Fate il vostro gioco: 3, 5 o 10 metri? E se siete radicali: 50, 100, 150 metri? Il governo francese si appresta ad inserire una di queste cifre nella legge. Esse indicano la distanza da rispettare tra le abitazioni e i campi durante lo spargimento e l’irrorazione di pesticidi. La presidentessa del sindacato agricolo FNSEA, Christiane Lambert, si è affrettata a intervenire nel «dibattito pubblico» in cui alcune voci si erano levate per parlare invece della cifra maggiore di 150 metri. «La smettano di delirare!» Ha sbraitato davanti ai giornalisti, perché questo ridurrebbe la superficie agricola francese del 15%. Piuttosto che farsi coinvolgere in questo dibattito assurdo e francamente vergognoso, vediamo più da vicino cosa sono i pesticidi e cosa rappresentano nel mondo odierno.
Un pesticida è una sostanza utilizzata per combattere organismi considerati nocivi, direbbe l’enciclopedia. Tranne che la lingua può rapidamente giocare dei brutti scherzi. Perché in quasi tutte le forme di agricoltura, le piante devono essere protette da altri organismi. Esistono già piante che hanno proprietà «pesticide», se lo si vuole, che proteggono i campi e le colture dalle devastazioni di parassiti, insetti e malattie. Per chiarire le cose: quando si parla di pesticidi, si sta parlando di sostanze, spesso prodotte sinteticamente, che contengono tossicità comprovate. Tali tossicità agiranno quindi contro gli «elementi nocivi». E fin qui, potremmo citare il nostro ingegno, va bene. Ma non è tutto qui. Le tossicità «residue», difficili o semplicemente non degradabili, si accumuleranno nel suolo, nell’acqua, nell’aria, negli animali, nei corpi umani, nel cibo… ovunque.
Il trattamento chimico delle colture vegetali esiste da millenni. Nell’antica Grecia, lo zolfo veniva usato come pesticida. Nell’impero romano, si diffuse l’uso dell’arsenico come insetticida. Ma è nel XIX secolo che la chimica minerale decollò. In Europa, l’uso di pesticidi a base di sali e solfato di rame è in aumento, il che porterà a un primo inquinamento duraturo del suolo (il rame non si degrada). Per tutto il XX secolo, fino ad oggi in molti paesi che non l’hanno vietato, i semi vengono trattati con sali di mercurio, un metallo altamente tossico. Poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, con una popolazione di quasi 2 miliardi, il chimico tedesco Fritz Haber, impiegato alla Bayer, scoprì un metodo economico per produrre grandi quantità di fertilizzante, realizzando la sintesi dell’ammoniaca dall’azoto atmosferico. Ciò avrebbe consentito l’estensione dei campi agricoli e l’aumento della produzione alimentare in un momento in cui molti scienziati erano allarmati dal raggiungimento del «tetto» della popolazione mondiale sostenibile.
Ma Fritz Haber e la sua squadra non si fermarono là. La guerra avrebbe riorientato la loro ricerca grazie alla creazione del terribile gas mostarda [iprite] impiegato in un altro campo, quello della battaglia nelle trincee europee. La loro ricerca avrebbe portato anche alla creazione di un altro noto pesticida: lo Zyklon B, utilizzato negli anni 30 nell’agricoltura cerealicola e poi nelle camere a gas naziste. I pesticidi di sintesi provengono dalla ricerca in ambito militare. Dopo la seconda guerra mondiale, i vasti complessi chimici dedicati alla produzione militare rischiavano di essere fuori servizio… ed è così che furono trasformati in fabbriche per produrre in serie pesticidi di sintesi. Il più noto è senz’altro il DDT, scoperto già nel 1874, ma le cui proprietà insetticide furono stabilite solo alla fine degli anni 30. Negli anni del dopoguerra, il DDT prodotto dalle stesse fabbriche chimiche prima dedicate alla produzione di gas tossici e prodotti chimici per uso militare, sarebbe diventato rapidamente il pesticida più utilizzato al mondo.
Un altro pesticida derivante dalla produzione di gas da combattimento è il malathion, ancora oggi utilizzato. A partire dal 1945, il consumo mondiale di pesticidi è raddoppiato ogni decennio (ovvero una moltiplicazione per 60 fino ad oggi, arrivando a 2,5 milioni di tonnellate all’anno sui terreni agricoli). Il numero di pesticidi è esploso: sono stati aggiunti sempre più additivi per aumentare questo o quell’effetto, per rispondere a nuove resistenze, per evitare tossicità residue… Malgrado ciò che si potrebbe pensare, più del 75% dei pesticidi utilizzati in tutto il mondo vengono sparsi sulle terre arabili dei cosiddetti paesi sviluppati… e la resistenza di piante e insetti cresce quasi allo stesso ritmo dello sviluppo dei pesticidi.
