Qualcuno si ricorda ancora del fenomeno che in pochi mesi del 2016 ha visto quasi 500 milioni di giocatori in oltre cento paesi scontrarsi improvvisamente con la materialità del mondo, col naso inchiodato sullo schermo di un telefonino, in cerca di piccoli personaggi colorati da catturare? Un gioco che aveva messo perfino in subbuglio il responsabile della Direzione della Protezione delle Installazioni Militari (DPID), il quale di fronte alle ripetute intrusioni di civili nel territorio dell’esercito constatava con amarezza che «al momento, diversi siti del ministero, fra cui zone di difesa altamente sensibili (ZDHS), ospiterebbero questi oggetti e creature virtuali». E che aveva anche sollevato le vive proteste dei responsabili del vecchio carcere dei Khmer Rossi, Tuol Sleng, trasformato in museo del genocidio cambogiano, come di quelli dell’ex-campo di sterminio polacco di Auschwitz-Birkenau, i cui siti erano a loro volta invasi da indelicati cacciatori di Pokemon, ossessionati dalle apparizioni fittizie che si sovrapponevano in modo aleatorio ad un ambiente tragicamente reale. E anche se avessimo potuto farci beffe cinicamente di quegli abbrutiti precipitati da una scogliera ad Encinitas (California), o dispersi in mezzo ai campi minati di Posavina (Bosnia-Erzegovina), sempre per catturare quelle prede immaginarie, ciò avrebbe comunque segnato la ributtante diffusione in pompa magna non solo degli smartphone, ma soprattutto delle loro applicazioni di realtà aumentata attorno a noi.
Cinque anni più tardi, questo gioco sviluppato da Niantic — una start-up uscita dall’incubatore di Google destinata a sfruttare e diffondere massivamente la combinazione di telefono cellulare, app Internet, videocamera e geolocalizzazione — ha certo perso la sua vanagloria come qualsiasi moda, ma va da sé che altri tentativi di offuscare definitivamente i confini tra reale e virtuale stanno ribollendo di nuovo nelle pentole degli squali tecnologici. Ognuno avrà sicuramente già testato con amarezza la passività delle folle di zombi prigionieri sprofondati in uno schermo durante i loro spostamenti coi mezzi pubblici, o constatato fino a che punto i rapporti sociali abbiano subito un nuovo assalto di beota virtualizzazione nel corso dei vari confinamenti — e non solo nell’ambito della schiavitù salariale. Allo stesso modo, alcuni politici populisti hanno potuto pavoneggiarsi sotto forma di ologrammi in occasione di incontri simultanei, mentre vecchi cantanti popolari tornati in auge hanno previsto di organizzare tour di concerti con la medesima modalità. Ma tutto ciò suonava un po’ troppo falso, allorquando il colosso Facebook lo scorso 18 ottobre ha fatto il roboante annuncio della creazione di 10.000 posti di lavoro nei suoi laboratori del vecchio continente (Monaco, Parigi, Zurigo, Cork) al fine di «investire nei nuovi talenti europei per contribuire a costruire un metaverso».
Contrazione di meta ed universo proveniente dalla fantascienza, questo grottesco concetto è il progetto di punta del pioniere dell’esibizionismo on line, consistente nientemeno che nello sviluppo illimitato e persistente di una sorta di controfigura digitale del mondo fisico, che interagirebbe di rimando con la realtà sotto forma di universo parallelo. Oltrepassando ampiamente il mondo dei videogiochi, le sue prime espansioni — che mirano a rovesciare in un universo smaterializzato parte dell’esperienza sensibile, sostituendosi parzialmente alla realtà — riguardano già, ad esempio, visite tridimensionali ai musei dal proprio divano, o noiose riunioni di lavoro a distanza in sale digitali, il tutto dirigendo il proprio avatar con un casco per la realtà virtuale infilato sulla testa. Ma gli sviluppatori informatici di tutto il pianeta lavorano ovviamente anche su altri tipi di «realtà immersive» a base di caschi e occhiali «aumentati», in particolare in materia di insegnamento a distanza da svolgere interamente in un mondo irreale (interazioni umane e manipolazione di oggetti), o di prove di calzature di marca mediante il proprio doppio in pixel nei negozi delle città del metaverso… prima di ricevere a casa quelle ordinate.
Quanto a Microsoft, che non è da meno, da parte sua si è appena lanciata in un altro tipo di fusione di un universo virtuale con funzionalità ben reali, come la creazione di «gemelli digitali» delle infrastrutture sensibili, ossia cloni virtuali delle «reti di distribuzione di energia o di fabbriche complesse», dove ogni macchina e ogni sistema vengono riprodotti perfettamente identici (pezzo per pezzo), allo scopo di prevedere costantemente l’usura di un’apparecchiatura o di anticipare il rifornimento di un apparato, il che implica anche la copertura dell’insieme dei sensori in modo che le due dimensioni possano interagire simultaneamente in parallelo. Infine, nella direzione opposta, l’esercito americano ha appena acquistato lo scorso aprile 120.000 caschi IVAS (Integrated Visual Augmentation System) da Microsoft per 22 miliardi di dollari, che non fungeranno più soltanto da addestramento per i soldati ricreandone e modificando virtualmente le condizioni di combattimento, ma diventeranno efficaci in missione, combinando visualizzazione e condivisione di informazioni in tempo reale, commutazione automatica di modalità di visione (termica, ad infrarossi), mappa in sovrimpressione e identificazione del nemico, il tutto oggetto di calcoli informatici permanenti tramite un cloud, al fine di «prendere decisioni tattiche e ingaggiare obiettivi», come si dice nella neolingua militare. Allo stesso modo, nel dicembre 2020, il Comitato di Etica del Ministero della Difesa francese ha ufficialmente dato il via libera alla ricerca sul «soldato aumentato», ovvero né più né meno che un passo verso l’inserimento di chip sottocutanei che consentano loro di inviare o ricevere informazioni, l’operazione alle orecchie per sentire frequenze molto alte o molto basse, o anche l’inserimento di impianti «che permettano di assumere il controllo di un sistema di armamenti».
Questo sviluppo del metaverso in cui gli esseri umani verrebbero zavorrati con dispositivi rivestiti di rilevatori sensoriali per parte della loro giornata, perché possano interagire fra loro in forma più o meno virtuale all’interno di una realtà ricostituita e gestita da algoritmi (per il lavoro, il consumo o il tempo libero), in definitiva qui non fa altro che prolungare il rapporto sociale già ampiamente prodotto dai vari guinzagli elettronici, dove la percezione della realtà viene colta solo indirettamente. Con la particolarità che questa nuova offensiva produttiva verso la derealizzazione tende ormai a colpire poco alla volta tutti i nostri sensi. Di fronte a tutto ciò, se ne resta solo uno da coltivare, non può essere il bene che accresce questa ulteriore mutilazione della nostra sensibilità, bensì il suo opposto, quello che porta a scatenare tutte le cattive passioni, a cominciare da quella della distruzione di tutto ciò che distrugge. E poiché nulla di virtuale si realizza in questo mondo in mancanza di infrastrutture molto materiali — dalle migliaia di satelliti Starlink che richiedono basi terrestri (situate a Gravelines per il nord, a Villenave-d’Ornon per il sud e a Saint-Senier-de-Beuvron per l’Ovest) fino ai famigerati data center così avidi di elettricità o alle antenne e ai cavi in fibra ottica — ciascuno sa certamente cosa resta da fare.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]