In questi giorni qualche timido fiocco sta imbiancando le pianure, le foreste e le colline di Belgrado est. Il termometro stenta a salire sopra lo zero nella capitale serba. In questo secondo fine settimana di gennaio sono previste nuove giornate di azione contro il progetto di apertura della più grande miniera di litio d’Europa (58.000 tonnellate all’anno), lanciato dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Da diversi mesi migliaia di persone partecipano a manifestazioni, ma soprattutto a blocchi stradali in tutto il paese. La devastazione ambientale programmata da questo progetto minerario nella valle di Jadar è l’innesco di una «rivolta ecologica» che a poco a poco sta minacciando la stabilità del regime autocratico. E se le massicce proteste non hanno dato luogo ad ostilità più accese in un Paese particolarmente devastato dall’inquinamento industriale, il governo serbo comincia tuttavia a ritenere più prudente sospendere temporaneamente l’arrivo del colosso minerario Rio Tinto.
All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l’ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell’Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia. Fino alla fine del novembre 2020, Varin era anche a capo della lobby industriale France Industrie. È d’altronde in tale veste che è stato sollecitato dal governo a scrivere quel famoso rapporto, il cui contenuto non sarà reso pubblico per intero in quanto «contiene dati sensibili e segreti industriali».
Al di là dei dati tecnici coperti da segreto di Stato, il contenuto del rapporto sembra comunque chiaro. Il rallentamento della fornitura e il blocco delle catene logistiche, in parte imputabili alla pandemia da Covid19 e alle misure sanitarie, hanno danneggiato l’economia europea, mettendo ancora una volta in rilievo la sua dipendenza in termini di materie prime quali rame, cobalto, metalli rari, di prodotti finiti quali semi-conduttori e altri componenti elettronici utilizzati nei processi produttivi ancora siti in Europa, e infine di fonti energetiche quali gas e petrolio. D’altra parte, la transizione energetica e digitale che sembra costituire l’asse portante della nuova grande mutazione del capitalismo e la sconcertante risposta davanti al disastro climatico, stanno fomentando gli ardori industriali per restare nella fuga in avanti con rinnovata fiducia nella tecnologia, il che si traduce in una sempre maggiore intensificazione dell’estrazione di materie prime. La domanda di metalli (necessari alla costruzione di impianti eolici), di pannelli solari, auto elettriche, batterie, componenti elettronici, di tutto ciò che costituisce l’infrastruttura del mondo connesso, esplode ed anche le previsioni più timide stimano che il loro consumo raddoppierà nei prossimi decenni.
Per alcuni metalli come il litio, componente essenziale delle batterie che a loro volta sono i mattoni fondamentali di un’economia elettrificata, le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) evocano addirittura, da qui al 2040, una vertiginosa moltiplicazione per 40 della domanda mondiale. Per il cobalto, estratto in maggior parte nel Congo, le previsioni parlano di una moltiplicazione per 24. Non sorprende che i prezzi stiano salendo alle stelle ed i metalli si consolidino come un temibile fattore di instabilità per le economie in tutto il mondo. La loro importanza economica e militare (oltre alle tecnologie verdi, anche i sistemi di difesa — dagli aerei da combattimento fino ai droni e ai missili — sono avidi di metalli rari) li pone al centro di conflitti geopolitici e di guerre commerciali più o meno latenti, soprattutto perché la Cina ne è il principale indiscusso produttore. «Stiamo entrando in un super ciclo dei metalli», ha dichiarato un importante trader di fondi d’investimento in risposta al rapporto Varin. L’incremento dei prezzi ha quindi un effetto palla di neve sui mercati, rendendo ormai sempre più redditizie le estrazioni difficili e delicate dai costi prima esorbitanti. Ma di fondo, siccome la dipendenza dalle materie prime non cesserà di crescere, le attività estrattive si moltiplicheranno comunque.
All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l’ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell’Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia. Fino alla fine del novembre 2020, Varin era anche a capo della lobby industriale France Industrie. È d’altronde in tale veste che è stato sollecitato dal governo a scrivere quel famoso rapporto, il cui contenuto non sarà reso pubblico per intero in quanto «contiene dati sensibili e segreti industriali».
