Le chiacchiere rendono ciechi. Fanno saltare gli ultimi ponti che ancora rimangono tra il pensiero e l’azione. A forza di essere sommersi da fiumi di parole, a forza di girare in tondo, tutto sommato per non dire nulla, a forza di partecipare con entusiasmo al crescendo di parole vuote, anche le cose più semplici finiscono col diventare grandi enigmi come l’origine del mondo o il senso della vita.
Prendiamo ad esempio una miniera nell’Ariège, nel sud della Francia, che lo Stato ed uno sfruttatore vogliono riaprire. Non una miniera qualsiasi, sarebbe troppo semplice: no, una miniera di tungsteno, quel metallo tanto ambito dall’industria d’armi ed aeronautica. Un metallo i cui giacimenti sono piuttosto rari ed il cui prezzo sul mercato non smette di salire. Un metallo molto più duro del piombo, e che perciò figura in alto nella lista dei componenti di munizioni e di bombe perforanti. Che lo sfruttamento di una miniera di tungsteno, come del resto di qualsiasi altra miniera, comporti la devastazione del territorio, un inquinamento che favorisce terribili malattie e perfino il logorio calcolato della salute dei minori, questo è ovvio, malgrado le forti dosi di neolingua a base di «tecnologia verde», di «nucleare pulito», di «sviluppo sostenibile» ed altri «oggetti intelligenti» che possono illustrarci tutti i suoi promotori.
Dopo l’annuncio del progetto di riapertura di questa miniera chiusa nel 1986 dopo trent’anni di sfruttamento, una miniera che costituisce un interesse strategico assodato per la Francia e la sua industria di difesa, il debordare di chiacchiere, di opposizione cittadinista, di ricorsi giuridici e di «dibattiti pubblici» avrebbero potuto costituire una autentica inondazione in grado di spegnere e contenere ogni velleità di rivolta o di reazione diretta e senza compromessi. Fortunatamente non è stato così, e nella notte fra il 25 ed il 26 aprile 2018, alcuni anonimi hanno preso in mano la situazione appiccando il fuoco agli edifici ristrutturati della miniera di tungsteno di Salau, situata a Couflens nell’Ariège. Due distinti focolai hanno distrutto un locale tecnico/laboratorio e danneggiato un secondo edificio. Con mezzi semplici: dopo aver sfondato con una mazza un muro sul retro del laboratorio, questi anonimi vi hanno introdotto alcuni copertoni posizionandoli sotto un serbatoio di 1000 litri di olio combustibile. Senza bisogno di altro: il serbatoio è esploso, devastando l’intero edificio tecnico. Nel secondo edificio, le fiamme sembrano aver avuto maggiore difficoltà a propagarsi, pur danneggiandone la struttura. Ecco un atto chiaro, diretto, senza ambiguità: distruggere ciò che ci distrugge. Attaccare laddove la devastazione, la guerra e l’oppressione vengono prodotte.
Forse qualcuno dirà che bisognerebbe parlare anche dell’opposizione in corso nella regione, generata da questa possibile riapertura. Ci sono stati cortei, blocchi, oltre ad interpellanze politiche o ricorsi legali. Ma diciamolo francamente, basta con le chiacchiere: la proposta anarchica non può consistere in manifestazioni per «marcare il nostro disaccordo», né in blocchi simbolici «per attirare l’attenzione», o in qualsiasi altra cosa non legata ad una tensione verso l’azione diretta e l’auto-organizzazione. Per questo, esiste già tutto un ventaglio di colori politici, dal rosso al verde al giallo, non c’è bisogno che gli anarchici ci si mettano a loro volta. Ciò che proponiamo è diverso, e non ha a che fare con una logica democratica o basata sul consenso: l’attacco diretto, con i mezzi che ciascuno considera opportuni. Non per dimostrare qualcosa a qualcuno, né per aggiungere una voce più radicale ad una protesta troppo gregaria, ma perché riteniamo che la sola maniera reale di opporsi a questo mondo di oppressione e di sfruttamento, sia cercare di distruggerlo. Sia attraverso l’azione, colpendo le sue strutture ed i suoi uomini, che attraverso il pensiero, corrodendo le ideologie che legittimano il potere e la mentalità di obbedienza e sottomissione che lo sostengono.
Forse altri ancora diranno che bisogna parlare, cifre alla mano, delle devastazioni provocate da una miniera di tungsteno, di quanti chili ne servano per costruire un missile, o perché no, della manifestazione successiva a questo sabotaggio, sfilata per le strade di Saint-Girons, «capitale» di Couserans, la regione in cui si trova il giacimento. Una manifestazione di 500 persone, che hanno risposto all’appello della CGT e della Federazione dei cacciatori (il cui presidente locale è d’altronde il proprietario del terreno) a favore dello sfruttamento del tungsteno e per l’occupazione nella regione, malgrado sia per l’industria bellica e a prezzo dell’inquinamento del territorio. Che fare di fronte a simili manifestanti, a simili servitori del potere? Non tutti erano rappresentanti politici, grandi o piccoli borghesi del posto. C’erano anche proletari, poveri, contadini. Come un riflesso delle fabbriche di morte, che non funzionano solo con gli ingegneri ma anche grazie ai bravi sfruttati come si deve, magari perfino piuttosto orgogliosi del proprio lavoro e della propria perizia. La responsabilità individuale non può fermarsi ai confini «della classe». Chi produce la guerra, può aspettarsi che gli venga dichiarata guerra.
