«L’eolico industriale non è altro che la prosecuzione della società industriale con altri mezzi. In altre parole, una critica pertinente dell’elettricità e dell’energia in generale non può che essere la critica di una società per la quale la produzione di massa di energia è una necessità vitale. Il resto è solo un’illusione: un’approvazione mascherata della situazione attuale, che contribuisce a mantenere nei suoi aspetti essenziali»
Le vent nous porte sur le système, 2009
Una notte di tempesta. Le scariche elettriche illuminano il cielo mentre i fulmini sembrano annunciare la fine del mondo. Se non è arrivata il 1° giugno 2018 a Marsanne (Drôme), quella notte è comunque successo qualcosa, o meglio due cose, che hanno finito per incontrare un destino insperato: due turbine eoliche sono state attaccate. Una si è incendiata completamente, la seconda è rimasta danneggiata. Le pandora indispettite e il gruppo RES non hanno potuto che constatare le tracce di effrazione sulle due porte di accesso alle colonne giganti, su cui sono appollaiate la turbina e le ali di questi mostri industriali di energia rinnovabile. Due in meno, tra le migliaia impiantate in Francia nel corso dell’ultimo decennio. O meglio tre, se contiamo l’incendio di quella dell’altopiano di Aumelas, non lontano da Saint-Pargoire (Hérault), quattro giorni dopo, per una di quelle coincidenze temporali che a volte fa la cosa giusta.
Che queste turbine eoliche non abbiano nulla a che fare con i pittoreschi mulini a vento del passato – che, a proposito, erano nella maggior parte dei casi importanti fonti di accumulazione per il notabile più o meno locale che si attirava spesso l’ira della rabbia contadina – dovrebbe essere abbastanza ovvio. Ma allora, perché gli Stati di tanti paesi incoraggiano la creazione di «parchi eolici» sulle alture delle colline, delle valli e fin dentro il mare? Forse non è esclusivamente frutto di un calcolo matematico, perché neppure gli ingegneri possono modificare tutte le cifre, e devono ammettere che le turbine eoliche non girano più del 19% del tempo in un anno (un fattore di capacità ben più basso delle centrali nucleari che raggiungono il 75% o delle centrali a carbone, tra il 30 e il 60%). Né può dipendere dalla volontà di trasformare l’intero settore energetico in «rinnovabile», perché ciò sarebbe semplicemente impossibile mantenendo lo stesso tasso di elettricità che si divora (per la Francia, bisognerebbe impiantare una turbina eolica ogni 5 chilometri quadrati). Non può essere per il bene dell’«ambiente», a meno di farsi buggerare dai discorsi smart di una tecnologia pulita, dato che niente come la produzione e l’installazione di turbine eoliche (per non parlare della rete elettrica centralizzata a cui devono essere collegate) comporta l’estrazione di materie molto rare e molto tossiche, navi mangia-petrolio per trasportare i minerali, enormi fabbriche per fabbricarle, autostrade per dirottare le varie parti e via di seguito. Infine, ciò non servirebbe a mettere i bastoni tra gli ingranaggi delle grandi multinazionali dell’energia che hanno accumulato una fortuna soprattutto col petrolio e col gas, essendo queste le stesse imprese che investono notevolmente nelle energie rinnovabili. No, in questo modo non ne veniamo a capo, dobbiamo trovare un’altra spiegazione.
Eliminiamo sin dall’inizio tutte le fanfaronate ambientaliste ed ecologiste, ormai brandite non solo dai cittadinisti di servizio, ma anche da quasi ogni azienda, ogni Stato, ogni ricercatore. Non c’è alcuna «transizione energetica» in corso, non c’è mai stata nella storia. Checché ne dicano gli adorabili dipendenti delle start-up tecnologiche, lo sfruttamento della forza muscolare dell’essere umano non è mai stato abbandonato… La generalizzazione dell’utilizzo del petrolio non ha provocato l’abbandono del carbone. L’introduzione forzata del nucleare non ha portato in nessun luogo alla scomparsa di centrali «classiche» funzionanti a gas, gasolio o carbone. Non ci sono transizioni, ci sono solo addizioni. La ricerca accelerata di nuove risorse energetiche corrisponde unicamente ad interessi strategici, non certo etici. In un mondo non solo dipendente, ma iper-dipendente dall’energia elettrica, è necessario diversificare i modi per produrla. Per aumentare la resilienza dell’approvvigionamento, di fondamentale importanza in un mondo connesso che funziona per flussi Jit [Just-in-time] a tutti i livelli, la parola d’ordine è diversificare e moltiplicare le fonti, anche per far fronte ai noti «picchi di consumo» i quali, per ragioni tecniche, non possono essere affrontati con un solo tipo di produzione elettrica (come l’energia nucleare, ad esempio). Quindi, non solo lo sviluppo dell’eolico e del solare, ma anche delle centrali a biomassa, della colza geneticamente modificata usata come biocarburante (che acrobazie permette il linguaggio del tecnomondo!), di nuovi tipi di centrali nucleari, di materiali conduttori nanoprodotti che promettono di ridurre di infime micro-percentuali la perdita di calore nel corso del trasporto dell’elettricità, e l’elenco non finisce qui.
