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Ad alta voce

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
Alternativa. Detto semplicemente: di fronte ad un virus o a qualsiasi disastro, non esiste gestione di massa che possa essere anti-autoritaria. Quali che siano le buone intenzioni di chiunque intenda occuparsi di tutti e di ciascuno, resterà un pastore che trasforma gli altri volenti o nolenti in greggi. In un rapporto anarchico in cui prevalgano la libertà, la reciprocità e l’unicità, l’auto-organizzazione generalizzata degli individui non sopporta nessuna uniformità, nessuna gestione, nessuna separazione delegata a specialisti, nessuna soluzione (ancor meno tecnica o medica) valida per tutti, e diciamolo un po’ crudelmente: nessuna efficacia quantitativa. Ciò che conta non è la certezza o la sicurezza, non è la data di una morte inevitabile da quando siamo nati, ma la qualità individuale, piena ed intera, della vita così come ognuno intende esplorarla. Di fronte al Covid-19 come ad ogni cosa, la prospettiva anarchica è quella di auto-organizzarsi in completa autonomia dalle istituzioni per prendersi cura gli uni degli altri a livello individuale e di coordinamento, e di continuare a minare le fondamenta del dominio.
Reclamare di fatto un confinamento (e domani un deconfinamento) diverso — quando non addirittura lo stesso dello Stato —, reclamare uno sfruttamento e un’istruzione po’ più o un po’ meno a distanza, ovvero sbirri più disarmati e prigioni più vuote, non significa battersi per la libertà. Significa promuovere un’autorità alternativa, una mera riconfigurazione dello stesso anziché la sua spietata distruzione. Non è altro che un miserabile realismo senza mezzi che non spinge fino in fondo il suo spaventoso ragionamento. In alto i cuori! Elencate in maniera un po’ dettagliata le aziende non essenziali che lo Stato dovrebbe ancora chiudere, secondo voi. Per parte nostra, è l’intera economia che vogliamo rovinare. Continuate a stabilire chi deve uscire immediatamente dal carcere, e di conseguenza chi deve rimanerci. Per parte nostra, lo vogliamo raso al suolo con tutti fuori. Spiegateci infine quali misure di polizia militante sarebbero previste contro tutti i refrattari a un confinamento alternativo o ad un tracciamento bio (nessuna gestione di massa senza monitoraggio, giusto?, altrimenti è l’anarchia).
Quando non ci si limita a parlare, essere favorevoli a misure di confinamento di massa, a queste o ad altre più indolori, cioè a misure di reclusione collettiva, non può che significare disciplina, controllo e amministrazione degli individui, oppressione delle loro varie possibilità di auto-organizzazione autonoma, e repressione dei refrattari. Il tutto nel nome dell’emergenza e del bene comune, ovviamente.

Altrove. Pandemia globale e accettazione sociale. Nessun Gran Confinamento nei Paesi Bassi, in Svezia e in Germania. Autodisciplina? Scienziati lunatici? Chiari interessi economici di fronte alla Cina o agli Stati Uniti che non si sono affatto fermati? Tanto meno un Gran Confinamento prolungato in altri continenti, dove la sopravvivenza nell’economia informale non è sufficientemente garantita dalle briciole statali. Là c’è il coprifuoco di notte o dal pomeriggio ma si lascia sopravvivere di giorno, là si cerca di confinare alternando, una settimana su due, uomini o donne, prima una zona poi un’altra… Là come dappertutto lo Stato improvvisa senza dirlo, militarizza per mantenere il potere, scientifizza come gli viene, propaganda per indorare la pillola. Spettri di moti per fame. Spettri di guerre civili. Gestione autoritaria pragmatica che si adatta in base alla resistenza che pensa di trovarsi davanti. Là come qui, d’altronde.


Attaccare. In un periodo come questo, in cui lo Stato e il capitalismo si ristrutturano piuttosto rapidamente, ma non sono pertanto garantiti della stessa stabilità per affrontare le nuove turbolenze sociali che potrebbero sorgere, non restare confinati e attaccare è più che mai importante. Oltre ai loro dispositivi di controllo e sorveglianza, gli snodi di circolazione di energia e di dati rimangono un obiettivo fondamentale in un momento in cui la pandemia tecnologica è parte integrante di tale ristrutturazione.

Detenzione. Tutte e tutti reclusi nella grande prigione sociale. Il tipo, la dimensione e il colore delle gabbie possono variare ed accavallarsi come tante bamboline russe. Ospedali psichiatrici, campi di lavoro, centri per stranieri, caserme di addomesticamento, campi profughi, templi della sottomissione, laboratori del consenso, celle familiari o galere. È da queste ultime, dove le condizioni sono più drammatiche, che continuano a partire segnali di fumo in tutto il mondo. Contro il confinamento dapprima per la fine dei colloqui, poi per il timore di venire contaminati e quindi di morire tra quattro mura sovraffollate, infine per esigere la libertà, come campeggiava su uno striscione degli ammutinati della prigione di San Juan de Pasto (Colombia). E noi, qui fuori, che pensiamo che la libertà consista nell’auto-recluderci e nell’obbedire agli ordini del potere, noi che non abbiamo né sbarre che offuscano l’orizzonte, né filo spinato che lacera la nostra carne, né garitte di sentinelle che ci sparano a vista, non abbiamo proprio nessuna struttura da devastare, nessuna gabbia da incendiare?


Domani. Il deconfinamento sarà sicuramente solo un altro momento del confinamento e durerà per molti lunghi mesi. Sarà forse un po’ meno duro per i cittadini più lavoratori e più esemplari, ma certamente più duro per tutti gli altri, tracciando nuove linee di demarcazione tra i due. Permessi di circolazione interna differenziati, esami obbligatori del sangue o della temperatura, tracciamento digitale incrociato, quarantene obbligatorie, controlli di identità abbinati a una schedatura sanitaria, limitazione degli assembramenti, mascherine nei trasporti, lavoro forzato per rilanciare l’economia, incremento della caccia ai potenziali ri-contaminatori. E frontiere sempre sbarrate al di là dei soli indesiderabili, come con la Spagna che intende farlo per tutta l’estate allo scopo di prevenire una seconda ondata di epidemia in autunno.

Gregge. In fin dei conti, alcuni ritengono che la maggioranza degli individui saranno colpiti da questo nuovo virus. I giochi di confinamento e di deconfinamento non servono quindi ad evitare una contaminazione generale (ci vorrebbe una gestione alla cinese per questo, come minimo) ma sono piuttosto misure di massa destinate a rallentarne la progressione, stabilizzando i picchi ospedalieri pur mantenendo l’economia a galla. Più ci sono persone che restano a casa, meglio lo Stato può gestire la disorganizzazione temporanea nell’industria e i servizi che ritiene importanti grazie ai suoi indispensabili scagnozzi armati. Il confinamento/deconfinamento è anzitutto una questione di continuità e di mantenimento dell’ordine, non di protezione di una popolazione da cui si prepara a difendersi in caso di crisi sociale derivante da una crisi sanitaria. Quanto al virus, gestisce il gregge sperando che una parte sufficiente della popolazione (60%) finisca, certo il più lentamente possibile, per essere definitivamente immunizzata in modo che cessi di diffondersi non trovando più ospiti (il che è una ipotesi molto relativa, dato che la durata di vita degli anticorpi contro il Covid-19 pare sia breve, portando piuttosto a prevedere una serie di ondate infettive). E qualora ciò non accada, lo Stato intende gestire il suo gregge con lo stesso genere di misure drastiche fino all’arrivo promesso per il 2021 di un futuro eventuale vaccino (il che, tra l’altro, significa inoculare artificialmente parte del virus, senza alcuna garanzia che gli anticorpi perdurino abbastanza a lungo o che l’originale non muti).
Dal primo confinamento iniziale per la paura e la servitù volontaria fino ai deconfinamenti mediante algoritmi in camice bianco, con svariate spole di andata-e-ritorno, siamo molto lontani dall’uscire dal rifugio. Per sfuggire alla statistica dei grandi numeri, forse bisognerebbe cominciare a ribaltare il tavolo senza attendere nulla dal potere, e non comportarsi più come un gregge che si considera vivo solo perché non è morto.

