Il terribile rombo che annuncia l’avvicinarsi degli aerei da combattimento; il lungo sibilo dei missili prima della loro esplosione; il crepitio incessante delle mitragliatrici montate sulle jeep; i muri delle case che crollano in un respiro; le fiamme che divorano tutto; le colonne di fumo nero che oscurano il cielo. Ecco la guerra appena scatenata dal presidente turco Erdogan sui villaggi e le città della Siria settentrionale, territori sotto il controllo delle milizie YPG (Unità di Protezione del Popolo), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica, e delle altre componenti delle FDS (Forze Democratiche Siriane). Più che una guerra di conquista, una guerra di sterminio delle popolazioni curde e dei loro vicini alleati. A livello strategico, Erdogan non nasconde di preferire vedere una Siria in fiamme, con la sua accozzaglia di macellai jihadisti e governativi, piuttosto che una qualsiasi stabilità in grado di portare alla costituzione di un proto-Stato curdo ai confini con la Turchia. A livello tattico, questo obiettivo si traduce con massicci bombardamenti di tutte le strutture, sia civili che militari, da parte delle forze armate composte non solo da soldati turchi, ma anche da mercenari e islamisti addestrati ed armati da quello Stato, pronti a seminare lo stesso terrore sanguinario in atto durante l’invasione di Afrin all’inizio del 2018. E quando sarà fatta terra bruciata e gli abitanti saranno massacrati o cacciati, lo Stato turco invierà i milioni di rifugiati siriani che oggi sopravvivono nei campi ad insediarsi in questi territori svuotati, piantando i semi di future guerre civili.
Le YPG e le FDS si ritrovano oggi sole di fronte all’operazione militare turca. Il loro alleato di ieri, gli Stati Uniti, ha preliminarmente ritirato le sue truppe per consentire la guerra di sterminio voluta da Erdogan. Si può immaginare che l’altro loro alleato, la Francia, abbia fatto lo stesso — sebbene in maniera più discreta, ritirando le proprie unità speciali in missione nel Rojava. Probabilmente, e malauguratamente, la perdita di un alleato di ieri non può che portare alla ricerca di nuovi alleati. Se gli Stati europei si limitano a denunciare la «catastrofe umanitaria» annunciata, o decidono di sospendere temporaneamente le loro consegne d’armi e materiale bellico alla Turchia (ora, dopo che le scorte del loro alleato all’interno della NATO sono state riempite ed i profitti realizzati*), altre potenze si profilano, calcolando pazientemente il proprio tornaconto a spese di migliaia di morti. La Russia ammonisce, ma non intende mettere a repentaglio i suoi nuovi e redditizi contratti d’armi con la Turchia (in particolare i sistemi missilistici terra-aria). C’è anche il carnefice Assad che, contro ogni previsione, è riuscito non solo a scamparla dopo otto anni di guerra civile, ma anche a rendersi indispensabile sullo scacchiere geo-strategico della regione ed a ricostruire il suo Stato. Una simile «alleanza» purtroppo non sarebbe una novità: le milizie curde avevano già concluso degli accordi con il regime di Assad all’inizio della guerra, permettendogli di concentrare la maggior parte delle sue truppe contro gli insorti siriani; e accadde lo stesso durante l’invasione turca di Afrin, quando i dirigenti curdi hanno invitato le truppe del governo siriano a riprendere le loro posizioni nella speranza di frenare quell’offensiva.
Certo, oggi qualsiasi riflessione giunge troppo tardi. L’urgenza militare di agire non può che avere la priorità di fronte al massacro programmato del Rojava. Ma se non è il tempo di trarre delle lezioni, è arrivato il momento di scegliere un percorso da seguire, piuttosto che continuare a ritrovarsi al rimorchio delle scelte altrui. Fare affidamento sull’ennesima alleanza provvisoria per cercare di limitare i danni non fa che confermare il ruolo da pedine riservato alle milizie curde. Nello stesso Rojava, la resistenza dà alcuni segni indicativi: piuttosto che opporsi simmetricamente a forze superiori agli ordini dello Stato turco, condurre una guerriglia per impedire qualsiasi occupazione definitiva del territorio. Rinunciare all’esistenza di un «esercito professionale», come i compagni di Lotta Anarchica (Tekoşîna Anarşîst, TA) che là si battono definiscono le forze curde e le FDS, rinunciare alla «guerra convenzionale» (offensiva di terra con un supporto aereo decisivo) così come era stata condotta contro l’Isis, rinunciare persino a una «difesa di territorio». E poi: fondersi nella popolazione «civile» e lanciare, di fronte all’avanzata delle truppe turche e di altri, l’insurrezione. L’insurrezione, non la guerra convenzionale, è l’unica via che potrebbe far fallire il programma dello Stato turco, il quale, oltre alla distruzione delle YPG, mira alla pulizia etnica della regione. Perché in Rojava non ci sono montagne su cui ritirarsi. Da parte irachena, i Peshmerga si impegneranno probabilmente ad evitare qualsiasi ritirata e cercheranno di sbarrare la strada ai rifugiati curdi. E nei territori sotto il controllo di Assad i rifugiati non possono che aspettarsi ostilità, ovvero la morte. Non c’è via d’uscita se il conflitto continua a svolgersi secondo lo stesso paradigma seguito fino ad ora.
