Affrontare la questione dell’energia, o meglio delle risorse energetiche da cui dipende il buon funzionamento dello sfruttamento capitalista ed il potere statale, non è facile. Soprattutto, precisiamolo fin da subito, se non si tratta di fare un elenco di dati tecnici su questa o quella fonte di energia, di enumerare le nocività provocate dalla voracità energetica del sistema industriale, le devastazioni che comporta a livello ambientale. Ciò che vogliamo qui tentare è un’analisi più ampia, più profonda, di cosa significhi l’energia in questo mondo. È difficile evitare che rimanga in parte incompleta, ma l’obiettivo è arrivare ad una comprensione generale dell’importanza della questione energetica.
Partiamo da una semplice constatazione: da diversi decenni, con la massiccia imposizione del nucleare da parte dello Stato e la crescita esponenziale dei bisogni energetici della produzione industriale, della guerra e del modello societario di consumo di massa, numerosi conflitti sono legati alle risorse energetiche, alla produzione ed al trasporto di energia. Da un lato, vediamo come gli Stati abbiano scatenato guerre sanguinose per conquistare determinate risorse, come il petrolio o le miniere di uranio, per fare un esempio ovvio, o per assicurarsene il rifornimento continuo. Dall’altro lato, ci sono stati anche molti conflitti diciamo sociali, a volte più ecologici, a volte radicalmente anticapitalistici, a volte di rifiuto di un’ulteriore devastazione del territorio o di rifiuto dell’imposizione di certi rapporti sociali conseguenti a questi progetti: opposizione allo sfruttamento di una miniera, alla costruzione di una centrale nucleare, alle nocività causate da una centrale elettrica a carbone. Il lungo elenco di lotte e di guerre ci dà già un’idea dell’importanza che riveste l’energia, la sua produzione e il suo controllo.
Oggi, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria di trasformazione totale dei rapporti esistenti, di distruzione del dominio, sembra essere quasi scomparsa, almeno nei paesi europei, esistono tuttavia non pochi conflitti e lotte di opposizione alle infrastrutture energetiche. Pensiamo alla gigantesca miniera di lignite a cielo aperto ad Hambach, in Germania, dove la lotta contro la sua estensione è scandita da molti e vari sabotaggi che inceppano il funzionamento della miniera esistente; alla lotta contro la costruzione del gasdotto TAP, che si scontra con un’opposizione nel sud dell’Italia; alle lotte qui in Francia che hanno avuto luogo contro la costruzione di nuove linee ad alta tensione nella Durance (per aumentare la capacità di esportazione dell’elettricità nucleare francese) o in Normandia (per collegare la nuova centrale nucleare di Flamanville alla rete); senza dimenticare quelle contro l’installazione di nuove turbine eoliche o contro i permessi di esplorazione e sfruttamento del gas di scisto… Certo, tutti questi conflitti non denotano sempre aspirazioni rivoluzionarie, e spesso al loro interno si rileva non solo il cittadinismo, l’ecologismo cogestionario, la ricerca di dialogo (e quindi di riconoscimento) con le istituzioni, ma anche una fastidiosa confusione — nel migliore dei casi — oppure un opportunismo politico — nel peggiore — da parte degli autoproclamati radicali. Sul modello, ad esempio, di quanto i comitati invisibili e gli strateghi populisti di servizio teorizzano sotto forma di strategie della composizione, ovvero riunire tutto ciò che è incompatibile sotto la direzione di un alto comando politico che essi cercano di imporre con maggiore o minor successo. Ma non entriamo nel vivo di questo argomento che è già stato qui affrontato.
Ciò che tutte queste lotte potrebbero permettere, a noi anarchici e anti-autoritari che stiamo sempre a scrutare l’orizzonte per scoprire i segni del malcontento e di possibili superamenti insurrezionali — dimenticando troppo spesso che si tratta soprattutto e innanzitutto di agire in prima persona, sulla base delle proprie idee e delle proprie tensioni — è sviluppare un progetto di lotta, non necessariamente nuovo ma in ogni caso relativamente assente da qualche tempo, che proponga di tagliare l’energia a questo mondo, sia essa nucleare, termica, solare o eolica.