Guanti. Per proteggersi dalla porta che si spacca. Dalla rete metallica che si trancia. Dalla merce che cambia rapidamente di mano. Dalla vetrina che si sfonda. Dall’obiettivo che si incendia. Guanti e mascherine per proteggersi dalle impronte digitali e dal DNA, per mantenere una distanza vitale dai laboratori scientifici del virus poliziesco.

Pompieri. Qua una parte della testa del corteo parigino distribuisce mascherine protettive ai vigili, in Cile una parte della Primera Linea pulisce la metropolitana. Supermercati da espropriare? Metropolitane da incendiare? Dopo, sì dopo, i domani canteranno. Forse. O per niente. Quando il governo concederà più permessi di uscita. Nell’attesa si autogestisce il confinamento. Si umanizzano le carenze dello Stato. Auto-organizzarsi per attaccare gli sbirri, saccheggiare i magazzini alimentari o sabotare le arterie tecnologiche della prigione sociale sarebbe troppo rischioso. La rivolta potrebbe essere più contagiosa del virus, chi lo sa? Pianificatori del male minore. Contro-potere tutto contro il potere.

Primavera. Il meteorologo che ti insulta tutti i giorni prevedendo un tempo radioso prima di intimarti a restare in casa. Le nuvole al cesio della foresta di Chernobyl, in fiamme da una settimana, sarebbero forse più convincenti. Ma, come è noto, si fermano alle frontiere.

Responsabilità. Non si può essere responsabili del passato che esisteva prima di noi, né di tutti gli esseri umani che popolano la terra, il continente, il paese, la regione, la città, il villaggio, il quartiere, il vicinato. Per contro, nonostante l’oceano di dominio in cui ci bagniamo — un oceano imposto dalla servitù di molti e la repressione degli altri — si può essere responsabili delle proprie azioni per combatterlo. Laddove ogni vita è sacrificata sull’altare del profitto e dell’autorità, la sola responsabilità individuale possibile in rapporto a ciò che ci circonda è la coerenza tra l’idea anarchica che ci muove e i nostri atti che la rendono viva. Nessun piccolo gesto salverà il pianeta, nessun auto-confinamento impedirà la propagazione del virus. Identificare il nemico nel progresso industriale, la tecnoscienza o lo Stato colpendo le loro strutture senza riprodurre i loro meccanismi di dominio, sarebbe viceversa già più salutare. Sempre che si intenda salvare qualcosa, ovviamente.


Ritorno alla normalità. Non ci sarà questo genere di ritorno all’indietro. Perché noi non lo vogliamo (la normalità che c’era prima era già il problema). Perché neanche loro lo vogliono (ah, era ancora pieno di rigidità troppo umane e di piccoli formalismi, questo prima). Perché la normalità è il gigantesco laboratorio del presente, con i suoi droni e la sua sopravvivenza digitale, con i suoi militari e il suo forsennato produttivismo. Perché come è stato detto che il XX secolo in realtà è iniziato nel 1914 con la Prima grande macelleria industriale mondiale, il XXI secolo ha appena realizzato una svolta definitiva nell’attuale anno 2020, con conseguenze ancora incerte per tutti. Sta a noi fare in modo che tutti i loro calcoli e previsioni del nuovo ordine tecnologico deraglino per sempre.

Stato. Ad eccezione di noti imbecilli i quali ritengono che incoraggiare a spezzare il confinamento equivalga a negare la contagiosità del Covid-19 o ad assumere un gesto infantile di sfida, è ovvio che nessuna azione o auto-organizzazione (in diversi ambiti) possa realizzarsi virtualmente. Per di più, il confinamento di massa è strutturalmente una misura resa possibile da una gigantesca concentrazione autoritaria di forza e mezzi che rimanda direttamente allo Stato. Di fronte a una minaccia così generalizzata contro cui si atteggia a sovrano protettore dei piccoli come dei grandi, si può persino immaginare che risulterà quello che ha fatto, malgrado gli errori, il minimo necessario, o ancor peggio, l’inevitabile, preservando e organizzando la sopravvivenza della maggior parte delle persone pur sospendendo alcuni diritti di base. Quest’ultimo terreno non è certo quello dei nemici dell’autorità, da tempo avvezzi a questi giochi d’equilibrio sospesi tra emergenze decretate dall’alto e intensità della guerra sociale. Se si desidera ardentemente distruggere lo Stato, attaccare la sua onnipotenza confinante che esacerba e rafforza i rapporti di servitù come di cittadinismo, una prospettiva anarchica non può che lottare per una libertà smisurata.

Vivere. Tutto c’era già e tutto accelera. Il che significa respirare in un mondo costruito su fiumi di sangue, di sofferenza, di miseria, di guerre e di avvelenamento generalizzato del vivente. Morte lenta o morte rapida. Vita sospesa e insulsa sopravvivenza dappertutto. «Non potete ucciderci, perché siamo già morti». Rivolta cabila, davanti ai militari, 2001, all’inizio del millennio. «Ci hanno tolto così tanto che ci hanno rubato persino la paura». Sollevamento cileno, davanti ai militari, 2019, venti anni dopo. Era prima. Quando eravamo di fronte a qualcosa di visibile, di palpabile e di attaccabile. Non una dose radioattiva o un microrganismo. Eppure, i rapporti sociali sarebbero magicamente scomparsi con questo Covid-19 che non è una catastrofe naturale? Si muore globalmente di questo nuovo virus oppure del mondo che lo genera consentendo la sua rapida proliferazione in tutto il pianeta: massiccia deforestazione, metropolizzazione e concentrazione urbana, cibo industriale standardizzato, ingestione ad alte dosi di chimica farmaceutica, avvelenamento senza precedenti della terra, dell’acqua e dell’aria, ipermobilità, ecc.? Uscire per fermare tutto piuttosto che contemplare il disastro dietro uno schermo è allora proprio il minimo se si desidera un mondo totalmente diverso. Meglio vivere in libertà che morire confinati. La rivolta è la vita.


[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n.28, 15 aprile 2020]
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Incatenati alla corona

