La realtà che ci circonda è vasta. La detestiamo, perché traspira oppressione e sfruttamento. L’aborriamo, perché malgrado tutte le teorie e tutte le spiegazioni, malgrado l’odio che auspichiamo feroce tra le classi, malgrado le mille spiegazioni fornite per giustificare non solo l’acquiescenza ma perfino l’adesione al potere di grandi masse di oppressi, siamo costretti a constatare — mandando all’aria le mille mistificazioni vittimiste — che questa realtà è in gran parte il risultato della servitù volontaria. A partire da questo, abbiamo davanti due strade. O rinunciamo a qualsiasi interazione con questa realtà, cercando di forgiarci una vita — l’unica che abbiamo — che valga ancora la pena d’essere vissuta… sarebbe comprensibile. Oppure cerchiamo di interagire con questa realtà, affrontandola con le nostre idee e i nostri desideri sovversivi, col rischio di venire fagocitati da essa e di finire per unirci alla grande marcia funebre dell’umanità.
In effetti, queste due strade non sono poi così distanti come si potrebbe pensare. Fuggendo, ci scontriamo comunque con la realtà; viceversa, anche intervenendovi, le consegniamo la nostra parte di un altro mondo, quello che creiamo in modo impreciso dentro di noi. Solo la morte può porre fine a tutte le interazioni — per quanto, a ben guardare e senza cadere nel culto della carogna, anche la morte può avere un significato nella realtà. Lasciando da parte una prospettiva che vorrebbe «uscire» dal mondo, trovare o costruire un «al di fuori», quali sono le condizioni per un’interazione, per un intervento rivoluzionario nella realtà? Dato che questo aggettivo ha perso molto del suo significato negli ultimi decenni, precisiamo fin d’ora che per «rivoluzionario» intendiamo la tensione trasformatrice, lo sconvolgimento dei rapporti sociali esistenti — cosa ben diversa dall’associarlo in modo semplicistico all’avvento di una «Grande Sera» in cui folle ebbre di rivolta uscissero in strada per cambiare tutto da un giorno all’altro. Di fronte alla realtà che aborriamo, come possiamo dunque decidere di intervenirvi, consci di non essere stelle cadenti sbucate dal nulla, ma che le nostre idee, le nostre aspirazioni, per quanto differenti siano, sono pure influenzate da questa stessa realtà — in sostanza, che non siamo esseri caduti dal cielo, ma individui in carne e ossa cresciuti in questo mondo?
È sicuramente difficile cogliere tutti gli aspetti di quello che chiameremo «intervento rivoluzionario». Invece di chiederci che cosa ne faccia parte, non potremmo cominciare con quanto non ne fa parte? È una prima distinzione necessaria che caratterizza l’anarchismo, o perlomeno certi approcci all’anarchismo. L’anarchico non vive due vite — anche se le condizioni di clandestinità, d’illegalità, di segretezza, inseparabili da qualsiasi lotta, possono talvolta portare ad uno stato di schizofrenia alquanto affliggente. Non si è lavoratori al mattino quando ci si reca al lavoro e anarchici la sera quando si va ad incontrarsi coi compagni al locale vicino. L’anarchico non è un «militante», nel senso che non può, a meno di trasformare il proprio anarchismo in un mero programma politico tra gli altri, dividere la sua vita, il suo tempo, tra attività dedicate alla «militanza» e attività dedicate alla sua «vita». In lui alberga una tensione permanente, che talvolta può perfino diventare una vera lacerazione — che può condurlo, non di rado, a rinunciare a tutto e a ridiventare «una pecora in mezzo al gregge». Poiché non crede nelle forze sotterranee che spingerebbero ineluttabilmente il mondo verso la libertà, né nei meccanismi economici che porterebbero all’emancipazione (cosa che rendeva compatibile, per un Friedrich Engels, essere al tempo stesso padrone di un cotonificio per vent’anni e, diciamo, lottare per la causa del proletariato), ha un rapporto innanzitutto etico con ogni aspetto della sua vita. Le sue scelte, i suoi atti, le sue rinunce, lo definiscono anarchico, forse più delle idee di cui discute con i compagni o delle minacce apocalittiche che magari rivolge al dominio seduto in un bar. Non «milita», «è» un anarchico, anarchico inteso non come acquisizione di certe idee e pratiche, ma, per l’appunto, in relazione alla tensione tra ciò che pensa, ciò che vuole, ciò che vive e ciò che fa. Prima ancora di affrontare «l’intervento rivoluzionario», vediamo già una moltitudine di problemi aprirsi davanti a noi.
