Ricominciare, sempre. È il destino, che può apparire alquanto tragico, di tutti coloro che sono in guerra contro questo mondo di infiniti orrori. Lungo la via alcuni cadono sotto i colpi, altri non resistono alle sirene che invitano a rassegnarsi e a rientrare nei ranghi, cioè a cambiare bandiera una volta per tutte. Gli altri, quelle e quelli che insistono a battersi fra alti e bassi, devono ogni volta ritrovare forza e determinazione per ricominciare. Eppure, a ben pensarci, la tragedia non è quella di ricominciare, di ripartire da zero, ma di abbandonare e di tradire se stessi. La coscienza, sempre individuale, può essere un fardello pesante da portare, e diventa crudele quando la si tradisce senza disporre di sufficienti anestetici. Perché questo mondo non ne è privo, e li distilla pure a volontà. Una piccola carriera alternativa in proprio, qualche domenica alla scoperta di un parco naturale, un progetto umanitario o culturale, o magari droghe decisamente più pesanti: schermi di ogni tipo, realtà e socialità virtuali, abbrutimento totale. No, un simile destino ci spaventa assai più di qualsiasi sofferenza, di qualsiasi difficoltà legata all’impossibilità di distruggere l’autorità.
Allora, ricominciare. Per affilare le coscienze in un mondo che le prende di mira lanciando contro di esse i suoi letali veleni. Perché cosa sono l’accettazione, la rassegnazione e la sottomissione, se non il soffocamento della propria coscienza, giustificato — o meno — dalle condizioni in cui siamo tutti impantanati? «Sono troppo forti», «le persone sono troppo stupide», «la mia sopravvivenza è già troppo difficile», «è troppo fuori dalla mia portata» sono le frasi classiche. Allora, affilare le coscienze significa anche riprendere gusto per le idee che permettono di vedere, di distinguere più chiaramente i contorni di coloro che gettano cemento sulla libertà, e nello stesso tempo aprire orizzonti al fine di poter guardare, anche solo furtivamente, al di là dei muri e delle antenne, al di là delle prigioni e dei laboratori, al di là dei massacri e dei soldati. Le idee non si comprano al supermercato e non si approfondiscono su internet. È ogni individuo che le fa proprie passo dopo passo fino ad amarle, e le difende superando ogni ostacolo, soprattutto in tempi come i nostri in cui il totalitarismo democratico, mercantile e tecnologico pretende di sopprimere ogni slancio, di insediare schiavitù e dipendenze ancora più perfide. Da qualche parte si trova il tesoro più prezioso dell’anarchico: la sua convinzione che non vi è adeguamento possibile tra libertà ed autorità, che si escludono reciprocamente, dovunque e sempre. Mille istituzioni, organizzazioni, ideologie cercano di distruggere quel tesoro. Si tratti di uno Stato che affoga nel sangue le grida finalmente risvegliate degli oppressi di ieri o del tecnocrate che parla di libertà per indicare un sistema tecnologico che estende ogni giorno di più la sua influenza in tutto il pianeta. Si tratti di futuri capi che cercano di guidare un movimento di rabbia o dell’abile acrobata della retorica che si sforza di sottrarre significato agli attacchi sferrati contro questo mondo.
Se parliamo di ricominciare, è per esprimere la nostra volontà di riprendere, ancora una volta, l’approfondimento delle nostre idee, per renderle tossiche a tutti gli autoritari che le avvicinano, e rivitalizzanti per tutti gli amanti della libertà che le abbracciano. È per ricominciare ancora una volta, nei contesti che ci sono dati e che sono parecchio cambiati in pochi anni, ad elaborare il nostro progetto anarchico di sempre: distruggere l’oppressione e lo sfruttamento. Nel tempo, se ci applichiamo, sorgeranno altre esperienze, altri tentativi, altri fallimenti: tutto ciò fa parte del nostro arsenale, del nostro patrimonio se vogliamo, che invece di farci cadere in una plumbea malinconia può armarci per ricostruire un progetto di liberazione individuale e collettiva, una prospettiva rivoluzionaria. Certo, è impossibile evitare errori, non ritrovarsi in certi momenti in un vicolo cieco, non naufragare in acque tempestose, ma quei fallimenti fanno parte a pieno titolo del nostro percorso. Come diceva quell’anarchico all’inizio del XX secolo: «Ci muoviamo con ardore, con forza, con piacere in un determinato senso in quanto abbiamo la consapevolezza di aver fatto e di essere pronti a tutto perché questa sia la direzione giusta. Dedichiamo allo studio la più grande cura, la più grande attenzione e impiegheremo nell’azione la massima energia. (…) Per affrettare il nostro cammino, non abbiamo bisogno di miraggi che ci mostrino la meta vicina, a portata di mano. Ci basta sapere che andiamo… e che, se a volte segniamo il passo, non ci smarriamo».
