Alle prime luci dell’alba, un camion di 40 tonnellate si mette in marcia sotto una pioggia fine. Non è che uno delle migliaia di veicoli che assicurano il trasporto su strada delle merci, ma la sua missione è assai meno anodina. A fari accesi, il camion avanza nei sobborghi della capitale bavarese, Monaco. Sulla sua scia si staglia la lugubre sagoma di una gru che sembra pronta a piombare coi suoi artigli meccanici su una qualsiasi preda. Si tratta di un vero e proprio convoglio: infatti il camion è scortato da alcune volanti della polizia a lampeggianti spenti. Arrivati a destinazione, alcuni poliziotti saltano giù dai loro veicoli, sfondano una porta, poi si precipitano nei locali. L’operazione non mira ad effettuare qualche scoperta, sono lì per sequestrare. Contrariamente perciò a quanto si potrebbe immaginare, non sono lì a prelevare persone sospette. Né bidoni stagni di ingredienti esplosivi o di armi ben nascoste, la cui assenza non costituisce certo la prova di un’innocenza poco raccomandabile in questo mondo mortifero. Non c’è la benché minima tanica di benzina in giro. E comunque, non è questo che cercano gli agenti, i quali intendono mettere le mani su ben altro armamento, di quelli che affilano la mente e rafforzano il pensiero. A Monaco, il 26 aprile 2022, gli sbirri sono andati per impadronirsi… di una stamperia destinata ai testi anarchici.
Come riportato in seguito dai compagni, la polizia ha messo le mani sull’intera tipografia: «dalla Risograph ((un duplicatore digitale) coi relativi tamburi fino alla taglierina, dal raccoglitore alla brossuratrice, e persino una storica stampante tipografica coi suoi caratteri di piombo, il tutto finito nel deposito dei reperti di prova degli sbirri». Decine di migliaia di fogli di carta bianca, di litri d’inchiostro ed altri materiali di consumo per stampa, insieme a migliaia di libri, opuscoli e giornali. Un bottino considerevole, che spiega la presenza del camion e della gru in quel detestabile convoglio mattutino.
Altrove, in città, altre squadre di polizia coordinate dal Servizio di protezione statale (sezione K43, «Criminalità con finalità politiche») sfondano le porte di quattro appartamenti e perquisiscono diverse cantine e la biblioteca anarchica Frevel. Il pretesto giuridico per tutta questa operazione non è granché originale: è il sulfureo §129, l’articolo del codice penale tedesco che colpisce «la creazione di un’organizzazione criminale». Da sempre gli anarchici, fuorilegge per eccellenza — almeno nelle idee (perché i loro ranghi non sono stati risparmiati dalla malattia del legalitarismo e dalla paura paralizzante o calcolata di qualsiasi trasgressione della legge) — vengono perseguitati dagli Stati che si servono di tali articoli nel codice penale. Fino ad oggi, abbiamo visto gli Stati sguainare questi strumenti legali per reprimere i gruppi anarchici, attaccare l’informalità organizzativa e le costellazioni affinitarie che rifuggono gli schemi troppo rigidi di un’Organizzazione con la maiuscola, limitare il margine sempre precario delle iniziative pubbliche e degli spazi di incontro e diffusione, scoraggiare coloro che si adoperano a scrivere e diffondere scritti anarchici come il settimanale anarchico Zundlumpen, bersaglio della polizia bavarese e che sembra costituire uno degli attaccapanni ai quali la polizia intende attaccare ulteriori elementi della sua indagine.
Contrariamente a una certa retorica, purtroppo sempre in voga tra compagne e compagni, che sembra fare più opera di terapia autoconsolatoria, noi non pensiamo che lo Stato attacchi i nostri spazi, le nostre pubblicazioni e le nostre strutture tipografiche perché avrebbe paura della parola anarchica, o si senta minacciato dalla diffusione che facciamo di libri e giornali. È solo che, per esso, è diventata una delle cose talmente facili da fare. Il «movimento» anarchico e anti-autoritario odierno non è in grado di far scendere migliaia di persone in piazza quando una delle sue tipografie viene sequestrata (sebbene sia avvenuto in precisi tempi storici), né di essere all’altezza quando le sue iniziative pubbliche vengono soffocate da una spirale poliziesca. E questo non ha solo a che vedere con una riduzione quantitativa — molto importante — dei ranghi anarchici, ma anche con la profonda trasformazione dei rapporti sociali negli ultimi decenni. La ristrutturazione tecnologica dello sfruttamento capitalista, l’inclusione di quasi tutti i settori della vita nella gestione statale e nella sfera capitalistica, lo sradicamento di qualsiasi comunità che non sia quella (molteplice, è vero) prodotta dall’idra tecnologica, per non parlare dello spaventoso assalto del linguaggio, il suo terribile impoverimento e la sua sostituzione con immagini diffuse su schermi onnipresenti, o l’abisso di incoscienza e di abbrutimento in cui buona parte dell’umanità si sta lanciando (o viene spinta, in fondo importa poco): tutto ciò non è senza conseguenze per l’azione e la diffusione delle idee anarchiche. Allo stesso modo, neppure gli anarchici ne escono indenni: anche loro sono colpiti, ovvero assorbiti dalla valanga delle nuove tecnologie, della comunicazione mediata istantanea, dalla difficoltà di proiettarsi più in là di domani o dall’incapacità di operare una distinzione tra ciò che sarebbe importante pubblicare e diffondere oggi e quella che è solo una triste testimonianza del vuoto esistenziale che s’impadronisce di loro come dei loro contemporanei. In breve, il fatto che lo Stato se la prenda regolarmente e con una disinvoltura sempre più noncurante coi pochi spazi anarchici che sono ancora visibili, non testimonia la nostra forza, quanto la nostra debolezza. Onestamente, tutto il resto sembra essere solo una verbosità che non fa avanzare la riflessione necessaria, del crescendo retorico in modo di non dover affrontare la questione che diventa essenziale ad ogni attacco di un giornale, ad ogni persecuzione degli anarchici col misero pretesto di un’organizzazione illecita (a scelta, «criminale», «terrorista», «sovversiva», «illegale», …): come continuare ad agire in questa èra di tenebre tecnologiche in cui le coscienze si spengono e le nostre foreste mentali sono rase al suolo? Con quale metodologia, con quali forme organizzative, con quali tentativi per non commettere gli stessi errori? Se non possiamo che condividere la fiera affermazione che rifiuteremo fino alla fine di adattare le nostre idee, che resisteremo all’appiattimento, a costo di diventare gli ultimi dei Mohicani a difendere l’idea di una libertà totale, pensiamo che dovremmo apprendere le condizioni in cui agiamo e non ignorarle.