«Il diavolo si è installato in un nuovo domicilio. E anche se fossimo incapaci di farlo uscire dal suo rifugio da un giorno all’altro, dobbiamo per lo meno sapere dove si nasconde e dove possiamo stanarlo, per non combatterlo in un angolo in cui non trova più rifugio da molto tempo — e affinché non si prenda gioco di noi nella stanza accanto»
Günther Anders
E quindi, che cos’è l’energia di cui si parla? Già, si tratta di un termine che proviene dal lessico delle scienze fisiche, per misurare e quantificare determinati processi, come ad esempio il calore (che può essere misurato in temperatura ma, prendendo l’approccio energetico, anche in energia che il calore sprigiona per far girare, ad esempio, una turbina). In generale, tuttavia, tendiamo ad associare l’energia alla vita. Senza energia, niente vita. Senza energia, niente movimento. Che si tratti di una visione storica, maturata nel corso di secoli di scienza e capitalismo, è fin troppo ovvio. Oggi il discorso sull’energia è penetrato dappertutto, anche dove in passato veniva ancora e giustamente distinto dai processi vitali. Per determinare la vita, per misurarla e cartografarla, si misura ad esempio l’energia chimica delle cellule — base della vita biologica — ed è così che la stessa consapevolezza che la vita è molto più di una serie di dati chimici o di un filamento di DNA, tende rapidamente a svanire. Non dimentichiamo che ciò che non è quantificabile non rappresenta possibilità di accumulazione. Quindi la qualità, come l’esperienza singolare, le passioni, le sensazioni, insomma tutto ciò che costituisce la poesia della vita, non possono essere misurate e quindi facilmente trasformate in merce. L’energia è quindi un termine derivante dalle scienze fisiche, non un semplice sinonimo di vita. La distinzione potrebbe sembrare un po’ ridicola, un po’ superflua, ma non lo è: se proponiamo di tagliare l’energia a questo mondo, questa distinzione che suggeriamo come preliminare assumerà tutta la sua importanza.
Quando parliamo di energia, di risorse energetiche, bisogna quindi intendersi. Non si tratta, come solitamente si dice nella lingua parlata, che «l’umano libera energia» contenuta nell’atomo, nel petrolio, nell’olio di colza, nel gas o nel vento. No, è attraverso strumenti, strutture, processi e macchine che l’energia viene misurata, prodotta, generata, convertita, accumulata, immagazzinata e trasportata. Il soffio del vento non è semplicemente «energia cinetica». In sé, è inutilizzabile per il capitale e lo Stato: occorrono pale eoliche, turbine, cavi per trasformarla in energia elettrica al fine di far funzionare altre macchine. Ci sarebbe quindi molto da dire su questa stessa idea di conversione delle risorse in energia elettrica ad uso industriale o domestico, per esempio sul rendimento di queste conversioni. Basti pensare a quanti litri di petrolio sono necessari per produrre un chilo di grano, che si potrebbe a sua volta quantificare in termini di energia (calorie), per constatare fino a che punto il rendimento dell’agricoltura industriale a petrolio non sia affatto così razionale come si pensa normalmente. Ma ciò ci allontanerebbe dal nostro soggetto e rischieremmo di impantanarci in penosi dibattiti tecnici.