Nel 1997, 600 specie di insetti sono diventate resistenti a uno o più insetticidi; per le erbe, si parla di 120 specie e per i funghi parassiti la cifra è di 115. Proseguendo nello sviluppo e la produzione di pesticidi, le aziende agroalimentari e chimiche hanno allora rovesciato il problema, investendo massivamente nella creazione di organismi geneticamente modificati (OGM) in grado di resistere ai loro pesticidi sempre più potenti deputati a sradicare tutti i «parassiti». Negli Stati Uniti, ad esempio, il 94% delle coltivazioni di cotone, il 92% di quelle di mais e il 94% di quelle di soia sono transgeniche. In Sudafrica, le percentuali per le stesse piante sono di 85, 95 e 100%. In Pakistan e India, il 97% di tutto il cotone coltivato è transgenico. Nelle Filippine, il 65% del mais è transgenico. In Argentina, quasi tutte le colture di soia sono transgeniche.
Per la salute umana, i pesticidi (considerando che esistono differenze di tossicità tra l’uno e l’altro e che alcuni vengono ritirati dal mercato quando la narrazione non è più sostenibile, come il famoso DDT, vietato dal 1973, o il prodotto made in Francia, l’Atrazine, il cui utilizzo è vietato in patria ma è ancora legale… per l’esportazione) aumentano i rischi, sono all’origine stessa o, combinati con altri fattori di inquinamento, causano: tumori di ogni tipo (tumori cerebrali, leucemie, tumori a reni, prostata, testicoli, sistema linfatico); infertilità, morte fetale, prematurità, ipotrofia, malformazioni congenite, alterazioni endocrine; disturbi dermatologici come arrossamenti, prurito, ulcerazioni; compromissioni neurologiche come ridotta sensibilità tattile, affaticamento muscolare, cefalea, ansia, irritabilità, depressione, insonnia, paralisi; disturbi del sistema ematopoietico con una diminuzione dei globuli rossi e bianchi e il rischio di leucemia; danni al sistema cardiovascolare con disturbi del ritmo cardiaco e arresto cardiaco; disturbi del sistema respiratorio come superinfezioni, bronchiti, riniti e faringiti; squilibri delle funzioni sessuali come l’infertilità maschile con la crescente soppressione della spermatogenesi e femminile con disturbi endocrini; malattie neurodegenerative come il Parkinson. «La smettano di delirare!», come dicono alla FNSEA…
Tra il 1981 e il 1982, l’organofosfati Nemacur 10 della Bayer, utilizzato nella lavorazione del pomodoro, ha causato la morte di oltre un migliaio di persone e la malattia o la disabilità di altre decine di migliaia in Spagna. L’azienda, lo Stato e gli esperti l’hanno coperta sotto il nome di «olio tossico».
Dieci anni dopo, Jacques Philipponneau ha pubblicato Relazione su l’avvelenamento perpetuato in Spagna e camuffato sotto il nome di sindrome dell’olio tossico dove si può leggere ciò che segue: «Per molto tempo la malattia è stata una fatalità individuale o un male sociale il cui eventuale alleviamento dipendeva dalla conoscenza medica e da una carità privata sostituita progressivamente dall’autorità pubblica. Attualmente la salute pubblica è un affare economico, e doppiamente del resto. Da una parte perché l’economia mercantile, avendo trionfato sulle antiche condizioni naturali ovunque scomparse, producendo stricto sensu la vita e la morte dell’uomo moderno, si rivela essere in qualche modo un problema di salute, e anche un problema per la salute. Dal momento che alle nostre latitudini nessuno ignora che ciò che mangia, beve, respira, in poche parole le condizioni generali della sua vita quotidiana sulle quali di consueto non può niente, costituiscono una minaccia per il suo “capitale-salute”, secondo la poetica espressione del tempo; e in ogni momento ci viene raccomandato di migliorarne la gestione rinunciando a questa o a quella antica abitudine diventata nefasta e di cui possiamo valutare la nocività nei conti pubblici della nazione». Queste parole ricordano le frasi pubblicate sull’Encyclopédie des Nuisances n. 5, nel 1985: «L’estremo deterioramento del cibo è un’evidenza che, al pari di altre, è in genere sopportata con rassegnazione: come fosse una fatalità, il prezzo da pagare per un progresso inarrestabile, come sanno tutti coloro che ne sono schiacciati ogni giorno. Tutti tacciono in proposito. In alto perché non se ne vuole parlare, in basso perché non si può farlo. La stragrande maggioranza della popolazione, che sopporta tale degrado, pur avendo forti sospetti, non riesce a far fronte a una realtà così spiacevole».
