Più di centomila persone arrabbiate che occupano da quasi quattro settimane rotatorie e caselli autostradali, che cercano di bloccare e rallentare il funzionamento delle piattaforme logistiche di supermercati, depositi petroliferi o anche di fabbriche, che si riuniscono ogni sabato nelle città di medie dimensioni come nelle metropoli per assaltare prefetture e municipi, o semplicemente per distruggere e saccheggiare ciò che li circonda; ecco che l’autunno dà vita inaspettatamente all’ennesimo movimento sociale. Di che far accorrere tutti coloro a cui piace l’odore delle mandrie, per tentare di cavalcarle o semplicemente per essere là dove accade seguendo il vento dei lacrimogeni. Come durante il movimento sindacale contro la Loi Travail del 2016 (marzo-settembre) e le sue conseguenze contro le ordinanze nel 2017 (settembre-novembre), o quello contro la riforma della SNCF quest’anno (aprile-giugno). Solo che questa volta non è andata così.
Per una volta, un movimento è scoppiato in modo auto-organizzato al di fuori di partiti e sindacati, per una volta si è immediatamente fissato le proprie scadenze sia a livello locale che nazionale — scadenze spesso quotidiane e non al ritmo settimanale o mensile delle grandi giornate orchestrate dai leaderini e concordate in anticipo con la polizia —, definendo anche i propri luoghi e percorsi di scontri e blocchi rifiutando ostinatamente di implorare un’autorizzazione prefettizia preventiva. Insomma, un po’ di aria fresca per tutti i militanti in attesa di un grande movimento collettivo per uscire di casa. E tuttavia! Mentre le briciole reclamate da qualsiasi collettivo cittadinista, sindacalista o vittimista con il sostegno di un rapporto di forza nelle strade per aiutare i suoi rappresentanti a meglio negoziare col potere non ha mai impedito ai più di partecipare, ecco che i coraggiosi militanti antiautoritari cominciano a sezionare quelle che hanno fatto traboccare il vaso dei gilet gialli. Ah, ma è troppo reazionario arrabbiarsi per il prezzo del gas o delle tasse. Ah, ma nella loro consultazione virtuale vorrebbero contemporaneamente sia un aumento del 40% dello SMIC [salario minimo] e delle pensioni che una diminuzione degli oneri per i padroni, vorrebbero meno eletti ma anche essere consultati dal potere tramite referendum, aumentare il numero di sbirri e giudici e rimettere ospedali, treni e uffici postali nei paesi, vietare il glifosato e riaprire fabbriche ovunque, integrare gli immigrati docili e cacciare via i numerosi rifugiati a cui è stata respinta la domanda di asilo, ripristinare l’ISF [imposta sul patrimonio] ma pure che le banche smettano di vessare i commercianti. In breve, più le persone si uniscono a questo movimento e più le rivendicazioni si allungano, in un guazzabuglio eterogeneo di luoghi comuni e piccole riforme di destra e di sinistra che sono il segno distintivo degli schiavi che cercano di riverniciare la propria gabbia. Nulla di sorprendente nel chiedere un cambiamento purché nulla cambi, dopo molti decenni di spossessamento, di ristrutturazioni produttive e di addomesticamento tecnologico a partire dall’ultimo tentativo di assalto al cielo degli anni 70. Nulla di sorprendente, ma un gioco più aperto di quanto non sia stato nel corso dell’ultimo decennio, rivolto solo ai meteorologi impauriti più propensi allo status quo democratico e ben oliato che alle possibilità di uno sconvolgimento a tutti i livelli, a meno che, naturalmente, la famosa rottura non avvenga di colpo, magica e pura, gentile e senza processi o superamenti.
Ma ora, il militante antiautoritario pur abituato ad ingoiare tutto in materia di rivendicazioni riformiste per mescolarsi ai movimenti di lotta, questa volta non vi rileva sufficienti luoghi comuni conosciuti. Passi per il rifiuto dei licenziamenti o la chiusura di una fabbrica che macina vite ed avvelena — sapete, è la lotta di claaasse. Passi per le case popolari e le altre gabbie amministrate in centri specifici (per i senzatetto, i richiedenti asilo, ecc.), sapete, è urgente togliere i poveri della strada. Passi per un processo e delle perizie eque con l’aggiunta di qualche sbirro in carcere, sempre che venga detto in altro modo e portato avanti da famiglie. Passi per il rifiuto dell’ingresso selettivo nel meccanismo che formerà i futuri dirigenti, è l’opportunità di interrompere dei corsi senza intaccare la gerarchia sociale. Passi per il rifiuto di una nocività perché troppo così o non abbastanza colà, purché il e il suo mondo non arrivi ad infrangere la bella composizione cittadinista coi pianificatori dell’esistente.