Ma le idee da sole non ci bastano. Sapere che l’autorità è nostra nemica, e che tutto ciò che l’incarna è quindi un bersaglio, dai politicanti agli sbirri, dai tecnocrati agli ufficiali, dai capitalisti ai capireparto, dai preti ai delatori, è una cosa; progettare la distruzione necessaria dei rapporti sociali, delle strutture e delle reti che permettono loro di esistere è un’altra. I vasi comunicanti fra idea e azione sono il cuore dell’anarchismo. Affinché l’idea non appassisca, occorre che l’azione la rinvigorisca. Affinché l’azione non giri a vuoto, occorre che l’idea la incanti. Le idee per corrodere la mentalità di obbedienza, le ideologie e le sottomissioni; l’azione per distruggere le strutture e gli uomini del dominio. E se è sempre ora di agire, se è sempre tempo di colpire ciò che sfrutta ed opprime, l’agire non può essere tuttavia un semplice riflesso condizionato, non può accontentarsi di rispondere (re-agire) al solo caso per caso con rabbia e fragore. Affinché l’agire divenga veramente tale, in una prospettiva anarchica e rivoluzionaria, l’iniziativa deve venire da noi, in una offensiva che parta dalla nostra individualità, dalla nostra immaginazione, dalle nostre analisi e dalla nostra determinazione. Siccome l’agire non ci è concesso e non cade dal cielo, è indispensabile riflettere sul suo come. Ecco perché non possiamo che rimettere sul tavolo ancora una volta la questione della progettualità, la nostra capacità autonoma di proiettare idee ed azioni direttamente nel campo del nemico. Attendere che «la gente» — quella vuota astrazione che ha sostituito il defunto proletariato — prenda coscienza e desideri la libertà, sforzarsi di «educarla», non fa per noi. Non solo perché non funzionerebbe, ma anche perché una simile prospettiva è ormai del tutto obsoleta (sempre che non lo sia sempre stata) di fronte al continuo bombardamento delle menti e delle sensibilità da parte del dominio. Avanzare a poco a poco, lotta dopo lotta, movimento sociale dopo movimento sociale, verso il grande momento in cui tutto convergerà infine per annunciare lo sconvolgimento totale, non ci convince nemmeno: se in ogni rivolta contro ciò che ci viene imposto sonnecchia sempre il potenziale della messa in discussione di tutto al di là del suo punto di partenza iniziale, troppi freni, troppe ripetizioni e canalizzazioni sono all’opera in questo genere di movimenti sociali perché saltino le dighe e si apra l’ignoto della sovversione.
Rimane allora, perdonateci se andiamo un po’ alla svelta, la possibilità di agire da anarchici, per conto nostro — ma al fine di andare ben oltre noi stessi. Restituire i colpi è una base, elaborare una progettualità per non limitarci a colpire, ma anche a distruggere le dighe del dominio, ne è un prolungamento più che desiderabile. È qui che rientriamo nell’ambito dell’insurrezione: la prospettiva di far saltare le dighe, di scatenare le cattive passioni come diceva qualcuno, di aprire un arco temporale per poter dare colpi altrimenti più sferzanti allo Stato e al Capitale. Ovviamente non esistono ricette di insurrezione, malgrado gli appelli da parte dei leninisti moderni che riciclano sotto abiti un po’ meno rattoppati la vecchia ricetta della presa del potere (questa volta dal basso). Ma senza ricette, ciò non impedisce che delle ipotesi anti-autoritarie possano comunque essere ponderate, messe alla prova ed esplorate: da una lotta contro una realizzazione specifica del potere all’intervento autonomo in un accesso di febbre, dalla paralisi di infrastrutture che permettono la riproduzione quotidiana della schiavitù salariale allo sconvolgimento impetuoso ed improvviso dei piani di un nemico in fase di ristrutturazione dall’esito ancora incerto. Sperimentare nella propria stessa vita simili ipotesi insurrezionali su basi anarchiche, anche in piccola scala (la nostra), ci conduce in ogni caso ben oltre i noiosi dormitori del militantismo, oltre i ritornelli speculativi su ciò che pensa o meno «la gente», su ciò che «il movimento» fa o non fa, oltre l’attesa del prossimo movimento sociale, e così di seguito. Significa prendere da sé l’iniziativa di attaccare secondo i propri modi e tempi.
