Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)
L’ondata di caldo — un eufemismo che traduce bene la limitatezza del linguaggio, e quindi della nostra capacità di rappresentare le cose nell’ambito del sensibile e del razionale — che si sta oggi abbattendo su vaste aree del globo è tristemente indicativa a tale proposito. Non è possibile per l’essere umano immaginare l’enormità di ciò che sta accadendo, terribile conseguenza di un secolo e mezzo di industrializzazione. Centinaia di ettari di foreste che vanno a fuoco in Siberia, uccelli disidratati che piombano rigidi dal cielo sopra lo Stato indiano del Gujarat, esseri umani che boccheggiano e muoiono in una canicola dantesca di quasi 50°C abbattutasi su India e Pakistan, mentre torrenti di fango scatenati dall’improvviso scioglimento dei ghiacciai fanno straripare laghi d’alta quota devastando tutto al loro passaggio (compresi città e villaggi pakistani). Oggigiorno, la sopravvivenza di decine di milioni di persone stipate nelle città di questi due Paesi dipende dall’arrivo quotidiano di autocisterne di acqua potabile.
Facendo vacillare ogni schema della linearità tanto cara alla nostra concezione storica, il mondo di domani sta già attraversando l’oggi, un mondo in cui interi territori diventano inabitabili. Ci aggrappiamo disperatamente alle proiezioni provvisorie di ieri rapidamente smentite dall’accelerazione e dall’inattesa instabilità di molti fattori climatici e dal loro effetto retroattivo oggi, così da provare a immaginare il famoso mondo di domani. Da qualche mese si è riproposto, rivelando solo una frazione della sua violenza omicida. E con 1,2 gradi in più, con 2 o 3 gradi in più, aumenta la probabilità che quel mondo di domani si instauri definitivamente e irrimediabilmente.
L’anno scorso, ad esempio, sono stati battuti quattro tristi record. Il 2021 è stato uno degli anni più torridi mai registrati. Le concentrazioni di gas serra hanno raggiunto un nuovo picco nel 2020, quando la concentrazione di anidride carbonica (CO2) ha raggiunto le 413,2 parti per milione (ppm) nel mondo, ovvero il 149% del livello preindustriale. Anche la temperatura dell’oceano ha di conseguenza raggiunto un livello record lo scorso anno. E pur assorbendo circa il 23% delle emissioni annue di CO2 di origine umana, rallentando in tal modo l’aumento delle sue concentrazioni nell’atmosfera, per contro l’anidride carbonica reagisce con l’acqua del mare e causa l’acidificazione degli oceani, danneggiando per lungo tempo le condizioni di vita nelle acque. Per di più, l’aumento del livello delle acque ha raggiunto un nuovo record, con un aumento due volte più rapido rispetto all’inizio del XXI secolo. Infine, il buco nell’ozono sopra l’Antartico non è mai stato così ampio e profondo come nel 2021.
In questa corsa verso l’abisso due nuovi confini sono stati valicati all’inizio dell’anno, quando un quinto, poi un sesto «limite planetario» — processi naturali che garantiscono la perpetuazione della vita in condizioni di esistenza «accettabili» — sono stati superati, col superamento della soglia critica dell’«introduzione di nuove entità nella biosfera», ossia dell’inquinamento chimico del nostro ambiente. Prima di questo quinto straripamento, la civiltà industriale aveva già sfondato il tetto del cambiamento climatico e della diversità genetica (provocando l’erosione della biodiversità), compromesso l’utilizzo del suolo e turbato il ciclo del fosforo e dell’azoto. Qualche mese dopo è stata la volta del «sesto limite»: il ciclo dell’acqua dolce. L’acqua dolce è la circolazione sanguigna della biosfera, ed è quindi essenziale al mantenimento di condizioni ambientali e climatiche vivibili. Spesso si opera una distinzione fra «l’acqua blu» — che il nostro consumo non mette ancora in pericolo, corrispondente all’acqua proveniente dalle precipitazioni, poi accumulata nei laghi e nei bacini idrici o riversata nell’oceano — e l’«acqua verde» — anch’essa proveniente dalle precipitazioni atmosferiche, poi assorbita dalle piante. È questa a risentirne. «L’interferenza umana con l’acqua verde ha assunto ormai una tale portata che il rischio di cambiamento non lineare e su larga scala ne è rafforzato, e mette in pericolo la capacità del sistema terrestre di rimanere in condizioni che rientrino nell’Olocene», precisa uno studio dedicato a questo oltrepassamento. L’«acqua verde» è tra l’altro importante per l’evaporazione, e di conseguenza per la regolazione dell’atmosfera e l’umidità del suolo, atte a prevenire l’essiccazione delle foreste. Per illustrarne le conseguenze, si potrebbe evocare l’immagine dell’Amazzonia vicina a un punto di svolta in cui vaste zone potrebbero passare da foreste tropicali a territori simili alla savana. Nello stesso mese di aprile in cui è stato superato quel limite del ciclo dell’acqua dolce verde, si apprende d’altronde che in Amazzonia non ci si aspetta più nemmeno l’essiccazione della foresta, poiché la deforestazione industriale ha polverizzato tutti i record. Nell’arco di un mese sono stati abbattuti l’equivalente di 1.400 campi di calcio.
