Nella Chicago del 1948 la vita non doveva essere facile per la sua famiglia, e ancor meno per lei. Il suo nome era Suvaki Yamaguchi ed era nata su un’isola del Giappone alla fine degli anni 30. Nelle sue vene scorreva sangue di mille colori, tutti sbagliati nel paese a stelle e strisce. Il padre era giapponese, ma di discendenza filippina. La madre era nativa americana, Cheyenne, e fra i suoi avi c’erano americani scozzesi-irlandesi. La piccola Suvaki era quindi la perfetta incarnazione del meticciato, con tutto ciò che ne consegue. Verso la fine della seconda guerra mondiale la sua famiglia venne rinchiusa per un periodo nel campo di concentramento Manzanar, in California, ai piedi della Sierra Nevada. Se questo era il destino degli americani rei di non essere bianchi e di provenire dalla terra del sol levante, figurarsi quello riservato a loro!
Riacquistata la libertà, la famiglia Yamaguchi si trasferì nella celebre metropoli dell’Illinois. Per quella bambina girare per le strade dei quartieri occidentali della città era un’impresa ardua e pericolosa: insulti, canzonature, minacce. Agli occhi di molti bianchi (e pure neri) lei era una «Tojo», dal nome del pilota militare giapponese che iniziò l’attacco a Pearl Harbor. Per di più, il suo corpo cominciava a formarsi in maniera rapida ed eccessiva, troppo rapida ed eccessiva, costringendola ad indossare larghe vesti per nasconderlo. In un giorno d’estate del 1948, poco prima del suo decimo compleanno, la piccola Suvaki stava tornando a casa quando fu circondata da un gruppo di cinque uomini, i quali la caricarono sulla loro automobile. Cosa accadde a quella bambina metà «pellerossa», metà «occhi a mandorla» e troppo procace per la sua età, è purtroppo immaginabile… La scaricarono in un vicolo come un rifiuto, priva di sensi e sanguinante. La sua famiglia sporse denuncia e i responsabili furono identificati. Ma la giustizia aveva ben altro da fare che occuparsi di quanto accaduto ad una mocciosa bastarda sanguemisto, soprattutto quando il giudice era stato ripagato profumatamente, così i cinque uomini poterono tornare indisturbati alle loro faccende. Come se nulla fosse successo.
Ma per Suvaki no, qualcosa era successo — qualcosa di inaccettabile. E se la giustizia non poteva farci nulla, allora, tanto peggio per la giustizia! Dopo quel fatto, la piccola Suvaki crebbe terribilmente in fretta. Il mondo degli adulti prima la mise in una scuola riformatorio, poi a 13 anni le organizzò un matrimonio che sarebbe durato meno di un anno. Da parte sua, Suvaki decise che non sarebbe mai più stata una preda. Grazie al padre imparò le arti marziali, diventando cintura verde di aikido e cintura nera di karate. Diventò una ragazza irrequieta, formò una banda giovanile chiamata Gli Angeli con le amiche italiane, ebree e polacche del suo quartiere.
A 15 anni si trasferì a Los Angeles dove, per iniziare una nuova vita, si procurò dei documenti falsi che attestassero la sua maggiore età. Sostituì il nome con il nomignolo cheyenne con cui la chiamava la madre e conservò il cognome del primo marito. Diventò ballerina di burlesque, fotomodella, attrice.
Ma, soprattutto, essendo una ragazza selvaggia e non una pedagogica militante, prima del suo venticinquesimo compleanno andò a scovare, uno per uno, tutti i cinque uomini che avevano infranto la sua infanzia, prendendosi la sua vendetta. Come avrebbe ricordato nelle sue memorie, «giurai a me stessa che un giorno, in qualche modo, avrei saldato i conti con tutti loro. Non hanno mai saputo chi fossi, finché non gliel’ho detto».
Un paio di anni dopo aver regolato l’ultimo conto venne scelta per recitare in un film destinato a renderla famosa in tutto il mondo. Non dovette sforzarsi troppo per interpretare il personaggio di Varla e rifiutò persino la controfigura. Le bastò essere se stessa: Tura Satana, l’indimenticabile protagonista di Faster, pussycat! Kill! Kill!.
[Publicato su Finimondo il 23/7/21 e ripreso en Avis de tempêtes, n°43-44, agosto 2021]