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Author: avisbabel

Storm Warnings, issue 59-60 (December 2022)

Posted on 2023/03/16 by avisbabel

 

The final issue of Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 59-60(December 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Storm warnings, issue 59-60 (December 15, 2022) :

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“To conclude, if it has always been a pleasure to write and elaborate each issue of this bulletin, we must also say that after five years, the desire to put an end to it has arrived. A certain weariness in seeking to ensure this regularity, the sometimes difficult lack of feedback or intertwined debates,
the observation of a redundancy in our ways of approaching the vast questions of action, certainly also the limits of the instrument itself, are all elements that contributed to our decision to conclude this experience of Storm Warnings. Such a decision might seem paradoxical, knowing that
the interest and need we feel for such spaces of reflection and elaboration are still alive, but the instrument we have forged over the years does not lend itself to a new start or a new format. It seemed to us more appropriate to make it disappear, so that other projects could see the light of day.”

2.11.0.0
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Storm Warnings # 57-58 (October 2022)

Posted on 2023/01/23 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 57-58 (October 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Storm warnings, issue 57-58 (October 15, 2022) :

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“Europe is overflowing with hundreds of billions of dollars for its economic recovery and rearmament plans, quite the opposite of a reduction in its electricity production centers seems to be in the making, with Germany, for example, having just reactivated all of its hundred or so coaland
lignite-based power plants (including the 27 that had previously been suspended in order to meet its carbon emission goals), and also extended the operation of its last three nuclear power plants, which were due to be shut down by the end of 2022. This grandiose combination of 19th century
coal with 20th century nuclear power to feed the devouring requirements of 21st century industry and digital technology is not surprising…”

 

 

Posted in English

E se tornassimo indietro…

Posted on 2023/01/23 by avisbabel

Le nubi che si profilavano nell’autunno del 2017 non erano le più favorevoli per intraprendere lunghe passeggiate. Eppure è stato nel corso di quei mesi piovosi, durante scambi e discussioni animati, esitazioni e fantasticherie, che l’idea di un bollettino anarchico periodico su carta è infine maturata. Più che una rivista o un giornale di agitazione, abbiamo inteso dar vita piuttosto a quello che fra di noi chiamavamo, non senza una punta di orgoglio, un foglio di lotta. Era giunto il momento di lanciare qualcosa di nuovo, considerato lo scoramento che stava prendendo il sopravvento sul precedente entusiasmo. Le rivolte e le sommosse nel Magreb e in Medio Oriente erano appena state soffocate nel sangue, o si erano trasformate in guerre civili dai contorni sempre più contraddittori. Le lotte specifiche contro le strutture di reclusione o il nucleare – che erano state terreno di molteplici esperimenti di organizzazioni informali, progettualità e agitazioni – cominciavano a dissolversi. L’ennesimo movimento sociale che avrebbe dovuto dare fuoco alle polveri si stava evidentemente facendo attendere. E all’interno di quella vasta lotta territoriale che è stata la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, le logiche politicanti e gestionali, dopo anni di connivenze e conflitti, hanno finito col prevalere sulle ultime frange offensive. Così abbiamo lanciato il primo numero di questo bollettino come sfida per ricominciare. Non per cantare all’infinito lo stesso ritornello o ripetere gli errori del passato, non per confinare lo sguardo nel giardino ben delimitato della Doxa anarchica del momento, ma per esplorare strade di nuove progettualità in un mondo in piena mutazione, basandoci su esperienze recenti dell’agire anarchico autonomo dalle molteplici sfaccettature, tentando di elaborare una riflessione più approfondita.

