«Gli anarchici hanno sempre perso, non hanno mai vinto nulla». Non è raro sentire frasi del genere anche tra i nemici dell’autorità, assaliti dall’esitazione o dal rimorso. Questo genere di sentenze definitive arriva talvolta ad apostrofare i dibattiti sulle lotte recenti, quando non s’intromettono con sicumera nelle discussioni sui contributi degli anarchici durante i sollevamenti, le insurrezioni e le rivoluzioni di un passato ormai trascorso. Pensando alle orgogliose colonne dei gioiosi miliziani anarchici, che brandivano armi, bandiere ed intonavano canti per sollevare i cuori, mentre lasciavano Barcellona nel luglio del 1936, emettiamo un sospiro nostalgico che ci porta dritti alla malinconia così caratteristica in molti anarchici – secondo un noto cantante – per concludere fatalmente: «Perderemo sempre, siamo le pecore nere della storia».
Eppure, se le speranze possono spesso infiammare il tenero cuore degli anarchici, non dimentichiamo che anche la disperazione è stata un fiele che ha accompagnato molti dei loro viaggi. Innamorati dell’idea, odiavano allo stesso modo gli oppressori. È così che l’amore appassionato che bruciava la loro vita di desideri rasentava un odio feroce che poteva colpire implacabilmente e versare il sangue dei tiranni, dei loro tirapiedi e dei loro adoratori. Ma perché parlare al passato? Quell’universo, quel vocabolario, quel mondo interiore degli anarchici, è forse cambiato? Non si sono accese le speranze quando centinaia di migliaia di oppressi si sono sollevati contro i regimi in carica in molti paesi alcuni anni fa, durante le cosiddette «primavere arabe»? La disperazione nel vedere quei sollevamenti venire liquidati da una reazione dalle molteplici facce non ha armato le braccia di molti di loro per colpire, ancora una volta? Eppure là non c’era traccia di fatalismo, che come vedremo si trova altrove…
Se l’idea anarchica propone la distruzione dell’autorità e dei rapporti sociali che genera, ciò non implica necessariamente una fede nella famosa «aurora di libertà» definitiva e irreversibile. Anzi, contrariamente alla logica della vittoria e della sconfitta, l’anarchia è prima di tutto una tensione, un’idea pratica che tende in permanenza verso la distruzione di ogni potere. La «fede» non ha molto a che vedere con ciò. Se l’orizzonte dell’anarchia non si limita alla rivolta, ma si apre anche alla rivoluzione sociale, è perché per distruggere da cima a fondo il potere non è sufficiente una somma di rivolte individuali. Certo, chi parla di «rivoluzione sociale» negando la rivolta individuale che ne è la base ha un cadavere in bocca, e sarà probabilmente tra i primi ad urlare coi lupi quando un individuo – o un pugno di individui – unirà idea ed azione.
Ma anche al contrario, pensare che la prospettiva di una rivoluzione sociale equivalga a nutrire una fede cieca in una soluzione definitiva, non fa che reintrodurre la nozione di vittoria e di sconfitta, annullando ogni tensione o facendo proprio l’orribile determinismo marxista (quello che ha fatto accettare il peggio ai proletari comunisti del secolo scorso, nel nome della «ineluttabile necessità storica»).
Se un sollevamento o un’insurrezione permettono di accentuare, di approfondire, cioè di generalizzare la tensione verso la libertà, perché non adoperarsi allora al fine di affrettarla, di scatenarla? Davanti all’amnesia storica, all’abbrutimento tecnologico, al livellamento dei cuori e delle menti, a conti fatti, come non sostenere che l’insurrezione è forse ancora più necessaria, più desiderabile che mai? I ritornelli sulle condizioni materiali e sociali che non sono le stesse di quelle dell’inizio del secolo scorso o sul fatto che lo Stato è ormai superattrezzato, a volte logorano la discussione invece di farla avanzare. Gli anarchici sarebbero malinconici al punto di vedere solo i molteplici ostacoli che sorgono sulla loro strada, finendo col dimenticare che la questione è come affrontarli noi stessi, qui ed ora, in una prospettiva acrata. Altrimenti, ciò non si chiamerebbe né lotta, né rivolta, né niente di tutto ciò, ma, prendendo a prestito il gergo marxista, solo l’osservazione della talpa che scava – e che crepa.