Oggi l’ignoranza non può più essere invocata. Il diluvio di studi e libri che denunciano gli effetti dannosi sulla salute e sull’ambiente dei pesticidi utilizzati così pesantemente nell’agro-industria (che converrebbe chiamare sempre così, perché è ciò che l’agricoltura è diventata nella quasi totalità) ha forse generato una presa di coscienza, lotte e opposizioni anche radicali come durante la resistenza agli OGM in Francia, esperimenti per «fare diversamente» (ora recuperati e inseriti nel mercato come qualsiasi altra merce, debitamente etichettati «bio», «organico», «100% naturale», «prodotto dall’agricoltura sostenibile» ecc.), ma alla fine è la rassegnazione a prevalere. Essa si manifesta principalmente sotto forma di totale negatività, mancanza di interesse o persino incapacità di cogliere l’entità del problema, unite a un’impotenza ad agire direttamente per sopprimere, diciamo, almeno la nocivité che si trova direttamente accanto a casa, nel campo del vicino.
Può anche assumere la forma dell’integrazione all’interno del grande greenwashing del capitalismo industriale a colpi di nuove tecnologie, vaste menzogne ed energie rinnovabili, oppure dell’inserimento sotto forma di «aziende bio» nel mercato convenzionale. Allo stesso tempo, vediamo anche che «la minoranza delle minoranze» tende ad affinare le sue lotte, sapendosi ormai in fin dei conti poco numerosa nella lotta contro il mostro che si basa essenzialmente sul consenso che riesce a produrre o ad ottenere. Alcune lotte «locali» generano a volte attacchi importanti contro ciò che devasta il mondo ed i suoi abitanti, proprio come un pugno di individui attacca direttamente, qua e là, i laboratori, i fabbricanti di OGM o gli amministratori della devastazione del pianeta. Con l’avanzata sempre più veloce dell’artificializzazione dell’agricoltura e l’innegabile degradazione dell’habitat, queste lotte rischiano di diventare sempre più radicali in termini di prospettive e di metodi, cosa che non ci dispiace affatto.
In Francia, lo Stato intende imporre all’agro-industria una netta riduzione dell’uso di pesticidi, secondo i suoi piani Ecophyto (un primo lanciato nel 2007 voleva ridurre del 50% lo spargimento di pesticidi intorno al 2018, seguito da un secondo piano nel 2015 che ha rimandato questa scadenza al 2025). Se da un lato proibisce certi pesticidi (come il famoso glifosato, vietato alla vendita ai privati e all’utilizzo negli spazi pubblici come i parchi dal gennaio 2019, il che non impedisce che un terzo degli erbicidi utilizzati in Francia siano costituiti ancora proprio dello stesso glifosato), d’altro concede permessi a nuovi veleni, come l’autorizzazione nel 2019 di undici fungicidi supplementari contenenti sostanze attive SDHI (Succinate DeHydrogenase Inhibitor). Eppure nel 2018 sono stati diffusi dei rapporti allarmistici: «anomalie nel funzionamento dell’SDH possono portare alla morte delle cellule causando gravi encefalopatie o, al contrario, ad una proliferazione incontrollata di cellule, che sono all’origine di tumori. Anomalie della SDH si osservano anche in altre malattie umane». I fungicidi SDHI sono già sparsi ovunque nelle campagne francesi: su quasi l’80% delle superfici di grano, quasi altrettanto su quelle di orzo, sugli alberi da frutta, su pomodori e patate. Ed oggi lo Stato vorrebbe decidere in merito a questi 3, 5 o 10 metri di distanza dalle case da rispettare quando si applicano i pesticidi!
Ciò che conta è che tutto possa continuare come prima. Che la produzione aumenti, che i profitti si realizzino. D’altronde, a costo del naufragio di questa società, non è semplicemente possibile fare a meno dei pesticidi per mantenere l’esistente; l’agricoltura industriale ha già talmente trasformato, inquinato e impoverito la terra che nulla cresce su grande scala senza fertilizzanti sintetici e senza chimica per proteggere le piante da mille malattie e parassiti… che sono a loro volta, in gran parte, creati dalla resistenza che gli organismi tendono naturalmente a sviluppare contro ciò che li uccide. È un circolo vizioso o, meglio, è il famoso treno che avanza a tutta velocità verso l’abisso. Discutere a proposito di 3, 5 o 10 metri è veramente il dettaglio ipocrita del mare di veleni industriali che fanno scorrere nelle nostre vene e nei bronchi.