Un’operazione così grossolanamente totalitaria come il sequestro di macchine da stampa (ricordiamo che all’epoca della censura sistematica applicata alle pubblicazioni anarchiche, lo Stato si limitava per la maggior parte del tempo ad oscurare i passaggi ritenuti troppo virulenti o che superavano il quadro della «libertà di espressione» diventando una «istigazione al crimine”, e perfino nei casi più estremi al sequestro della stampa — non agli strumenti di stampa) è qualcosa che riguarda tutti gli anarchici, indipendentemente dalle attività cui si stanno dedicando o da quali sentieri abbiano scelto di percorrere. Non certo perché fornisca la prova che la parola anarchica costituisce comunque una minaccia per la stabilità dello Stato, né in quanto rinsaldi la vecchia convinzione che immaginava l’avvento della rivoluzione come il risultato del risveglio delle coscienze addormentate grazie agli instancabili sforzi dei propagandisti anarchici, che non dormono mai. No, ci riguarda tutti perché è indicativa dello stato del mondo, dello stato dei rapporti sociali e del prossimo futuro in cui saremo portati ad agire — o a rinunciare. Pur senza unirsi ai cori dell’indignazione legalitaria, si può tuttavia affermare che i sequestri delle stamperie, le chiusure di locali pubblici, lo scioglimento di gruppi relativamente aperti, ci trasportano in un’altra dimensione rispetto alla repressione, in definitiva del tutto «normale» e «logica», che mira a mettere in condizione di non nuocere coloro che attaccano fisicamente le strutture e le persone del dominio. Sebbene queste due dimensioni vadano sempre insieme e non siano così separate come alcuni vorrebbero credere, portare un camion da 40 tonnellate a prelevare una taglierina e una macchina tipografica coi caratteri di piombo fa pensare piuttosto a misure adottate in altri regimi. E in questa epoca di corsa in avanti industriale e tecnologica apertamente pluralista ma profondamente totalitaria, una tale pratica che sembrava obsoleta potrebbe quindi sorprenderci di nuovo — tanto più che il modo migliore per disinnescare ogni possibile pericolo proveniente dalla diffusione dei testi anarchici è ovviamente la sua attuale virtualizzazione, la sua derealizzazione tecnologica. Ma nulla scompare per sempre e tutto rimane potenzialmente presente.
La generalizzazione del salariato non ha abolito definitivamente la schiavitù, l’installazione di centrali nucleari non ha fatto scomparire le miniere di carbone, la razionalizzazione della produzione non ha rimandato le miniere artigianali nella spazzatura nella storia. Questo mito del progresso sembra oggi sottostare ai rovesci della realtà che strappano il velo della derealizzazione. Molte cose che quel mito aveva relegato in un passato che non sarebbe più tornato, stanno oggi prendendo posto in una realtà da cui in fondo non erano mai scomparse del tutto. La guerra irrompe nuovamente nel continente europeo, la penuria diventa visibile negli scaffali dei supermercati, la minaccia dell’annientamento nucleare si aggiunge alle pratiche di genocidio che accompagnano i conflitti, il cambiamento climatico fa avanzare lo spettro della carestia e dello sterminio per sempre più abitanti di questo pianeta agonizzante. In un tale scenario, il sequestro di una tipografia anarchica non dovrebbe sorprenderci. Il tempo in cui si dovevano nascondere le stamperie, immagazzinare discreti stock di carta, organizzare una diffusione sotterranea e capillare delle notizie dalle lotte e dell’approfondimento del pensiero, non è scomparso definitivamente dalla scena della storia. Le condizioni per simili scenari, anche all’ombra delle tolleranti democrazie occidentali, confluiscono sempre più e si accentueranno con l’aumento delle pressioni sociali e l’estensione dello squilibrio sociale.
Ecco perché il sequestro di una tipografia anarchica a Monaco è un affare che ci riguarda tutte e tutti.
[Avis de Tempêtes n. 53, maggio 22, tradotto da Finimondo]