E con il caldo, il mondo s’inaridisce. In Francia il termometro sale e le riserve idriche diminuiscono. Nel Corno d’Africa, «la peggiore siccità mai vissuta» minaccia di affamare 20 milioni di persone. In Cile, i tagli all’acqua sono ormai consueti. Quest’anno «più di 2,3 miliardi di persone dovranno affrontare lo stress idrico. Dal 2000, il numero e la durata delle siccità sono aumentati del 29%», si legge in un rapporto sulla desertificazione del mondo. La siccità è parte di un circolo vizioso: meno acqua significa meno fotosintesi dalle piante e quindi meno stoccaggio di CO2… e gli ecosistemi si trasformano poco alla volta in emettitori di carbonio, soprattutto nei periodi di siccità estrema. Negli ecosistemi europei, ad esempio, la fotosintesi è stata ridotta del 30% durante la siccità dell’estate 2003, determinando un rilascio netto di carbonio stimato in 0,5 giga-tonnellate. E pur essendo grosso modo equivalente la quantità di pioggia che cade in un anno, non si può comunque ripartire come si fa oggi: schematicamente, ci saranno forti piogge e lunghi periodi di siccità. «Se l’azione non viene intensificata, si prevede che entro il 2030 circa 700 milioni di persone rischiano di essere sfollate a causa della siccità», afferma lo stesso rapporto. Entro il 2050, le siccità potrebbero colpire più di tre quarti della popolazione mondiale e fino a 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare. A quella data, dai 4,8 ai 5,7 miliardi di persone vivranno in aree dove l’acqua scarseggia almeno un mese all’anno, contro i 3,6 miliardi di oggi.
Le tempeste di sabbia che da due mesi colpiscono l’Iraq in modo particolarmente duro sono un altro esempio delle conseguenze della desertificazione. In tutto il mondo, il deserto avanza in maniera inesorabile. Le sue nuvole arancioni seppelliscono le città. Manca l’acqua e i terreni si degradano. In Iraq, mentre migliaia di persone sono ricoverate in ospedale per problemi respiratori dovuti al «diluvio di sabbia», il lago Sawa è completamente scomparso e il Paese dovrà conoscere «272 giorni di polvere» all’anno nel corso dei prossimi due decenni. Si stima che il 70% della superficie terrestre sia già stato trasformato dalle attività umane, e che fino al 40% sia danneggiato principalmente dalla deforestazione, dalle monocolture intensive, dallo sfruttamento minerario e dall’urbanizzazione. Ogni anno va in polvere l’equivalente della superficie del Benin, ovvero 12 milioni di ettari. La desertificazione, la distruzione del suolo e più in generale le conseguenze del cambiamento climatico si intersecano con quasi la metà dei conflitti armati attualmente in corso sul pianeta, se ci limitiamo a questo solo aspetto.
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)
Si potrebbe argomentare che una tale continuità non esista, non può esistere, dato che lo sterminio degli ebrei (e degli altri) è stato un piano deliberato, architettato dai nazisti; che la scelta delle città di Hiroshima e Nagasaki per perpetrare gli eccidi di massa atomici sia stata una scelta che rispondeva a criteri politici e scientifici stabiliti da un ben preciso gruppo di generali, politici e scienziati. Si può sostenere che non esista un progetto deliberato per distruggere il vivente (anche se i progetti di «eugenetica climatica» hanno sempre accompagnato lo slancio dell’industrialismo per «afferrare per la coda la natura», per «dominare le forze della natura», per correggere i «difetti» o, più di recente, per indirizzare l’umanità verso un destino transumanista o per domare il clima mediante la «geo-ingegneria»). Ciò non toglie che l’intossicazione del mondo sia qui. Che l’esposizione del vivente a migliaia di esplosioni nucleari sia un dato di fatto. Che la sostituzione delle piante con chimere geneticamente modificate in nome del risultato economico sia in corso.