Ritorniamo allora al nostro problema iniziale: gli anarchici, con la loro idea di libertà e di distruzione dell’autorità, sono fatalmente condannati a perdere, a vedere cioè tutti i loro sforzi, tutti i loro sacrifici, tutte le loro iniziative liquidati, in tempo di relativa pace come in periodo di estesa rivoluzione? «È sempre stato così nella storia», diranno i pragmatici. «Non bisognerebbe credere nella rivoluzione e nelle masse», diranno i cinici. Ma esiste un’altra possibilità, forse più intimamente anarchica: a differenza dei gatti abbiamo una sola vita, ed osiamo sostenere che è proprio in questa vita, l’unica che abbiamo, che bisogna battersi, vivere questa tensione verso la distruzione dell’autorità. È andando, percorrendo il sentiero che abbiamo scelto, che ci realizziamo, che diventiamo ciò che siamo. È la qualità che fa irruzione nella nostra vita, la qualità dell’idea e dell’azione che vanno di pari passo. Vittoria o sconfitta non hanno significato, laddove non esiste che ostinazione o abbandono, determinazione o rassegnazione, amore e odio appassionato o annientamento politico. Sì, molti anarchici sono sognatori incorreggibili. «Agire significa non pensare più solo col cervello, è far pensare l’intero essere. Agire significa chiudere le sorgenti più profonde del pensiero nel sogno, per aprirle nella realtà», diceva Maeterlinck. Infatti gli anarchici sognano la propria vita ad occhi spalancati, il che comporta armare i loro desideri, le loro convinzioni e le loro scelte per realizzarli. Magari altri sfruttati, una volta saziata la loro rabbia distruttrice, potranno tornare ad adorare un qualche leader, ad inchinarsi davanti un dio, a consolidare un nuovo potere. È possibile, e la reazione fa di tutto perché sia così. Ma ciò non invalida di certo il tentativo iniziale, non invalida gli sforzi degli anarchici di cercare di approfondire la rottura, di distruggere l’autorità sempre più alla radice. Anche qualora ciò non durasse che qualche giorno, qualche settimana o qualche mese, l’occasione di palpare, di sentire vibrare, di vivere pienamente la qualità, non può che attrarre appassionatamente tutti gli amanti della libertà.
Viceversa, è proprio quando gli anarchici rinunciano alla qualità, alla tensione verso la libertà contro ogni autorità, per sostituirla con una logica di vittoria e di sconfitta presa a prestito dalla politica, è allora che viene imboccata la china fatale. Che tutti i fondamenti dell’idea anarchica si erodono, appassiscono e si dissolvono. Che il primo venuto in vesti più o meno libertarie (e chi non sfoggia questo aggettivo, oggi?) può arraffare tutto facendo balenare una organizzazione forte, un vasto lavoro di massa, una presunta temibile efficacia militare, la fine dell’«isolamento». Che l’anarchico, stufo di andare in prigione «per niente» o molto poco, stanco dell’amore insoddisfatto che gli brucia il cuore, sfinito dall’odio che lo nutre e che trova poche complicità, deluso dall’incomprensione dei suoi simili in miseria, afferra la mano avvelenata che gli viene tesa, credendo di superare – finalmente! – le vecchie rigidità e chiusure ideologiche. È là che risiede il solo fatalismo: l’anarchico che rinuncia all’anarchia cercando di farla collimare col concetto di vittoria e di sconfitta. L’amore per l’idea viene allora percepito e respinto come una folle storia di gioventù, bella ed appassionata, ma alla lunga impraticabile.
