Un altro Rubicone è stato attraversato. Ciò che malauguratamente era prevedibile non ha tardato a realizzarsi, favorito da un disgustoso giochino diplomatico avviato dagli Stati Uniti. In seguito al loro annuncio di voler costituire un esercito regolare di stanza lungo il confine turco-siriano – arruolando una parte significativa di combattenti curdi dell’YPG nel nord della Siria –, il regime di Ankara ha lanciato il 19 gennaio una offensiva militare contro l’enclave di Afrin tenuta da questi ultimi.
Ovviamente, questa offensiva era stata preparata da tempo, come dimostra ad esempio l’integrazione di molti gruppi armati islamisti a fianco dei soldati turchi (membri della NATO), un’integrazione che non avviene in pochi giorni. È difficile credere che le diverse potenze presenti
nel conflitto siriano, specialmente la Russia che controlla i cieli, non ne fossero al corrente. Ad ogni modo, sono stati esplicitamente fatti taciti accordi, l’aviazione turca ha bombardato a proprio piacimento le posizioni dell’YPG ed i villaggi attorno ad Afrin, così come la città stessa. Ancora una volta nella storia, la popolazione curda – e non solo – fa le spese di un terribile gioco internazionale.
Il fatto che noi non abbiamo aderito agli elogi della «rivoluzione in Rojava», intessuti da quasi tutta la sinistra e da una parte considerevole di anarchici, deriva da molte ragioni. Una delle più importanti è senza dubbio il fatto che ogni tensione rivoluzionaria sul posto resta subordinata all’agguerrita gerarchia proveniente da una molto classica versione stalinista della lotta di liberazione nazionale.
Che i sollevamenti non privi di spirito libertario di questi ultimi anni – inclusi quelli in Siria – abbiano provocato ripercussioni anche sugli apparati del movimento curdo ci sembra un fatto indiscutibile, aprendo effettivamente la via ad un approccio meno centralizzato e meno dirigistico della lotta in Kurdistan. Tuttavia, ciò non cambia nulla al fatto che un apparato politico-militare resta un apparato, «costretto» a fare tutto ciò che viene prescritto dalla strategia politica: alleanze inaccettabili, improvvise inversioni, repressione delle voci discordanti, propaganda ipocrita. Pur riconoscendo l’importanza dei combattimenti fatti da migliaia di uomini e donne, in Rojava siriana come nelle montagne della Turchia, animati da una certa idea di liberazione, gli elogi ci sembrano come minimo fuori luogo, se non mistificanti, quando la gerarchia dellYPG firmava in piena rivoluzione siriana un «accordo» con il regime sanguinario di Assad per assicurarsi la gestione di una parte del territorio siriano («era una necessità strategica»); quando poi concludeva accordi militari con paesi come gli Stati Uniti per garantirsi rifornimenti d’armi ed addestramento con i loro istruttori («altrimenti come difendersi contro lo Stato Islamico?»); quando non cercava mai di estendere il «conflitto rivoluzionario» fuori dai confini del Kurdistan («bisogna essere realisti») per esempio chiamando a lottare contro le democrazie europee immerse fino al collo nel prolungamento di questa guerra; e quando infine, triste necessità, ha accettato la presenza di almeno duemila soldati americani, francesi, ecc. sul suo «territorio liberato», arrivando oggi ad offrire l’installazione di due basi americane in Rojava, una a Rmeilan e l’altra a sud-est di Kobane. Forse siamo limitati, ma come anarchici continuiamo ad avere qualche difficoltà a comprendere come possa realizzarsi una vera rivoluzione sociale sotto le ali protettrici degli F-16 americani o delle forze speciali francesi.
Ciò detto, stare in disparte da questo conflitto in una sorta di dolce indifferenza per non doversi sporcare le mani ci sembra inaccettabile quanto chiudere gli occhi di fronte alla direzione gerarchica dell’YPG ed alla sua dottrina politico-militare. L’offensiva turca da Afrin fa eco ad esempio alla guerra che il regime di Erdogan scatena contro il Kurdistan in territorio turco a colpi di massacri, bombardamenti ed esecuzioni – del resto non senza incontrare una forte resistenza. In sostanza, sono i termini stessi della questione che andrebbero cambiati. E questo ci sembra valga anche per molti altri conflitti attraversati da enormi strategie geopolitiche, che sia nello Yemen dove la guerra continua senza sosta, nel resto della Siria, in Palestina dove la guerra si intensifica di nuovo, in Ucraina o in numerosi paesi africani.
Certo, possiamo portare il nostro sostegno ai gruppi di combattimento anarchici costituitisi in Kurdistan con chiare prospettive rivoluzionarie. E anche se al momento mancano informazioni più precise – almeno a noi – sulle loro attività e posizioni di fronte alla gerarchia militare dell’YPG, non possiamo che riconoscere un’autentica volontà internazionalista tra i compagni impegnati in tale lotta, auspicando che le loro esperienze e rievocazioni critiche aiutino a capire meglio la situazione. Anche altrove possiamo allo stesso modo portare la nostra solidarietà agli anarchici catturati in una guerra o che subiscono regimi repressivi particolarmente feroci. Sì, possiamo fare tutto questo, ma non solo.
