Il mondo accelera. Ciò che resiste si fa calpestare dal gran balzo in avanti. Se diventa ogni giorno più evidente che il cambiamento climatico è diventato irreversibile, la pressione nelle caldaie dello scafo infernale di questa civiltà-Titanic aumenta, alimentata dall’illusione che un crescendo tecnico possa ripristinare gli equilibri turbati. Da parte dei ribelli, si tarda ancora troppo ad affrontare questa realtà ed a trarne le debite conseguenze, magari provvisorie, per il nostro agire e le nostre prospettive di lotta. Tuttavia i giochi sono fatti ed è a partire da qui che dovremmo riflettere.
Troppo tardi
Se mai è esistita una qualche possibilità di far deviare il treno dall’espansione industriale attraverso una decisione politica del gestore della rete per invertire, o perlomeno rallentare il processo del cambiamento (una convinzione illusoria, dato che la sopravvivenza della mega-macchina non può essere disgiunta dalla crescita produttiva), essa si trova ormai alle nostre spalle. Nessuna misura, per quanto totalitaria o faraonica, potrà disinnescare questo processo già molto avanzato. Il cambiamento climatico è un fatto; la sola cosa che resta aperta alla speculazione (e qualsiasi approccio scientifico che pretenda di elaborare un modello preciso e globale del fenomeno non può che rimanere cieco — una deformazione professionale, probabilmente — davanti all’assoluta impossibilità di prevedere un fenomeno di tale ampiezza, di tale grandezza, da fattori tanto vari quanto ignoti), è il suo ritmo, le sue conseguenze immediate e, a medio termine, ciò che accadrà dopo il tracollo degli eco-sistemi locali. Poiché questo cambiamento climatico non è che la riacutizzazione di un processo di devastazione ambientale che coincide con l’espansione industriale e la mobilitazione di quantità di risorse energetiche inedite nella storia delle civiltà umane, a fini di espansione, conquista e dominio.
Anche ciò che avrebbe potuto essere l’ultimo monito di fronte al pericolo delle forze accumulate dalla civiltà industriale, di fronte al «divario prometeico» tra le sue realizzazioni tecniche e la coscienza singolare dell’individuo (prima colpito da una sensazione di umiliazione davanti alla potenza delle macchine che ha sviluppato, poi inghiottito da questa fino a diventarne un’appendice) — vale a dire davanti alla produzione di Auschwitz e di Hiroshima — in fin dei conti non è stato che il calcio d’inizio di un nuovo assalto, ancora più imponente, a ciò che si poteva sottomettere, sfruttare, estrarre, addomesticare.
Mentre i massacri cui la specie umana sembra consacrare un culto più unico che raro tra gli esseri viventi continuavano ad accompagnare la nascita del meraviglioso mondo della lavastoviglie e dell’automobile, le contraddizioni tra lavoro e capitale trovavano una via d’uscita nell’idolatria tecnologica. Una parte considerevole della popolazione umana mondiale è stata ridotta in schiavitù, cioè in totale dipendenza dal sistema industriale, dopo essere stata spogliata di quanto rendeva possibile la propria autonomia. Fino a caratterizzare l’umanità con una nuova tappa simbolica nel 2008: per la prima volta, più della metà degli esseri umani abitano ormai in agglomerati urbani, la maggior parte dei quali in baraccopoli.
In meno di cinquanta anni sono stati fatti passi da gigante nella devastazione della flora e della fauna di questo pianeta. Esistono infatti buone ragioni per definire l’èra industriale come l’Antropocene, ossia un’èra nella storia della terra in cui l’influenza dell’essere umano sulla biosfera ha raggiunto un livello tale da diventare una «forza geologica». Tra il 1970 e il 2016, le popolazioni dei vertebrati (pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili) sono diminuite del 68%. Alcuni parlano addirittura di Sesta Estinzione: la civiltà umana sarebbe in gran parte responsabile della scomparsa prevista dal 20 al 50% delle specie viventi sulla terra entro la fine di questo secolo. Un accademico nordamericano ne ha tratto sommariamente la constatazione in un libro che raccoglie quasi un decennio di ricerche ambientali: «Nel corso dei prossimi cento anni, la metà delle specie sulla terra, che rappresentano un quarto della riserva genetica del pianeta, spariranno funzionalmente se non completamente. […] L’ampia traiettoria dell’evoluzione biologica è stata fissata per i prossimi milioni di anni. In tal senso, la crisi dell’estinzione — la corsa per preservare la composizione, la struttura e l’organizzazione della biodiversità così come esistono oggi — è finita, e noi abbiamo perso».