Al di là dei dati tecnici coperti da segreto di Stato, il contenuto del rapporto sembra comunque chiaro. Il rallentamento della fornitura e il blocco delle catene logistiche, in parte imputabili alla pandemia da Covid19 e alle misure sanitarie, hanno danneggiato l’economia europea, mettendo ancora una volta in rilievo la sua dipendenza in termini di materie prime quali rame, cobalto, metalli rari, di prodotti finiti quali semi-conduttori e altri componenti elettronici utilizzati nei processi produttivi ancora siti in Europa, e infine di fonti energetiche quali gas e petrolio. D’altra parte, la transizione energetica e digitale che sembra costituire l’asse portante della nuova grande mutazione del capitalismo e la sconcertante risposta davanti al disastro climatico, stanno fomentando gli ardori industriali per restare nella fuga in avanti con rinnovata fiducia nella tecnologia, il che si traduce in una sempre maggiore intensificazione dell’estrazione di materie prime. La domanda di metalli (necessari alla costruzione di impianti eolici), di pannelli solari, auto elettriche, batterie, componenti elettronici, di tutto ciò che costituisce l’infrastruttura del mondo connesso, esplode ed anche le previsioni più timide stimano che il loro consumo raddoppierà nei prossimi decenni.
Per alcuni metalli come il litio, componente essenziale delle batterie che a loro volta sono i mattoni fondamentali di un’economia elettrificata, le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) evocano addirittura, da qui al 2040, una vertiginosa moltiplicazione per 40 della domanda mondiale. Per il cobalto, estratto in maggior parte nel Congo, le previsioni parlano di una moltiplicazione per 24. Non sorprende che i prezzi stiano salendo alle stelle ed i metalli si consolidino come un temibile fattore di instabilità per le economie in tutto il mondo. La loro importanza economica e militare (oltre alle tecnologie verdi, anche i sistemi di difesa — dagli aerei da combattimento fino ai droni e ai missili — sono avidi di metalli rari) li pone al centro di conflitti geopolitici e di guerre commerciali più o meno latenti, soprattutto perché la Cina ne è il principale indiscusso produttore. «Stiamo entrando in un super ciclo dei metalli», ha dichiarato un importante trader di fondi d’investimento in risposta al rapporto Varin. L’incremento dei prezzi ha quindi un effetto palla di neve sui mercati, rendendo ormai sempre più redditizie le estrazioni difficili e delicate dai costi prima esorbitanti. Ma di fondo, siccome la dipendenza dalle materie prime non cesserà di crescere, le attività estrattive si moltiplicheranno comunque.
Materie prime strategiche e critiche
Nessuna sorpresa quindi che gli Stati europei stiano pensando seriamente di riaprire le miniere, tanto più che i sottosuoli europei rigurgitano di metalli, come il litio, che ieri non rappresentavano un grande interesse, ma oggi sono definiti «critici». Da alcuni anni l’Unione Europea redige un rapporto annuale per indicare le materie prime ritenute strategiche e critiche, quelle la cui eventuale interruzione di fornitura (causata per lo più dall’esterno) rischierebbe di far vacillare le sue economie nazionali. Per contrastare tale dipendenza critica, la quale potrà solo aumentare man mano che si procede verso la transizione energetica e digitale, in diversi paesi europei si prevede la ripresa di attività minerarie e l’apertura di raffinerie di minerali.
In Francia, mentre alcune miniere sono ancora in funzione, sono stati attivati molti permessi di ricerca per metalli che troviamo su questo elenco europeo (pur non approdando necessariamente ad un progetto minerario), come nel Basso Reno il litio (estrazione del litio dalle salamoie, un processo definito «rispettoso dell’ambiente» dall’operatore Eramet); nell’Alta Vienna e nei Paesi Baschi l’oro, le terre rare, il tungsteno: o nell’Ariège ancora il tungsteno. In altri paesi, le titubanze politiche in relazione alla ripresa dell’attività mineraria finiscono per scomparire di fronte all’indiscutibile: se le economie europee intendono restare in corsa e in previsione delle crescenti instabilità geopolitiche (relative all’accesso alle materie prime, ai cambiamenti climatici, alle egemonie militari in alcuni territori, ecc.), non bisogna «proibirsi nulla» — come ha ben sintetizzato il ministro francese per la Transizione ecologica pochi giorni dopo il rapporto Varin. «Proibirsi nulla», contrariamente a quanto aveva deciso negli anni 90 il colosso chimico Rhône-Poulenc (oggi Solvay), in genere poco attento all’inquinamento. Invece di continuare l’attività estremamente nociva e radioattiva della sua raffineria di terre rare a La Rochelle, che rappresentava il 50% della produzione mondiale, il colosso aveva deciso allora di delocalizzarla in Cina. Un vecchio responsabile aveva così riassunto laconicamente questa scelta: «C’era merda che non volevamo, ecco di cosa si trattava».