A questo proposito ci tornano in mente le parole di Louis Mercier Vega, instancabile combattente anarchico che ha attraversato numerose situazioni di conflitto acceso in diversi continenti, parole che datano 1977, in piena esplosione di guerriglie e di guerre: «L’eterna considerazione che ogni atto, ogni sentimento espresso, ogni atteggiamento fa il gioco dell’uno o dell’altro antagonista, è senza dubbio esatta. Si tratta di sapere se bisogna scomparire, tacere, diventare un oggetto, per la sola ragione che la nostra esistenza potrebbe favorire il trionfo dell’uno sull’altro. Mentre una sola verità è eclatante: nessuno farà il nostro gioco se non lo facciamo noi stessi. Non voler partecipare alle operazioni di politica internazionale, in uno dei campi in lotta, non significa che bisogna disinteressarsi della realtà di tali operazioni». Fare il nostro gioco, dunque. Per irrigidimento identitario? Per chiusura ideologica di fronte a realtà sociali e storiche complesse? Per paura di impantanarsi e fare da manovalanza? Al di là di queste difficoltà, alcuni ragionamenti ci portano per ben altri motivi a condividere la prospettiva qui esposta dal vecchio combattente acrata.
Il primo parte dal fatto che se l’autorità non è levatrice di libertà, non lo è mai stata, e nessuna auto-organizzazione può nascere da un approccio autoritario, centralista e gerarchico della lotta, resta comunque il fatto che tensioni verso l’auto-organizzazione e la libertà sono spesso presenti pure all’interno di questi conflitti, anche quando questi sono dominati da correnti autoritarie (ad esempio con un’ideologia comunista o di liberazione nazionale). In questo caso, sappiamo in anticipo che gli apparati di queste organizzazioni di lotta, prima o poi non esiteranno a reprimere, schiacciare, recuperare o eliminare tali tensioni, pur mostrando (spesso, non sempre) cautela per non perdere il controllo della situazione. Piuttosto che mettere di fatto le loro energie e il proprio entusiasmo a disposizione di un tale apparato, gli anarchici non potrebbero al contrario immaginare dei modi per sostenere, difendere ed espandere queste tensioni verso l’auto-organizzazione e la libertà, preparando e preparandosi all’inevitabile confronto decisivo con le forze autoritarie?
Numerosi esempi del passato – dall’Ucraina libertaria del 1917-1921 alla Spagna rivoluzionaria del 1936, nonché durante situazioni profonde di conflitto negli anni 70 – ci mostrano come gli anarchici e le tensioni libertarie all’interno di ampie fasce della popolazione perdano in velocità e forza, finendo per essere sconfitti con più o meno facilità, con più o meno terrore e massacri, a furia di aspettare che gli autoritari si «smascherino» da soli scatenando la loro repressione finale. È difficile prevedere il momento di una rottura insurrezionale all’interno di un conflitto che comprende un’importante presenza autoritaria, ma è tuttavia certo che se l’iniziativa non verrà dagli anti-autoritari, se non saremo noi a superare i punti di non ritorno, la rivoluzione sociale sarà condannata a morte certa.
Un secondo ragionamento, più legato ad una situazione di guerra come è il caso oggi in diverse regioni del pianeta, è che fare il nostro gioco, vale a dire combattere per la liberazione totale e per distruggere ogni potere, deve certo prendere in considerazione le analisi sulla situazione politica, sulle questioni strategiche o sui progetti del dominio al fine di avere la conoscenza indispensabile delle condizioni in cui avviene la lotta, ma tale conoscenza non dovrebbe sostituirsi al progetto anarchico stesso. Per essere chiari, non dovremmo in nessun caso mettere tra parentesi, anche se in nome della nostra solidarietà con coloro che si battono, il nostro progetto di distruzione di ogni potere. Solidarizzare, intervenire direttamente in una lotta di oppressi contro oppressori, non dovrebbero quindi comportare il sostegno ai primi quando a loro volta vogliono ergersi a nuovi oppressori. Ciò può effettivamente portarci a tenere una certa distanza da particolari situazioni di conflitto, in assenza di un punto di riferimento che ci aiuti a cogliere le tensioni libertarie presenti al loro interno, e nell’impossibilità di potervi prendere parte direttamente senza mettersi sotto gli ordini di una qualsivoglia gerarchia.