Ogni persona che presti un po’ d’attenzione, dagli abitanti delle aree interessate agli osservatori dilettanti, può accorgersi direttamente dell’instabilità in corso dei fenomeni climatici. Non passa un mese senza che un nuovo fenomeno, più o meno grave, non aggiunga il suo fardello di perturbazioni agli equilibri e alle lente evoluzioni su cui sono basati gli ecosistemi. La fusione dei ghiacci nell’Artico, dei ghiacciai in Groenlandia o degli strati antartici sta accelerando irrimediabilmente facendo innalzare il livello dei mari. Mentre alcune isole sono già state evacuate, le sorgenti d’acqua dolce in Bangladesh stanno per diventare salate e aumenta la pressione sui modi di vivere della fauna oceanica. Gli incendi delle foreste devastano via via con violenza inaudita le aree settentrionali, mentre la siccità accelera una desertificazione cheentro il 2050 potrebbe interessare un terzo delle terre emerse. A sua volta, nel prossimo decennio l’irrefrenabile disgelo del permafrost rilascerà enormi quantità di gas serra (anidride carbonica e metano) ad un ritmo esponenziale, contribuendo di rimbalzo al riscaldamento globale che è la causa dello stesso disgelo. E così via.
Se mai è esistita una qualche possibilità di far deviare il treno dall’espansione industriale attraverso una decisione politica del gestore della rete per invertire, o perlomeno rallentare il processo del cambiamento (una convinzione illusoria, dato che la sopravvivenza della mega-macchina non può essere disgiunta dalla crescita produttiva), essa si trova ormai alle nostre spalle. Nessuna misura, per quanto totalitaria o faraonica, potrà disinnescare questo processo già molto avanzato. Il cambiamento climatico è un fatto; la sola cosa che resta aperta alla speculazione (e qualsiasi approccio scientifico che pretenda di elaborare un modello preciso e globale del fenomeno non può che rimanere cieco — una deformazione professionale, probabilmente — davanti all’assoluta impossibilità di prevedere un fenomeno di tale ampiezza, di tale grandezza, da fattori tanto vari quanto ignoti), è il suo ritmo, le sue conseguenze immediate e, a medio termine, ciò che accadrà dopo il tracollo degli eco-sistemi locali. Poiché questo cambiamento climatico non è che la riacutizzazione di un processo di devastazione ambientale che coincide con l’espansione industriale e la mobilitazione di quantità di risorse energetiche inedite nella storia delle civiltà umane, a fini di espansione, conquista e dominio.
Anche ciò che avrebbe potuto essere l’ultimo monito di fronte al pericolo delle forze accumulate dalla civiltà industriale, di fronte al «divario prometeico» tra le sue realizzazioni tecniche e la coscienza singolare dell’individuo (prima colpito da una sensazione di umiliazione davanti alla potenza delle macchine che ha sviluppato, poi inghiottito da questa fino a diventarne un’appendice) — vale a dire davanti alla produzione di Auschwitz e di Hiroshima — in fin dei conti non è stato che il calcio d’inizio di un nuovo assalto, ancora più imponente, a ciò che si poteva sottomettere, sfruttare, estrarre, addomesticare.
Mentre i massacri cui la specie umana sembra consacrare un culto più unico che raro tra gli esseri viventi continuavano ad accompagnare la nascita del meraviglioso mondo della lavastoviglie e dell’automobile, le contraddizioni tra lavoro e capitale trovavano una via d’uscita nell’idolatria tecnologica. Una parte considerevole della popolazione umana mondiale è stata ridotta in schiavitù, cioè in totale dipendenza dal sistema industriale, dopo essere stata spogliata di quanto rendeva possibile la propria autonomia. Fino a caratterizzare l’umanità con una nuova tappa simbolica nel 2008: per la prima volta, più della metà degli esseri umani abitano ormai in agglomerati urbani, la maggior parte dei quali in baraccopoli.