Riprendiamo il filo: quando parliamo di energia, parliamo qui di tutti i procedimenti, oggi quasi tutti industrializzati, per convertire qualcosa in forza motrice, in energia elettrica… Checché se ne dica, questi diversi procedimenti messi a punto nel corso della storia non derivano da una semplice volontà di razionalizzazione, ed ovviamente ancor meno da una preoccupazione etica o ambientale come si vanta oggi il dominio, che investe massivamente nello sfruttamento di altre risorse come le cosiddette energie rinnovabili. Dato che energia equivale a potere, tali processi derivano da strategie. La generalizzazione dell’uso del petrolio come carburante è istruttiva a questo proposito. Il pericolo rappresentato da una forte dipendenza dallo sfruttamento del carbone è stato colto da alcune grandi potenze, in particolare dagli Stati Uniti. Richiedendo strutture che concentrano migliaia di proletari in uno stesso luogo per estrarre il carbone, dando vita a potenti movimenti operai talvolta sovversivi, il carbone costituisce un grosso rischio, inaccettabile per lo Stato, di vedere la sua produzione paralizzata da vasti movimenti di sciopero. La petrolizzazione del mondo è stata in gran parte una risposta, e non solo a titolo preventivo, ai movimenti operai rivoluzionari che si sviluppavano massicciamente proprio alla fonte della riproduzione del capitalismo. Poiché sebbene lo sfruttamento del petrolio necessiti ovviamente anch’esso di manodopera, i pozzi non ne richiedono tanto quanto una miniera di carbone. Pensiamo ai vasti giacimenti petroliferi del Texas, dove migliaia di macchine estraggono a perdita d’occhio senza alcun intervento umano oltre alla manutenzione tecnica, ciò che fa funzionare questo mondo. Finite le pericolose concentrazioni di proletari laddove un numero molto più ridotto di tecnici, operai specializzati e addetti alla sicurezza sono sufficienti per garantire il flusso continuo. A sua volta, la nuclearizzazione del mondo deriva molto meno da una ricerca della famosa «indipendenza energetica» degli Stati, in particolare dopo la crisi petrolifera del 1973, quanto dall’assoggettamento e dal maggiore incasellamento delle popolazioni. Con il nucleare, l’organizzazione gerarchica è diventata tecnicamente inevitabile, ponendo grossi ostacoli ad ogni orizzonte rivoluzionario di distruzione dell’esistente. Insomma, lo sfruttamento di una tale fonte energetica segue i disegni del dominio.
Ma allora, le energie rinnovabili odierne, in nome delle quali le colline ed i mari sono coperti di pale eoliche, i campi ed i deserti di pannelli fotovoltaici, le valli inondate e il corso e il flusso dei fiumi modificati e regolamentati? Una preoccupazione ambientale? Certo che no, oppure sì, se intendiamo l’estensione di queste energie rinnovabili come il proseguimento dello stesso mondo industriale e produttivista con altri mezzi. Le irreversibili devastazioni e le contaminazioni lasciate in eredità da due secoli di industrialismo capitalista e statale spingono oggi il dominio a cercare superamenti tecnici e soluzioni tecniche per ridurre l’inquinamento e l’avvelenamento. Si tratti di fantasmi o di possibilità reali, in fondo non cambia nulla: è comunque la perpetuazione di quello stesso dominio che intendiamo abbattere.
«La sincope è una momentanea sospensione dell’attività cardiocircolatoria e cerebrale che provoca una perdita improvvisa e transitoria della coscienza. Gli effetti possono essere irrilevanti, un momentaneo scombussolamento, ma talvolta possono anche essere più gravi. In alcuni casi se l’interruzione del flusso di sangue nell’organismo umano si prolunga oltre certi limiti sopraggiunge la morte. Fra tutte, la “sincope oscura” — quella cioè priva di cause identificate, logiche — è considerata la più pericolosa. Perché non consente ai medici, tecnici del corpo, di intervenire.
Anche il funzionamento dell’organismo sociale è garantito da un insieme di flussi. Flussi di merci, di persone, di dati, di energie. Flussi che possono sospendersi per i motivi più svariati. Un guasto tecnico, ad esempio. Oppure un furto di materiali. Magari un sabotaggio».
