Non faceva molto caldo quel giorno. Eppure il sole aveva brillato per tutto il giorno sulla capitale francese. Il 4 aprile 2019, alcuni uomini sono atterrati sull’asfalto di un qualsiasi aeroporto parigino. Venivano dalla Libia e avevano una missione: chiedere l’accordo di quello Stato per scatenare una vasta offensiva militare. Quegli uomini arrivati in tutta fretta erano emissari del maresciallo Haftar, capo dell’esercito nazionale libico (ANL). Parigi aveva dato il via libera. Qualche ora dopo, migliaia di soldati dell’ANL si sarebbero messi in marcia per conquistare Tripoli, la capitale libica nelle mani del governo di unità nazionale (GNA), riconosciuto dagli organismi internazionali come il «governo legittimo» di un territorio lacerato tra milizie, parlamenti, gruppi paramilitari, mercenari e jihadisti.
Dal 4 aprile, le battaglie hanno causato centinaia di morti e feriti fra i combattenti e la popolazione. Mentre le truppe dell’ANL avanzavano, decine di migliaia di persone erano in fuga, 13000 delle quali solo per sfuggire alla battaglia di Tripoli che era iniziata. Migliaia di altre si apprestarono a salire a bordo di barche improvvisate nel tentativo di raggiungere un’Europa che aveva trasformato il Mediterraneo in un gigantesco cimitero.
ANL e GNA, una guerra tra due blocchi di potere, uno detestabile come l’altro. Ma non è tutto, non è mai «solo» questo. Altre forze operavano all’ombra dei ministeri e dei palazzi dorati, come in tutti gli altri conflitti che insanguinano il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Africa centrale: interessi geopolitici, interessi commerciali, equilibri di potere e di potenze, conquiste di mercato, accesso alle risorse, basi militari,… tutto intrecciato. Ma prima, facciamo un veloce ritratto del maresciallo Haftar – ci aiuterà a capire il resto.
Nel 1969, Khalifa Belqasim Haftar partecipa al colpo di Stato che porta al potere il colonnello Gheddafi. Nel 1987, forte del suo addestramento in prestigiose scuole sovietiche, guida il corpo di spedizione dell’esercito libico contro il Ciad, il cui sanguinario dittatore Hissène Habré è sostenuto da Francia e Stati Uniti. Sconfitto e catturato, Haftar viene imprigionato a N’Djamena, la capitale del Ciad, dove cambia bandiera e riceve l’incarico dagli Stati Uniti di comandare una «forza Haftar» in Ciad per rovesciare Gheddafi. Altro fallimento: nel 1990, dopo l’elezione del presidente del Ciad Idriss Déby, vicino al leader libico, viene spedito d’urgenza negli Stati Uniti. Ormai soprannominato «l’uomo degli americani», Haftar si installa vicino a Langley – sede della CIA – e continua a lavorare senza successo per il rovesciamento di Gheddafi. Nel 2011, Haftar ritorna in Libia durante la rivolta che porterà alla caduta del colonnello Gheddafi. All’inizio del periodo di transizione, elevato al grado di tenente generale, comanda per un breve periodo la componente terrestre delle forze armate libiche. Ma gli islamisti, maggioritari nella ribellione vittoriosa, non gli perdonano d’essere un «uomo degli americani». Ancora un fallimento: Haftar ritorna negli Stati Uniti nella sua casa in Virginia alla fine del 2011. Rientrato in Libia all’inizio del 2014, in un paese spaccato in due (area di Tripoli e area di Tobruk) e con un discreto sostegno internazionale (tra cui Francia, Arabia Saudita ed Egitto), il maresciallo decide di creare una propria forza armata, alla quale si uniscono milizie locali ed elementi dell’ex-esercito libico. Nel frattempo, «l’uomo degli americani» che voleva affermarsi come l’uomo forte del paese, diventa discretamente anche «l’uomo dei francesi». Mentre l’Eni, la compagnia petrolifera italiana, si aggiudica importanti contratti per i pozzi di petrolio sotto il controllo del governo di Tripoli, la Total si rifà coi depositi sotto il controllo dell’ANL di Haftar. È infatti nel castello di La Celle Saint-Cloud, negli Yvelines, e alla presenza dello stesso Macron, che nel luglio 2017 viene firmato un primo cessate il fuoco tra il governo di Tobruk, di cui Haftar è il braccio armato, e quello del suo rivale di Tripoli.