Per finire, e guardare un po’ più in là, da dove proviene il tungsteno dell’industria bellica, dato che la miniera di Salau era chiusa fin dal 1986? Se i più grandi produttori a livello mondiale sono la Cina e la Russia, esistono comunque importanti giacimenti nella stessa Europa. Il Portogallo produce circa 700 tonnellate di tungsteno all’anno, proveniente dalle miniere di Panasqueira nel comune di Covilhã (nel centro del paese), l’Austria mette sul mercato più o meno la stessa quantità, sfruttando i giacimenti di Mittersill nella regione di Salisburgo. La Spagna produce 500 tonnellate all’anno nella miniera a cielo aperto di Barruecopardo, nella provincia di Salamanca. La produzione degli altri paesi è più modesta, come in Norvegia, dove si trova la miniera a cielo aperto di Målviken nel Nordland, e come in Inghilterra, dove sono in corso dei lavori dal 2014 per riaprire la vecchia miniera a cielo aperto di tungsteno Drakelands Mines nella regione del Devon.
Ricordiamo inoltre che il tungsteno fa parte della famiglia dei «metalli rari» come la grafite, il cobalto, l’indinium, i platinoidi o le terre rare. Il loro sfruttamento è in genere estremamente inquinante (la Cina è il più grande produttore di questi «metalli rari», sacrificando la salute di decine di milioni di esseri umani a questa attività industriale che ha trasformato vasti territori in zone completamente tossiche). Nessun oggetto tecnologico odierno potrebbe venire fabbricato senza questi metalli, si tratti di telefoni cellulari, transistor, pale eoliche o missili. Per contrastare la dipendenza del rifornimento di metalli preziosi (oltre il 90% dell’importazione nell’Unione Europea è d’origine cinese), molte aziende europee si sono lanciate nel «riciclaggio» dei metalli rari, estraendoli dai rifiuti attraverso altri procedimenti chimici estremamente tossici. E da qualche anno si stanno alzando diverse voci a favore di uno sfruttamento conseguente delle riserve di metalli rari sul suolo europeo. Nel 2013 il progetto EURARE, finanziato nell’ambito del programma di ricerca europeo Orizzonte 2020, ha rilanciato le esplorazioni e ha presentato lo scorso anno il suo rapporto pubblico. È il preludio di possibili nuovi sfruttamenti minerari localizzati soprattutto in Svezia, Grecia, Finlandia e Spagna, e in misura minore in Germania, Norvegia, Italia, Austria, Ungheria e Portogallo.
È allora difficile sottovalutare l’importanza del sabotaggio incendiario dello scorso aprile a Couflens: non solo offre un perfetto suggerimento ai nemici di questo mondo e alle lotte che potrebbero svilupparsi contro nuovi sfruttamenti minerari, ma è anche un attacco effettivo contro un pilastro importante della produzione del dominio tecnologico che ha un bisogno cruciale di tutti questi metalli rari.
Lo scorso mese, almeno altri due attacchi contro lo sfruttamento delle risorse naturali sono avvenuti altrove. A Kouaoua (Nuova Caledonia), la serpentina del centro minerario della SLN è stata ancora una volta bruciata anonimamente (è la terza volta in meno di un anno), paralizzando l’industria del nichel, di cui un terzo delle riserve mondiali si trovano su questa isola del Pacifico colonizzata dallo Stato francese. La serpentina — un nastro trasportatore lungo una decina di chilometri — è fondamentale per spostare il minerale dalla montagna fino al porto. Nei Bauges (Savoia), sono stati degli «umani come falene» a rivendicare l’attacco incendiario contro una cava di Vicat, il terzo produttore di cemento francese. Una stazione di trasformazione elettrica, l’edificio, la cabina dei comandi, i computer di una macchina estrattrice così come vari macchinari edili sono andati in fumo. «Il cemento che trasuda da tutti i pori di questa società ci priva di vita, di sensazioni, di sostanza. Le foreste gestite in modo ecosostenibile assomigliano a fosse comuni» si legge nel loro testo, che conclude dicendo: «Questo è solo un bagliore d’incendio nelle profondità del bosco, è solo un barlume ma ci aiuta a muoverci nell’oscurità, a costo in qualche caso di bruciarci le ali». Un’azione che ha posto fine, anche qui in maniera diretta, ad una delle attività nocive su cui si fondano lo Stato ed il Capitale. Semplicemente.
Il controllo si fa più serrato, le lotte possono apparire disperate, le proteste di strada più o meno radicali sembrano aprire ben pochi orizzonti sovversivi, ma una cosa resta sicura e certa: agire è sempre possibile. Un po’ di creatività, di determinazione, qualche sforzo per guardare oltre l’apparenza, qualche conoscenza di base. In piccoli gruppi e attraverso l’azione diretta. Per colpire e distruggere tutto ciò che perpetua questo mondo di autorità.
Basta con le chiacchiere legalitarie e i tentennamenti politicanti. Avanti, per l’anarchia con la libertà nel cuore!
Avis de Tempêtes, n. 5, 15 maggio 2018.
Tradotto da Finimondo.