I legami tra capitalismo, produzione industriale e malattie si manifestano dappertutto, non solo in agricoltura e nel cibo che essa produce. Quanti minatori, quanti metalmeccanici, quanti operai tessili, quanti imbianchini, quanti muratori, quanti operai e operaie sono morti in modo spaventoso a causa delle tossicità a cui erano stati esposti sul lavoro? Quante altre persone sono morte nella stessa maniera atroce a causa dei prodotti che hanno contribuito a diffondere sul mondo? Quanti tumori crescono nei nostri corpi esposti in modo permanente e consapevole alle radiazioni elettromagnetiche della felice società connessa? Significherebbe ingannarsi se ci si concentrasse soltanto sulle nocività più palesi, come l’energia nucleare o le emissioni di CO2: ogni prodotto che esce da una fabbrica, ogni merce che viene assemblata, ogni cibo che viene fabbricato in questo mondo contiene, porta in sé o provoca una dose di morte.
È tragico, ma l’aumento vertiginoso dei casi di cancro è solo la punta dell’iceberg avvelenato su cui sopravviviamo. Sì, bisogna dire che non facciamo altro che sopravvivere, tanto più che la nostra «sopravvivenza» sembra sempre più irreale ed artificiale. Senza le impressionanti dosi di farmaci e trattamenti (che, per intenderci, contengono molte tossine di cui non si conoscono affatto gli effetti a lungo termine o che generano a loro volta nuove malattie o, nel caso degli antibiotici, batteri più resistenti e nocivi), quanti di noi sopravvivrebbero oltre i cinquant’anni?
Per tornare ai pesticidi, benché sembri ormai molto tardi, potendo la disperazione armare le nostre mani e le nostre menti, il minimo che si possa fare è nominare alcuni responsabili. Costoro non sono presi a caso da un «rapporto» o un «meccanismo», secondo gli eterni cavilli balbettati per giustificare la servitù volontaria: fanno scelte in piena consapevolezza e ne traggono enorme profitto a scapito di tutti. Migliaia di documenti e studi a disposizione di tutti testimoniano la natura cancerogena e tossica dei pesticidi da cui dipende quasi tutta la produzione alimentare, per non parlare delle migliaia di altri documenti conservati «for your eyes only» nei sotterranei dei laboratori farmaceutici, negli uffici degli agro-industriali, nelle torri di vetro amministrative. Diamo un nome quindi a questi avvelenatori di massa.
I maggiori produttori che si occupano del 75% della produzione mondiale di pesticidi sono ovviamente multinazionali: Bayer-Monsanto, Syngenta, BASF, Dow Chemical. In Francia, ci sono due federazioni padronali specializzate nel settore: l’Unione dell’industria della Protezione delle Piante (UIPP) e la Federazione Commercio Agricolo. La maggior parte dei seguenti produttori di pesticidi ne sono membri: Action PIN, Adama, Ascenza (SAPEC Agro), Belchim Crop Protection, Certis, Corteva Agriscience, De Sangosse, FMC, GOWAN, Lifescientific, Nufarm, Philagro, Phytoeurop, SBM Company, SUMI Agro, UPL, STE XEDA, Anios, Phytorus, Group 5 S, Dipter, Sesol, Indal, Helarion Industries, Emdex, Al’tech, Hygia, Cedre, Eurotonic.
Vengono poi le autorità statali di pianificazione, emittenti di norme e di ricerche come l’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica (INRA), le cui decine di strutture di ricerca, produzione, sperimentazione, studio e formazione sono della partita, o ancora il Centro Nazionale di Ricerca Scientifica (CNRS), l’Istituto Nazionale di Salute e Ricerca (INSERM) e l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza sanitaria degli alimenti, dell’ambiente e del lavoro (ANSES).
Rimane infine da porsi un’ultima domanda, non più quella relativa ai produttori di pesticidi, ma a coloro che li usano per coltivare i propri raccolti. Se non tutti gli agricoltori usano pesticidi e molti di loro vorrebbero farne a meno, alcuni continuano ad avvelenare non solo se stessi, ma anche chi consumerà i loro prodotti o chi vive nelle vicinanze… Piuttosto che farne un elenco, cosa che sarebbe assurda come redigere un elenco di chi lavora nel nucleare, pensiamo che in seno alla stessa conflittualità vadano considerate le responsabilità degli uni e degli altri, che le possibilità di scelta consapevole possono allargarsi… e che lo storico «faccio solo il mio lavoro» sarà sempre meno accettato.
[Avis de tempêtes, n. 21, 15 settembre 2019. Tradotto da Finimondo]