L’offensiva turca si basa, come dimostrato chiaramente da Trump, sull’acquiescenza internazionale. I lacrimevoli discorsi dei leader europei nascondono un sostegno continuo al regime di Erdogan, dettato da ragioni economiche (il mercato turco è saturo di prodotti provenienti dall’Unione Europea e funge da valvola per la sovrapproduzione che può indurre il crollo dei prezzi), da ragioni politiche (in particolare la questione della gestione dei rifugiati) e da ragioni strategiche (Erdogan minaccia regolarmente di allearsi piuttosto con la parte russa ed aspira a svolgere un ruolo importante nel controllo del Medio Oriente, in particolare con discorsi sull’unità dei sunniti). È questo sostegno che oggi può essere attaccato, per cambiare un paradigma che conduce solo alla catastrofe. Non mediante appelli umanitari, ma attraverso un’intensificazione delle ostilità, attraverso attacchi contro la collaborazione con il regime di Erdogan, attraverso azioni diffuse contro l’industria militare (che, di fronte alla sospensione di forniture di materiale allo Stato turco, non farà che immagazzinare per qualche mese prima di riprenderli non appena girerà il vento).
È essenziale ora, in questa tragica ora in cui le truppe si scatenano sul Rojava mentre missili e bombe piovono su villaggi e città, smettere di seguire lo stesso percorso che porta solo alla disfatta. È la collaborazione con qualsiasi potenza esistente (regime siriano, russo, nordamericano, francese, iraniano o dei paesi del Golfo) a minare ogni prospettiva rivoluzionaria sul posto, e non solo: credere che una tale strategia politica possa fare da scudo alle aspirazioni sanguinarie non fa che perpetuare il circolo vizioso del massacro. Gli esempi storici sono innumerevoli, disgraziatamente la scelta non manca. Dalle brigate comuniste di Lister, quei «fratelli in armi contro il fascismo» che massacrano e devastano le collettività libertarie in Aragona durante la rivoluzione spagnola, agli aiuti militari dei paesi del Golfo, quei «fratelli della comunità musulmana» che hanno contribuito in modo decisivo all’egemonia delle unità islamiste e jihadiste e alla sepoltura della rivoluzione siriana. Se non possiamo vincere, rifiutiamo di essere sconfitti dalle pugnalate alle spalle degli alleati di ieri! Lo scacchiere geo-politico è per la prospettiva rivoluzionaria ciò che il petrolio è per il mare. Non è il «massimalismo rivoluzionario» a parlare, sono le nostre aspirazioni… e soprattutto l’esperienza, che dovrebbe farci comprendere che quello scacchiere come tutti gli altri deve essere mandato all’aria, se si vuole cambiare, come diceva qualcuno, non le regole truccate del gioco, ma il gioco stesso.
È tardi, molto tardi, per lanciare in aria lo scacchiere su cui non si fa che correre di massacro in massacro. Ma forse non è troppo tardi. La resistenza, anche disperata, può ancora sbarazzarsi delle catene geo-politiche che la condannano all’impotenza. L’internazionalismo, anche tardivamente e nonostante la mancanza di riflessione critica da cui è stato afflitto negli ultimi anni, può ancora mettere dei bastoni tra le ruote delle potenze. Le braccia possono ancora essere tese verso altri insorti, piuttosto che verso altri Stati. Se le fiamme che potrebbero innescare un incendio in tutto il Medio Oriente si alimentano dell’ossigeno fornito da tanti Stati del mondo intero, è ancora possibile accendere altri focolai, qui dove viviamo, scintille con cui non è il massacro a brillare, ma un vecchio sogno di libertà e di solidarietà.
13 ottobre 2019
(*) A titolo di esempio, l’industria militare francese ha consegnato ufficialmente armi per 460 milioni di euro alla Turchia da 10 anni, pur sapendo che i principali fornitori di quest’ultima in tale campo sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia. Inoltre, la Turchia produce direttamente molti armamenti da sé, e sotto licenza (europea o nord-americana).
[Avis de tempêtes, n. 22, 15 ottobre 2019. Tradotto da Finimondo]