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel

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Entrare nel vivo

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
La realtà che ci circonda è vasta. La detestiamo, perché traspira oppressione e sfruttamento. L’aborriamo, perché malgrado tutte le teorie e tutte le spiegazioni, malgrado l’odio che auspichiamo feroce tra le classi, malgrado le mille spiegazioni fornite per giustificare non solo l’acquiescenza ma perfino l’adesione al potere di grandi masse di oppressi, siamo costretti a constatare — mandando all’aria le mille mistificazioni vittimiste — che questa realtà è in gran parte il risultato della servitù volontaria. A partire da questo, abbiamo davanti due strade. O rinunciamo a qualsiasi interazione con questa realtà, cercando di forgiarci una vita — l’unica che abbiamo — che valga ancora la pena d’essere vissuta… sarebbe comprensibile. Oppure cerchiamo di interagire con questa realtà, affrontandola con le nostre idee e i nostri desideri sovversivi, col rischio di venire fagocitati da essa e di finire per unirci alla grande marcia funebre dell’umanità.
In effetti, queste due strade non sono poi così distanti come si potrebbe pensare. Fuggendo, ci scontriamo comunque con la realtà; viceversa, anche intervenendovi, le consegniamo la nostra parte di un altro mondo, quello che creiamo in modo impreciso dentro di noi. Solo la morte può porre fine a tutte le interazioni — per quanto, a ben guardare e senza cadere nel culto della carogna, anche la morte può avere un significato nella realtà. Lasciando da parte una prospettiva che vorrebbe «uscire» dal mondo, trovare o costruire un «al di fuori», quali sono le condizioni per un’interazione, per un intervento rivoluzionario nella realtà? Dato che questo aggettivo ha perso molto del suo significato negli ultimi decenni, precisiamo fin d’ora che per «rivoluzionario» intendiamo la tensione trasformatrice, lo sconvolgimento dei rapporti sociali esistenti — cosa ben diversa dall’associarlo in modo semplicistico all’avvento di una «Grande Sera» in cui folle ebbre di rivolta uscissero in strada per cambiare tutto da un giorno all’altro. Di fronte alla realtà che aborriamo, come possiamo dunque decidere di intervenirvi, consci di non essere stelle cadenti sbucate dal nulla, ma che le nostre idee, le nostre aspirazioni, per quanto differenti siano, sono pure influenzate da questa stessa realtà — in sostanza, che non siamo esseri caduti dal cielo, ma individui in carne e ossa cresciuti in questo mondo?
È sicuramente difficile cogliere tutti gli aspetti di quello che chiameremo «intervento rivoluzionario». Invece di chiederci che cosa ne faccia parte, non potremmo cominciare con quanto non ne fa parte? È una prima distinzione necessaria che caratterizza l’anarchismo, o perlomeno certi approcci all’anarchismo. L’anarchico non vive due vite — anche se le condizioni di clandestinità, d’illegalità, di segretezza, inseparabili da qualsiasi lotta, possono talvolta portare ad uno stato di schizofrenia alquanto affliggente. Non si è lavoratori al mattino quando ci si reca al lavoro e anarchici la sera quando si va ad incontrarsi coi compagni al locale vicino. L’anarchico non è un «militante», nel senso che non può, a meno di trasformare il proprio anarchismo in un mero programma politico tra gli altri, dividere la sua vita, il suo tempo, tra attività dedicate alla «militanza» e attività dedicate alla sua «vita». In lui alberga una tensione permanente, che talvolta può perfino diventare una vera lacerazione — che può condurlo, non di rado, a rinunciare a tutto e a ridiventare «una pecora in mezzo al gregge». Poiché non crede nelle forze sotterranee che spingerebbero ineluttabilmente il mondo verso la libertà, né nei meccanismi economici che porterebbero all’emancipazione (cosa che rendeva compatibile, per un Friedrich Engels, essere al tempo stesso padrone di un cotonificio per vent’anni e, diciamo, lottare per la causa del proletariato), ha un rapporto innanzitutto etico con ogni aspetto della sua vita. Le sue scelte, i suoi atti, le sue rinunce, lo definiscono anarchico, forse più delle idee di cui discute con i compagni o delle minacce apocalittiche che magari rivolge al dominio seduto in un bar. Non «milita», «è» un anarchico, anarchico inteso non come acquisizione di certe idee e pratiche, ma, per l’appunto, in relazione alla tensione tra ciò che pensa, ciò che vuole, ciò che vive e ciò che fa. Prima ancora di affrontare «l’intervento rivoluzionario», vediamo già una moltitudine di problemi aprirsi davanti a noi.
Non si può pensare all’intervento rivoluzionario esclusivamente come ad una battaglia d’idee. Se l’approfondimento delle idee è importante, non è né immaginabile né possibile trasformare la realtà sulla base di un dibattito pubblico o di una contraddizione logica. I libri, i testi, fanno certo parte dell’attività di un rivoluzionario, ma un libro non è un’arma. Un libro può corrodere pregiudizi e ideologie (che contribuiscono, senza dubbio, a questa spaventosa «servitù volontaria» che conduce le masse, mentre cantano, verso il macello), ma non può abbattere un padrone o demolire una prigione . Per abbattere un padrone occorre un’arma; per demolire una prigione occorrono strumenti di distruzione. Ma prendere un’arma in mano non ci rende ancora capaci di abbattere un padrone: per far ciò, dovremmo essere convinti che è giusto, che è adeguato, che ha un senso abbattere il padrone. Come vediamo, non si possono sbrogliare tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario senza parlare di nuovo al vento.
Le nostre idee allora sono solo fortezze astratte? Analizziamo questa società e comprendiamo come il padrone, tutti i padroni, debbano essere soppressi se vogliamo andare verso una società «senza Dio né padroni». Ma nella realtà non s’incontrano «tutti i padroni», è un’astrazione che rende l’idea concepibile per la ragione, ma non immediatamente operativa nella realtà. Quello che noi possiamo trovare è quel padrone, un padrone, diversi padroni riuniti magari attorno a un tavolo in una birreria parigina. Per cui non c’è da stupirsi quando, traboccanti d’idee sanguinarie di vendetta contro «tutti i padroni», si rischia di ritrovarsi piuttosto disarmati di fronte ad un padrone concreto, pur avendo il coltello tra i denti. Ecco perché tra le idee anarchiche e la realtà del dominio bisognerebbe immaginare e costruire un ponte, un’incursione. Questa è forse la definizione più ampia da poter dare nel parlare di «progetto» e di «progettualità».
Mettendo assieme tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario, è possibile superare una fase ancora più difficile: immaginarli insieme per costruire un progetto che ci consenta di intervenire nella realtà. Ma attenzione, compagne e compagni che state leggendo, non è una chiacchiera o una masturbazione mentale. Questo tipo di progetto, così inteso, è qualcosa di ben altro che fare questo o quello, pubblicare un giornale o scrivere un libro, fare una rapina o incendiare una industria, organizzare una riunione o far crescere un orto. Cerca di includere, se non tutti, almeno quanti più aspetti è possibile dell’intervento rivoluzionario, per orientarli verso qualcosa da trasformare nella realtà. Ovviamente si può argomentare che fare un bollettino anarchico come questo abbia senso di per sé, che è comunque interessante contribuire all’approfondimento delle idee e alla fermentazione della discussione. Ovviamente si può dire che un attacco contro una struttura del dominio è sempre benvenuto ed è significativo, al di là di qualsiasi prospettiva più ampia in cui sia inserito (o meno). È vero, però c’è un ma… Se si fanno le cose per nostra stretta soddisfazione personale, perché no, la riflessione può anche fermarsi là, senza il bisogno di sovraccaricarsi con altre domande. Ma osiamo dire che un simile approccio corre il forte rischio di mordersi la coda, di svuotarsi dall’interno, perché la soddisfazione personale ne richiede sempre un’altra, più lontana, e così via fino a quando ci si rende conto o che non c’è più nulla da soddisfare (si è «vuoti»), o che non si è più capaci di soddisfare se stessi (e sopraggiungono la depressione e l’amarezza). Se, viceversa, vogliamo caricare ciò che facciamo di un significato che vada oltre il nostro desiderio individuale, di un significato che possa parlare anche agli altri (e perché no, al mondo intero), si è portati a pensare le cose in modo diverso, occorre pensarle altrimenti.
Per riprendere l’esempio di questo bollettino, se fosse solo per la soddisfazione di scrivere qualche (bella, a seconda dei gusti) parola sull’anarchia, vi posso dire in tutta franchezza che smetterei subito. Il mondo è già pieno di belle parole sull’anarchia, che sono là, alla portata di chiunque voglia afferrarle. No, pubblicare questo bollettino ha senso per me perché partecipa, talvolta in modo adeguato e talvolta probabilmente meno, a una progettualità più ampia, che va ben oltre questi fogli mensili messi a disposizione.
Ed ecco il ma. Io non posso, non voglio, sovraccaricare le cose fatte di un senso maggiore di quello che hanno. D’altra parte posso, e voglio, dare alle cose da fare un significato più ampio quando sono collegate, quando si parlano, quando sono pensate in un insieme all’interno di un progetto, ovviamente provvisorio e certo non come un programma da realizzare. Ogni cosa, presa singolarmente, assumerà allora un altro colore, un altro gusto, qualora venga pensata così. La diffusione di volantini, ad esempio, che può diventare presto una routine deludente, può trasformarsi in altro se è pensata in relazione a un progetto. L’incendio di un’antenna, cosa magari un po’ più complicata di una semplice passeggiata notturna, echeggia in modo diverso quando un simile attacco s’inserisce in un più ampio progetto che parta da un’analisi della società contemporanea, o dal ruolo della comunicazione digitale nella riproduzione dei rapporti sociali e nell’economia capitalista. La pratica di questo genere di sabotaggi contro obiettivi sparsi un po’ dovunque, facilmente identificabili, aventi una funzione importante nel buon funzionamento della società, potrebbe quindi potenzialmente diffondersi come proposta concreta per opporsi alla duplicazione digitale del mondo e all’inaudita schiavitù di cui è portatrice. Allo stesso modo, organizzarsi in base alle affinità assume ancor più significato se si inserisce in un progetto che tenda verso, o preveda, la possibilità di un coordinamento, di un’organizzazione informale tra diversi gruppi d’affinità, ovvero con altri individui uniti in forme organizzate miranti ad attaccare le strutture del dominio.
Molti di noi, ciascuna e ciascuno a modo proprio, ne hanno abbastanza di frequentare assemblee tenute da piccoli politicanti, di vedere le nostre aspirazioni frenate da un ambiente tendente alla mediocrità e al realismo, di partecipare a lotte e a cortei dove siamo chiamati a ricoprire il ruolo di «radicali di servizio» approntato per noi dai fautori della strategia dei «rapporti di forza», di ritrovarci al rimorchio di autoritari e gestori dei conflitti. Se tu che stai leggendo non avverti questo e continui a vedere un senso nel possibilismo radicale, buona fortuna, queste righe ti saranno di ben poca utilità. Perché ciò che stiamo proponendo è di farla finita con tutto questo, pur consapevoli che ciò che viene buttato fuori dalla porta potrebbe rientrare insidiosamente dalla finestra. Perché abbiamo bisogno di questa rottura. Negli ultimi anni del resto sta emergendo un po’ dovunque in questo maledetto Esagono, ovviamente nei modi di volta in volta più disparati. Stanchi di correre dietro all’ennesimo movimento sociale e di ritrovarsi in balìa di neo-blanquisti di ogni genere, parecchi anarchici, anti-autoritari, nichilisti, singoli individui agiscono, attaccano e cercano di intervenire da diversi anni nella realtà in mille modi differenti in tutto il territorio, coi propri tempi e in piena autonomia. Sta così dipanandosi una profusione di azioni dirette, per di più in un contesto sociale (poco importa che sia più o meno apprezzato) agitato da cui scaturiscono anche riflessioni e pratiche nuove, a volte può darsi confuse, ma almeno non irreggimentate negli stretti recinti della «mobilitazione sociale» e delle sue corti di militanti.
È per questo che intendiamo qui esortare, suggerire, una riflessione su quella che definiamo «progettualità». E precisiamo subito che non si tratta di una proposta per una progettualità, ma magari per delle progettualità, perché la ricchezza di approcci che si scorgono oggi nell’agire delle compagne e dei compagni non deve in nessun caso essere legata al letto di Procuste perché si adatti a un qualsivoglia «progetto unico». Il confronto, lo scambio, la comprensione reciproca delle diverse progettualità è possibile solo qualora queste vengano enunciate, delineate — con la parola scritta o sussurrate all’orecchio, in maniera dettagliata o almeno abbozzate. Lungi da ogni logora «professione di fede», perché non creare delle connessioni tra l’idea e l’intervento nella realtà, contro la realtà? In questo, la discussione potrebbe diventare, ed è forse il momento, eminentemente operativa, vale a dire concernente prospettive concrete a breve e medio termine, con un elenco delle cose che si potrebbero fare, fino alle ipotesi di ciò che si ritiene di poter condurre in modo conflittuale in questa realtà, di come quest’ultima potrebbe svilupparsi, modificarsi, trasformarsi alla luce del nostro intervento. Una vana chiacchiera? Non credo. Difficile? Probabile.
Da «parte nostra», ovvero da questi fogli che escono ormai da due anni, potremmo enunciare un progetto maturato in maniera informale in quest’ultimo periodo (vale a dire, senza un centro e tramite contributi diretti e indiretti), attraverso numerosi scritti, scambi ed esperimenti. Partendo da un approccio insurrezionale dell’anarchismo che ci è caro, da un anarchismo cioè basato sull’auto-organizzazione, l’autonomia, l’informalità e l’attacco, ci sembra che un tale progetto dovrebbe nel contempo continuare ad analizzare l’evoluzione dello Stato, la ristrutturazione tecnologica dell’economia e della società, e l’intreccio di questa ristrutturazione con le guerre, l’abbrutimento, la perdita del linguaggio e l’assalto all’interiorità degli esseri umani. Tali analisi portano a considerare «la guerra sociale» non in base a criteri classici (scontro tra sfruttati e sfruttatori, più o meno mediati dalle diverse strutture di gestione come il partito o il sindacato), ma piuttosto come un insieme, contraddittorio e complesso, tra lotte specifiche che si articolano contro una precisa struttura o nocività del potere, esplosioni di rabbia — espressione di una diffusa ma molto effimera insofferenza —, mobilitazioni di massa che sfuggono alla mediazione politica classica (come i gilet gialli), o anche interventi più specificamente «anarchici» che tendono alla disorganizzazione, alla destabilizzazione della ristrutturazione tecnologica della società.
Mettendo da parte i primi tre ambiti — per il momento, anche perché altri sono probabilmente nella posizione migliore per farlo, in particolare per quanto riguarda le lotte specifiche in corso — possiamo abbozzare una possibile progettualità su questo quarto aspetto. Essa consiste grosso modo nel proporre come campo d’intervento le infrastrutture, spesso facilmente identificabili, che oggi permettono in gran parte il funzionamento della società connessa: i trasporti, l’energia, la comunicazione. Se solo l’insurrezione può aprire orizzonti veramente altri, rivoluzionari, si può comunque già agire senza attendere che rallenti la corsa del treno del dominio che avanza a tutta velocità verso l’abisso, o anche tentare di farlo deragliare. L’eventualità che una proliferazione di attacchi contro queste infrastrutture possa portare ad una significativa destabilizzazione, ovvero ad una rivolta di massa, non può certo essere garantita (comunque sia, eterna diffidenza verso tutti coloro che ci invitano ad agire sbandierando garanzie), pur non essendo esclusa. Lo si è potuto vedere di recente in Cile, dove il sabotaggio dei trasporti pubblici nella capitale all’interno di una contestazione, ci sia permesso di dirlo, piuttosto banale, contro l’aumento del prezzo dei biglietti, ha, se non scatenato, almeno fatto da scintilla o favorito una rivolta di grande ampiezza. È un’ipotesi, né più né meno, ma che pone in ogni caso questioni operative immediate in ciò che c’è da pensare, preparare e fare.
Inoltre, al di là dei quattro gatti anarchici sparsi qui e là, si può constatare che anche diversi conflitti locali sono incentrati sulle infrastrutture. Qui a venir contestata è la costruzione di un parco eolico, là è una linea dell’alta tensione; altrove, ci si oppone all’apertura di una miniera, all’installazione di un ripetitore o di un apparato 5G (questa mostruosità ancora sottovalutata per ciò che realmente inaugura: un’interconnessione di ogni oggetto, ossia una rete invisibile che collegherà tutto al dominio). Molti di questi conflitti presentano certamente forti connotazioni cittadiniste, ma si vede anche come possano essere più inclini a favorire la pratica del sabotaggio che quella del pettegolezzo: non si discute con una struttura ostile, la si distrugge.
A chi ritiene che una tale progettualità sia extra-terrestre e, considerata l’adesione entusiasta delle masse alle protesi tecnologiche, che rimanga appannaggio volontarista di qualche illuminato, potremmo rispondere evidenziando i piccoli conflitti che brulicano un po’ dovunque, ma anche tutti quei piccoli gruppi che già hanno deciso di colpire questo tipo di strutture specifiche durante il movimento dei gilet gialli.
Tuttavia, la cosa più importante non è nemmeno questa. La cosa più importante è che una tale progettualità (e — lo ripetiamo, perché sarebbe davvero un peccato essere fraintesi su questo punto — senza escluderne altre, a condizione che siano argomentate e discutibili, altrimenti riguardano solo chi le sviluppa, senza aggiungere altro), una tale progettualità, quindi, potrebbe contenere diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario. Essa ci permetterebbe di abbandonare nettamente dei percorsi che non sono i nostri e che possono solo condurre alla cogestione, alla politica, alla riproduzione di miti confortanti sulle «masse», gli «sfruttati», i «proletari», per imboccare una via che sia nostra, che ci appartenga, anche a costo di sbagliare (auspicando di avere la capacità di valutarlo  in maniera critica costantemente, ma andando fino in fondo alle cose piuttosto che a metà). Su questa strada, tutto è da scoprire, anche se possiamo attingere a certe esperienze del passato e soprattutto cogliere i suggerimenti che la realtà ci lancia di continuo.
Infine, il fatto di rifiutare la centralizzazione e preferire la diffusione e l’ordine sparso all’accentramento, l’agire in pochi alla manifestazione di massa, l’autonomia materiale e mentale al programma da realizzare, offrirebbe a tale progettualità delle qualità non insignificanti.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 26, 15 febbraio 2020]
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Speranza

