Davanti ai rulli compressori della civiltà industriale e del progresso, uno degli ultimi mondi sensibili popolato da immaginari terrificanti e fantasie incantate sta scomparendo sotto i nostri occhi: quello delle foreste. Quelle che erano un feudo dei signori i quali vi allineavano gli impiccati, o un riparo per sottrarsi alle persecuzioni. Quelle che rappresentavo l’oscurità dove poter abbandonare la propria prole affamata o il folto rifugio da cui partire all’assalto dell’esistente. Quelle che ospitavano misteri popolati da driadi e licantropi o che vedevano passare i costruttori di navi da guerra e altri mastri forgiatori giunti a spogliarle in massa. Quelle che vedevano a Sherwood audaci banditi depredare i ricchi, in Ariège Demoiselles (*) col volto coperto di fuliggine bruciare e saccheggiare i castelli, in Courlande dei rivoluzionari continuare a sferrare feroci colpi contro la tirannia zarista, ma anche assistere sulle Alpi o in Polonia alla morte per assideramento dei migranti cacciati dalle guardie di frontiera europee.
Fondamentalmente, le foreste sono ambigue anche per la loro stessa etimologia, dal momento che foresta stava ad indicare anzitutto lo spazio esterno non utilizzato dagli abitanti del villaggio — la stessa parola selvaggio proviene da silvaticus, cioè silvestre — prima di designare vaste zone boschive riservate alla nobiltà e ai monasteri protetti dagli usi contadini. Per una singolare inversione di significato, la parola foresta, l’ignoto periglioso che la civiltà romana non poteva soggiogare, finì col qualificare in capo a qualche secolo il territorio per eccellenza del dominio religioso e feudale, prima di diventare infine un termine generico e piuttosto vago.
Perché, se con foreste ci si riferisce ad immense distese naturali di alberi lasciati più o meno a se stessi che formano un ecosistema autonomo allo stesso tempo ricco e complesso, quasi un’eco lontana dai racconti della nostra infanzia, come definire allora quei tristi allineamenti di conifere, tutte della stessa età e della medesima dimensione, su un terreno disseminato d’aghi dove il canto degli uccelli è ammutolito? E nell’incedere all’ombra di maestosi pioppi, come immaginare che questi alberi hanno avuto la sventura nel 2006 d’essere i primi il cui genoma è stato interamente sequenziato, per utilizzarne lo sviluppo nel mondo dei pioppeti per la cellulosa o per i biocombustibli, sotto forma di immense piantagioni di cloni? E poiché bisogna a tutti i costi rinfrancare l’economia alimentando il mercato delle compensazioni di carbonio (ossia i permessi di inquinare altrove), possiamo ancora chiamare foresta la recente piantagione industriale di 40.000 ettari di acacie a crescita rapida importati dall’Australia dalla Total… distruggendo la savana gabonese per impiantarvi per di più una fabbrica di legnami all’avanguardia ? Infine, se ci avviciniamo un po’ di più, ad esempio al radioso terreno boschivo del Commissariato per l’Energia Atomica (CEA) situato a Saint-Paul-lès-Durance, come non cadere sulla pepita dello sfruttamento statale delle foreste pubbliche? Giacché è proprio accanto al centro nucleare di Cadarache che si trova il Polo nazionale delle risorse genetiche e il Vivaio sperimentale dell’ONF, in cui l’ente statale clona il DNA degli alberi che considera più interessanti in termini di resistenza al riscaldamento climatico, al fine di ripiantare poi le loro copie un po’ dappertutto. E parallelamente a ciò, sono gli stessi apprendisti stregoni dell’ONF ad introdurre nelle vecchie foreste di abeti, querce e faggi (in particolare nel Grand-Est e in Bourgogne-Franche-Comté) nuove specie esotiche nei cosiddetti «isolotti d’avvenire», che vanno dal frassino della Manciuria al cipresso dell’Arizona, col pretesto che quelle foreste non riescano ad adattarsi da sole ai cambiamenti climatici. L’aria brucia, l’acqua manca e per di più lo scarabeo della corteccia prolifera nelle immense foreste monospecifiche di abeti rossi piantati in pianura dall’ONF da 50 anni? Semplice, modifichiamo sbrigativamente le foreste nella stessa folle corsa verso l’artificializzazione di tutti i viventi (umani compresi), anziché abbattere il sistema tecno-industriale responsabile di tutte queste devastazioni! Flessibilità e resilienza, non sono forse i mantra della neolingua del potere?