In meno di cinquanta anni sono stati fatti passi da gigante nella devastazione della flora e della fauna di questo pianeta. Esistono infatti buone ragioni per definire l’èra industriale come l’Antropocene, ossia un’èra nella storia della terra in cui l’influenza dell’essere umano sulla biosfera ha raggiunto un livello tale da diventare una «forza geologica». Tra il 1970 e il 2016, le popolazioni dei vertebrati (pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili) sono diminuite del 68%. Alcuni parlano addirittura di Sesta Estinzione: la civiltà umana sarebbe in gran parte responsabile della scomparsa prevista dal 20 al 50% delle specie viventi sulla terra entro la fine di questo secolo. Un accademico nordamericano ne ha tratto sommariamente la constatazione in un libro che raccoglie quasi un decennio di ricerche ambientali: «Nel corso dei prossimi cento anni, la metà delle specie sulla terra, che rappresentano un quarto della riserva genetica del pianeta, spariranno funzionalmente se non completamente. […] L’ampia traiettoria dell’evoluzione biologica è stata fissata per i prossimi milioni di anni. In tal senso, la crisi dell’estinzione — la corsa per preservare la composizione, la struttura e l’organizzazione della biodiversità così come esistono oggi — è finita, e noi abbiamo perso».
Ogni persona che presti un po’ d’attenzione, dagli abitanti delle aree interessate agli osservatori dilettanti, può accorgersi direttamente dell’instabilità in corso dei fenomeni climatici. Non passa un mese senza che un nuovo fenomeno, più o meno grave, non aggiunga il suo fardello di perturbazioni agli equilibri e alle lente evoluzioni su cui sono basati gli ecosistemi. La fusione dei ghiacci nell’Artico, dei ghiacciai in Groenlandia o degli strati antartici sta accelerando irrimediabilmente facendo innalzare il livello dei mari. Mentre alcune isole sono già state evacuate, le sorgenti d’acqua dolce in Bangladesh stanno per diventare salate e aumenta la pressione sui modi di vivere della fauna oceanica. Gli incendi delle foreste devastano via via con violenza inaudita le aree settentrionali, mentre la siccità accelera una desertificazione cheentro il 2050 potrebbe interessare un terzo delle terre emerse. A sua volta, nel prossimo decennio l’irrefrenabile disgelo del permafrost rilascerà enormi quantità di gas serra (anidride carbonica e metano) ad un ritmo esponenziale, contribuendo di rimbalzo al riscaldamento globale che è la causa dello stesso disgelo. E così via.
Imminente apocalisse?
Ogni generazione sembra produrre la propria imminente apocalisse contro cui deve combattere, ma che non avviene mai. Tuttavia, bisogna anche convenire che le ultime generazioni avevano davvero ragione a temere eventi di una ampiezza mostruosa, visto i mezzi apocalittici di cui civiltà si era già dotata. La devastazione industriale scatenata durante la Seconda guerra mondiale deve aver ispirato nei più lucidi una terribile paura di fronte ad un’eventuale reiterazione, i cui pretesti non mancavano con una probabilità ancora molto elevata. Le migliaia di testate nucleari con cui per esempio si sono equipaggiate le «superpotenze», così come le centinaia di centrali nucleari civili disseminate sui loro territori, hanno ragionevolmente fatto temere l’imminente avvento di un inverno nucleare (il cui rischio non è ancora scomparso). Poi, via via che l’automazione e la meccanizzazione hanno preso definitivamente il sopravvento sull’essere umano, o meglio, lo hanno integrato del tutto nella mega-macchina, il massiccio inquinamento, le subdole intossicazioni, la diffusione di elementi cancerogeni, hanno sovraccaricato le catastrofi reali del presente in modo abnorme.