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
Noi ci culliamo — talora inebriandoci — con fallaci parole che rappresentano solo vaghe astrazioni.
Pretendiamo che la speranza sia il nostro sostegno, se non la nostra guida, nell’aspra lotta che conduciamo nel corso della nostra effimera esistenza.
E coloro che considerano la speranza una chimera a volte sono solo disillusi che, dopo molte speranze infrante, dubitano di tutto e di se stessi.
Ma, a parte questi disincantati dalla vita, tutti gli esseri umani non vedono forse nella speranza il faro luminoso che li guida e verso cui tendono i loro sforzi? Essendo la speranza in un futuro migliore l’unica vera ragione di vita, per tutti?
È così che il credente si rassegna al triste destino della sua vita terrena, contando ingenuamente in una ricompensa nell’aldilà.
Questo è anche il motivo per cui l’eterna vittima pone il proprio futuro nelle mani di un padrone e non si scoraggia, sebbene costantemente ingannata.
Sono queste fallaci speranze che contribuiscono a prolungare miseramente una vita sociale talmente assurda e monotona.
Sperare significa credere in un’ipotetica felicità e aspettarsela ingenuamente dagli dèi, dai padroni o dal cieco caso.
Farsi cullare da una speranza ingannevole significa far addormentare ogni energia in se stessi, talvolta è rinunciare persino a qualsiasi idea di lotta, significa preparare un avvenire che è solo un ritorno del passato e una triste continuazione del presente.
Non dobbiamo avere alcuna fiducia cieca; non crediamo in niente; nessuno può migliorare la nostra vita meglio di noi stessi. Acquisiamone coscienza e mettiamo la nostra energia in continua attività. Lottiamo e reagiamo contro tutto ciò che ostacola la nostra esistenza. La speranza indebolisce e imbroglia. Ci fa marcire nel tran-tran di un’ebete ingenuità o sprofondare in un tetro scoraggiamento.
La volontà, madre dell’azione, è un reale fattore di vita.
Bisogna agire, non sperare.
Albert Soubervielle en L’idée anarchiste, n.5, 8 maggio 1924
[Avis de tempêtes, n°25, gennaio 2020]
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Un’arte antica