È con queste esigenze in mente che abbiamo difeso la possibilità dell’azione minoritaria anarchica, l’attacco diffuso, l’organizzazione informale, i gruppi di affinità e autonomi, sia in tempi più tranquilli che in tempi più foschi (quelli del Grande Confinamento) o di rivolta sociale (quella dei Gilet Gialli). Nel corso delle ricerche e degli approfondimenti delle evoluzioni del dominio, il nostro sguardo si è sempre più concentrato anche sugli sviluppi tecnologici che stanno modificando radicalmente i rapporti sociali rafforzando al tempo stesso l’infrastruttura di una terribile prigione a cielo aperto, oltre che sulle devastazioni irreversibili provocate dall’industrialismo. Queste analisi, ma soprattutto la realtà della conflittualità, non hanno tardato a farci intravedere una possibile via per riarmare la sovversione e proporre un metodo di azione praticabile e adatto al mondo che abbiamo di fronte: il sabotaggio delle sue infrastrutture logistiche, energetiche e tecnologiche.

Questa ricerca alquanto ostinata ci ha probabilmente portato, nelle riflessioni avviate mese dopo mese negli ultimi cinque anni, a trascurare alcuni aspetti o a sottovalutare altre notevoli evoluzioni del dominio. È una constatazione, più che un rammarico, perché abbiamo sempre voluto considerare questo bollettino, anche quando non c’era quasi più una pubblicazione anarchica periodica che non fosse relegata alla sfera digitale, come un contributo tra gli altri nel magma della teoria e dell’azione. Pure alcune scelte supplementari, più legate al modo di redigerlo e diffonderlo, in particolare il suo rigoroso anonimato, sono state pensate fin dall’inizio in modo che il bollettino potesse essere concepito fra altri strumenti.

D’altronde, inutile nasconderlo, abbiamo anche cercato volontariamente di rompere con certe abitudini, consuetudini e riflessi condizionati del movimento anarchico, prendendo inoltre di mira ciò che al suo interno, a nostro avviso, deriva da un riciclaggio di cadaveri. Sul primo punto, questo bollettino ha dedicato poco spazio, per esempio, alla lotta «antirepressiva», non perché la sorte riservata a quelle compagne e compagni ci lasci freddi o indifferenti, ma in quanto riteniamo che spezzare l’accerchiamento repressivo passi per una progettualità che attacca e sceglie lucidamente il proprio terreno d’azione, più che tentando di restituire i colpi – ammettiamolo, spesso invano – rimanendo esattamente dove lo Stato vuole che restiamo.
Quanto al secondo punto, si sarà notato che non ci siamo allineati alla resurrezione di concetti obsoleti come «la classe», «i padroni» o «il proletariato» che proliferano negli ultimi tempi in seno al movimento anarchico internazionale, né ai fantasmi a proposito delle famose «masse popolari oppresse» col loro consueto seguito vittimista, né all’attuale spirale delle cosiddette «politiche identitarie». Abbiamo piuttosto cercato di porre questioni che una parte del movimento a volte sembra preferisca ignorare per restare il più vicino possibile a motivi più «classici» (il razzismo, la gentrificazione, i movimenti sociali, l’esclusione).
Quale progettualità sviluppare nell’èra del brutale cambiamento climatico, della transizione energetica, della ristrutturazione del capitalismo industriale? Quali mezzi darsi per continuare ad attaccare di fronte all’ingabbiamento digitale del mondo e alla sorveglianza che ne deriva? Quali angoli e terreni di attacco diventano prioritari oggi? Quali forme di organizzazione informale ci appaiono auspicabili e necessarie? Come prepararsi per continuare ad agire in tempi più instabili, di guerra, di catastrofi, di «tracolli» parziali? Certo, non sarà questo piccolo bollettino ad aver posto tutte queste domande sul tavolo, per quanto speriamo di avervi contribuito nella nostra misura, a rischio d’essere stati talvolta maldestri o limitati nelle nostre proposte. E piuttosto che considerare tali questioni come qualcosa di concluso, pensiamo che sia perfino cruciale che vengano riprese e sviluppate all’interno del movimento internazionale, non necessariamente per arrivare alle stesse conclusioni, ma quanto meno per sforzarsi di non sprofondare nella sclerosi, ancorché combattente come vanta di essere. È appunto per tutto ciò che abbiamo l’impressione di essere giunti ​​al limite di ciò che si possa fare con un simile bollettino, poiché certi approfondimenti e discussioni non possono che proseguire altrove più che in questo tipo di strumenti.