Certo, proprio come il «principio di speranza», questo auto-inganno umano, troppo umano, l’invocazione dell’imminenza dell’apocalisse serve anche a scopi banalmente mobilitanti. Timore e speranza hanno forse una radice fin troppo comune, e questo binomio sentimentale è sempre stato il terreno preferito dei suonatori di flauto a caccia di soggetti da arruolare. Non è quindi sorprendente che discorsi sempre più allarmistici risuonino oggi fin nelle più alte sfere del potere: l’evocazione del «cambiamento climatico» servirà presto da comodo lasciapassare per consentire loro di aprire le porte più impreviste. La gestione statale della pandemia da Covid19, con la sua accelerazione del tecno-totalitarismo e il suo rafforzamento della sorveglianza in tutte le sfere della vita, fornisce un esempio di come la gestione del potere possa mutare rapidamente e bruscamente.
Il riscaldamento climatico, il picco di combustibili fossili, la fusione dei ghiacciai, la scomparsa della biodiversità, la deforestazione e la desertificazione, gli uragani e le inondazioni, pur essendo fenomeni dalle conseguenze eminentemente planetarie, non annunciano probabilmente l’apocalisse planetaria finale, il crollo in tutto ill pianeta dello Stato e del capitale. Ma si tratta nondimeno di fenomeni reali, che sono in procinto di cambiare le società umane e di ridisegnare il terreno di scontro e di lotta. Dagli studi delle assicurazioni ai rapporti strategici militari, dai progetti condotti dalle grandi imprese energetiche alle ricerche portate avanti nei laboratori: in tutte le stanze di comando che guidano la corsa in avanti di questa civiltà-Titanic si prende atto dei cambiamenti che sono in corso e che si annunciano. Lontano dalle conferenze globali come da quelle dedicate al clima che giungono a confessare pubblicamente l’obsolescenza politica davanti all’ampiezza del cambiamento climatico, e mentre persone di buona volontà continuano ad implorare misure forti, centinaia di migliaia di esperti preparano un avvenire con il cambiamento climatico, con il riscaldamento del pianeta, con la penuria di materie prime, con pandemie facilitate dall’urbanizzazione, dalla mobilità motorizzata e dalla globalizzazione. Gli scenari che essi sviluppano (e che notoriamente mostrano spesso d’essere profezie auto-realizzatrici) tengono conto nel contempo delle carestie legate all’impoverimento dei terreni a causa dell’agricoltura intensiva i cui effetti saranno moltiplicati dal riscaldamento globale; delle migrazioni di massa provocate dal fatto che alcuni territori diventeranno più o meno inabitabili (per via della salinizzazione delle sorgenti, delle alluvioni causate dall’aumento delle acque, della desertificazione…); dei crolli di Stati già indeboliti e dell’impossibilità di questi ultimi di mantenere il controllo su certi territori; della penuria di materie prime e dei problemi di sicurezza dell’approvvigionamento energetico che indeboliscono la crescita economica… Tutti questi scenari hanno in comune la previsione di una certa perdita di controllo da parte delle autorità, che in effetti risponde ad una assenza di controllo su cambiamenti tanto vasti come quello climatico in corso. Più che inaugurare il crollo finale della civiltà, questa perdita di controllo inaugura piuttosto nuovi paradigmi di gestione (come può esserlo la transizione energetica) volti a perpetuare e ad accentuare il dominio.
Ogni generazione sembra produrre la propria imminente apocalisse contro cui deve combattere, ma che non avviene mai. Tuttavia, bisogna anche convenire che le ultime generazioni avevano davvero ragione a temere eventi di una ampiezza mostruosa, visto i mezzi apocalittici di cui civiltà si era già dotata. La devastazione industriale scatenata durante la Seconda guerra mondiale deve aver ispirato nei più lucidi una terribile paura di fronte ad un’eventuale reiterazione, i cui pretesti non mancavano con una probabilità ancora molto elevata. Le migliaia di testate nucleari con cui per esempio si sono equipaggiate le «superpotenze», così come le centinaia di centrali nucleari civili disseminate sui loro territori, hanno ragionevolmente fatto temere l’imminente avvento di un inverno nucleare (il cui rischio non è ancora scomparso). Poi, via via che l’automazione e la meccanizzazione hanno preso definitivamente il sopravvento sull’essere umano, o meglio, lo hanno integrato del tutto nella mega-macchina, il massiccio inquinamento, le subdole intossicazioni, la diffusione di elementi cancerogeni, hanno sovraccaricato le catastrofi reali del presente in modo abnorme.