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

«A dirla in breve, tutti i Numi aborro»
Eschilo, Prometeo incatenato

Molti secoli dopo la tragedia di Eschilo, il figlio di un contadino scozzese si imbatté in un fenomeno che il Prometeo della leggenda non avrebbe rinnegato: il fuoco, come conoscenza e come arte. Venuto ad annettere alla Corona britannica le isole del Sud Pacifico, James Cook descrisse così nel suo diario la visione che gli apparve quando raggiunse le coste australiane nel 1770: «Ovunque siamo, vediamo fumo durante il giorno ed incendi di notte… Quel continente è un continente di fumo». Questa arte del fuoco abilmente gestita dagli aborigeni consentiva loro di coltivare terre aride (con la tecnica agricola del debbio), di favorire certe sostanze che attirano le prede, di formare boschi aperti o mantenere praterie erbose che favorivano la caccia. Ogni giorno, centinaia di fuochi aborigeni mantenevano ciclicamente un paesaggio a mosaico che alternava campi, praterie e foreste aperte. La specificità pirofila di parte della flora australiana di arbusti è tale che ancora oggi addirittura un quinto di quelle specie hanno bisogno del fuoco per la germinazione dei loro semi.
Ma cosa volete che un piantatore di bandiere capisca in materia d’arte prometeica, lui che fin dal suo primo approccio si rivolse a colpi di moschetto agli abitanti di quelle terre? Dopo aver ampiamente sterminato gli aborigeni (passati dai 750.000 dei tempi di Cook ai 20.000 del 1920) e represso non senza resistenza le loro pratiche incendiarie al fine di introdurre bestiame e recinti, i coloni non si resero nemmeno conto che i loro allevamenti estensivi di pecore avevano sterilizzato il terreno di quel fragile ambiente in meno di una generazione. Se a questo si aggiunge il fatto che l’Australia è diventata a poco a poco una gigantesca miniera a cielo aperto (con 60.000 miniere abbandonate e 400 ancora attive), si arriva ai giganteschi incendi che stanno devastando quel continente dal mese di novembre.
In primo luogo, quel megafire ha fatto abbondantemente parlare di sé perché sta divorando un paese ricco sorpreso dalla sua furia, al punto che il suo governo attende ormai l’arrivo delle piogge estive come se fossero un nuovo messia. Poi, poiché a differenza del precedente storico di vastità ancora maggiore (un’area di 117 milioni di ettari era bruciata nel 1974-75, ossia undici volte più di oggi), questo non sta interessando solo l’interno più desertico ma direttamente il volto radioso del paese situato sulle coste orientali e meridionali: le metropoli di Sydney, Melbourne e Canberra, così come numerosi bacini di turisti (parchi nazionali e altre riserve naturali allestite). Per tre volte da novembre, è stato dichiarato lo stato d’emergenza per una settimana nelle province del New South Galles e della capitale, causando l’evacuazione forzata di 100.000 persone (tra cui 30.000 beoti vacanzieri) e l’intervento dell’esercito. Il dispiegamento sull’area di cinquemila soldati con ampi poteri — che vanno dalle evacuazioni forzate e le requisizioni di beni alla sospensione delle libertà in vigore — con aerei, gipponi blindati e navi da guerra, dà un assaggio di cosa sia una qualsiasi gestione statale di una catastrofe che mette in pericolo i suoi interessi. Un rapporto che consente anche di coordinare meglio pompieri e assassini in uniforme per gerarchizzare le priorità, poiché una infrastruttura critica da preservare viene sempre prima di qualsiasi abitazione, e una miniera di titanio, o tantalio, o torio, o nichel, o litio, o carbone, o tungsteno con cui l’Australia rifornisce a profusione l’industria di morte viene sempre prima di qualsiasi famiglia di koala.
Senza ironia, la situazione è tale da venire descritta in loco «Chernobyl del clima». Non perché l’Australia è il terzo produttore mondiale di uranio con il suo radioso giacimento Ranger sfruttato nel bel mezzo del famoso parco naturale di Kakadu per rifornire le centrali giapponesi, ma perché le colonne di fumo rilasciato nella stratosfera da questi mega-incendi che si moltiplicano dall’Amazzonia alla Siberia e dal bacino del Congo all’Artico, fungono già da modello per studiare le conseguenze di un eventuale inverno nucleare. Tuttavia, proprio come Chernobyl o Fukushima, questa catastrofe non ha proprio nulla di «naturale», la sfrenata devastazione dell’ambiente non è un semplice errore di negligenza dell’attuale organizzazione sociale suscettibile di essere corretto una volta riconosciuto dai suoi dirigenti, ma una delle ovvie conseguenze del capitalismo.
Come tutti i miti, quello di Prometeo è stato oggetto delle più diverse interpretazioni, poiché la loro funzione è proprio quella di mobilitare il passato in funzione dello sguardo da portare sul presente. E come avrebbe potuto sfuggirvi il Titano greco, lui che rubò con un atto di ribellione il fuoco sacro dell’Olimpo per portarlo agli umani, prima di essere condannato da Zeus a restare incatenato mentre un’aquila arrivava ogni giorno per divorargli il fegato? A partire da quel fuoco sottratto, simbolo di conoscenza, alcuni si sono soffermati ad esempio sugli scontati tormenti di Prometeo come una metafora della paura del futuro; altri l’hanno usato per mettere in guardia gli umani da una volontà di onnipotenza tecnica al limite dell’eccesso; e altri ancora lo hanno talvolta invocato in nome del destino mitico delle masse proletarie in marcia verso la grande sera.
Ma cosa accadrebbe in fin dei conti se, invece di rifugiarsi dietro il mito di un necessario intermediario trafficante di fuoco, ci si sbarazzasse una volta per tutte della sua figura per voltarsi verso l’utopia e agire in prima persona? Quella delle coscienze individuali insorte, quella dei favolosi Titani che spezzano le catene forgiate dagli dèi moderni dell’autorità e del progresso. Oh, come sembrerebbe allora assurdo ad ogni essere la cui protesi tecnologica non serve né da coscienza né da cuore, chiedere ai tiranni di risolvere un problema di cui sono la causa! Oh, come sembra più che mai tempo di fermare tutto noi stessi sviluppando quest’arte antica, diffusa e mirata, contro tutto ciò che ci distrugge. Perché ciò che non aveva capito un esterrefatto James Cook prima che i suoi discendenti cospargessero l’Australia di veleni, è che il problema non è il fuoco, ma contro chi e contro cosa sia indirizzato.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 25, gennaio 2020]