Volgendo lo sguardo ai quasi sessanta numeri di Avis de tempêtes già pubblicati, possiamo notare rileggendoli come certe riflessioni si siano affilate, altre siano state tralasciate lungo il percorso, ed altre ancora siano state rafforzate dal confronto critico con la realtà dello scontro. Questo confronto critico si è sviluppato anche cercando di guardare oltre i confini, per interessarsi a dinamiche di lotta e a rivolte che si stavano svolgendo un po’ più lontano da noi, dalla guerra civile in Siria alla rivolta sociale in Cile, dalla lotta dei Mapuche alle dure lotte degli anarchici nei paesi dell’Est e in Russia. Questa tensione internazionalista corrisponde del resto alla stessa volontà di approfondimento che ci ha talvolta portato a immergerci nel passato: dalla guerriglia libertaria contro il franchismo fino ai refrattari alla guerra tra Stati; dai piccoli gruppi di intransigenti che offrono alla vita «la squisita elevazione della ribellione del braccio e della mente» in Sud America fino alla lotta clandestina degli anarchici russi contro vecchi e nuovi poteri. Più che rappresentazioni di ciò che è stato, questi ritorni su esperienze poco accettate sono in realtà suggerimenti di ciò che può essere. Non riproducendole in modo identico, non mutilandole sotto forma di iconografie da esibire per celebrare la propria inazione, ma come esperienze vive che riannodino dei fili là dove sono stati spezzati dall’avanzata del dominio.

Al di là dei tanti articoli scritti per il bollettino, delle traduzioni di testi da altrove, delle note di lettura, dei rimandi storici o delle perle estratte dal forziere, Avis de tempêtes ha anche fornito in ogni numero una panoramica di attacchi, azioni e sabotaggi avvenuti in Francia, ma anche in diversi paesi europei. Questa cronologia non voleva certo essere esaustiva, tanto più che lo Stato ha spesso interesse a coprire gli atti anonimi con un velo di silenzio. Nel movimento anarchico contemporaneo, le opinioni sono divise su tale approccio, in particolare per quanto riguarda le azioni che non sono seguite da un post-scriptum rivendicativo. Senza voler qui proseguire in questo dibattito, diciamo semplicemente che il bollettino ha ripreso nella sua cronologia tutti gli attacchi che ci hanno ispirato per metodo ed obiettivo, sia che fossero rivendicati o meno – ammettendo appunto di non conoscere le intenzioni dei loro autori, e non pretendendo che si mostrassero alla luce del giorno affinché i loro atti fossero menzionati. Molte ragioni possono suggerire che essi non vengano spiegati ulteriormente, che vanno ad esempio da una tattica difensiva contro la repressione, fino alla considerazione che una eventuale spiegazione svanisce allorché l’obiettivo e il metodo sono chiari. Allo stesso modo, esistono altre ragioni che inducono a rivendicare un attacco, che vanno ad esempio dalla volontà di dare una portata più ampia all’azione compiuta, fino al tentativo di comunicare con altri attraverso di essa. Ma a nostro avviso, non esiste davvero alcuna ragione per scartare a priori qualsiasi azione non rivendicata o per esigere per principio dai sabotatori notturni un certificato di convalida formale; così come non c’è ragione per non riflettere su tale questione, e questo costantemente in relazione alle proprie prospettive e progettualità.