Non è perciò sorprendente che dei tre settori indicati dai programmi di ricerca europei finanziati nell’ambito di Horizon 2020, uno sia proprio quello dell’energia.
Ma allora, cos’è questa energia e in cosa consiste la questione energetica in generale? Come hanno messo in luce molte lotte del passato, specialmente quelle contro il nucleare, l’energia è un’asse-cardine della società industrializzata statale e capitalista. Se energia significa produzione, la produzione consente il profitto tramite la mercificazione. Se energia significa potenza, la potenza consente la guerra, e guerra significa potere.
Il potere concesso dal controllo della produzione di energia è immenso. Per rendersene conto, gli Stati occidentali non hanno atteso la crisi petrolifera del 1973, quando divenne evidente a tutti la loro dipendenza dai paesi produttori di petrolio intenzionati a seguire i propri piani di potere. Questo è uno dei principali motivi con cui molti Stati, tra cui la Francia, giustificarono la moltiplicazione di centrali nucleari: poter disporre di una relativa indipendenza energetica e usarla come arma per costringere altri paesi a rimanere nei ranghi. Ma una cosa è forse ancora più importante, ed è qua che la critica del nucleare e del suo mondo ci permette di cogliere in tutta la sua portata il ruolo dell’energia nel dominio: il nucleare ha confermato che solo lo Stato e il Capitale devono possedere le capacità di produrre energia, che queste capacità rappresentano un rapporto legato al grado di dipendenza delle popolazioni, che qualsiasi sussulto rivoluzionario che voglia trasformare radicalmente il mondo dovrà confrontarsi con questi mastodonti dell’energia. In breve, che energia significa dominio. Come sottolineato in un saggio critico molto documentato apparso alcuni anni fa che collegava la questione dell’energia nucleare a quella eolica: «la maggior parte dell’energia attualmente consumata serve a far funzionare un macchinario schiavizzante da cui vogliamo uscire».
Ciononostante, evocare la questione dell’energia spesso suscita ancora, anche tra i nemici di questo mondo, come minimo un certo imbarazzo. In effetti noi associamo il più delle volte l’energia alla vita, proprio come gli specialisti dell’energia i quali hanno ampiamente contribuito a diffondere una visione che spiega ogni fenomeno vitale attraverso i trasferimenti, le perdite e le trasformazioni di energia (chimica, cinetica, termodinamica…). Il corpo non sarebbe altro che un ammasso di processi energetici, proprio come una pianta sarebbe solo un insieme di trasformazioni chimiche. Un altro esempio di come una costruzione ideologica influenzi – e sia a sua volta influenzata da – le relazioni sociali, è l’associazione molto attuale tra mobilità, energia e vita. Spostarsi di continuo, non rimanere sul posto, «vedere il paese» saltando da un treno ad alta velocità ad un aereo low cost per percorrere in un baleno centinaia di chilometri, è un nuovo paradigma di «successo sociale». Viaggio, scoperta, avventura o ignoto sono parole che ormai appaiono in primo piano su tutti gli schermi pubblicitari, distruggendo attraverso un’assimilazione distorta un’intera dimensione dell’esperienza umana, ridotta a visite veloci e senza rischi di luoghi allestiti a tale scopo. Fino ad alloggiare in una stanza con sconosciuti, debitamente controllati, garantiti e gestiti dalla tracciatura e dai database di una piattaforma virtuale. Forse è per questo che le gote arrossiscono o le labbra incominciano a tremare quando qualcuno osa suggerire che si dovrebbe tagliare l’energia a questo mondo.
Superare tale imbarazzo non è facile. Tutta la propaganda di Stato ci mette in guardia continuamente, col supporto di immagini di vere guerre, su cosa significherebbe la distruzione del rifornimento energetico. Tuttavia, un piccolo sforzo per sbarazzarsi delle visioni che infestano le nostre teste sarebbe un passo necessario. E questo, senza voler sviluppare «programmi alternativi» per risolvere la questione, perché in questo mondo essa non può essere risolta. Le città moderne non possono fare a meno di un sistema energetico centralizzato, sia esso prodotto da centrali nucleari, nanomateriali o turbine eoliche. L’industria non può rinunciare a divorare quantità mostruose di energia.