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From One Vulnerability, Another

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel

On the microscopic scale, the destruction of autonomy (the reduction of spaces to determine your life) through the introduction of evermore technological prostheses can only give way to a biting despair. A sensation that correlates with the degree of depreciation and abrasion that you’re subjected to. The wheel of progress turns ever faster. Before, broad transformations in society could span several generations. Today, inside the space of one generation it sometimes seems that you’re not born in the same world. This explosion of speed requires an extraordinary capacity of human beings to adapt. In response there’s a whole range of functional “defects” towards the world’s conduct. For example this can be manifested in neurotic or bodily illnesses. Human beings don’t live isolated in outer space but indeed inhabit this planet. Every adjustment to their “habitat” influences their possibilities and capacities to reflect, but also to feel and act. This is of course not a privilege of the hyper-technological society that we know today.
We could say that every civilization works in this way. Thus the question acquires more depth; from which point on does a sharp adjustment in the habitat leads to a loss of autonomy, a suppression of freedom? If every adjustment is not in itself contrary to freedom? But these are questions that by far surpass the modest reflection of this article.

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Translated by The Local Kids (Issue 7 – Summer 2021) from Avis de tempetes, #39, March 2021]

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Nyctalopes

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel

If there is one open secret that has been going around in the world of children for decades, it is undoubtedly that which the fox confided to the Little Prince: «It is only in the heart that one can see rightly; what is essential is invisible to the eye». Would it be mere coincidence that the heart that pronounced this phrase in the middle of the last century, while not wearing the military livery, slipped easily into the journalist’s rags, for example to denounce the «republican crimes» of Spain of 1936-37 in the major nationalist newspapers? Or that as a fervent admirer of a Marshal reconciling the Frrrrench people under his rule after the debacle was rewarded with a nomination to the provisional committee of the Rassemblement pour la Révolution nationale [National Popular Rally, collaborationist under the Vichy regime] (1941)? As some pointed out later on another occasion, the most important thing in matters of official trifles is not so much to be able to refuse them as to not deserve them. On 31st October [2020], therefore, his pathetic heirs of Master 2 Security and Defence of the University of Assas were not wrong in adopting the name of Saint-Exupéry for their sixteenth promotion, recognizing in him the alliance between «literary genius and military spirit: honour, respect, courage and love of country.». Apparently, it seems the essential can sometimes leap to the eyes all the same! But let’s move on.

At this unquestionably particular time, what could an organ that despises the spirit of the barracks as much as State terrorism discern on the other hand? At first glance, between a deadly pandemic justifying authoritarian measures of all kinds, strengthening of the technological prostheses from work to school right to all relationships, the environment becoming increasingly devastated and artificial under the incessant blows of industry, or the absence of utopian horizons – that «unrealized but not unrealizable dream» as was defined by someone famous « authoricidal projectile  thrown upon the pavement of the civilized» — it is true that times seem more favourable to the clouds of domination than to the social tempest. And that there would almost be enough to lose the memory of the time before, as if covid-19 had swept it all away.

Forgotten  the brief start of an insurrection in Greece a little more than ten years ago, which had at the same time marked a possible in the heart of old Europe and shown the limits of lack of revolutionary perspectives that go beyond a simple riotous extension? Forgotten the possibilities opened up three years later by the various of uprisings on the other side of the Mediterranean, drowned in the blood of civil wars, crushed under the military boot or suffocated by religious and democratic sirens? Forgotten the uprising in Chile of barely a year ago, so powerful in its acts combining expropriations and massive destructions in the face of the military, but retreating at the last moment so as not to cross the threshold of the irreparable unknown, in a territory still traumatized by a ferocious past? Forgotten these recent North-American riots against the police, for once capable of overcoming the old divisions by starting to question one of the pillars of domination, without however succeeding in undermining all the others, if not through the enraged action of few minorities? Forgotten even the famous movement of the yellow vests, undoubtedly deeply linked to the demand for a better State, while being able, in the very name of its reformist postulate to regain a spontaneous taste for riot in the face of the one in place, or that of sabotage against various power structures through self-organization in diffuse small groups? Nonetheless a promising example of identification of the enemy’s structures, which did not content itself with toll booths, tax centres or radars but had, for example, also pushed exploration to the relay antennas, to the homes of elected officials or the electrical systems of industrial and commercial areas.

So would hearts swollen with rage be hit by amnesia all of a sudden during the repeated confinements as a result of analysing the horror of the world behind screens, and above all failing to take to the streets in order to take it on? Conversely could it be that, although bruised by the price to pay for all these exciting unaccomplished processes, they are nevertheless not resigned in the face of what these moments of rupture also involve in terms of destructive collective joy as well as individual re-appropriations of one’s existence? When a demon of revolt once said that revolutions are made of three quarters fantasy and a quarter reality, it was certainly not to content himself with endlessly dissecting the latter in reverse in order to sharpen our actions, but because he also knew that this precious lived fantasy can upset an entire life by giving it reason other than that of delaying death for as long as possible. Then, if it is true that we can only see well with our heart, our ever ardent one cannot fail to see that the authoritarian management of the pandemic and its consequences in terms of economic restructuration and technological acceleration hasn’t come at just any time, but is colliding head-on against these last ten years of uprisings, insurrections and revolts in an attempt to turn the page.

Faced with the misery of the existent we can repeat galore that order never acts alone, that the only battles lost in advance are those that are never fought, that it is not revolutionaries who make revolutions or that when dissatisfaction and discontent accumulate sometimes it only takes a spark to ignite the powder keg of social relations (be it a war lost by the State,  an increase in transport fares, the controversial management of an epidemic, the immolation of a street seller, a new drastic budget plan, the umpteenth murder at the hands of the police…)  All this is right but beyond the manifestations of anger that power now intends to bury under the weight of the health emergency, another movement is also developing, becoming less and less invisible while remaining essential, in spite of what the fox in the tale might say.