Questa «merda» che ora non si vuole più proibire costituisce l’altra faccia della green-tech e della transizione energetica e digitale. I metalli rari sono definiti tali non perché siano «rari», ma perché sono mescolati con metalli abbondanti (come ferro o rame) nella crosta terrestre in proporzioni spesso infime. Sono chiamati «rari» perché sono difficili da rilevare, estrarre e separare chimicamente dagli altri. Tra i metalli rari come il cobalto, il gallio, il tantalio o il tungsteno, ci sono anche le «terre rare», una famiglia di 17 metalli particolarmente apprezzati dall’industria tecnologica e la cui estrazione e separazione sono particolarmente complicate e inquinanti. Il loro stesso stoccaggio genera seri rischi legati alle polveri cancerogene e radioattive. L’estrazione dei metalli rari, indispensabili alla transizione energetica e digitale, mobilita d’altronde enormi quantità di energia, acqua e prodotti chimici. I semplici rapporti di estrazione possono dare un’idea della montagna di rocce da estrarre: per ottenere 1 kg di gallio è necessario estrarre in media 50 tonnellate di roccia; per 1 kg di vanadio, 8,5 tonnellate; per 1 kg di lutezio, 1200 tonnellate…
Dopo la loro estrazione per mezzo di acidi, le rocce vengono poi lavate con una miscela di acqua (200 metri cubi per tonnellata) ed additivi chimici, da qui la moltiplicazione di laghi artificiali altamente tossici come quelli della regione di Baotou in Cina (che assicura il 95% della produzione mondiale di terre rare), triste specchio fumante del tasso di tumori dell’intera popolazione della Mongolia Interna, a nord-ovest di Pechino. Dall’America Latina (dove si trova soprattutto il triangolo dell’oro bianco, cioè il litio, con sfruttamenti in Cile, Bolivia e Argentina che rappresentano un quarto della produzione mondiale) fino all’Australia, le attività estrattive lasciano dietro di sé una scia di laghi tossici e di territori trasformati in discariche chimiche.
Oltre a puntare su una ripresa di questo tipo di attività mineraria sul suolo europeo (con progetti già in corso come l’estrazione di litio in Portogallo, Austria o Finlandia), gli industriali europei intendono posizionarsi anche nel settore del riciclo di materie prime. Con la vera e propria irruzione di prodotti elettronici e la loro obsolescenza programmata, questa via sembra raccogliere non poche speranze, tanto più che «riciclo» può far rima con «verde»… quindi con transizione ecologica. Poco importa allora se, dati i processi industriali e chimici impiegati per riciclare i metalli, ciò assomigli più ad una seconda forma di estrazione ritardata nel tempo, che mobilita, al pari dell’estrazione mineraria, nuove ed enormi quantità di risorse energetiche producendo nuove montagne di rifiuti industriali. Per questa componente di «riciclo», sono stati concessi ingenti fondi europei a innumerevoli progetti di ricerca e ad altri progetti industriali «innovativi».
Nessuna sorpresa quindi che gli Stati europei stiano pensando seriamente di riaprire le miniere, tanto più che i sottosuoli europei rigurgitano di metalli, come il litio, che ieri non rappresentavano un grande interesse, ma oggi sono definiti «critici». Da alcuni anni l’Unione Europea redige un rapporto annuale per indicare le materie prime ritenute strategiche e critiche, quelle la cui eventuale interruzione di fornitura (causata per lo più dall’esterno) rischierebbe di far vacillare le sue economie nazionali. Per contrastare tale dipendenza critica, la quale potrà solo aumentare man mano che si procede verso la transizione energetica e digitale, in diversi paesi europei si prevede la ripresa di attività minerarie e l’apertura di raffinerie di minerali.
