ di più, ad esempio al radioso terreno boschivo del Commissariato per l’Energia Atomica (CEA) situato a Saint-Paul-lès-Durance, come non cadere sulla pepita dello sfruttamento statale delle foreste pubbliche? Giacché è proprio accanto al centro nucleare di Cadarache che si trova il Polo nazionale delle risorse genetiche e il Vivaio sperimentale dell’ONF, in cui l’ente statale clona il DNA degli alberi che considera più interessanti in termini di resistenza al riscaldamento climatico, al fine di ripiantare poi le loro copie un po’ dappertutto. E parallelamente a ciò, sono gli stessi apprendisti stregoni dell’ONF ad introdurre nelle vecchie foreste di abeti, querce e faggi (in particolare nel Grand-Est e in Bourgogne-Franche-Comté) nuove specie esotiche nei cosiddetti «isolotti d’avvenire», che vanno dal frassino della Manciuria al cipresso dell’Arizona, col pretesto che quelle foreste non riescano ad adattarsi da sole ai cambiamenti climatici. L’aria brucia, l’acqua manca e per di più lo scarabeo della corteccia prolifera nelle immense foreste monospecifiche di abeti rossi piantati in pianura dall’ONF da 50 anni? Semplice, modifichiamo sbrigativamente le foreste nella stessa folle corsa verso l’artificializzazione di tutti i viventi (umani compresi), anziché abbattere il sistema tecno-industriale responsabile di tutte queste devastazioni! Flessibilità e resilienza, non sono forse i mantra della neolingua del potere?

Certo, non è da oggi che la «natura» è stata elevata a soggetto separato dai civilizzati così fieri della loro cultura del dominio, una «natura» barbara da analizzare, classificare, misurare, sfruttare, razionalizzare e ordinare, fino a farla diventare — su immagine della foresta — sempre più mitica col progredire del suo addomesticamento e sradicamento dalle antiche relazioni quotidiane con essa. Fino alla creazione di riserve, parchi e altri «spazi naturali», ricreativi e attrezzati, al fine di conservare il suo ricordo nostalgico presso i cittadini che abbisognano di verde. Quindi sì, ci sono sempre meno foreste recalcitranti e rigogliose e più campi di alberi, il cui obiettivo finale rimane il loro forsennato sfruttamento industriale (quando non vengono semplicemente rase al suolo per progetti autostradali o l’incessante estensione di miniere di carbone, come in Germania). Il Vertice mondiale sul clima delle Nazioni Unite del 2014, dove molti paesi si sono impegnati a rimboschire nientemeno che 350 milioni di ettari entro il 2030, si è soprattutto tradotto nella pratica in piantagioni di alberi in serie da poter tagliare regolarmente per il legname o la carta, e ovviamente non per offrire più spazio a foreste in libera evoluzione. Quanto al famoso piano Francia rilancia dell’autunno 2020 seguito al grande confinamento, di cui 200 milioni di euro erano destinati ad «aiutare le foreste ad adattarsi al cambiamento climatico» piantando «50 milioni di alberi in due anni», non è altro che una sovvenzione statale agli industriali del legno per finanziare i loro giganteschi abbattimenti di specie forestali ritenute non produttive, al fine di sostituirle con buone vecchie monoculture di douglas.

Nel ciclo infernale delle catastrofi ecologiche che sono ormai passate alla fase in cui si retroalimentano l’una con l’altra in modo quasi irreversibile, cosa che nessuna bacchetta magica tecnolatra riuscirà ad arrestare, le foreste sono diventate oggi malgrado tutto il simbolo della corsa in avanti verso l’abisso. Ridotte a «riserve di biodiversità» da salvare per gli uni, a «magazzini di carbonio intrappolato» da far crescere o fruttare per gli altri, e a «risorse di metri cubi di legno» da estrarre per gli ultimi, le foreste incarnano la perdita di ogni rapporto con un ambiente di cui dovremmo essere intrinsecamente parte. Sarà per questo che quando un mapuche distrugge con accanimento e costanza i macchinari e i camion degli sfruttatori forestali sul territorio dominato dallo Stato cileno, questo ci parla? Sarà per questo che la devastazione di piantagioni industriali di conifere (cedri e douglas) a Corrèze ci diverte? Sarà anche per questo che gli incendi che negli ultimi tempi stanno colpendo le mietitrici e i portatori di cooperative forestali e dell’ONF, dalla Nièvre all’Ile-de-France, ci rallegrano? Poiché strappare al mondo della devastazione industriale un rapporto radicalmente altro tra gli individui e il loro ambiente, è sicuramente far vibrare insieme idee e azioni, ma anche dare spazio alle indiavolate foreste del nostro immaginario…
[Avis de tempêtes, n. 53 maggio 22, tradotto da Finimondo]]