Sincopi (2013)
Le energie rinnovabili tentano oggi di mitigare un rischio importante. Cioè, per far fronte a bisogni energetici esponenziali e ad una dipendenza sempre maggiore da un rifornimento elettrico stabile di interi settori dell’economia, dell’amministrazione statale o dell’orizzonte cibernetico che si afferma ad una velocità e con una potenza impossibile da sopravvalutare, il dominio deve non solo moltiplicare, ma anche diversificare i processi per generare energia elettrica. Anche il vasto parco nucleare francese non sa fare fronte ai «picchi di consumo», per ragioni tecniche, ragion per cui le centrali elettriche convenzionali non sono mai state abbandonate. Visto che i progressi tecnici permettono oggi un rendimento più elevato (sebbene, dato che il vento non soffia sempre e non così forte, le pale eoliche hanno ad esempio un fattore di capacità molto basso, attorno al 20%), il sistema si è lanciato in questa diversificazione energetica permessa dalle energie dette rinnovabili. Non si tratta di una transizione energetica, come del resto non è mai avvenuta nella storia, bensì di una addizione, come dimostra non solo il fatto che le centrali nucleari o convenzionali non siano chiuse (la loro produzione non potrebbe in ogni caso venire sostituita dalle sole energie rinnovabili), ma anche il fatto che nuove centrali vengano costruite o sviluppate (EPR o altro), che altre fonti di energia vengano esplorate, testate ed utilizzate, come gli impianti a biomassa (difficili tuttavia definirli «rinnovabili», anche nella neolingua del potere, dal momento che la loro prospettiva è principalmente quella di bruciare piante geneticamente modificate), o che uno dei tre principali programmi di ricerca finanziati dall’Unione Europea è quello del trasporto di elettricità per cercare, soprattutto attraverso l’uso di nano-materiali, di ridurre in minima percentuale la perdita di calore sulle linee.
In generale, le energie rinnovabili consentono di accrescere ciò che ormai viene definita la resilienza di approvvigionamento elettrico, ovvero la sua capacità di continuare a funzionare in caso di intoppi, si tratti di una tempesta, di un accidente o di un sabotaggio. Questa volontà di resilienza spinge anche verso una diminuzione della centralizzazione della rete elettrica, nella misura in cui è possibile. Ma non confondiamo le loro parole con le nostre valutazioni, perché l’attuale centralizzazione della rete elettrica significa già che siamo di fronte ad una rete con strutture attaccabili disseminate in tutto il territorio, dappertutto. L’utilizzo dell’elettricità secondo l’uso attuale della società industriale, rimarrà infatti ancora a lungo dipendente da una vasta rete di trasporto e distribuzione.
Non sorprenderà nessun nemico dell’autorità che le infrastrutture energetiche siano quindi classificate dall’Unione Europea (così come da quasi tutti gli Stati del mondo) con il leggiadro eufemismo di «infrastrutture critiche», si tratti ovviamente di una centrale, ma anche di un gasdotto, di una linea d’alta tensione, di trasformatori elettrici, di una pala eolica o di un campo di pannelli fotovoltaici. Nella relazione annuale 2017 dell’Agenzia di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai giganti mondiali delle assicurazioni), si poteva così leggere che sull’insieme di attentati e sabotaggi contati come tali nel mondo e compiuti da attori «non statali», messe insieme tutte le tendenze ed ispirazioni, niente meno che il 70% prendevano di mira le infrastrutture energetiche e logistiche (ossia: tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, antenne di trasmissione, linee elettriche, depositi di carburante, miniere e ferrovie). Che le motivazioni dietro tutti questi sabotaggi ci soddisfino o meno, non è questo il punto. Ciò su cui si potrebbe riflettere è sapere — essendo l’energia un perno del dominio nel senso che è necessaria alla sua riproduzione tanto quanto sottomette e rende dipendenti i dominati — se sia possibile sviluppare una progettualità anarchica su questo terreno. In altre parole, disponiamo di analisi sufficienti per comprendere il ruolo svolto dall’energia, per cogliere l’importanza dei nuovi progetti energetici, ed è immaginabile sviluppare e proporre un metodo di lotta basato sull’azione diretta, la conflittualità permanente e l’auto-organizzazione che miri alle infrastrutture che permettono a questo mondo di alimentarsi di energia? Riusciamo a scorgere, immaginare ed elaborare una progettualità che riesca a portarci di là delle occasioni presentate dal calendario dell’attualità, determinando noi stessi i tempi ed angoli?