In Francia, mentre alcune miniere sono ancora in funzione, sono stati attivati molti permessi di ricerca per metalli che troviamo su questo elenco europeo (pur non approdando necessariamente ad un progetto minerario), come nel Basso Reno il litio (estrazione del litio dalle salamoie, un processo definito «rispettoso dell’ambiente» dall’operatore Eramet); nell’Alta Vienna e nei Paesi Baschi l’oro, le terre rare, il tungsteno: o nell’Ariège ancora il tungsteno. In altri paesi, le titubanze politiche in relazione alla ripresa dell’attività mineraria finiscono per scomparire di fronte all’indiscutibile: se le economie europee intendono restare in corsa e in previsione delle crescenti instabilità geopolitiche (relative all’accesso alle materie prime, ai cambiamenti climatici, alle egemonie militari in alcuni territori, ecc.), non bisogna «proibirsi nulla» — come ha ben sintetizzato il ministro francese per la Transizione ecologica pochi giorni dopo il rapporto Varin. «Proibirsi nulla», contrariamente a quanto aveva deciso negli anni 90 il colosso chimico Rhône-Poulenc (oggi Solvay), in genere poco attento all’inquinamento. Invece di continuare l’attività estremamente nociva e radioattiva della sua raffineria di terre rare a La Rochelle, che rappresentava il 50% della produzione mondiale, il colosso aveva deciso allora di delocalizzarla in Cina. Un vecchio responsabile aveva così riassunto laconicamente questa scelta: «C’era merda che non volevamo, ecco di cosa si trattava».
Questa «merda» che ora non si vuole più proibire costituisce l’altra faccia della green-tech e della transizione energetica e digitale. I metalli rari sono definiti tali non perché siano «rari», ma perché sono mescolati con metalli abbondanti (come ferro o rame) nella crosta terrestre in proporzioni spesso infime. Sono chiamati «rari» perché sono difficili da rilevare, estrarre e separare chimicamente dagli altri. Tra i metalli rari come il cobalto, il gallio, il tantalio o il tungsteno, ci sono anche le «terre rare», una famiglia di 17 metalli particolarmente apprezzati dall’industria tecnologica e la cui estrazione e separazione sono particolarmente complicate e inquinanti. Il loro stesso stoccaggio genera seri rischi legati alle polveri cancerogene e radioattive. L’estrazione dei metalli rari, indispensabili alla transizione energetica e digitale, mobilita d’altronde enormi quantità di energia, acqua e prodotti chimici. I semplici rapporti di estrazione possono dare un’idea della montagna di rocce da estrarre: per ottenere 1 kg di gallio è necessario estrarre in media 50 tonnellate di roccia; per 1 kg di vanadio, 8,5 tonnellate; per 1 kg di lutezio, 1200 tonnellate…
Dopo la loro estrazione per mezzo di acidi, le rocce vengono poi lavate con una miscela di acqua (200 metri cubi per tonnellata) ed additivi chimici, da qui la moltiplicazione di laghi artificiali altamente tossici come quelli della regione di Baotou in Cina (che assicura il 95% della produzione mondiale di terre rare), triste specchio fumante del tasso di tumori dell’intera popolazione della Mongolia Interna, a nord-ovest di Pechino. Dall’America Latina (dove si trova soprattutto il triangolo dell’oro bianco, cioè il litio, con sfruttamenti in Cile, Bolivia e Argentina che rappresentano un quarto della produzione mondiale) fino all’Australia, le attività estrattive lasciano dietro di sé una scia di laghi tossici e di territori trasformati in discariche chimiche.
Oltre a puntare su una ripresa di questo tipo di attività mineraria sul suolo europeo (con progetti già in corso come l’estrazione di litio in Portogallo, Austria o Finlandia), gli industriali europei intendono posizionarsi anche nel settore del riciclo di materie prime. Con la vera e propria irruzione di prodotti elettronici e la loro obsolescenza programmata, questa via sembra raccogliere non poche speranze, tanto più che «riciclo» può far rima con «verde»… quindi con transizione ecologica. Poco importa allora se, dati i processi industriali e chimici impiegati per riciclare i metalli, ciò assomigli più ad una seconda forma di estrazione ritardata nel tempo, che mobilita, al pari dell’estrazione mineraria, nuove ed enormi quantità di risorse energetiche producendo nuove montagne di rifiuti industriali. Per questa componente di «riciclo», sono stati concessi ingenti fondi europei a innumerevoli progetti di ricerca e ad altri progetti industriali «innovativi».