Il peggio – e questo lo stanno in parte già realizzando, non solo nell’ambito delle lotte contro la gestione energetica e lo sfruttamento delle risorse, ma anche contro il patriarcato, il razzismo o il capitalismo – sarebbe che per la preoccupazione di non restare sguarniti di fronte a un futuro travagliato e incerto, la ricerca e la sperimentazione di autonomia finiscano per alimentare i progressi del potere. Le turbine eoliche sperimentali nelle comunità hippie degli anni 60 negli Stati Uniti hanno magari impiegato un po’ di tempo per entrare nella scena industriale, ma oggi sono un importante vettore per la ristrutturazione capitalista e statale. Come riassunto in un recente testo che delineava le prospettive di lotta ispirate ai conflitti in corso in diverse parti del mondo attorno alla questione energetica:
«Certo, a differenza del passato, nel terzo millennio è possibile che il desiderio di sovversione si incontri con la speranza di sopravvivenza su un medesimo terreno, quello che mira ad ostacolare e ad impedire la riproduzione tecnica dell’esistente. Ma è un incontro destinato a tramutarsi in scontro, perché è evidente che parte del problema non può essere al tempo stesso parte della soluzione. Per fare a meno di tutta questa energia necessaria solo a politici e faccendieri bisogna voler fare a meno di chi la cerca, la sfrutta, la vende, la usa. Le necessità energetiche di una intera civiltà – quella del denaro e del potere – non possono certo essere messe in discussione unicamente dal rispetto per olivi secolari e riti ancestrali, o dalla salvaguardia di foreste e spiagge già in buona parte inquinate. Solo una concezione altra della vita, del mondo, dei rapporti, può farlo. Solo ciò può e deve mettere in discussione l’energia – nel suo uso e nel suo fabbisogno, quindi anche nelle sue strutture – mettendo in discussione la stessa civiltà».
E se questa società titanica va in effetti verso il naufragio, riducendo o distruggendo lungo il suo percorso ogni possibilità di vita autonoma, ogni vita interiore, ogni esperienza singolare, devastando la terra, avvelenando l’aria, inquinando l’acqua, mutilando le cellule, pensiamo veramente che sarebbe inadeguato o troppo azzardato suggerire che per nuocere al dominio, per avere qualche speranza di aprire nuovi orizzonti, per dare un po’ di spazio ad una libertà senza limiti e freni, minare le fondamenta energetiche di questo stesso dominio costituisce una preziosa indicazione?
Consideriamo ciò che abbiamo di fronte e attorno a noi: in tutto il mondo, sono in corso conflitti inerenti lo sfruttamento delle risorse naturali o contro la costruzione di impianti energetici (parchi eolici, centrali nucleari, oleodotti e gasdotti, linee ad alta tensione e centrali a biomassa, campi di colza geneticamente modificata, miniere, ecc.). Tutti gli Stati considerano questi nuovi progetti e le infrastrutture energetiche esistenti come «infrastrutture critiche», cioè essenziali per il potere. Data la centralità della questione energetica, non c’è da stupirsi se si legge nel rapporto annuale di una delle agenzie più rinomate di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai colossi mondiali delle assicurazioni), che il 70% di tutti gli attacchi e i sabotaggi segnalati come tali sul pianeta e perpetrati da attori «non statali», e di tutte le tendenze e ideologie confuse, riguardano le infrastrutture energetiche e logistiche (tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, ripetitori, elettrodotti, depositi di carburante, miniere e ferrovie). Certamente, le motivazioni che possono animare chi lotta in questi conflitti sono le più disparate. Talvolta riformiste, a volte ecologiste, talvolta soggette a rivendicazioni indigene o religiose, a volte rivoluzionarie o semplicemente per rafforzare le basi di uno Stato – o di uno Stato futuro. Lungi da noi l’idea di trascurare lo sviluppo, l’approfondimento e la diffusione di una critica radicale di tutti gli aspetti del dominio, ma ciò che vorremmo sottolineare qui è che anche all’interno di una parte di questi conflitti asimmetrici si può diffondere un metodo di lotta autonoma, auto-organizzata e di azione diretta, introducendo di fatto le proposte anarchiche sul campo. Al di là del potenziale insurrezionale che potrebbero avere i conflitti attorno a nuovi progetti energetici, lasciando magari intravedere le possibilità di una più ampia e massiccia rivolta contro quelle nocività, è comunque chiaro che la produzione, lo stoccaggio e il trasporto di tutta l’energia di cui la società ha bisogno per sfruttare, controllare, fare la guerra, sottomettere e dominare, dipendono invariabilmente da tutta una serie di infrastrutture disseminate su tutto il territorio, cosa che favorisce di conseguenza l’azione diffusa di piccoli gruppi autonomi.
Se la storia dei conflitti rivoluzionari rigurgita di esempi molto indicativi sulle possibilità di azione contro ciò che fa funzionare la macchina statale e capitalista, dare uno sguardo alle cronologie dei sabotaggi degli ultimi anni mostra che anche il presente nelle nostre contrade non ne è privo. Liberarsi dell’imbarazzo, guardare altrove e altrimenti, sperimentare ciò che è possibile e ciò che è allettante, ecco alcuni sentieri da esplorare. Nessuno può prevedere ciò che questo può dare, ma una cosa è certa: è parte della pratica anarchica della libertà.
[Avis de tempêtes, n. 6, 15 giugno 2018. Tradotto da Finimondo]