Non si può pensare all’intervento rivoluzionario esclusivamente come ad una battaglia d’idee. Se l’approfondimento delle idee è importante, non è né immaginabile né possibile trasformare la realtà sulla base di un dibattito pubblico o di una contraddizione logica. I libri, i testi, fanno certo parte dell’attività di un rivoluzionario, ma un libro non è un’arma. Un libro può corrodere pregiudizi e ideologie (che contribuiscono, senza dubbio, a questa spaventosa «servitù volontaria» che conduce le masse, mentre cantano, verso il macello), ma non può abbattere un padrone o demolire una prigione . Per abbattere un padrone occorre un’arma; per demolire una prigione occorrono strumenti di distruzione. Ma prendere un’arma in mano non ci rende ancora capaci di abbattere un padrone: per far ciò, dovremmo essere convinti che è giusto, che è adeguato, che ha un senso abbattere il padrone. Come vediamo, non si possono sbrogliare tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario senza parlare di nuovo al vento.
Le nostre idee allora sono solo fortezze astratte? Analizziamo questa società e comprendiamo come il padrone, tutti i padroni, debbano essere soppressi se vogliamo andare verso una società «senza Dio né padroni». Ma nella realtà non s’incontrano «tutti i padroni», è un’astrazione che rende l’idea concepibile per la ragione, ma non immediatamente operativa nella realtà. Quello che noi possiamo trovare è quel padrone, un padrone, diversi padroni riuniti magari attorno a un tavolo in una birreria parigina. Per cui non c’è da stupirsi quando, traboccanti d’idee sanguinarie di vendetta contro «tutti i padroni», si rischia di ritrovarsi piuttosto disarmati di fronte ad un padrone concreto, pur avendo il coltello tra i denti. Ecco perché tra le idee anarchiche e la realtà del dominio bisognerebbe immaginare e costruire un ponte, un’incursione. Questa è forse la definizione più ampia da poter dare nel parlare di «progetto» e di «progettualità».
Mettendo assieme tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario, è possibile superare una fase ancora più difficile: immaginarli insieme per costruire un progetto che ci consenta di intervenire nella realtà. Ma attenzione, compagne e compagni che state leggendo, non è una chiacchiera o una masturbazione mentale. Questo tipo di progetto, così inteso, è qualcosa di ben altro che fare questo o quello, pubblicare un giornale o scrivere un libro, fare una rapina o incendiare una industria, organizzare una riunione o far crescere un orto. Cerca di includere, se non tutti, almeno quanti più aspetti è possibile dell’intervento rivoluzionario, per orientarli verso qualcosa da trasformare nella realtà. Ovviamente si può argomentare che fare un bollettino anarchico come questo abbia senso di per sé, che è comunque interessante contribuire all’approfondimento delle idee e alla fermentazione della discussione. Ovviamente si può dire che un attacco contro una struttura del dominio è sempre benvenuto ed è significativo, al di là di qualsiasi prospettiva più ampia in cui sia inserito (o meno). È vero, però c’è un ma… Se si fanno le cose per nostra stretta soddisfazione personale, perché no, la riflessione può anche fermarsi là, senza il bisogno di sovraccaricarsi con altre domande. Ma osiamo dire che un simile approccio corre il forte rischio di mordersi la coda, di svuotarsi dall’interno, perché la soddisfazione personale ne richiede sempre un’altra, più lontana, e così via fino a quando ci si rende conto o che non c’è più nulla da soddisfare (si è «vuoti»), o che non si è più capaci di soddisfare se stessi (e sopraggiungono la depressione e l’amarezza). Se, viceversa, vogliamo caricare ciò che facciamo di un significato che vada oltre il nostro desiderio individuale, di un significato che possa parlare anche agli altri (e perché no, al mondo intero), si è portati a pensare le cose in modo diverso, occorre pensarle altrimenti.
Per riprendere l’esempio di questo bollettino, se fosse solo per la soddisfazione di scrivere qualche (bella, a seconda dei gusti) parola sull’anarchia, vi posso dire in tutta franchezza che smetterei subito. Il mondo è già pieno di belle parole sull’anarchia, che sono là, alla portata di chiunque voglia afferrarle. No, pubblicare questo bollettino ha senso per me perché partecipa, talvolta in modo adeguato e talvolta probabilmente meno, a una progettualità più ampia, che va ben oltre questi fogli mensili messi a disposizione.