Per concludere, se è sempre stato un piacere redigere ed elaborare ogni numero di questo bollettino, dobbiamo pur dire adesso che dopo cinque anni è arrivata la voglia di mettere un punto. Una certa fatica nel cercare di assicurare questa regolarità, l’assenza talvolta penosa di riscontri o dibattiti incrociati, la constatazione di una ridondanza nel nostro modo di affrontare le vaste questioni dell’azione, certamente anche i limiti dello strumento stesso, sono tutti elementi che hanno contato nella nostra decisione di concludere l’esperienza di Avis de tempêtes. Una tale decisione potrebbe forse sembrare paradossale, ben sapendo che l’interesse e il bisogno che sentiamo per tali spazi di riflessione e di approfondimento restano sempre vivi, ma lo strumento che abbiamo forgiato in questi anni non è pronto per un nuovo inizio o un nuovo formato. Ci è sembrato quindi più appropriato farlo scomparire, in modo che altri progetti possano nascere.

Non ci resta che ringraziare coloro che hanno contribuito all’esistenza di questo bollettino, che l’hanno alimentato, diffuso e discusso, che l’hanno criticato senza far finta che non esistesse, che hanno tradotto articoli o interi numeri in altre lingue, che sono riusciti a trovare le strade per inviarci riscontri e suggerimenti, nel corso di un’avventura che è diventata molto più della nostra da quel lontano autunno tempestoso.

[Avis de tempêtes, n. 59/60, 15 dicembre 2022, tradotto da Ab Irato]

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Romper el círculo

Posted on 2022/09/23 by avisbabel

En este verano, que ha superado viejos récords de temperatura, muchos habitantes que exportan su oro azul por todo el mundo han conocido un problema que creían reservado a territorios lejanos mas pobres : el racionamiento de agua. De Alta Saboya a Aveyron decenas de pueblos han recibido aprovisionamiento de agua en camiones cisterna ; de Creuse a los Alpes-Marítimos, muchos otros han dependido de decenas de miles de botellas de plástico ; en Var, un ayuntamiento ha decretado un consumo máximo de agua por domicilio, debidamente controlado por los contadores conectados ; en Gard, otro ayuntamiento ha decidido cortar el suministro cada día entre las 18h y las 2 de la madrugada.

Las prohibiciones y limitaciones del uso de agua se han multiplicado en todas partes, con las habituales derogaciones que permiten a los dueños de campos de golf regar su césped, a los productores de maíz regar sus campos agroquímicos bajo un sol abrasador, o que las fábricas bombeen todo lo que necesiten para poder seguir envenenando el planeta. A la cabeza, los sectores habituales : siderurgia, química, refinerías de petróleo y trituradoras de celulosa. Sin olvidar la energía nuclear, ya que cuatro centrales (Bugey, Golfech, Blayais, Saint-Alban) han alcanzado el umbral máximo de descargas térmicas en los ríos (cosa que normalmente provocaría paradas temporales),pero han sido autorizadas para seguir aumentando la temperatura de las aguas vertidas en los ríos, a pesar de los daños adicionales causados a la fauna y flora. Esta es otra muestra de como contribuye la energía nuclear al calentamiento del planeta (la central de Saint-Alban sube 3ºC la temperatura del río Rhone para refrigerar sus reactores), considerando que de los 32,3 millones de m³ de agua dulce bombeada en toda Francia, la mitad se usa para refrigerar las centrales de producción de electricidad.

Para que el dispendioso complejo tecno-industrial avance cueste lo que cueste, este verano también se han experimentado otras técnicas autoritarias de racionamiento de agua para la población. Tomemos Gerardmer, en Vosgos, que tras haberse enriquecido gracias a la industria del turismo de masas, a sufrido tal escasez en sus capas freáticas que la alcaldía ha decidido extraer agua de su célebre lago natural. Poco importa que su nivel ya estuviera bajando 3 centímetros al día. Por eso, a principios de agosto, los habitantes de la llamada « Perla de Vosgos »,han estado muchos días con agua declarada oficialmente como no potable y « no apta para el consumo »… agua que había sido extraída directamente de aguas infestadas de crema solar y barcos turísticos.