Pensare una prospettiva insurrezionale ed anarchica ci porta infine per forza di cose alla questione di come organizzarci per avanzare in tal senso. Che i sindacati, compresi quelli più o meno libertari, non siano gli strumenti adatti è abbastanza evidente, soprattutto coi tempi che corrono in cui le antiche «comunità» basate sul lavoro sono state accuratamente sezionate e dissolte dai progressi del capitale. Lo stesso dicasi per le grandi organizzazioni anarchiche, con le loro sezioni, i congressi, le risoluzioni e le sigle. Meno evidente è forse il fatto che nemmeno le grandi assemblee (che si amano agghindare con l’aggettivo «orizzontali») hanno senso. Che, pur non negando l’importanza che la discussione aperta e contraddittoria può avere all’interno delle lotte e delle rivolte, e quindi l’eventuale interesse di prendervi parte, gli anarchici non dovrebbero comunque limitarsi a partecipare a questi momenti di scambio, ma anche organizzarsi al di fuori di essi. Che il miglior elemento per garantire i vasi comunicanti tra idea e azione, per avere una reale autonomia di azione, è l’affinità fra individui: la conoscenza reciproca, delle prospettive condivise, una disponibilità all’azione. E che poi, per dare maggiore incisività, aumentare le possibilità, elaborare una progettualità più vasta, coordinare gli sforzi, apportare il proprio aiuto a momenti potenzialmente cruciali, può anche nascere fra tutte queste costellazioni affini — sempre secondo le necessità di un progetto — una organizzazione informale, ovvero una auto-organizzazione senza nome, senza delega, senza rappresentazione… E per essere chiari: le organizzazioni informali sono anch’esse molteplici, in funzione degli obiettivi. Il metodo informale non aspira a radunare tutti gli anarchici in una medesima costellazione, ma consente di moltiplicare i coordinamenti, le organizzazioni informali, i gruppi d’affinità. Il loro incontro può avvenire sul terreno di una proposta concreta, di una ipotesi o di una progettualità precisa. È questa la differenza tra una organizzazione informale, dai contorni per forza di cose «vaghi e sotterranei» (senza cercare riflettori nei confronti di nessuno), ed altri tipi di organizzazioni di lotta, per le quali l’importante è quasi sempre affermare la propria esistenza nella speranza di pesare sugli avvenimenti, dare indicazioni riguardo i percorsi da seguire, essere una forza che rientra nella bilancia degli equilibri del potere. L’organizzazione informale si proietta altrove: sottraendosi alle attenzioni dei cani del dominio, esiste solo nei fatti che favorisce. In breve, non ha un nome da difendere o da affermare, ha solo un progetto da realizzare. Un progetto insurrezionale.
Ecco allora da dove ricominciamo: coi tempi che corrono, in cui le rivolte stentano ad esplodere, e sono più sulla difensiva che offensive, in cui la guerra avanza parallelamente all’ingabbiamento tecnologico del mondo, in cui la rete del controllo si restringe su tutti, quindi anche sugli anarchici, in cui l’adesione di numerosi oppressi al sistema che li abbrutisce costituisce come sempre la miglior difesa di cui il dominio possa servirsi, noi ci ostiniamo a voler propagare le nostre idee di libertà attraverso una lotta senza compromessi con l’autorità. Al di fuori dei cammini battuti, con l’affinità e l’organizzazione informale, coscienti della necessità della rivoluzione sociale, indipendentemente dal fatto che essa possa apparire vicina o più lontana, per trasformare da cima a fondo i rapporti sociali su cui si fonda ogni società autoritaria. Diffondendo così idee ed echi di attacchi distruttivi contro le strutture e gli uomini che incarnano l’oppressione e lo sfruttamento, per aprire orizzonti insurrezionali.
[Avis de tempêtes, Bullettin anarchiste pour la guerre sociale, n. 1, 15 gennaio 2018]
Tradotto da Finimondo.
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