In tutte queste occasioni e in molte altre, dal militante che traina il suo programma a quello che rompe vetrine mirate, in genere stanno attenti a difendere la propria attività facendo una distinzione fra il vertice e la base del movimento, fra le tristi richieste degli organizzatori e la collera dei presenti, si cerca di bilanciare il pretesto iniziale per rialzare la testa con le possibilità di rompere la routine dello sfruttamento, si soppesano gli ingredienti del casino per far crescere la propria parrocchia. Insomma, si fa politica in dialettica con la sinistra: si sensibilizza, si radicalizza, si socializza, si dilaga, si recluta e si fa il brutto anatroccolo della grande famiglia progressista. Qualche volta si sogna persino di destituire il Presidente per poter fare a meno di una rottura rivoluzionaria violenta. Ma che fare quando non c’è una base o un vertice e nemmeno rivendicazioni educate ed unitarie, ma una proliferazione di rabbia diffusa (dai pensionati ai liceali, dai blocchi diurni alle sommosse serali)? Quando non c’è un soggetto politico da sostenere o su cui contare? Quando Facebook diventa un sostituto dell’assemblea ed il corteo di testa non ha più il monopolio dello scontro in manifestazione? Quando le parole che vengono fuori sono più volgari, gli argomenti più confusi ed i simboli più rozzi?
Perché all’improvviso, col movimento dei gilet gialli, il militante antiautoritario riscopre il mondo che lo circonda! Lui che ieri andava in estasi davanti alla cosiddetta Primavera araba, senza che l’abuso «interclassista» della parola «popolo» («il popolo vuole la caduta del regime» era uno degli slogan più presenti) e la profusione di bandiere nazionali costituissero un ostacolo irrimediabile, oggi è disgustato dagli stessi limiti dalla sua parte del Mediterraneo. Lui che ieri si era mobilitato contro la Loi Travail o durante lo scorso Primo Maggio senza ritenere la propria presenza incompatibile con quella di bandiere infiorettate di falci e martelli, o con quella di striscioni di testa parigini a volte ambigui (con punchline di rapper, reazionari da ogni punto di vista) rimane oggi stordito dallo stupore per i tricolori e gli slogan populisti.
Volontariamente cieco, non aveva mai notato i numerosi tricolori nelle iniziative di France Insoumise nel corso delle ultime elezioni (a Place de la Bastille a Parigi il 18 marzo 2017 o nel Vieux Port di Marsiglia il 9 aprile 2017), né quelli srotolati da centinaia di migliaia di persone nelle strade durante la vittoriosa epopea dello spettacolo calcistico del luglio 2018 (sventolati all’unisono da giovani poveri delle città e da vecchi ricchi razzisti). No, il militante è una persona semplice come la sua ideologia da supermercato bio. Un emblema immondo = un fascio, punto. Sì al vandalismo militante nel corso di manifestazioni inquadrate, gomito a gomito all’interno di black bloc con stalinisti, maoisti o neo-blanquisti organizzati, ma non nel corso di raduni sparsi senza organizzatori né percorsi definiti, dove logicamente potrebbero essere presenti dei fascisti organizzati. Per i militanti più allergici ai fascisti organizzati che agli stalinisti organizzati, più ai partiti che ai sindacati, il prurito sembra essere piuttosto a corrente alternata, a meno di rivedere il concetto delle prospettive antiautoritarie, beninteso.
A corto di argomenti per tenere a distanza questo movimento incontrollato, non è nemmeno sorprendente che alcuni limitanti siano venuti a balbettare, come banderuole disorientate, il classico ritornello del potere: quando per riflesso condizionato capita loro di mescolarsi al casino di un movimento sindacale o di sinistra, imprecano contro chi li accusa di «recuperare il movimento» o di essere «elementi esterni». Diamine, no, loro portano semplicemente il proprio contributo alla sommossa. Ma allorché dei liceali, degli anarchici o dei teppisti si azzardano a farsi vedere nell’attuale baraonda iniziata dai gilet gialli per agire a modo loro e a proprio piacimento, riprendono a propria volta l’antifona sugli pseudo-recuperatori di un «movimento intrinsecamente proto-fascista». Nella corsa alle categorie del potere, i cacciatori-raccoglitori (ops, i «vandali-saccheggiatori») sono per forza qualcos’altro! E noi che credevamo ingenuamente che un movimento fosse innanzitutto ciò che ognuno fa e ciò che realmente vi accade, al di là delle sue rappresentazioni e dei soggetti politici fantasticati.