Sebbene gli aiuti francesi inizialmente siano volutamente discreti, ciò non sfugge certo all’attenzione di molti libici che hanno visto operare le forze speciali francesi, naturalmente nel nome della «lotta al terrorismo», accanto ai soldati di Haftar. D’altronde, neanche il fatto che quei soldati dispongano di materiale bellico prodotto in Francia impedisce alle aziende belliche francesi di vendere il loro arsenale anche al governo avversario di Tripoli. Il gioco sanguinario è ben noto: le armi sono vendute come dosi, dosi di morte, in funzione degli obiettivi che lo Stato conta di realizzare. Niente di più semplice, visto che si vendono alcune centinaia di blindati a un campo, e all’altro, volendo favorirne la superiorità, si vendono i lanciarazzi appropriati. Il primo campo è soddisfatto del proprio acquisto, il secondo lo è ancor più nel vedere i nuovissimi blindati esplodere in fondo ai mirini dei loro congegni telecomandati. Ma i più felici di tutti sono le aziende e lo Stato francesi, che hanno realizzato profitti da entrambe le parti perseguendo nel frattempo il proprio programma strategico. La ragione di Stato non ha nulla, assolutamente nulla a che vedere con le chiacchiere sul rispetto per la vita umana, la libertà, il diritto o la giustizia.
Questa Repubblica francese di libertà, uguaglianza e fratellanza è putrida quanto i cumuli di cadaveri rivoltosi su cui è costruita e che continua ad accumulare in tutto il mondo. Se decenni di guerre sporche e di operazioni «antiterroristiche» condotte dagli Stati Uniti e da Israele hanno associato questi due Stati nell’immaginario della stragrande maggioranza della popolazione mondiale a porcherie di ogni sorta nel nome dei loro interessi particolari, la Francia è in generale riuscita a preservare la propria immagine di «paese dei diritti umani». Nonostante le numerose schegge sul suo stemma durante la guerra d’Algeria e la feroce repressione delle lotte di liberazione nazionale nelle sue colonie, continua a pavoneggiarsi come se non fosse successo nulla. Ci sbaglieremo, ma è anche usando questo capitale culturale come scudo che la Francia è sempre riuscita (soprattutto nell’ultimo decennio) a fare guerre senza subire troppi danni o a vendere le proprie competenze guerrafondaie a tutte le latitudini. Facciamo l’esempio dei regimi oggetto di certe critiche e sostenuti militarmente dalla Francia, come l’Arabia Saudita nella sua guerra allo Yemen, il Congo in preda ad eterne «guerre civili» spesso in un contesto di competizione nello sfruttamento di risorse e di metalli preziosi, l’Egitto tra le ribellioni e la loro sanguinosa repressione, il Marocco durante la rivolta del Rif, eccetera eccetera. E questo, naturalmente, quando non spaccia le sue tecnologie nucleari e non dispiega le sue forze speciali per «combattere i terroristi» nel Ciad, nel Mali o in Siria sul versante YPG.
Ma la maschera non cade. Non è caduta ieri, non cade oggi di fronte al classico esempio di «guerra per procura» che sta conducendo il maresciallo Haftar. Lo Stato francese può tranquillamente continuare a far risplendere il suo stemma di valori repubblicani. Per altro, gode anche di un ampio consenso tra i suoi sudditi – ma sì, diciamolo, di un ampio consenso. Magari di un consenso passivo, tacito, ovvero generato, o come si voglia dire, però c’è, e di fatto sostiene la politica del proprio Stato. Con l’eccezione delle ondate emotive legate alla situazione internazionale nel corso delle due guerre del Golfo o di quella nell’ex-Jugoslavia – ma tutto ciò risale a molto tempo fa – e mentre scendere in piazza per esprimere la propria opposizione all’orribile affare tricolore di morte è il minimo in un territorio dove non si è persa l’abitudine di dimostrare, la maschera rifiuta ostinatamente di cadere. Eppure le cose sono ormai chiare: dall’inizio delle rivolte e della loro conseguente repressione in Nord Africa e Medio Oriente, le vendite di armi made in France sono passate da 4,8 miliardi di euro nel 2012 a 6,8 miliardi di euro nel 2013, poi a 8,2 miliardi nel 2014, a 16,9 miliardi nel 2015 e a circa 20 miliardi di euro nel 2016. Le esportazioni di armi rappresentano quindi più del 25 per cento di tutte le esportazioni dalla Repubblica mortifera.