Quando si agisce con cognizione di causa, quando si continua a porre un preciso obiettivo (l’espansione e l’accumulazione) al di sopra di ogni altra considerazione, anche quando le conseguenze sono talmente nefaste da minacciare ormai la continuità stessa della vita sulla terra; quando d’altro canto, riguardo la suddivisione del lavoro, non si fa nulla, o quasi, per opporsi all’avanzata di questa mega-macchina sterminatrice, ma al contrario si prosegue senza storcere troppo il naso (se non forse per pretendere una parte più consistente del bottino della predazione) a fare il proprio lavoro nelle raffinerie, nelle start-up, negli stabilimenti chimici, negli uffici direzionali, quando insomma ci «rifiutiamo espressamente di sapere quel che facciamo», quando «ci rendiamo volutamente ciechi nei confronti [delle conseguenze del nostro agire]… incoraggiamo o addirittura produciamo la cecità degli altri, o… non la combattiamo», non ci troviamo al cospetto di una logica eichmanniana?
Non si può certo ammettere che Eichmann facesse null’altro che il suo lavoro, come si è difeso al processo, tra l’altro non ai suoi esordi. Per organizzare i trasporti verso i campi di sterminio, doveva avere ben chiaro in mente il suo obiettivo. Era «solo» un ingranaggio — anche se, di fronte alla mostruosità, quel «solo» suona in modo inappropriato. Ma è possibile che in seguito egli si sia abituato al proprio lavoro, che si sia lasciato assorbire dai compiti da svolgere e che nella sua mente l’obiettivo abbia ceduto il posto al calcolo, all’approccio prevalentemente tecnico. È in tal senso che oggi possiamo scoprire, davanti alle conseguenze nefaste del nostro agire, un atteggiamento «degno» di un Eichmann all’opera.
Allo scopo di scongiurare tutto ciò che potrebbe sembrare una sorta di «colpa collettiva», si è giunti al punto di provare a sostenere che sotto il regime hitleriano le persone non fossero necessariamente, o semplicemente non fossero, al corrente del destino riservato agli ebrei deportati e agli altri. Che la gassatura e l’incenerimento di sei milioni di esseri umani fossero il segreto ben custodito dal regime hitleriano e dal complesso industriale che erano diventate le SS incaricate di quello sterminio. Eppure, non c’era nessun tedesco che non fosse al corrente, e se mai qualcuno non lo sia stato veramente, era perché non voleva esserlo — il che è più o meno lo stesso. Certo, non si può sostenere che «tutti i tedeschi» avessero come progetto lo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, ma ciò non toglie che una stragrande maggioranza vi abbia contribuito. O direttamente, o indirettamente. Non hanno le stesse responsabilità di un Eichmann o di un guardiano di Dachau, non hanno lo stesso coinvolgimento, ma hanno fatto altrettanto parte della macchina. È qua che si vede in azione l’effetto del carattere macchinico, e in effetti è incontestabile che a partire da Auschwitz il mondo sia diventato più macchinico, non certo meno.
Perciò, come stupirsi che, malgrado il fatto che siamo al corrente, che cominciamo a sentire sulla nostra pelle che la gestione statale dell’informazione non impedisce affatto di sapere che in India e Pakistan gli esseri umani soffocano in quelle fornaci che sono diventate le città in preda alle conseguenze del progetto industriale, continuiamo nonostante tutto a fare il nostro lavoro? E non solo, ma inoltre che si usi la forza contro coloro che si oppongono — coloro che tentano di distruggere ciò che ci distrugge, coloro che malgrado il pessimismo generato dalla loro lucidità critica scelgono di mettersi in gioco piuttosto che continuare a fare il gioco altrui — come fossero terroristi estremisti che meritano d’essere rinchiusi nei campi? Ed anche fra coloro che si dicono lucidi e che non marciano ciecamente al suono dell’industrialismo trionfante, c’è chi si concede fin troppo facilmente al surrogato artificiale piuttosto che all’azione reale, al conforto morale di un lieve distacco dalla frenesia consumistica piuttosto che allo sforzo e al rischio che comporta un tentativo concreto di mandare in cortocircuito quella frenesia, o magari alla cinica rassegnazione che finisce per crogiolarsi nello snobbare, ovvero nel disprezzare, chi ancora parte all’assalto ed osa ancora amare la libertà in un mondo incatenato.
E intanto, la situazione continua a peggiorare. L’instabilità del clima non è più alla nostra porta, è entrata con passo deciso nella casa della civiltà industriale. Carestie e siccità, canicola e tempeste omicide, deforestazione e desertificazione, scioglimento dei ghiacciai ed estinzione di massa delle specie si abbattono sul pianeta in cui l’umano continua tuttavia a credere che alla fine lo aspetti un destino migliore. Ma la realtà smentisce definitivamente questa convinzione. Prenderne atto e agire di conseguenza significa contribuire a spezzare l’abbraccio mortale della logica eichmanniana.