Si nos vamos un poco mas al sur de esta zona masificada, a la ciudad termal de Vittel, que en un siglo ha visto pasar la ‘crème‘ de la aristocracia rusa y de la oligarquía colonial, se produjo una situación todavía mas clara : Nestlé Waters extrae 800 millones de litros anuales de agua mineral para embotellar un 1,5 millones de botellas de plástico para enviarlas a todos los rincones de Europa mientras los acuíferos profundos se van secando poco a poco, y la solución propuesta por las autoridades locales a sus habitantes es obtener el agua de otros lugares, gracias a la construcción de una gigantesca tubería que la extraiga de territorios vecinos. Una situación similar a la del agua de Volvic, en Puy-de-Dôme, esta vez explotada por Danone, donde el ayuntamiento restringe el asentamiento de nuevos residentes negándoles el suministro de agua – por falta de caudal – reservándola para el embotellado. Esto muestra la tendencia de una situación mucho mas crítica en numerosos países – desde México a Pakistán –, donde tras la compra de la mayoría de reservas naturales por parte de grandes empresas, el único agua potable en los barrios pobres es la embotellada.

Esta cuestión estratégica del descenso global de las reservas de agua dulce ha sido prevista desde principios de los años 2000 por las grandes empresas agroalimentarias que ya se preguntaban qué recurso garantizaría su crecimiento durante el siglo venidero antes de apostar por el agua… y empezar a comprar reservas naturales en todo el mundo, visto que las previsiones mas optimistas indican que esta escasez podría afectar hasta a 5.000 millones de personas en 2050. Esta misma tendencia llevó, en diciembre de 2020, a la Bolsa de Chicago a dar un paso que nunca se había hechoantes, cuando decidió cotizar el subsuelo de California, creando así el primer mercado de futuros del agua natural, igual que con el trigo o el petróleo. Y, de hecho, no había ninguna razón para que un recurso de este tipo, que se está agotando en todo el mundo, no fuera a su vez objeto de especulación financiera con la ayuda de inteligentes transacciones algorítmicas que fijarían por adelantado el precio de su uso (durante varios meses o años). En California, asolada desde hace años por la sequía y los incendios, y donde el 80% del consumo de agua corresponde a las empresas agrícolas, en los dos últimos años hemos visto cómo los agronegocios han ganado más dinero vendiendo los títulos de uso de agua que con la explotación de las tierras, en especial vendiéndolos a las ciudades de San Diego y San Francisco… o a Silicon Valley.

De forma mas general, como en ámbito de la energía o las nocividades acumuladas en una carrera infernal (carbón, petróleo, nuclear y eólicos), el agotamiento de las reservas de agua dulce, paralelamente al envenenamiento industrial de tierra y aire, está conduciendo a un círculo vicioso que ninguna solución técnica puede resolver. El 3 % del agua dulce del planeta proviene de la evaporación de los océanos, donde el 10 % del vapor producido acaba regando los continentes en forma de precipitaciones cuando su temperatura desciende (el resto vuelve al mar). Una de las consecuencias del calentamiento climático no consiste sólo en la aceleración global del ciclo del agua por el aumento de la temperatura de la superficie marítima, sino también en la alternancia entre inundaciones y grandes periodos de sequía, combinada con las escasas reservas de agua dulce, que se reponen de forma mucho mas lenta (desde la nieve y los glaciares en las montañas hasta las aguas subterráneas de las llanuras, por decirlo brevemente).

Para afrontar los periodos de sequía, los grandes genios de la industria y del sector energético, que prevén nada menos que un aumento del 70 % de sus necesidades de agua de aquí a veinte años, no han encontrado mejor forma de evitar que el agua se filtre al suelo que recogiéndola de antemano (creación de gigantescos depósitos de agua de lluvia) ; bombear aguas subterráneas durante el invierno para que haya aún menos el resto del año (construcción de mega-balsas para la agricultura industrial) ; o desalar artificialmente agua de mar. Aunque actualmente esta última técnica siga siendo la más popular, de Cataluña a Singapur pasando por los países del Golfo, no sólo agrava el calentamiento climático consumiendo cantidades monstruosas de energía, sino que también genera enormes cantidades de lodo salado (por cada litro de agua potable se produce un litro y medio de salmuera), con concentraciones de sustancias químicas y más caliente que el agua de mar en el que se vierten… acelerando así la salinización, la contaminación y el calentamiento de los océanos.