Ed ecco il ma. Io non posso, non voglio, sovraccaricare le cose fatte di un senso maggiore di quello che hanno. D’altra parte posso, e voglio, dare alle cose da fare un significato più ampio quando sono collegate, quando si parlano, quando sono pensate in un insieme all’interno di un progetto, ovviamente provvisorio e certo non come un programma da realizzare. Ogni cosa, presa singolarmente, assumerà allora un altro colore, un altro gusto, qualora venga pensata così. La diffusione di volantini, ad esempio, che può diventare presto una routine deludente, può trasformarsi in altro se è pensata in relazione a un progetto. L’incendio di un’antenna, cosa magari un po’ più complicata di una semplice passeggiata notturna, echeggia in modo diverso quando un simile attacco s’inserisce in un più ampio progetto che parta da un’analisi della società contemporanea, o dal ruolo della comunicazione digitale nella riproduzione dei rapporti sociali e nell’economia capitalista. La pratica di questo genere di sabotaggi contro obiettivi sparsi un po’ dovunque, facilmente identificabili, aventi una funzione importante nel buon funzionamento della società, potrebbe quindi potenzialmente diffondersi come proposta concreta per opporsi alla duplicazione digitale del mondo e all’inaudita schiavitù di cui è portatrice. Allo stesso modo, organizzarsi in base alle affinità assume ancor più significato se si inserisce in un progetto che tenda verso, o preveda, la possibilità di un coordinamento, di un’organizzazione informale tra diversi gruppi d’affinità, ovvero con altri individui uniti in forme organizzate miranti ad attaccare le strutture del dominio.
Molti di noi, ciascuna e ciascuno a modo proprio, ne hanno abbastanza di frequentare assemblee tenute da piccoli politicanti, di vedere le nostre aspirazioni frenate da un ambiente tendente alla mediocrità e al realismo, di partecipare a lotte e a cortei dove siamo chiamati a ricoprire il ruolo di «radicali di servizio» approntato per noi dai fautori della strategia dei «rapporti di forza», di ritrovarci al rimorchio di autoritari e gestori dei conflitti. Se tu che stai leggendo non avverti questo e continui a vedere un senso nel possibilismo radicale, buona fortuna, queste righe ti saranno di ben poca utilità. Perché ciò che stiamo proponendo è di farla finita con tutto questo, pur consapevoli che ciò che viene buttato fuori dalla porta potrebbe rientrare insidiosamente dalla finestra. Perché abbiamo bisogno di questa rottura. Negli ultimi anni del resto sta emergendo un po’ dovunque in questo maledetto Esagono, ovviamente nei modi di volta in volta più disparati. Stanchi di correre dietro all’ennesimo movimento sociale e di ritrovarsi in balìa di neo-blanquisti di ogni genere, parecchi anarchici, anti-autoritari, nichilisti, singoli individui agiscono, attaccano e cercano di intervenire da diversi anni nella realtà in mille modi differenti in tutto il territorio, coi propri tempi e in piena autonomia. Sta così dipanandosi una profusione di azioni dirette, per di più in un contesto sociale (poco importa che sia più o meno apprezzato) agitato da cui scaturiscono anche riflessioni e pratiche nuove, a volte può darsi confuse, ma almeno non irreggimentate negli stretti recinti della «mobilitazione sociale» e delle sue corti di militanti.
È per questo che intendiamo qui esortare, suggerire, una riflessione su quella che definiamo «progettualità». E precisiamo subito che non si tratta di una proposta per una progettualità, ma magari per delle progettualità, perché la ricchezza di approcci che si scorgono oggi nell’agire delle compagne e dei compagni non deve in nessun caso essere legata al letto di Procuste perché si adatti a un qualsivoglia «progetto unico». Il confronto, lo scambio, la comprensione reciproca delle diverse progettualità è possibile solo qualora queste vengano enunciate, delineate — con la parola scritta o sussurrate all’orecchio, in maniera dettagliata o almeno abbozzate. Lungi da ogni logora «professione di fede», perché non creare delle connessioni tra l’idea e l’intervento nella realtà, contro la realtà? In questo, la discussione potrebbe diventare, ed è forse il momento, eminentemente operativa, vale a dire concernente prospettive concrete a breve e medio termine, con un elenco delle cose che si potrebbero fare, fino alle ipotesi di ciò che si ritiene di poter condurre in modo conflittuale in questa realtà, di come quest’ultima potrebbe svilupparsi, modificarsi, trasformarsi alla luce del nostro intervento. Una vana chiacchiera? Non credo. Difficile? Probabile.
Da «parte nostra», ovvero da questi fogli che escono ormai da due anni, potremmo enunciare un progetto maturato in maniera informale in quest’ultimo periodo (vale a dire, senza un centro e tramite contributi diretti e indiretti), attraverso numerosi scritti, scambi ed esperimenti. Partendo da un approccio insurrezionale dell’anarchismo che ci è caro, da un anarchismo cioè basato sull’auto-organizzazione, l’autonomia, l’informalità e l’attacco, ci sembra che un tale progetto dovrebbe nel contempo continuare ad analizzare l’evoluzione dello Stato, la ristrutturazione tecnologica dell’economia e della società, e l’intreccio di questa ristrutturazione con le guerre, l’abbrutimento, la perdita del linguaggio e l’assalto all’interiorità degli esseri umani. Tali analisi portano a considerare «la guerra sociale» non in base a criteri classici (scontro tra sfruttati e sfruttatori, più o meno mediati dalle diverse strutture di gestione come il partito o il sindacato), ma piuttosto come un insieme, contraddittorio e complesso, tra lotte specifiche che si articolano contro una precisa struttura o nocività del potere, esplosioni di rabbia — espressione di una diffusa ma molto effimera insofferenza —, mobilitazioni di massa che sfuggono alla mediazione politica classica (come i gilet gialli), o anche interventi più specificamente «anarchici» che tendono alla disorganizzazione, alla destabilizzazione della ristrutturazione tecnologica della società.