It concerns the individuals and small groups that have realized that in the face of the climate catastrophe the disaster was the industrial system itself and that it was better to tackle it at the (energy) source. That in the face of alienation or technological control, the problem must be solved at the roots by cutting its veins. That in the face of the State moloch and its growing militarization against the rioters, it was time to take the initiative according to one’s own timing in an asymmetric manner, without further waiting for social movements that would overrun the established framework before burning out.

This is the case, for example, with the incendiary sabotages that relentlessly attack the electrical installations supplying the pumps of the open-cast lignite mine that is destroying the forest of Hambach (Germany), with the recent sabotages and blockages against the construction of the Coastal GasLink pipeline in British Columbia (Canada), with last October’s sabotage of a drilling machine planned to install a new wind farm in Tuscany (Italy) or with setting the offices of the State forest exploiter ONF in Aubenas (Ardèche) on fire at the beginning of October. Not to mention all the attacks that for years have been slowing down the advance of the nuclear waste landfill project in Bure, in particular with the help of sabotage against drilling along the old railway destined to serve the Cigéo works and the transportation of radioactive waste. So much beautiful energy expended to undermine those who fuel this deadly world.

Since the arrival of covid-19 at the beginning of the year and in spite of the consequent restrictions of movement that followed, the voices of the agile saboteurs have not gone silent, but their projectual autonomy has made them resonate with even more clamour during the various phases of self-confinement. If for example we consider the intentional cutting off of optic fibres and relay-antennas during the spring confinement, power can only lament the fact that the latter were put out of harm’s way just about everywhere every two days. Recently, a State lackey responsible for looking after these little problems similarly confided that over a hundred of them had suffered the same fate since the beginning of the year. If one had to give just one example of the multiple possibilities offered to bold hands in spite of the re-confinement in force since the autumn, it would perhaps be the sabotage north of Marseille of the second most important television site in the country in terms of television, radio and mobile phones, which occurred on the first of December: three and a half million people brutally disconnected, for over ten days for some!

Certainly enough to inspire the nyctalope individualities who, each in their own way, continue to light up the night to derail the trains of domination.

 

[Translated by Act for freedom now! from Avis de tempêtes, #36, Decembre 2020]

 

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Off with the masks!

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

It wasn’t a very hot day that day. Yet the sun had shone all over the French capital. On 4th April 2019, a few men landed on the asphalt of some Paris airport. They had come from Libya with a mission: to seek the agreement of that State to unleash a vast military offensive.These men arrived in haste were emissaries of marshal Haftar, chief of the Libyan national army (LNA). Paris gave the go-ahead. A few hours later, thousands of LNA soldiers set off for the conquest of Tripoli, the Libyan capital in the hands of the national unity government (NUG), which international bodies recognized as the ‘legitimate government’ of a land torn by militias, parliaments, para-military groups, mercenaries and jihadists. Since 4th April, fighting has led to hundreds of dead and wounded between combatants and the population.

As LNA troops advanced, tens of thousands of people were fleeing, 13,000 of them just to escape from the battle of Tripoli that had begun. Other thousands prepared to board hastily improvised boats in attempts to reach Europe, which transformed the Mediterranean into a gigantic cemetery. LNA and NUG, a war between two power blocs, the one as detestable as the other. But that’s not all, it is never ‘just’ that. Other forces were at work in the shadow of ministries and gilded palaces, as in all the other bloody conflicts in North Africa, the Middle East and Central Africa: geo-political and commercial interests, balance of power and the powerful, market conquests, access to resources, military bases… all intertwined. First, though, let’s take a quick picture of marshal Haftar – it will help us to understand the rest. In 1969, Khalifa Belqasim Haftar participates in the coup that brings colonel Ghaddafi to power. In 1987, thanks to  his training in prestigious Soviet schools, he leads the expedition troop of the Libyan army against Chad, whose bloody dictator Hissène Habré is backed by France and the United States. Defeated and held captive, Haftar is imprisoned in N’Djamena, the capital of Chad, where he changes flag and is entrusted by the United States with leading a ‘Haftar force’ in Chad to overthrow Ghaddafi. Another failure: in 1990, after the election of Chad president Idriss Déby, close to the Libyan leader, he is sent urgently to the United States.

By then known as ‘the Americans’ man’, Haftar settles near Langley – where the CIA is located – and starts to work unsuccessfully towards Ghaddafi’s overthrow. In 2011, Haftar returns to Libya during the uprising that will lead to the fall of colonel Ghaddafi. At the beginning of the transition, he is promoted to general lieutenant and leads the ground troops of the Libyan armed forces for a short period. But the Islamists, who are the majority in the victorious rebellion, don’t forgive him for being ‘the Americans’ man’. Yet another failure: Haftar returns to the United States to his home in Virginia at the end of 2011. Back in Libya at the beginning of 2014, a country split in two (the Tripoli area and the Tobruk area) and counting on certain international support (including France, Saudi Arabia and Egypt), the marshal decides to create his own armed force, which is joined by local militias and members of the ex-Libyan army. Meantime, ‘the Americans’ man’ who wanted to affirm himself as the strong man of the country, also secretly becomes ‘the man of the French’.

As ENI, the Italian oil company, is securing important contracts concerning oilfields controlled by the government of Tripoli, Total [a French company] sets the score with the oilfields under the control of Haftar’s LNA. In fact it is in the castle of La Celle Saint-Cloud, in Yvelines, in the presence of Macron himself that in July 2017 a first ceasefire is signed between the government of Tobruk, whose armed hand is Haftar, and that of his rival in Tripoli. Even if the French aid is initially purposely discreet, it certainly doesn’t escape the attention of many Libyans, who have seen French special forces at work, of course in the name of the ‘struggle against terrorism’, alongside Haftar’s soldiers. After all, the fact that those soldiers have weapons made in France doesn’t prevent French arms companies from also selling their weapons to the rival government in Tripoli.

The bloody game is well-known: weapons are sold like doses, doses of death, according to the goals that the State hopes to achieve. Nothing could be more simple, you can see hundreds of armoured vehicles in one base, and appropriate rocket launchers in the other, as if to favour the latter’s superiority. The former base is satisfied with its purchase, the latter is even more so as it sees the brand-new armoured vehicles exploding at the other end of their remote-controlled devices. But happiest of all are the French companies and the French State, which have made profits from both sides while following their own strategic plans. The State’s motive has nothing, absolutely nothing, to do with the chatter about respect for human life, freedom, rights and justice.

This French Republic of freedom, equality and brotherhood is as putrid as the piles of rebel corpses on which it is built and continues to accumulate all over the world. If decades of dirty wars and ‘anti-terrorist’ operations conducted by the United States and Israel have associated these two States with all kinds of filth carried out in the name of their particular interests in the minds of most of the world population, France has generally succeeded in preserving its image as a ‘country of human rights’. Despite the numerous chips on its emblem during the Algerian war and the ferocious repression of national liberation struggles in its colonies, it continues to flaunt itself as though nothing had happened. Perhaps we’re wrong, but it is also by using this cultural legacy as a shield that France has always succeeded (especially in the last decade) in waging wars without suffering too much damage and in selling its bellicose expertise all over the world. Let us take the example of regimes subjected to certain criticisms and militarily supported by France, such as Saudi Arabia in its war on Yemen, the Congo torn by eternal ‘civil wars’ often in a context of competition for the exploitation of resources and precious metals, Egypt between rebellions and their bloody repression, Morocco during the Rif revolt, and so on. And this, of course, when it is not selling off its nuclear technologies or deploying its special forces to ‘fight the terrorists’ in Chad, Mali and Syria on the YPG side. But still the mask does not fall. It didn’t fall yesterday, nor does it fall today in the face of the classic example of the ‘proxy war’ being waged by Marshal Haftar.