Del mismo modo, en respuesta a la creciente contaminación de las aguas subterráneas por pesticidas y otros disruptores endocrinos, el potenteSindicato de aguas de Île-de-France (SEDIF), que agrupa a 135 municipios de la región de París, ha gastado cientos de millones de euros en la producción de agua por ósmosis que debería llegar a los grifos en 2030 :se trata de la misma tecnología utilizada para desalinizar el agua de mar aplicada al agua dulce con bajas presiones, consumiendo, como su prima hermana, tres veces más electricidad que las actuales plantas de tratamiento de agua. Salvo que, pequeño y trivial detalle, este « agua mas pura que pura » seguirá siendo no apta para el consumo por falta de sales minerales… ¡ estas se añadirán artificialmente, mientras que los condensados de residuos indeseables de la filtración por ósmosis acabarán en el mismo río (el Oise) del que se obtuvo el agua. !

En resumen, siempre es la misma cantinela cuando se trata de mantener con respirador un sistema sin aliento : ¿que falta agua dulce ? Pues la metemos a cotizar bolsa, en mega-balsas o en reservas industriales para garantizar que se siga priorizando la insaciable necesidad de agua de las fábricas. ¿Que están envenenando el agua restante cada día, al tiempo que se reduce su disponibilidad debido al calentamiento y el acaparamiento? Pues la filtramos devorando gran cantidad de recursos energéticos y extractivistas, que a su vez cierran el círculo hacia el abismo. Estamos atrapados dentro de este círculo de una guerra despiadada contra la vida, donde el acceso al agua dulce representa el último límite de la vida en la tierra. Un círculo que unos cuantos recolectores de estrellas ya están empezando a romper sin esperar a nada ni a nadie, saboteando, por ejemplo, los megaproyectos agroindustriales del oeste del país [1], deteniendo temporalmente las fábricas de semiconductores [2], cortando los flujos de datos que se transmiten desde lo alto de las torres de vigilancia [3] o que pasan justo por debajo de nuestros pies [4], así como incendiando lo que alimenta [5] este mortífero mundo.

¿ Qué clase de libertad y de relaciones sociales se pueden desear respirando aire tóxico, con los pies pisando tierra envenenada y bebiendo agua salobre uno de cada dos días ? Si este es ya el destino, reservado con total indiferencia, para toda una parte de la humanidad sacrificada en el altar del progreso tecno-industrial, su extensión sin límites a toda la vida sobre la tierra debería decirnos algo. Tan cierto como que la pregunta planteada mas arriba, de todo menos retórica, contiene en si misma la respuesta : destruir todo lo que nos destruye se ha vuelto mas vital que nunca…

[Traduccion de Avis de tempetês, n. 55-56, 15 agosto 2022]

[Notas del traductor]

1. [FR] https://sansnom.noblogs.org/archives/13370
https://reporterre.net/Golfs-SUV-Ils-ont-sabote-ils-racontent
https://reporterre.net/Guerre-de-l-eau-la-carte-des-bassines-contestees-en-France

2. [ES] https://www.alasbarricadas.org/noticias/node/48819

3. [ES] https://plagueandfire.noblogs.org/sabotajes-incendiarios-al-5g-teorias-de-conspiracion-y-reino-unido/ (2020)

https://anarquia.info/francia-aumento-de-la-incidencia-de-los-sabotajes-de-antenas-y-de-fibra-optica/ (2022)