Quasi in conclusione di questo articolo, diventa necessario un piccolo ulteriore sforzo di attenzione. Faccio ora una piccola digressione, perché tutta questa storia sull’energia in definitiva è solo una possibilità, una potenzialità, niente di più. Ciò che mi interessa alla fine, ciò che merita a mio avviso l’attenzione dei vari compagne e compagni, è ciò che si evoca spesso in mancanza di meglio — e talvolta a casaccio, come è in generale abitudine tra gli anarchici, amanti incalliti del caos e del disordine, anche a proposito di termini più o meno precisi — con il termine di «progettualità». Non scappate subito, o non ancora.
La questione non è necessariamente così barbosa come sembra. Secondo me, gli anarchici non dovrebbero correre dietro agli avvenimenti (neanche quando ci presentano situazioni simpatiche come scontri con la polizia e distruzioni), ma dovrebbero cercare loro stessi di creare gli avvenimenti. Non subire l’iniziativa altrui, ma prendere l’iniziativa. Non seguire il corso delle cose, ma andare contro corrente, vivificare la nostra corrente nel fiume della guerra sociale. È da lì che si potrebbe, che si dovrebbe — se me lo consentite — partire: con un progetto autonomo che sia nostro, che intervenga in una realtà che ci circonda e ci ingloba, un progetto che renda possibile l’agire. Non può essere la realtà a intervenire in noi, per suggerirci o sconsigliarci le cose da fare. È proprio per andare in questa direzione che penso ci sia bisogno di una tale progettualità anarchica: proiettarsi nella realtà della guerra sociale con degli obiettivi in testa, con metodi e proposte in tasca, con analisi per cercare di cogliere i movimenti del nemico. Non è questo il cuore dell’anarchismo autonomo e informale, quello del nostro anarchismo? Basta correre dietro agli altri solo perché è la situazione del momento o il soggetto politico del giorno (cioè senza alcuna altra idea in testa se non quella di partecipare). Se parliamo agli altri, è perché abbiamo qualcosa da dire, da proporre e da suggerire. Se analizziamo i conflitti che avvengono intorno a noi, non è per perdere la nostra bussola nell’ammirazione o nel disgusto di quanto fanno o non fanno gli altri. Se disertiamo le scene della contestazione concertata e della composizione, è per aprire terreni di lotta su ben altre basi. Certo, so che non è troppo difficile essere d’accordo con le frasi dette sopra. Ma ciò che lo è di più, è andare oltre ed afferrare il toro per le corna: elaborare una progettualità che permetta di agire in prospettiva, qualcosa che abbiamo creato, che ci appartiene, che amiamo, che approfondiamo, senza farci limitare da ciò che succede vicino a noi, da ciò che si dice sui social network o sui siti di movimento, attraverso cui l’attualità viene bombardata come soggetto da commentare all’infinito, tutte cose che alla fine noi subiamo. Senza progettualità, è difficile arrivare da qualche parte, si finisce con l’agitarsi e lasciarsi agitare senza orizzonte.
«La distruzione necessita — oltre che di conoscenze elementari del nemico, di proprie realizzazioni e propri progetti — di una conoscenza e una disponibilità dei mezzi di distruzione. È l’aspetto costruttivo menzionato; ricercare, sperimentare e poi condividere le maniere di attaccare la bestia tecnologica, le sue unità produttive e i suoi laboratori, le sue antenne di telecomunicazione e le sue infrastrutture energetiche, i suoi strumenti di propaganda e le sue fibre ottiche. Ciò di cui avremmo bisogno è una nuova cartografia, una cartografia del nemico che non menzioni solo i posti di polizia, le banche, gli uffici di partiti e sindacati, le istituzioni, ma sulla quale si possa leggere anche tutto ciò che alimenta lo sfruttamento e il dominio, tutto ciò che ci incatena a questo mondo. Una simile cartografia può armarci in qualsiasi situazione. Che sia in presenza di una calma piatta o di un movimento di rivolta, che si sia coinvolti in una lotta specifica o si intervenga per sabotare una nuova fase nelle guerre condotte dagli Stati, essa servirà per guardare meglio, per meglio scorgere le nostre possibilità di azione. Non è detto che nel corso di un movimento contro una ristrutturazione dello sfruttamento sia impossibile indicare i ripetitori di telefonia mobile come infrastrutture necessarie alla flessibilità del lavoro; così come non è detto che lo scontro fra arrabbiati e poliziotti in un quartiere non possa estendersi al sabotaggio delle infrastrutture energetiche. “Abbandonare ogni modello per studiare le possibilità” diceva il poeta inglese, abbandonare i modelli obsoleti di un confronto simmetrico, abbandonare ogni mediazione politica o sindacale, per studiare le possibilità di portare il conflitto soprattutto laddove il potere non vuole che avvenga».