Certo, proprio come il «principio di speranza», questo auto-inganno umano, troppo umano, l’invocazione dell’imminenza dell’apocalisse serve anche a scopi banalmente mobilitanti. Timore e speranza hanno forse una radice fin troppo comune, e questo binomio sentimentale è sempre stato il terreno preferito dei suonatori di flauto a caccia di soggetti da arruolare. Non è quindi sorprendente che discorsi sempre più allarmistici risuonino oggi fin nelle più alte sfere del potere: l’evocazione del «cambiamento climatico» servirà presto da comodo lasciapassare per consentire loro di aprire le porte più impreviste. La gestione statale della pandemia da Covid19, con la sua accelerazione del tecno-totalitarismo e il suo rafforzamento della sorveglianza in tutte le sfere della vita, fornisce un esempio di come la gestione del potere possa mutare rapidamente e bruscamente.
Il riscaldamento climatico, il picco di combustibili fossili, la fusione dei ghiacciai, la scomparsa della biodiversità, la deforestazione e la desertificazione, gli uragani e le inondazioni, pur essendo fenomeni dalle conseguenze eminentemente planetarie, non annunciano probabilmente l’apocalisse planetaria finale, il crollo in tutto ill pianeta dello Stato e del capitale. Ma si tratta nondimeno di fenomeni reali, che sono in procinto di cambiare le società umane e di ridisegnare il terreno di scontro e di lotta. Dagli studi delle assicurazioni ai rapporti strategici militari, dai progetti condotti dalle grandi imprese energetiche alle ricerche portate avanti nei laboratori: in tutte le stanze di comando che guidano la corsa in avanti di questa civiltà-Titanic si prende atto dei cambiamenti che sono in corso e che si annunciano. Lontano dalle conferenze globali come da quelle dedicate al clima che giungono a confessare pubblicamente l’obsolescenza politica davanti all’ampiezza del cambiamento climatico, e mentre persone di buona volontà continuano ad implorare misure forti, centinaia di migliaia di esperti preparano un avvenire con il cambiamento climatico, con il riscaldamento del pianeta, con la penuria di materie prime, con pandemie facilitate dall’urbanizzazione, dalla mobilità motorizzata e dalla globalizzazione. Gli scenari che essi sviluppano (e che notoriamente mostrano spesso d’essere profezie auto-realizzatrici) tengono conto nel contempo delle carestie legate all’impoverimento dei terreni a causa dell’agricoltura intensiva i cui effetti saranno moltiplicati dal riscaldamento globale; delle migrazioni di massa provocate dal fatto che alcuni territori diventeranno più o meno inabitabili (per via della salinizzazione delle sorgenti, delle alluvioni causate dall’aumento delle acque, della desertificazione…); dei crolli di Stati già indeboliti e dell’impossibilità di questi ultimi di mantenere il controllo su certi territori; della penuria di materie prime e dei problemi di sicurezza dell’approvvigionamento energetico che indeboliscono la crescita economica… Tutti questi scenari hanno in comune la previsione di una certa perdita di controllo da parte delle autorità, che in effetti risponde ad una assenza di controllo su cambiamenti tanto vasti come quello climatico in corso. Più che inaugurare il crollo finale della civiltà, questa perdita di controllo inaugura piuttosto nuovi paradigmi di gestione (come può esserlo la transizione energetica) volti a perpetuare e ad accentuare il dominio.
Far precipitare la situazione
«Se le guerre climatiche del futuro saranno un prolungamento delle condizioni attuali, probabilmente saranno più vaste e più estreme. In certi luoghi alcune persone, e fra loro alcuni anarchici, potranno trasformare queste guerre climatiche in insurrezioni libertarie. In altri luoghi, la lotta sarà forse unicamente per la sopravvivenza o magari anche solo per una morte dignitosa e significativa. Quanto a coloro che si troveranno in ambienti sociali relativamente stabili, probabilmente si confronteranno con uno Stato totalitario e con una “massa” che teme sempre più “la barbarie dietro le mura”».