 

(*) I Demoiselles erano contadini abbigliati con vesti femminili, lunghe camicie bianche, il volto ricoperto di fuliggine e maschere o pelli di animali, e che effettuavano azioni di guerriglia contro il nuovo codice forestale del 1827

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Betroffen allesamt

Posted on 2022/05/27 - 2022/05/29 by avisbabel

Eines frühen Morgens, es fällt ein feiner Nieselregen, setzt ein 40-Tonner sich in Bewegung. Dabei handelt es sich allerdings nicht um einen dieser tausend Lkws, der den Transport von Waren sicherstellt, seine Mission ist weniger bedeutungslos. Mit eingeschaltetem Licht bewegt sich der Laster in die Vororte der bayerischen Hauptstadt München. Im Schlepptau die düstere Silhouette eines Krans, der bereit zu sein scheint, seine mechanischen Krallen in irgendeine Beute zu schlagen. Es handelt sich um einen ganzen Konvoi: der Lkw wird nämlich von Polizeifahrzeugen begleitet, jedoch ohne Blaulicht. Am Ziel angekommen springen die Polizisten aus ihren Fahrzeugen, rammen eine Tür ein und dringen in die Räumlichkeiten ein. Die Operation zielt nicht darauf ab, irgendetwas zu entdecken, sie sind da um etwas zu holen. Jedoch greifen sie sich keine Verdächtigen, wie man zuerst denken könnte. Auch keine hermetischen Kanister, die ein Vorbote von gut versteckten Sprengstoffen oder Waffen sind, deren Abwesenheit sicherlich nicht der Beweis für eine kaum zu empfehlende Unschuld in dieser tödlichen Welt ist. Ja nicht einmal der kleinste Benzinkanister liegt irgendwo herum. Doch das hat auch alles seine Richtigkeit, denn das war eh nicht das, worauf es die Polizisten abgesehen haben. Sie kamen um eine ganz andere Waffe zu stehlen, eine, die den Geist schärft und das Denken festigt. In München, an diesem 26. April 2022, kamen die Bullen… um sich eine Druckerei einzuverleiben, die anarchistischen Schriften gewidmet war.

So berichteten später Gefährten von dort, dass die Polizisten die gesamte Druckerei raubten: „Vom Risograph (eine Druckmaschine) samt zugehörigen Trommeln bis zur Schneidemaschine, von der Sortier- bis zur Klebemaschine, ja sogar eine historische Letterpress und mehrere Bleisätze dafür wanderten allesamt in die Asservatenkammern der Bullen.“ Zehntausende Blatt unbedrucktes Papier, literweise Tinte und andere Verbrauchsmaterialien beim Drucken wurden außerdem mitgenommen, ebenso tausende Bücher, Broschüren und Zeitungen. Eine beachtliche Beute, die die Anwesenheit des Lkws und des Krans in diesem ekelhaften morgendlichen Konvoi erklärt.

Anderswo in der Stadt treten andere vom Staatsschutz (das K43, Kommissariat für „politisch motivierte Kriminalität“) koordinierte Mannschaften der Polizei die Türen von vier Wohnungen ein, durchsuchen mehrere Keller sowie die anarchistische Bibliothek Frevel. Der juristische Vorwand für diese ganze Operation ist nicht besonders originell: es handelt sich um den berüchtigten § 129, der Paragraph im deutschen Strafrecht, der auf die „Bildung einer kriminellen Vereinigung“ abzielt. Schon immer wurden die Anarchisten, per Definition Gesetzlose – zumindest in ihren Ideen (denn ihre Ränge wurden von der Krankheit des Legalismus und der lähmenden oder kalkulierten Angst vor jeder Überschreitung des Gesetzes nicht verschont) –, von den Staaten verfolgt, indem sie sich solcher Strafrechtsparagraphen bedienten. Bis heute sieht man die Staaten diese legalen Instrumente zücken, um anarchistische Zusammenrottungen zu unterdrücken, die organisationelle Informalität und affinitären Konstellationen anzugreifen, die aus den viel zu steifen Schemata einer ORGANISATION ausbrechen, die immer prekäre Lücke der öffentlichen Initiativen, Treffpunkte und Orte der Verbreitung anarchistischer Ideen einzuschränken, diejenigen, die anarchistische Schriften verfassen und verbreiten, zu entmutigen, wie etwa die anarchistische Wochenzeitung  Zündlumpen, die sich im Fadenkreuz der bayerischen Polizei befindet und die einen der Kleiderständer auszumachen scheint, an dem die Polizisten beabsichtigen andere Elemente ihrer Ermittlungen aufzuhängen.