Alla fine, per una settimana o due, è sembrato più prudente restare su un terreno familiare a diversi antiautoritari, mosche cocchiere del famigerato campo del progresso sociale, foss’anche sindacalista della CGT-guardie carcerarie o SUD-Interni, tendenza patriottarda della Repubblica o politicante degli Indigeni, piuttosto che affrontare l’imprevisto di una contestazione aperta senza dirigenti né schemi prefissati. Prima ovviamente di gettarsi dentro, ma nel modo in cui erano usi fare prima, aggiungendo pietra su pietra, tag su tag, e così via. E poi, molto rapidamente è comparsa quella magica locuzione, «situazione pre-insurrezionale», che da sola giustifica il salto operato, anche tappandosi un po’ il naso. Immergersi con gaudio nel gregge rosso o tuffarsi a malincuore nel gregge giallo, partecipare per influenzare o restare spettatori per mantenere le mani pulite, ecco un buon esempio di false dicotomie, perché i termini stessi della questione sono falsati. A nostro avviso, la questione in effetti non è mai se partecipare o meno ad un movimento, se esserne attori o spettatori, ma unicamente agire per distruggere l’esistente in ogni circostanza, con o senza un contesto particolare di lotta, sia che gli altri si muovano per questa o quella briciola iniziale più o meno (in)interessante, purché lo si faccia con le nostre idee, pratiche e prospettive. Dentro, fuori o vicino a un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o con molti altri. Di giorno come di notte.
Quanto alla questione insurrezionale, è vero che se si vuole abbattere lo Stato e distruggere ogni autorità, appare una premessa indispensabile, che non sarà comunque opera dei soli anarchici e dei rivoluzionari (d’altronde è per questo motivo che gli autoritari neo-blanquisti trascorrono il loro tempo a cercare di cavalcare lotte e movimenti, per trovare una massa da manovrare, o che altri tentano costantemente di reclutare seguaci). Le rivolte e le insurrezioni scoppiano già senza di noi, e quando non si ha né desiderio di dirigere tali movimenti né disprezzo per gli schiavi che si ribellano per le proprie ragioni, la domanda interessante da porsi diventa: cosa vogliamo fare noi? Agire già senza aspettare nessuno, qui ed ora, non esclude infatti la possibilità di farlo a maggior ragione quando esplode una situazione di casino caotico. In ogni caso non quando abbiamo già riflettuto un minimo sulle nostre prospettive. Quando si è quindi in grado in piena autonomia di cogliere le occasioni che si presentano per cercare di realizzare i nostri progetti sovversivi.
Quanto alla rivoluzione, ci uniamo a ciò che alcuni anarchici italiani hanno appena scritto in un testo relativo a quanto sta accadendo in Francia (Di che colore è la tua Mesa?), di cui riprendiamo uno dei passaggi:
Chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? […]
Il guaio di tutti i militanti — disfattisti o entusiasti che siano — è che nelle situazioni di effervescenza sociale il loro cervello è tarato per porsi un unico quesito, ovvero quali rapporti diretti e produttivi instaurare coi movimenti di protesta. Sono ossessionati dalla ricerca del soggetto rivoluzionario al cui servizio mettersi, o di cui fare semplicemente l’apologia. È così che si può mettere in luce il minimo scontro in periferia con la polizia o le autorità senza curarsi della questione delle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera locale, ad una battaglia mafiosa di territorio, ad un addestramento religioso, o a molte altre cose ancora?), rifiutandosi ostinatamente di prendere in considerazione il minimo scontro di gilet gialli nelle piazze e nelle rotatorie con la polizia o con le autorità perché si danno fin troppi giudizi a priori sulle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera, ad un malcontento sociale per le tasse, ad un addestramento nazionalista, o a molte altre cose ancora?).
È come se ogni volta si riscoprisse la stessa acqua calda: no, gli altri rivoltosi non sono anarchici ed entrano in ballo per ragioni proprie, sia che appaiano appassionanti o futili, sia che le si conosca esplicitamente o meno. Ma ciò che a noi interessa è che la rivolta apra qui degli spazi per altri là, in una possibilità diffusa di andare dal centro alla periferia, che permetta di sperimentare forme di complicità dirette o indirette, ed infranga una normalità che è durata fin troppo. Spetta agli anarchici stessi, e non ad altri, far vibrare le proprie prospettive contro ogni autorità alimentando i vasi comunicanti tra idea ed azione. Nei momenti di calma come di tempesta. E allora, forse, i nostri sogni o le nostre collere incontreranno un’eco in altri cuori insubordinati.