D’altra parte, pur rimanendo nel caso di una simile situazione, se analizziamo le connessioni intrinseche tra guerra esterna e guerra interna, tra l’intervento militare condotto da uno Stato in un paese lontano ed il suo necessario mantenimento di ordine, repressione ed intensificazione dell’accumulazione capitalista all’interno, è difficile non vedere tutte le possibilità di intervento che ci si offrono. Prendiamo ad esempio il caso delle operazioni militari francesi nel Sahel nel nome dell’«anti-terrorismo». La mancanza di un punto di riferimento sul posto che possa aprire l’opportunità di un intervento rivoluzionario diretto e internazionalista, non impedisce affatto di agire anche qui, nello Stato da cui provengono queste operazioni, in quello che se ne serve per consolidare il consenso sociale tra dominati e dominanti, per ottenere importanti benefici o per incrementare la sorveglianza contro chiunque…
Allora sì, fare il nostro gioco. Ma il nostro gioco consiste solo nell’elaborare belle teorie dal porto mentre la tempesta infuria al largo? Mentre migliaia di persone crepano sotto le bombe e si fanno massacrare in nome di un qualsiasi potere? No, impossibile accettare una simile posizione se non si vuole buttare nella spazzatura la coerenza rivoluzionaria che dovrebbe caratterizzare la nostra azione, la sensibilità che si trova nel cuore di ogni nemico dell’autorità, l’etica che ci distingue, talvolta a caro prezzo, dalla politica e dal calcolo. La nostra non dovrebbe quindi consistere in solenni dichiarazioni di principio o in proteste simboliche. Di fronte ai massacri perpetrati ieri nell’ex Jugoslavia o oggi ad Afrin, nello Yemen, in Siria, sulle montagne del Kurdistan, in Palestina, in molti paesi dell’Africa, in Birmania o altrove… bisogna agire da anarchici, cioè agli ordini di nessuno e nel solo nome della libertà, per esempio colpendo la guerra laddove viene prodotta. Nelle imprese belliche, nella logistica degli armamenti, nei profittatori di guerra, nei convogli e nei trasporti di materiale di rifornimento, nei loro centri di ricerca: in realtà, molte piste si presentano a chi vuole opporsi – concretamente – alla guerra in corso.
In questi ultimi anni molti sforzi sono già stati fatti in questa direzione e restano di bruciante attualità, come in Italia dove macchinari di cantiere di imprese attive nella costruzione di una nuova base militare sono stati incendiati nel sud, o dove il laboratorio Cryptolab dell’università di Trento e il polo Meccatronica che partecipano alla ricerca militare sono stati dati alle fiamme. Come anche in Belgio, dove tre grandi imprese del settore bellico sono bruciate, devastando in due casi la quasi totalità di queste fabbriche di morte. Sotto un’altra angolazione ancora, infrastrutture logistiche dell’esercito e di industrie belliche sono state oggetto di sabotaggi, come a Basilea, dove la ferrovia che serve per trasportare le truppe svizzere è stata sabotata, come a Monaco dove la linea ferroviaria per merci utilizzata da un grande complesso militare-industriale è stata sabotata, come a Sant’Antioco in Italia dove un convoglio militare è stato bloccato o sempre in Italia, in Trentino, dove sono state bruciate alcune antenne di telecomunicazione militare. Talvolta alcuni attacchi hanno preso di mira direttamente le forze armate, come a Monaco dove un camion militare è stato dato alle fiamme, a Montevideo dove un’Accademia Militare è stata raggiunta da molotov, a Decimomannu in Italia, dove un incendio ha colpito l’aeroporto militare, a Brema in Germania, dove 18 veicoli militari del genio sono stati inceneriti, a Dresda dove un veicolo militare è bruciato, o anche in Francia quando una caserma della gendarmeria (che è un corpo militare) è stata incendiata o veicoli di gendarmi sono stati bruciati proprio sotto il loro naso. Echi di attacchi contro i profittatori e gli intermediari di guerra sono venuti alla luce, come quei sabotaggi in Italia contro gli interessi della multinazionale del petrolio e del gas ENI, coinvolta nel conflitto libico, o come a Parigi quando un attacco incendiario contro un camion-betoniera di Lafarge è certo fallito, ma non senza trovare un’eco a Tolosa il mese seguente, dove tre di questi stessi camion sono andati in fiamme. Lafarge-Holcim è un produttore di cemento che ha importanti interessi economici in Siria, dove da un lato ha costruito bunker per conto del regime di Assad, e dall’altro ha collaborato finanziariamente con lo Stato Islamico in nome del business as usual, quando le sue industrie di cemento si trovavano nel territorio occupato dall’ISIS.
Queste poche piste ed esempi recenti non sono destinati ad aiutarci a trovare più facilmente il sonno mentre i massacri continuano. Non sono litanie da recitare per mettere in pace la propria coscienza. Trovano qui il loro posto semplicemente perché nei fatti è attaccare la guerra, suggerendoci delle possibilità di intervento laddove ci troviamo. Il progetto anarchico di liberazione totale non può fare a meno – ancor più in questi tempi di accresciuta militarizzazione e di continue guerre – di un approfondimento su come intervenire in tali situazioni, che ci si trovi nel cuore del conflitto o, per così dire, ad una certa distanza geografica. Esprimendosi attraverso l’attacco, simili approfondimenti probabilmente diranno a coloro che stanno combattendo contro un’oppressione molto più della nostra concezione di libertà e solidarietà, che issare bandiere che non possono essere le nostre.
[Avis de tempêtes, n. 2, 15 febbraio 2018]
Tradotto da Finimondo.