Desert (2011)
Desert (2011)
Se una rivoluzione globale che tiri il freno di emergenza è oggi altrettanto improbabile di un crollo apocalittico del capitalismo e dello statalismo; se è più che probabile che i prossimi decenni siano contrassegnati da uno scatenamento di violenza a causa dei cambiamenti climatici; se sarebbe di cattivo gusto sottovalutare la vastità degli strumenti di devastazione mentale e fisica che questa società ha prodotto e continua a produrre, così come l’effetto che essi hanno sull’essere umano — allora è meglio rielaborare alcune prospettive. Ogni teoria rivoluzionaria che consideri ancora oggi come problema centrale e principale la proprietà dei mezzi di produzione, la distribuzione disuguale delle merci, o chi trae beneficio dalla produzione, e non l’esistenza stessa di questi mezzi di produzione, ovvero la produzione industriale in sé ed i suoi effetti nefasti sull’ambiente e sull’insieme del vivente (umani compresi); chi crede sempre, al di là di qualche facile concessione ecologista, che il problema rivoluzionario resti fondamentalmente un problema di gestione, continuerà a percorrere le megalopoli e le campagne alla ricerca del famoso proletariato che dovrà contribuire a tale progetto rivoluzionario, incitando sfruttati e poveri a prendere «la loro fetta di torta», o meglio ancora «l’intero panificio», anziché distruggere l’esistente. E, per quanto incredibile possa apparire, questi fantasmi sembrano ancora tormentare molti spiriti ribelli, impedendo loro di percorrere risolutamente ben altri sentieri.
La devastazione della natura, la scomparsa delle specie, il degrado della biodiversità, l’artificializzazione del vivente, ci lacerano un cuore consapevole che non è più possibile fermare il cambiamento climatico in atto, e che cercare di attenuarne le conseguenze sembra consistere soprattutto in un’assistenza allo Stato nelle sue prossime ristrutturazioni a carattere sempre più totalitario. Partecipare alle lotte per «prendere una fetta della torta» sembra piuttosto allontanarci da una più fondamentale e audace messa in discussione della situazione catastrofica cui l’industrialismo ci ha portato, senza bloccare minimamente l’espansione della mega-macchina. Ecco perché, se esiste un’urgenza, è viceversa quella di riflettere su come far precipitare la situazione.
Per noi che vogliamo sia vivere che diffondere l’anarchia, i cambiamenti climatici in corso e futuri non mancheranno di sconvolgere le nostre certezze. Alcune possibilità note si chiuderanno, altre ignote si apriranno: dai territori «sacrificati» che lo Stato potrebbe temporaneamente abbandonare fino a felici concordanze, fatte di azioni e circostanze, che potrebbero inceppare la macchina momentaneamente, essendo tutte le sue parti interdipendenti; dalle lotte radicate in territori meno addomesticati contro l’avanzamento dell’industrializzazione fino al pericoloso caos che può impadronirsi delle metropoli quando le sue vie d’approvvigionamento vengono interrotte; da zone meno ospedalizzate da cui possono partire attacchi di briganti fino all’azione audace che lancia una sfida al fiero grido di anarchia, in un mondo in cui la libertà deve ridiventare ciò che è sempre stata: una libertà selvaggia.
Molti segnali lasciano prevedere che da un lato nel prossimo periodo si presenteranno situazioni inedite e possibilmente molto caotiche, forse anche in Europa, a causa degli sconvolgimenti climatici. Dall’altro, le lotte contro progetti devastanti o inquinamenti programmati (come le dighe idroelettriche, i parchi eolici o solari, le nuove infrastrutture energetiche e di telecomunicazione, i progetti minerari per estrarre i metalli necessari all’economia 4.0) che oggi rimangono spesso ancora limitati ad una saggia protesta più o meno gestibile, potrebbero anch’esse trasformarsi in scontri più duri e offensivi. Come sempre, le possibilità di agire all’interno e in parallelo a queste lotte sono numerose, ma ciò che conta innanzitutto è che la nostra prospettiva sia chiara: contribuire affinché questi conflitti diventino incontrollabili, affinché la collera che alberga in essi esploda. In particolare, è apportandovi l’ingrediente dell’azione diretta, immediatamente e senza ulteriori esitazioni, che le odierne contestazioni ecologiche fin troppo giudiziose potrebbero diventare focolai di rivolta ingestibili, sia dal potere che dai suoi oppositori autoritari o democratici che sognano solo di cavalcarle.