Per fortuna non tutti sono militanti, e possono quindi interessarsi di più a cosa apra ogni conflitto e disordine, non tanto per gli altri, ma per se stessi. In mezzo al caos che rallenta l’intervento repressivo e facilita il mordi-e-fuggi, esistono possibilità altrimenti molto più ardue, ossia impossibili? Lontano da quel caos su cui si concentra il controllo, si può puntare ad obiettivi altrimenti invulnerabili? Esaminando più da vicino il movimento dei gilet gialli in corso, ci si accorgerà che molti hanno già iniziato a rispondere a questi interrogativi, consentendoci di affrontare qui alcune tracce sulle possibilità di afferrare l’occasione. Lungi dal costituire un inventario esaustivo, si tratta solo di esempi, tracce banali se si vuole, più o meno condivisibili, ma che dicono qualcosa per alimentare l’immaginazione.
Il 24 novembre sugli Champs-Élysées, mentre non era ancora evidente che i sabati successivi avrebbero assunto forme tumultuose al di là dei dispositivi polizieschi, alcuni ignoti hanno iniziato ad allontanare la morsa del salariato organizzandosi per saccheggiare la boutique Dior. Quasi 500.000 euro in gioielli e altri gingilli sono così passati di mano in pochi minuti, accanto gli scontri. Oltre all’esproprio di una vasta gamma di beni di consumo comune, dai negozi sportivi o di abbigliamento ai supermercati, dai telefoni cellulari ai computer portatili (Parigi, Marsiglia, La Réunion, Tolosa, Saint-Etienne, Le Havre, Bordeaux, Charleville-Mézières, Saint-Avold, Le Mans, Bourg-en-Bresse), diverse altre gioiellerie e negozi di lusso sono stati ugualmente spogliati qua e là. In generale, solo nella capitale, la Camera di Commercio e Industria ha recensito durante la sommossa di Parigi dell’1 dicembre 142 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 95 con la vetrina appena danneggiata), oltre a 144 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 102 con la vetrina appena danneggiata) in quella dell’8 dicembre.
Nello stesso ordine di idee, ci si potrebbe chiedere quali altre possibilità offra il fatto di tenere una rotatoria, oltre a bloccare e frenare la circolazione di merci e creare delle complicità nell’azione. A questo titolo, l’esempio di quanto accaduto in Belgio può essere piuttosto eloquente. Non contenti di aver dato fuoco a un camion-cisterna a Feluy (20 novembre) e di essersi là scontrati duramente con la polizia per diversi giorni, sono stati bloccati ed alleggeriti del loro carico anche cinque Tir nei giorni seguenti (21-22 novembre). Dopo che il movimento dei gilet gialli è stato raggiunto da centinaia di altre persone spostando il punto del conflitto dall’autostrada verso la città di Charleroi, superando la questione dell’origine sociale o geografica, la pratica del saccheggio è continuata. Oltre al tradizionale supermercato, è un bancomat della BNP ad essere stato non semplicemente distrutto, ma prima sradicato dalla sua base e poi svuotato (23 novembre).
In un analogo rapporto all’inizio del movimento, un camion carico di 900 pneumatici è stato rapidamente immobilizzato a Le Havre in una rotatoria tenuta dai gilet gialli (20 novembre). Una volta disattivato il suo sistema di sicurezza, alcuni individui hanno iniziato a svuotarlo e non meno di 250 pneumatici nuovi si sono volatilizzati, nonostante l’opposizione dei più legalitari. Un’ora dopo, incoraggiati da nuove possibilità, è un negozio di informatica situato vicino alla rotatoria a venire completamente saccheggiato (così come il ristorante della zona commerciale).