Le linee d’attacco tracciate dalla transizione
Ripresa dell’estrazione mineraria, re-industrializzazione attraverso la costruzione di raffinerie e nuovi stabilimenti, nonché insediamenti di centrali di riciclaggio fanno parte di uno stesso insieme strategico. Il diplomatico slovacco Šefčovič, vicepresidente della Commissione europea dal 2020, ha così riassunto questo programma in un «appello ad agire» della lobby Alleanza Europea sulle Materie Prime (ERMA): «La nostra previsione strategica mostra chiaramente che la domanda di materie prime critiche aumenterà, a maggior ragione con la transizione in corso verso un’economia verde e digitale. […] L’Alleanza Europea sulle Materie Prime contribuirà ad aumentare le nostre capacità e gli investimenti per tutta la catena del valore, dall’estrazione passando per la lavorazione fino al riciclo. Ciò rafforzerà la nostra resilienza e la nostra autonomia strategica».
Per quanto riguarda la capacità industriale, molti governi europei stanno sbloccando ingenti somme per contribuire al finanziamento di nuovi progetti. Sempre in relazione al litio, si possono citare, ad esempio, quelli in corso per la costruzione di «giga-factory» — enormi complessi industriali destinati alla produzione di batterie — elementi-chiave del tutto-elettrico. In Francia, progetti simili sono attualmente in corso a Douvrin, Douai, Grenoble, Belfort e Saint-Fons. Una delle raccomandazioni del rapporto Varin è appunto la creazione di un fondo d’investimento pubblico-privato a sostegno di questi progetti di fabbrica, nonché la costituzione di due piattaforme industriali, una a Dunkerque (nord) per i metalli, la seconda a Lacq (sud-ovest) per i magneti, la raffinazione, la fabbricazione dei precursori delle batterie (catodi, anodi), oltre al riciclo.
Come sottolineato dalla lobby europea delle materie prime — e non c’è dubbio che il rapporto Varin contenga lo stesso appello urgente — è nei prossimi due anni che dovranno essere prese le decisioni, concessi i permessi, avviati i progetti. Se la costruzione di una fabbrica di batterie o di magneti, di una raffineria o di un impianto di riciclaggio di metalli rari richiede generalmente dai 2 ai 5 anni, se l’avvio dell’estrazione di metalli rari da miniere esistenti o nuove va dagli 8 ai 15 anni, in mancanza di «azione» le economie europee rischierebbero secondo loro di sprofondare sotto il peso della totale dipendenza dalle importazioni nel giro di una decina di anni. Tali previsioni a medio termine si basano ovviamente sulla discutibile ipotesi di una prosecuzione più o meno costante — e di certo non turbata da fattori di instabilità come rivolte o cambiamenti climatici — della famigerata transizione.
Tuttavia, se vengono combinate con gli enormi sforzi fatti per moltiplicare le fonti di approvvigionamento energetico, esse indicano chiaramente i contorni del mostro da affrontare: un rinnovamento industriale alimentato da un rincaro energetico e da un’estrazione di risorse senza precedenti nella storia umana. È in questo contesto che bisogna porre anche gli ultimi progetti energetici annunciati, come il rilancio del nucleare, il raddoppio della capacità eolica, la realizzazione di progetti geotermici, il ripristino di centrali a gas, o il potenziamento di interconnessioni europee atte a rispondere alle sfide della nuova economia che si profila all’orizzonte.
In fin dei conti, a ben pensarci, niente di nuovo sotto il sole. È dalla comparsa delle città che il potere economico, fondamentalmente, cammina sulle medesime gambe: energia ed estrazione. Dalla schiavitù al nucleare, il progresso economico somma le fonti energetiche che conferiscono sempre più potenza ai dominatori, e viceversa, poiché è lo sfruttamento delle fonti energetiche ad alimentare direttamente il dominio. Come l’estrazione del petrolio che ha sprigionato una vertiginosa forza energetica, vecchia di milioni di anni, accrescendo in modo inaudito l’industrializzazione e la guerra su scala mondiale, l’economia digitale ed elettrificata dipende dalla velocità d’estrazione dei metalli di cui ha bisogno. Così vengono tracciate le linee del fronte su cui si combattono e si combatteranno terribili battaglie. Sconvolgere le loro previsioni, trasformare occasioni e situazioni in fattori di disordine e d’imprevisto, scrutare queste linee di attacco dove il nemico appare sì fiducioso, ma tuttavia più vulnerabile che altrove, lanciarsi nei conflitti che si stanno delineando portandovi senza indugio l’azione diretta, queste sono le grida di battaglia che potrebbero metterci attivamente sulle tracce del nemico.