Les chaînes technologiques d’aujourd’hui et de demain (2016)
Torniamo ora a questa famosa questione energetica: elaborare una progettualità su questo terreno potrebbe rivelarsi molto interessante. Perché, se questa società-titanic sta effettivamente andando verso il naufragio, distruggendo al suo passaggio ogni vita autonoma, ogni vita interiore, ogni esperienza singolare, devastando le terre, avvelenando l’aria, inquinando le acque, mutilando le cellule, pensiamo davvero che sarebbe spiazzante o troppo azzardato suggerire che per nuocere al dominio, per avere qualche speranza di aprire orizzonti sconosciuti, per dare qualche spazio ad una libertà senza misura e senza freni, il suggerimento di scalzare le sua fondamenta energetiche non sarebbe prezioso?
Una tale progettualità dovrebbe chiaramente prendere di mira un asse fondamentale della riproduzione del dominio, l’energia, anche se è vero che fino quando non si prova non si sa cosa potrebbe generare in termini di trasformazione sociale il suo disturbo o la sua paralisi, il che non toglie che in ogni caso sappiamo che è necessario perlomeno che la macchina si fermi perché possa emergere qualcos’altro. Inoltre, esistono già molti conflitti in atto o emergenti, che possono consentire superamenti insurrezionali nel contesto di lotte specifiche contro un obiettivo preciso, come potrebbe esserlo ad esempio una nuova centrale nucleare, una miniera, un parco eolico o una linea ad alta tensione. Ma ancora più profondamente, e qui tocchiamo ciò che dovrebbe stare a mio avviso alla base di una tale progettualità, è che il modo in cui il sistema energetico è costruito (dalle centrali elettriche ed eoliche ai trasformatori, dalle linee ad alta tensione alle scatole elettriche di media tensione, che corre sotto i marciapiedi e lungo le strade) non richiede una concezione centralista o autoritaria dello scontro, al contrario. Una tale progettualità fa appello a piccoli gruppi autonomi, che agiscano ognuno secondo la propria analisi, la propria abilità, la propria creatività e le proprie prospettive, praticando l’azione diretta contro le decine di migliaia di obiettivi, spesso senza particolari difese e raggiungibili in molti modi differenti. Se la storia delle lotte rivoluzionarie è piena di esempi significativi sulle possibilità d’azione contro ciò che fa girare la macchina statale e capitalista, basta gettare uno sguardo alle recenti cronologie di sabotaggi per accorgersi che in diversi contesti europei nemmeno il presente ne è sprovvisto.
Disfarsi degli imbarazzi che accompagnano molto spesso i dibattiti tra rivoluzionari quando si tratta di tagliare la corrente di questo mondo. Osare affrontare la questione della progettualità per emanciparsi dal triste destino di anarchici troppo spesso a rimorchio d’altri. Ciò che può aprirsi è la possibilità di migliaia di sabotaggi diffusi, che colpiscano l’approvvigionamento energetico del mostro che bisogna abbattere. Nessuno può prevedere a cosa ciò possa portare, ma una cosa è certa: è una pratica della libertà.
[Avis de Tempêtes, n. 18, 15 giugno 2019. Tradotto da Finimondo]