Gegenteilig zu einer gewissen Rhetorik, die unglücklicherweise unter Gefährtinnen und Gefährten immer noch beliebt ist, die eher Ausdruck einer selbsttröstenden Therapie zu sein scheint, denken wir nicht, dass der Staat unsere Räume, unsere Publikationen und unsere Druckinfrastruktur angreift, weil er Angst vor dem hätte, was die Anarchisten zu sagen haben, oder dass er sich von der Verbreitung unserer Bücher und Zeitungen bedroht fühlen würde. Es ist für ihn nur etwas, das für ihn total einfach geworden ist. Die heutige anarchistische und antiautoritäre „Bewegung“ ist weder in der Lage tausende Personen auf die Straße zu mobilisieren, wenn eine ihrer Druckereien beschlagnahmt wurde (auch wenn es Momente in der Geschichte gab, in der sie das war),  noch ein Gewicht darzustellen, wenn ihre öffentlichen Initiativen von einer polizeilichen Übermacht erstickt werden. Das hat nicht nur mit einer – beachtlichen – quantitativen Verringerung der anarchistischen Reihen zu tun, sondern auch mit der tiefgreifenden Transformation der sozialen Beziehungen in den letzten Jahrzehnten. Die technologische Umstrukturierung der kapitalistischen Ausbeutung, die Einverleibung fast aller Lebensbereiche in die staatliche Verwaltung und die kapitalistische Sphäre, die Auslöschung jeglicher Gemeinschaftlichkeit, die nicht von der technologischen Hydra produziert wird (auch wenn es wahr ist, dass diese zahlreich sind), ganz zu schweigen vom fürchterlichen Angriff auf die Sprache, ihre furchtbare Verarmung und ihr Austausch mit transportierten Bildern auf allgegenwärtigen Bildschirmen, oder dem Abgrund der Oberflächlichkeit und der Verdummung, in den sich ein Großteil der Menschheit gerade stürzt (oder hineingestoßen wird, letzten Endes ist es egal): all das ist nicht ohne Konsequenzen für das anarchistische Handeln und die Verbreitung anarchistischer Ideen. Demselben ausgesetzt bleiben auch die Anarchisten nicht unbeschadet: auch sie sind von der Lawine der neuen Technologien betroffen, ja werden gar von ihr absorbiert, von der augenblicklichen vermittelten Kommunikation, von der Schwierigkeit, weiter als bis zum nächsten Tag zu denken, oder auch der Schwierigkeit, zwischen dem zu unterscheiden, von dem es wichtig wäre, es heute zu veröffentlichen und zu verbreiten, und dem, was nur ein tristes Zeugnis der existenziellen Leere ist, die sich ihrer ebenso wie ihrer Zeitgenossen bemächtigt.

Kurz, der Umstand, dass der Staat regelmäßig und mit einer immer sorgloseren Nonchalance die wenigen anarchistischen Räume, die noch sichtbar bleiben, angreift, ist kein Zeugnis unserer Stärke, sondern unserer Schwäche. Ehrlich, alles andere scheint nur leeres Gewäsch zu sein, das die notwendige Reflexion verhindert, ein rhetorisches Sich-Überbieten, um sich nicht mit der Frage zu konfrontieren, die mit jeder beschlagnahmten Zeitung, mit jeder Verfolgung von Anarchisten mit dem kläglichen Vorwand der unlauteren (wahlweise „kriminellen“; „terroristischen“, „subversiven“, „illegalen“, …) Organisation unumgänglich wird: wie weiter handeln in dieser Ära der technologischen Finsternis, wo das Bewusstsein erlischt und unsere geistigen Wälder gerodet werden? Mit welcher Methodologie, welchen Organisationsformen, welchen Initiativen, um [nicht] dieselben Fehler zu machen? Wenn man nur die stolze Versicherung teilen kann, dass wir uns bis zum Schluss weigern werden, unsere Ideen anzupassen, dass wir uns gegen die Verflachung zur Wehr setzen werden, auch wenn wir damit zu den letzten Mohikanern werden, die die Vorstellung einer vollständigen Freiheit verteidigen, glauben wir, dass wir die Konditionen, in denen wir handeln, verstehen müssen anstatt sie zu ignorieren.