Ripresa dell’estrazione mineraria, re-industrializzazione attraverso la costruzione di raffinerie e nuovi stabilimenti, nonché insediamenti di centrali di riciclaggio fanno parte di uno stesso insieme strategico. Il diplomatico slovacco Šefčovič, vicepresidente della Commissione europea dal 2020, ha così riassunto questo programma in un «appello ad agire» della lobby Alleanza Europea sulle Materie Prime (ERMA): «La nostra previsione strategica mostra chiaramente che la domanda di materie prime critiche aumenterà, a maggior ragione con la transizione in corso verso un’economia verde e digitale. […] L’Alleanza Europea sulle Materie Prime contribuirà ad aumentare le nostre capacità e gli investimenti per tutta la catena del valore, dall’estrazione passando per la lavorazione fino al riciclo. Ciò rafforzerà la nostra resilienza e la nostra autonomia strategica».
Per quanto riguarda la capacità industriale, molti governi europei stanno sbloccando ingenti somme per contribuire al finanziamento di nuovi progetti. Sempre in relazione al litio, si possono citare, ad esempio, quelli in corso per la costruzione di «giga-factory» — enormi complessi industriali destinati alla produzione di batterie — elementi-chiave del tutto-elettrico. In Francia, progetti simili sono attualmente in corso a Douvrin, Douai, Grenoble, Belfort e Saint-Fons. Una delle raccomandazioni del rapporto Varin è appunto la creazione di un fondo d’investimento pubblico-privato a sostegno di questi progetti di fabbrica, nonché la costituzione di due piattaforme industriali, una a Dunkerque (nord) per i metalli, la seconda a Lacq (sud-ovest) per i magneti, la raffinazione, la fabbricazione dei precursori delle batterie (catodi, anodi), oltre al riciclo.
Come sottolineato dalla lobby europea delle materie prime — e non c’è dubbio che il rapporto Varin contenga lo stesso appello urgente — è nei prossimi due anni che dovranno essere prese le decisioni, concessi i permessi, avviati i progetti. Se la costruzione di una fabbrica di batterie o di magneti, di una raffineria o di un impianto di riciclaggio di metalli rari richiede generalmente dai 2 ai 5 anni, se l’avvio dell’estrazione di metalli rari da miniere esistenti o nuove va dagli 8 ai 15 anni, in mancanza di «azione» le economie europee rischierebbero secondo loro di sprofondare sotto il peso della totale dipendenza dalle importazioni nel giro di una decina di anni. Tali previsioni a medio termine si basano ovviamente sulla discutibile ipotesi di una prosecuzione più o meno costante — e di certo non turbata da fattori di instabilità come rivolte o cambiamenti climatici — della famigerata transizione.
Tuttavia, se vengono combinate con gli enormi sforzi fatti per moltiplicare le fonti di approvvigionamento energetico, esse indicano chiaramente i contorni del mostro da affrontare: un rinnovamento industriale alimentato da un rincaro energetico e da un’estrazione di risorse senza precedenti nella storia umana. È in questo contesto che bisogna porre anche gli ultimi progetti energetici annunciati, come il rilancio del nucleare, il raddoppio della capacità eolica, la realizzazione di progetti geotermici, il ripristino di centrali a gas, o il potenziamento di interconnessioni europee atte a rispondere alle sfide della nuova economia che si profila all’orizzonte.
In fin dei conti, a ben pensarci, niente di nuovo sotto il sole. È dalla comparsa delle città che il potere economico, fondamentalmente, cammina sulle medesime gambe: energia ed estrazione. Dalla schiavitù al nucleare, il progresso economico somma le fonti energetiche che conferiscono sempre più potenza ai dominatori, e viceversa, poiché è lo sfruttamento delle fonti energetiche ad alimentare direttamente il dominio. Come l’estrazione del petrolio che ha sprigionato una vertiginosa forza energetica, vecchia di milioni di anni, accrescendo in modo inaudito l’industrializzazione e la guerra su scala mondiale, l’economia digitale ed elettrificata dipende dalla velocità d’estrazione dei metalli di cui ha bisogno. Così vengono tracciate le linee del fronte su cui si combattono e si combatteranno terribili battaglie. Sconvolgere le loro previsioni, trasformare occasioni e situazioni in fattori di disordine e d’imprevisto, scrutare queste linee di attacco dove il nemico appare sì fiducioso, ma tuttavia più vulnerabile che altrove, lanciarsi nei conflitti che si stanno delineando portandovi senza indugio l’azione diretta, queste sono le grida di battaglia che potrebbero metterci attivamente sulle tracce del nemico.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 49, 15 gennaio 2022]