Lungi da noi l’idea di voler svalutare la rabbia che è scesa in strada negli ultimi mesi, dobbiamo notare che alla rabbia di fine mese manca qualcosa, se non parecchio. Manca, ad esempio, una certa profondità per guardare oltre le proprie cipolle, oltre una mera, insipida e sempre più costosa sopravvivenza. Quando giustamente protestiamo contro i poliziotti che mutilano dei manifestanti, quando denunciamo le aziende che forniscono armi alle divise locali, come non fare il legame tra queste stesse aziende e il fatto che fabbricano le armi che mutilano e uccidono in molti altri paesi generosamente riforniti dall’industria francese, e su ben altra scala? Quando protestiamo contro il prezzo del carburante e l’aumento della sua tassazione da parte dello Stato, come non fare il legame con le guerre e i massacri per il petrolio in cui lo Stato francese è quanto meno corresponsabile, se non mandante (come pare sia il caso oggi del maresciallo Haftar, dittatore militare in divenire)?
Non si tratta di puntare il dito contro qualche schiavo in particolare, ma del meccanismo di servitù volontaria che mira a renderci tutti vittime e carnefici, a meno che la catena di sottomissione non venga spezzata. Si tratta di capire che lo Stato di questo paese è uno Stato nel senso più ampio del termine. Uno Stato che si occupa di tutto: organizzare elezioni e mutilare i suoi manifestanti, insegnare ad altri regimi i diritti umani e assumere mercenari, predicare la pace ai paesi belligeranti e simultaneamente condurre operazioni militari a destra e a manca, schiacciare e torturare (cos’altro è il carcere?) coloro che disturbano o sono superflui e mettere a disposizione del buon cittadino un apparato amministrativo onnipresente. Lo Stato francese non è diverso dai suoi omologhi, ma ciò che li contraddistingue sono in particolare i margini di cui ciascuno di loro dispone per difendere e imporre gli interessi intrecciati che i potenti hanno loro affidato nel quadro nazionale. Margini di manovra che creano responsabilità da pagare in un modo o nell’altro…
E allora, lo stemma umanitario dello Stato francese deve essere fracassato una volta per tutte. Nel corso del XIX secolo, quando questo Stato si è consolidato sui cadaveri dei rivoltosi nelle colonie e sui cadaveri degli insorti di tante rivoluzioni affogate nel sangue (giugno 1848 e la Comune), un rivoluzionario anarchico, Ernest Cœurderoy, ha espresso un desiderio molto speciale. Constatando amaramente che i rrrivoluzionari liberali e socialisti trascorrevano il loro tempo ad immaginare uno Stato migliore, uno Stato più giusto… ma fondamentalmente uno Stato pur sempre totalitario per natura, per quanto adornato coi valori della Grande Rivoluzione, si è rivolto ai cosacchi. Hurrah! Auspicava la discesa dei cosacchi, di quelle energie vitali ostili alle chiacchiere e alla cultura politica, di quei terribili barbari che lasciano dietro di sé solo le rovine di ipocrite civiltà. Egli credeva che una vasta opera di distruzione di questo mondo fosse necessaria prima dell’inizio di una vasta opera di costruzione di un nuovo mondo.
Oggi, di fronte alle guerre che lo Stato sta conducendo in tutto il mondo, di fronte alla repressione che scatena nelle strade e alle frontiere, di fronte al cannibalismo sociale che fomenta tra la popolazione e di cui approfitta per riaffermare la sua supremazia, le chiacchiere sono inutili. Le denunce sono inutili. Gli appelli alla coscienza sono inutili. È prima di tutto attraverso il fuoco che dobbiamo passare. Con audacia, per strappare la maschera che copre un bellicismo di cui ci vorrebbe tutti complici. Né la loro pace, né la loro guerra, Hurrah!
[Avis de tempêtes, n. 16, 15/4/19. Tradotto da Finimondo]