Saccheggi di gioiellerie, di Tir, di bancomat — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Il primo dicembre ad Avignone, mentre come in molte altre città i manifestanti si concentravano davanti al municipio o alla prefettura per tentare di invaderli (quello di Puy-en-Velay è stato parzialmente bruciato l’1 dicembre al grido di «Arrostirete come polli»), un piccolo gruppo ha nel frattempo deciso di occuparsi del Palazzo di Giustizia: quasi 30 metri delle sue spesse vetrate sono andati in frantumi. Anche a Charleroi, durante le sommosse il tribunale è stato colpito da molotov. A Tolosa l’8 dicembre durante la devastante sommossa durata per ore, un gruppo allo stesso modo ha deciso di visitare il centro di gestione della videosorveglianza della città, situato nel quartiere di Saint-Cyprien. Mentre i ficcanaso comunali erano all’interno, le sue vetrate hanno cominciato ad essere infrante e la sua telecamera presa a sassate. Sebbene l’assalto sia stato troppo breve, i sindacati hanno comunque richiesto il trasferimento del computer della videosorveglianza di Tolosa, che era scampato al pericolo. A Blagnac il 4 dicembre, invece di bloccare semplicemente il liceo Saint-Exupéry, alcuni studenti hanno dato fuoco alla montagna di immondizia accatastata con cura all’ingresso: l’incendio ha distrutto la portineria e l’atrio, mentre le sale dei professori, il CDI [Centro di Documentazione e Informazione], i locali dell’amministrazione e le aule di scienze sono state gravemente danneggiate (1 milione di euro di danni) e il collegio chiuso per una buona settimana. Il casello autostradale di Narbonne-Sud, bloccato dai gilet gialli la notte del 2 dicembre, non solo è stato saccheggiato (come a Virsac, Perpignan, Bollène, La Ciotat, Sète, Muy, Carcassonne), ma soprattutto sono state bruciate sia le infrastrutture di Vinci che quelle della gendarmeria: oltre ai suoi 800 mq di locali e al computer della sicurezza, Vinci ha perso una trentina di veicoli, mentre l’esercito ha perso due camionette oltre ai locali e a vario materiale (computer, strumenti radiofonici, uniformi).
Attacco del tribunale, del centro di videosorveglianza, della gendarmeria o della scuola — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Infine, più lontano dalle folle, sia approfittando del fatto che le forze repressive erano troppo occupate altrove, sia per alimentare il conflitto in corso con i propri obiettivi, alcuni nottambuli sono andati a fare una passeggiata al chiaro di luna. Da un lato, diversi centri delle imposte o dell’URSSAF [Inps francese] sono stati attaccati in vari modi (con pneumatici incendiati a Venissieux il 2 dicembre, a Riom il 4 dicembre ed a Semur-en-Auxois il 14 dicembre, con taniche di carburante e molotov a Privas l’8 dicembre, con idranti per allagarli a Nyons l’8 dicembre, con molotov a Saint-Andiol il 4 dicembre ed a Saint-Avold il 14 dicembre, con cassonetti dell’immondizia in fiamme a Chalon-sur-Saône il 27 novembre). D’altro canto, colpendo il traffico ferroviario in un periodo in cui per bloccare i flussi non c’è motivo di limitarsi alle strade: una centrale elettrica di segnalazione della SNCF è stata incendiata a Castellas il 30 novembre, mentre quattro giovani gilet gialli che si erano incontrati in una rotatoria in Lorena si sono lanciati in un giro notturno il 28 novembre. Hanno sabotato 9 passaggi a livello tra Saint-Dié e Nancy, rompendo col piede di porco le scatole di comando per costringere il meccanismo ad abbassare le barriere, bloccando così tutta la circolazione stradale. Altrove ancora, una sede elettorale della deputata LREM [En marche] ha perso le sue vetrate a Vernon (Eure) il 29 novembre e idem a Nantes il 6 dicembre, dove le abitazioni di altri due sono state direttamente prese di mira: a Vézac (Dordogne) il 10 dicembre, l’auto della deputata e quella del marito sono andate in fumo; a Bourgtheroulde (Eure), il 15 dicembre, i gilet gialli hanno indicato con 20 cartelli la strada che conduce alla casa del deputato, la cui porta è stata colpita con sei fucilate.
Distruzione dei luoghi dl potere, sabotaggio degli assi di trasporto ferroviario, visite di sedi e case di deputati — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Quando un’antenna di telefonia Orange viene sabotata, come il 12 novembre a Villeparisis, noi non pensiamo immediatamente che ciò vada nel senso di una lotta impantanata nelle gabbie tecnologiche. E quindi? Quando tre siti di Enedis vengono dati alle fiamme, come a Foix il 6 dicembre, noi non pensiamo che ciò vada immediatamente nel senso di una lotta che chiede più Stato e servizi pubblici nelle vicinanze. E quindi?
Esistono tante possibilità di alimentare la guerra sociale quanto individui. Dentro, fuori o vicino ad un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o in molti. Di giorno come di notte. Finché lo si fa con le nostre idee, pratiche e prospettive, lontano dalla politica, dal gregarismo e dalla composizione. Con questo movimento dei gilet gialli oppure in modo più generale, uno dei nodi della questione è senz’altro questo: di fatto, qual è la nostra prospettiva? E quali mezzi ci diamo per raggiungerla, a freddo come a caldo? Un po’ di immaginazione, che diavolo!
[Avis de Tempêtes, n. 12, 15 dicembre 2018]
Tradotto da Finimondo.