Mettendo da parte i primi tre ambiti — per il momento, anche perché altri sono probabilmente nella posizione migliore per farlo, in particolare per quanto riguarda le lotte specifiche in corso — possiamo abbozzare una possibile progettualità su questo quarto aspetto. Essa consiste grosso modo nel proporre come campo d’intervento le infrastrutture, spesso facilmente identificabili, che oggi permettono in gran parte il funzionamento della società connessa: i trasporti, l’energia, la comunicazione. Se solo l’insurrezione può aprire orizzonti veramente altri, rivoluzionari, si può comunque già agire senza attendere che rallenti la corsa del treno del dominio che avanza a tutta velocità verso l’abisso, o anche tentare di farlo deragliare. L’eventualità che una proliferazione di attacchi contro queste infrastrutture possa portare ad una significativa destabilizzazione, ovvero ad una rivolta di massa, non può certo essere garantita (comunque sia, eterna diffidenza verso tutti coloro che ci invitano ad agire sbandierando garanzie), pur non essendo esclusa. Lo si è potuto vedere di recente in Cile, dove il sabotaggio dei trasporti pubblici nella capitale all’interno di una contestazione, ci sia permesso di dirlo, piuttosto banale, contro l’aumento del prezzo dei biglietti, ha, se non scatenato, almeno fatto da scintilla o favorito una rivolta di grande ampiezza. È un’ipotesi, né più né meno, ma che pone in ogni caso questioni operative immediate in ciò che c’è da pensare, preparare e fare.
Inoltre, al di là dei quattro gatti anarchici sparsi qui e là, si può constatare che anche diversi conflitti locali sono incentrati sulle infrastrutture. Qui a venir contestata è la costruzione di un parco eolico, là è una linea dell’alta tensione; altrove, ci si oppone all’apertura di una miniera, all’installazione di un ripetitore o di un apparato 5G (questa mostruosità ancora sottovalutata per ciò che realmente inaugura: un’interconnessione di ogni oggetto, ossia una rete invisibile che collegherà tutto al dominio). Molti di questi conflitti presentano certamente forti connotazioni cittadiniste, ma si vede anche come possano essere più inclini a favorire la pratica del sabotaggio che quella del pettegolezzo: non si discute con una struttura ostile, la si distrugge.
A chi ritiene che una tale progettualità sia extra-terrestre e, considerata l’adesione entusiasta delle masse alle protesi tecnologiche, che rimanga appannaggio volontarista di qualche illuminato, potremmo rispondere evidenziando i piccoli conflitti che brulicano un po’ dovunque, ma anche tutti quei piccoli gruppi che già hanno deciso di colpire questo tipo di strutture specifiche durante il movimento dei gilet gialli.
Tuttavia, la cosa più importante non è nemmeno questa. La cosa più importante è che una tale progettualità (e — lo ripetiamo, perché sarebbe davvero un peccato essere fraintesi su questo punto — senza escluderne altre, a condizione che siano argomentate e discutibili, altrimenti riguardano solo chi le sviluppa, senza aggiungere altro), una tale progettualità, quindi, potrebbe contenere diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario. Essa ci permetterebbe di abbandonare nettamente dei percorsi che non sono i nostri e che possono solo condurre alla cogestione, alla politica, alla riproduzione di miti confortanti sulle «masse», gli «sfruttati», i «proletari», per imboccare una via che sia nostra, che ci appartenga, anche a costo di sbagliare (auspicando di avere la capacità di valutarlo in maniera critica costantemente, ma andando fino in fondo alle cose piuttosto che a metà). Su questa strada, tutto è da scoprire, anche se possiamo attingere a certe esperienze del passato e soprattutto cogliere i suggerimenti che la realtà ci lancia di continuo.
Infine, il fatto di rifiutare la centralizzazione e preferire la diffusione e l’ordine sparso all’accentramento, l’agire in pochi alla manifestazione di massa, l’autonomia materiale e mentale al programma da realizzare, offrirebbe a tale progettualità delle qualità non insignificanti.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 26, 15 febbraio 2020]