The French State can safely continue to shine its emblem of republican values. Moreover, it also enjoys broad consensus among its subjects – yes, let’s say it, broad consensus. A passive, tacit, or generated consensus perhaps, or whatever you want to call it, but as a matter of fact it is there and supports its State’s politics. With the exception of the emotive waves linked to the international situation during the two Gulf wars or the one in ex-Yugoslavia – but that’s going back a long time – and while taking to the streets to express opposition to the horrible tricolour business of death is the least in a country where the habit of demonstrating has not been lost, the mask obstinately refuses to fall.

And yet things are now clear: from the beginning of the revolts and their consequent repression in North Africa and the Middle East, arms sales made in France have jumped from 4.8 billion euros in 2012 to 6.8 billion euros in 2013, then to 8.2 billion in 2014, 16.9 billion in 2015 and around 20 billion euros in 2016. Arms exports thus represent more than 25 per cent of all exports from the deadly Republic. Far be it for us to want to devalue the anger that has taken to the streets in recent months; we need to point out that there is something lacking in end of the month anger, if not a lot. For example, it lacks a certain depth in looking beyond one’s own back yard, beyond a mere, insipid and increasingly costly survival.

When we rightly protest against policemen who maim demonstrators, when we denounce the companies that supply local forces with weapons, how not to make a link between these same companies and the fact that they manufacture the weapons that mutilate and kill in many other countries generously supplied by the French industry, and on a much larger scale? When we protest against fuel prices and increased taxation, how can we fail to make the link with the wars and massacres for oil in which the French State is at least co-responsible, if not instigator (as seems to be the case today of Marshal Haftar, a would-be military dictator)? It is not a question of pointing the finger at some slave in particular, but of the mechanism of voluntary servitude that aims to make us all victims and executioners, unless the chain of submission is broken. It is a question of understanding that the State of this country is a State in the widest sense of the word.

A State that takes care of everything: organizing elections and maiming its protestors, teaching human rights to other regimes and hiring mercenaries, preaching peace to countries at war and at the same time conducting military operations right, left and centre, crushing and torturing (what else is prison?) those who disturb or are superfluous and putting an omnipresent administrative apparatus at the good citizen’s disposal.

The French State is no different from its counterparts, what distinguishes them are the margins that each has to set to defend and impose the intertwined interests that the powerful have entrusted them with in the national framework. Margins of manoeuvre that create responsibilities to be paid one way or another…

And then, the humanitarian emblem of the French State must be smashed once and for all. In the nineteenth century, when this State consolidated itself on the corpses of the rioters in the colonies and the corpses of the insurgents of many revolutions drowned in blood (June 1848 and the Commune), an anarchist revolutionary, Ernest Cœurderoy, expressed a very special desire. Noting bitterly that liberal and socialist revolutionaries spent their time imagining a better State, a more just State… but basically still a totalitarian State by nature, though embellished with the values of the Great Revolution, he turned to the Cossacks. Hurrah! He wished for the descent of the Cossacks, of those vital energies hostile to chatter and political culture, of those terrible barbarians who leave only the ruins of hypocritical civilizations behind. He believed that a vast task of devastation of this world was necessary before the beginning of a vast task of building a new world.

Today, in the wars that the State is waging around the world, in the face of the repression it unleashes in the streets and at the borders, in the face of the social cannibalism it is stirring up among the population and uses to reaffirm its supremacy, chatter is useless. Denunciations are useless. Appeals to conscience are useless. First of all it is through fire that we must pass. With audacity, tearing off the mask that covers a war-mongering that would have us all accomplices. Neither their peace nor their war, Hurrah!

 

[Translated by Act for freedom now!, from Avis de tempêtes #16, April 2019]

Posted in English

To Seize the Moment, Still

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel

While the militant entomologists continue in their dusty offices to dissect the composition of the heterogeneous movement of the yellow vests – not intersectional, proletarian, progressive or mute enough, depending on the taste – most of the antiauthoritarians ended up plunging into the battle, including those dragging their feet. Certainly while telling themselves and rightly so, that after all a social movement is nothing else than what each person makes of it. In the same way that before the Christmas holidays the school pupils entered the dance, or that demonstrations on Sundays started happening with women in yellow vests to put the spotlight on patriarchy, without mentioning the small troops of syndicalists who here or there try to reconquer ground by organising their own block. For a lot of people, in the end the question pertains to the classical mechanisms of politics, by adding rage to the anger, a tag to a slogan, in a contest of claims and presence tied to a quantitative vision of struggle.

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[Translated by The Local Kids (issue 3, Winter 2019), from Avis de tempêtes, #13, January 2019]

Posted in English

To Seize the Moment

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel

More than one hundred thousand enraged persons who for almost 4 weeks now occupy roundabouts and toll booths, who try to block or slow down the operating of logistical hubs and supermarkets, oil depots or at times factories, who gather each Saturday in small towns as well as big cities to attack local state headquarters and city halls, or just to destroy and loot what surrounds them. Behold, the autumn gives birth out of the blue to yet another social movement. Enough to have those who have a nose for the smell of herds come running to attempt to steer it, or just to be there where it happens, following the smell of teargas. Like during the syndicalist movement against the Loi Travail in 2016 (March till September) and its follow-up against the regulatory implementations in 2017 (September till November), or against the reform of the railway company this year (April till June). But it didn’t really go down like that this time.

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[Translated by The Local Kids (issue 3, Winter 2019), from Avis de tempêtes, #12, December 2018]

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      The final issue of Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 59-60(December 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Storm warnings, issue 59-60 (December 15, 2022) : For reading For printing (A4) For printing (Letter) “To conclude, if it has always… Read more: Storm Warnings, issue 59-60 (December 2022)
  • Storm Warnings # 57-58 (October 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 57-58 (October 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Storm warnings, issue 57-58 (October 15, 2022) : For reading For printing (A4) For printing (Letter)   “Europe is overflowing with hundreds of billions of dollars… Read more: Storm Warnings # 57-58 (October 2022)
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  • El corte es posible
    Si el silencio da miedo, puede ser porque la ausencia de ruidos familiares tiene tendencia a devolvernos a nosotrxs mismxs. Avanzando en la oscuridad silenciosa, es común hablarse a unx mismx, chiflar un estribillo, pensar en voz alta para no encontrarse presa de la ansiedad. Esto no es tan fácil,… Read more: El corte es posible
  • Storm Warnings #54 (June 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 54 (June 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 54 (June 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #54 (June 2022)
  • Hijos de Eichmann?
    Hemos de abandonar definitivamente la esperanza ingenuamente optimista del siglo XIX de que las «luces» de los seres humanos se desarrollarían a la par que la técnica. Quien aún hoy se complace en tal esperanza no es sólo un supersticioso, no es sólo una reliquia de antaño. […] Cuanto más… Read more: Hijos de Eichmann?
  • Economía de guerra
    En Bihar, uno de los estados más pobres y poblados de la India, la gota que colmó el vaso fue el miércoles 15 de junio, antes de extenderse a otras regiones, cuando miles de manifestantes comenzaron a atacar los intereses del Estado en una docena de ciudades. En Nawada, se… Read more: Economía de guerra
  • Figli di Eichmann?
    «L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è… Read more: Figli di Eichmann?
  • Storm Warnings #53 (May 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 53 (May 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 53 (May 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #53 (May 2022)
  • Storm Warnings #52 (April 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 52 (April 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 52 (April 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #52 (April 2022)
  • Todas e todos implicados
    Na primeira luz do amanhecer, um caminhão de 40 toneladas começa a se mover sob uma ligeira chuva. Mas não é um dos milhares de caminhões que transportam mercadorias por estrada, e sua missão é muito menos trivial. Com seus faróis acesos, o caminhão passa pelos subúrbios da capital bávara,… Read more: Todas e todos implicados
  • Todxs los implicadxs
    Con las primeras luces del alba, un camión de 40 toneladas se pone en marcha bajo una ligera lluvia. Sin embargo, no es uno de los miles de camiones que transportan mercancías por carretera, y su misión es mucho menos trivial. Con los faros encendidos, el camión atraviesa los suburbios… Read more: Todxs los implicadxs

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