Certo, non è da oggi che la «natura» è stata elevata a soggetto separato dai civilizzati così fieri della loro cultura del dominio, una «natura» barbara da analizzare, classificare, misurare, sfruttare, razionalizzare e ordinare, fino a farla diventare — su immagine della foresta — sempre più mitica col progredire del suo addomesticamento e sradicamento dalle antiche relazioni quotidiane con essa. Fino alla creazione di riserve, parchi e altri «spazi naturali», ricreativi e attrezzati, al fine di conservare il suo ricordo nostalgico presso i cittadini che abbisognano di verde. Quindi sì, ci sono sempre meno foreste recalcitranti e rigogliose e più campi di alberi, il cui obiettivo finale rimane il loro forsennato sfruttamento industriale (quando non vengono semplicemente rase al suolo per progetti autostradali o l’incessante estensione di miniere di carbone, come in Germania). Il Vertice mondiale sul clima delle Nazioni Unite del 2014, dove molti paesi si sono impegnati a rimboschire nientemeno che 350 milioni di ettari entro il 2030, si è soprattutto tradotto nella pratica in piantagioni di alberi in serie da poter tagliare regolarmente per il legname o la carta, e ovviamente non per offrire più spazio a foreste in libera evoluzione. Quanto al famoso piano Francia rilancia dell’autunno 2020 seguito al grande confinamento, di cui 200 milioni di euro erano destinati ad «aiutare le foreste ad adattarsi al cambiamento climatico» piantando «50 milioni di alberi in due anni», non è altro che una sovvenzione statale agli industriali del legno per finanziare i loro giganteschi abbattimenti di specie forestali ritenute non produttive, al fine di sostituirle con buone vecchie monoculture di douglas.
Nel ciclo infernale delle catastrofi ecologiche che sono ormai passate alla fase in cui si retroalimentano l’una con l’altra in modo quasi irreversibile, cosa che nessuna bacchetta magica tecnolatra riuscirà ad arrestare, le foreste sono diventate oggi malgrado tutto il simbolo della corsa in avanti verso l’abisso. Ridotte a «riserve di biodiversità» da salvare per gli uni, a «magazzini di carbonio intrappolato» da far crescere o fruttare per gli altri, e a «risorse di metri cubi di legno» da estrarre per gli ultimi, le foreste incarnano la perdita di ogni rapporto con un ambiente di cui dovremmo essere intrinsecamente parte. Sarà per questo che quando un mapuche distrugge con accanimento e costanza i macchinari e i camion degli sfruttatori forestali sul territorio dominato dallo Stato cileno, questo ci parla? Sarà per questo che la devastazione di piantagioni industriali di conifere (cedri e douglas) a Corrèze ci diverte? Sarà anche per questo che gli incendi che negli ultimi tempi stanno colpendo le mietitrici e i portatori di cooperative forestali e dell’ONF, dalla Nièvre all’Ile-de-France, ci rallegrano? Poiché strappare al mondo della devastazione industriale un rapporto radicalmente altro tra gli individui e il loro ambiente, è sicuramente far vibrare insieme idee e azioni, ma anche dare spazio alle indiavolate foreste del nostro immaginario…
[Avis de tempêtes, n. 53 maggio 22, tradotto da Finimondo]]
(*) I Demoiselles erano contadini abbigliati con vesti femminili, lunghe camicie bianche, il volto ricoperto di fuliggine e maschere o pelli di animali, e che effettuavano azioni di guerriglia contro il nuovo codice forestale del 1827