D’altro canto, la vita degli anarchici non deve per forza assomigliare al passaggio di una cometa che si consuma nell’atmosfera in pochi secondi. Certo, la scelta spetta ad ognuno. Sarà anche più simpatico perire infiammandosi che deperire aspettando la grande sera. Ma non innalziamo opposizioni assolute laddove non devono necessariamente esserci. Seppure in passato certi anarchici si sono accesi intensamente, è opinabile che volessero che ciò avvenisse il più rapidamente possibile. Perché sperare in una fine rapida delle ostilità quando si può cercare di prolungarle senza rinnegarsi? Se la fine è arrivata talvolta molto in fretta per alcuni anarchici del passato, è perché ciò che li circondava, specialmente le forze repressive, hanno colpito rapidamente, troppo rapidamente, non perché essi desiderassero farla finita il prima possibile, o perché cercassero per principio una fine tragica.
La passione per la vita può scontrarsi, anche troppo rapidamente, con le forze che vogliono annientarla; l’odio per l’oppressore può portare ad avvicinarsi pericolosamente alla morte in agguato, sono le conseguenze della scelta di mettere la propria vita in gioco, di vivere piuttosto che sopravvivere. Ribelli per eccellenza, gli anarchici non dovrebbero comunque sviluppare il culto degli occhi bendati. Abbiamo un cervello per riflettere, un cuore per sentire, delle braccia per agire. Perché privarsi di una di queste facoltà? Tra vivere il momento ed aspettare i domani che cantano, c’è un intero oceano di possibilità. Quando ci si lancia nella pugna, ferocemente se è necessario, non lo si fa ad occhi bendati, ma con il mondo che si vuole distruggere nel mirino. La ferocia non si misura con l’accecamento, ma con le prospettive con cui stimoliamo le nostre vite, che diamo ai nostri sforzi. Se dobbiamo essere comete, che sia, ma non affrettiamone la fine. Il nostro passaggio su questa terra è breve, saziamolo sfruttando tutte le possibilità, tutte le potenzialità. Fatale non è scontrarsi con le rocce, ma rendersi conto di non avere una bussola in tasca quando si scatena la tempesta. Contro la logica della vittoria e della sconfitta, contro il fatalismo di una presunta efficienza che annulla qualsiasi tensione anarchica, è pur sempre possibile pensare i passi da fare, orientare le esplorazioni, progettare gli sforzi. L’amore per l’idea e l’odio per l’autorità si combinano perfettamente con una progettualità, con una riflessione a medio e a lungo termine per dare un respiro più ampio, più vasto, più audace al nostro passaggio sulla superficie di questo pianeta.
Più di un secolo fa, un anarchico aiutato da alcuni complici mise in piedi un formidabile piano. Dopo alcuni furti più o meno riusciti, Alexander Marius Jacob alzò lo sguardo per guardare ancora più lontano. Gli venne in mente un’idea folle: invece di accontentarsi di un furtarello simpatico qui e là (già non male), perché non elaborare un vasto progetto di espropriazione su tutto il territorio (ancora meglio)? Alla fine, i lavoratori della notte diventarono centinaia e svaligiarono centinaia di ville borghesi, pianificando minuziosamente i loro colpi, la loro logistica, i loro mezzi (fino ad equipaggiarsi di una fonderia d’oro e d’argento, di un negozio di antiquariato destinato alla ricettazione e di un negozio di ferramenta per ordinare legalmente le più moderne casseforti e studiarle in tutta tranquillità). Alexander Jacob avrebbe potuto accontentarsi di qualche furto occasionale, e forse ciò gli avrebbe evitato la deportazione alla Guyana. Ma ha voluto volare più in alto, per splendere più forte e più a lungo. Nulla è stato facile nel suo viaggio, nessuno sforzo è stato risparmiato, alcune speranze sono andate deluse e l’espropriazione generalizzata non è avvenuta come avrebbe desiderato così ardentemente. E allora?
Non indietreggiamo davanti a ciò che è difficile, affrontiamolo secondo le nostre prospettive. Osiamo lanciarci nei progetti più smisurati, viviamo l’anarchia.
[Avis de Tempêtes, n. 7, 15 luglio 2018]
Tradotto da Finimondo.