Eine so grob totalitäre Operation wie die Beschlagnahme von Druckmaschinen (erinnern wir uns daran, dass zu Zeiten der systematischen Zensur, die auf anarchistische Publikationen angewandt wurde, der Staat sich zumeist darauf beschränkte, die als zu heftig oder den Rahmen der „freien Meinungsäußerung“ überschreitend, sodass sie zum „Aufruf zu Straftaten“ werden, eingestuften Passagen zu schwärzen, in den extremeren Fällen das Gedruckte – nicht aber die Druckwerkzeuge – zu beschlagnahmen) etwas ist, das alle Anarchisten betrifft, egal, welchen Aktivitäten sie sich verschreiben oder welche Wege sie zu beschreiten gewählt haben. Nicht weil sie den Beweis liefert, dass das anarchistische Wort immer eine Gefahr für die Stabilität des Staates darstellt, noch dass sie den alten Glauben wiederbelebt, der das Nahen der Revolution als Resultat des Aufwachens des eingeschlafenen Bewusstseins dank der unermüdlichen Aktivitäten der anarchistischen Propagandisten, die selbst nie schlafen, betrachtet. Nein, sie betrifft uns alle, weil sie ein Hinweis auf den Zustand der Welt ist, den Zustand der sozialen Beziehungen und der nahen Zukunft, in der wir gezwungen sein werden zu handeln – oder aufzugeben. Ohne in den Chor der legalistischen Empörung einstimmen zu wollen, kann man dennoch sagen, dass die Beschlagnahme von Druckereien, die Schließung öffentlicher Treffpunkte, die Auflösung relativ offener Gruppierungen uns in eine andere Dimension der Repression versetzen, die letztlich absolut „normal“ oder „logisch“ ist, die darauf abzielt, diejenigen außer Gefecht zu setzen, die herrschaftliche Strukturen und Personen physisch angreifen. Auch wenn diese beiden Dimensionen immer zusammengehören und nicht so getrennt sind, wie es einige gerne glauben würden, erinnert das Mitbringen eines 40-Tonners, um eine Papierschneidemaschine und eine Letterpress mit Bleisätzen zu beschlagnahmen, eher an geläufige Maßnahmen in anderen Regimen. In dieser Epoche der industriellen und technologischen Flucht nach vorn, die offen pluralistisch, aber zutiefst totalitär ist, könnte uns eine solche Praxis, die überflüssig geworden zu sein schien, erneut überraschen – besonders da die beste Art und Weise, um jede mögliche Gefahr zu neutralisieren, die von der Verbreitung anarchistischer Schriften ausgehen könnte, natürlich in der laufenden Virtualisierung besteht, in ihrer technologischen Derealisierung. Doch nichts verschwindet für immer und alles bleibt potentiell präsent.

Die Verallgemeinerung der Lohnarbeit hat die Sklaverei nicht vollständig abgeschafft, die Errichtung von Atomkraftwerken hat die Kohleminen nicht verschwinden lassen, die Rationalisierung der Produktion hat die handwerklichen Minen nicht in den Mülleimer der Geschichte verbannt. Dieser Fortschrittsmythos scheint heute die Kehrseite der Realität zu erleiden, die den Schleier der Derealisierung zerreißt. Viele Dinge, die der Mythos in eine Vergangenheit verbannt hatte, die nie mehr wiederkehren würde, sind heute dabei ihren Platz in einer Realität einzunehmen, aus der sie letztlich niemals vollständig verschwunden waren. Der Krieg bricht erneut auf dem europäischen Kontinent aus, Knappheit wird sogar in den Supermarktregalen sichtbar, die Bedrohung einer atomaren Vernichtung addiert sich zu den genozidalen Praktiken, die die Konflikte begleiten, der Klimawandel lässt das Schreckgespenst der Hungersnot und der Ausrottung  über immer mehr Bewohner dieses leidenden Planeten schweben: In einem solchen Szenario sollte uns die Beschlagnahme einer anarchistischen Druckerei nicht überraschen. Die Epoche, in der es notwendig war, Druckereien zu verstecken, unauffällige Papierlager anzulegen, eine unterirdische und feine Verteilung der Neuigkeiten des Kampfes und der Vertiefungen des Denkens zu organisieren, ist sicherlich nicht von der Weltbühne verschwunden. Die Konditionen für solche Szenarien, auch im Schatten westlicher toleranter Demokratien, vereinigen sich immer mehr und werden sich verschärfen, je mehr die sozialen Spannungen steigen und die Ungleichgewichte sich ausbreiten.

Das ist der Grund, aus dem die Beschlagnahme einer anarchistischen Druckerei in München eine Angelegenheit ist, die uns allesamt betrifft.


 Avis de Tempêtes #53 vom 15. Mai 2022. Übersetzt aus dem Französischen von Zündlappen.

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