Certo, come al solito non esiste alcuna garanzia. Non si tratta di un programma di trasformazione sociale, né di una speranza di poter accumulare sufficienti forze in vista dell’epilogo finale. La sola promessa, se mai esistesse, da fare è che agire per far precipitare la situazione e far esplodere le ostilità potrebbe costituire un assaggio di una libertà finalmente fuori controllo.
La devastazione della natura, la scomparsa delle specie, il degrado della biodiversità, l’artificializzazione del vivente, ci lacerano un cuore consapevole che non è più possibile fermare il cambiamento climatico in atto, e che cercare di attenuarne le conseguenze sembra consistere soprattutto in un’assistenza allo Stato nelle sue prossime ristrutturazioni a carattere sempre più totalitario. Partecipare alle lotte per «prendere una fetta della torta» sembra piuttosto allontanarci da una più fondamentale e audace messa in discussione della situazione catastrofica cui l’industrialismo ci ha portato, senza bloccare minimamente l’espansione della mega-macchina. Ecco perché, se esiste un’urgenza, è viceversa quella di riflettere su come far precipitare la situazione.
Per noi che vogliamo sia vivere che diffondere l’anarchia, i cambiamenti climatici in corso e futuri non mancheranno di sconvolgere le nostre certezze. Alcune possibilità note si chiuderanno, altre ignote si apriranno: dai territori «sacrificati» che lo Stato potrebbe temporaneamente abbandonare fino a felici concordanze, fatte di azioni e circostanze, che potrebbero inceppare la macchina momentaneamente, essendo tutte le sue parti interdipendenti; dalle lotte radicate in territori meno addomesticati contro l’avanzamento dell’industrializzazione fino al pericoloso caos che può impadronirsi delle metropoli quando le sue vie d’approvvigionamento vengono interrotte; da zone meno ospedalizzate da cui possono partire attacchi di briganti fino all’azione audace che lancia una sfida al fiero grido di anarchia, in un mondo in cui la libertà deve ridiventare ciò che è sempre stata: una libertà selvaggia.
Molti segnali lasciano prevedere che da un lato nel prossimo periodo si presenteranno situazioni inedite e possibilmente molto caotiche, forse anche in Europa, a causa degli sconvolgimenti climatici. Dall’altro, le lotte contro progetti devastanti o inquinamenti programmati (come le dighe idroelettriche, i parchi eolici o solari, le nuove infrastrutture energetiche e di telecomunicazione, i progetti minerari per estrarre i metalli necessari all’economia 4.0) che oggi rimangono spesso ancora limitati ad una saggia protesta più o meno gestibile, potrebbero anch’esse trasformarsi in scontri più duri e offensivi. Come sempre, le possibilità di agire all’interno e in parallelo a queste lotte sono numerose, ma ciò che conta innanzitutto è che la nostra prospettiva sia chiara: contribuire affinché questi conflitti diventino incontrollabili, affinché la collera che alberga in essi esploda. In particolare, è apportandovi l’ingrediente dell’azione diretta, immediatamente e senza ulteriori esitazioni, che le odierne contestazioni ecologiche fin troppo giudiziose potrebbero diventare focolai di rivolta ingestibili, sia dal potere che dai suoi oppositori autoritari o democratici che sognano solo di cavalcarle.
Certo, come al solito non esiste alcuna garanzia. Non si tratta di un programma di trasformazione sociale, né di una speranza di poter accumulare sufficienti forze in vista dell’epilogo finale. La sola promessa, se mai esistesse, da fare è che agire per far precipitare la situazione e far esplodere le ostilità potrebbe costituire un assaggio di una libertà finalmente fuori controllo.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 48, 15 dicembre 2021]