4. Ibid.

5. [FR] https://sansnom.noblogs.org/archives/category/le-jus-de-ce-monde

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Herencias mortíferas

Posted on 2022/09/23 by avisbabel

En 221 a.c., el señor de la guerra Ying Zheng concluye la unificación de China y funda la dinastía Qin, de la que se proclama emperador. Después de enviar sus tropas a repeler las tribus demasiado salvajes del norte, ordenó la construcción de una serie de fortificaciones militares mas allá del río Amarillo para defender los territorios recientemente conquistados. La colosal obra será conocida como « muro de diez mil li », o mas comúnmente la Gran Muralla, fruto del trabajo forzado y de la explotación de cientos de miles de presos, soldados, obreros y campesinos que verán coronar la legendaria crueldad del nuevo emperador. Desde entonces, miles de tramos de la Gran Muralla han sido destruidos, abandonados, enterrados, reconstruidos y ampliados a lo largo de 20 siglos de dinastías sucesivas. Hoy sigue siendo el mayor complejo arquitectónico en longitud, masa y superficie que el ser humano haya construido jamás. Los mas de 6.700 kilómetros de bastiones y fortalezas siguen simbolizando el poder estatal, o mejor, la mega-máquina, esa organización centralizada en la que confluyen técnica, explotación y poder, aplastando la autonomía, las diferencias y la libertad. Aunque su vocación primaria era la preservación de los territorios de los emperadores frente a los ataques e incursiones de tribus salvajes – principalmente mongoles –, no era por fuerza la principal, como atestigua la historia de los reinos y repúblicas, también llena de gigantescas construcciones técnicas, destinadas a inspirar temor y sumisión a los individuos frente al poder estatal.

A principios del siglo XII de nuestra era, el emperador Sui Yangdi compuso el siguiente poema para apoyar su política de restauración de fortalezas militares : « A través del desierto reconstruimos la Gran Muralla / Pero la idea no es nuestra / Fue construida por sabios emperadores del pasado : / Ellos establecieron una política que durará miles de siglos / Para asegurar la vida de sus millones de súbditos ». Estos versos ahora se aplican perfectamente a otra obra humana que en 2011 vino a destronar la inmensidad de la Gran Muralla China en longitud, masa y superficie. Ahora, estas líneas sonperfectamente aplicables a otra obra humana que en 2011 vino a destronar la inmensidad de la Gran Muralla en anchura, masa y superficie. Una estructura de proporciones inimaginables que se ha liberado de las estrechas fronteras de las naciones competidoras para establecerse en todos los rincones del planeta, independientemente de los regímenes políticos vigentes. Una obra que atravesó todas las barreras naturales, que cruzó los océanos y penetró en las entrañas de la tierra, que se abrió paso a través de los bosques y conquistó macizos montañosos dejando un legado que « durará miles de siglos » y determinará « la vida de sus millones de súbditos ». Los emperadores nunca podrían haber imaginado que en un solo año una civilización podía construir una muralla que pesa 57,4 millones de toneladas, según las estimaciones más bajas. Y que cada año seguiría produciendo su equivalente y probablemente mucho mas, ya que en menos de una década la curva exponencial de su producción ha aumentado un 21 %. Se trata de todo lo que se aglutina bajo el modesto nombre de « desechos de equipos electrónicos y eléctricos », esto es frigoríficos, ordenadores, teléfonos, monitores, estufas, lavavajillas, routers, baterías… En resumen, todo lo que conforma la triste flora metálica y plástica de nuestro mejor de los mundos.

Tras décadas de vertido de estos residuos altamente tóxicos a países africanos y asiáticos (una sola pantalla de plasma contiene suficiente plomo, cadmio, cromo y arsénico como para contaminar 50m3 de tierra durante al menos 30 años, el equivalente al jardín de un pequeño propietario), los Estados industriales han lanzado sucesivos programas para apoyar la industria del reciclaje. Aunque la rentabilidad de este negocio esté aumentando por los precios de los metales raros o preciosos que se pueden extraer de los desechos electrónicos (lo que los convierte en una mercancía mas) y por una demanda que no deja de crecer en un mundo en plena « transición ecológica » hacia un mundo totalmente digital y electrificado, el problema de la toxicidad de los procesos sigue estando ahí, además del de la parte no reciclable, que sigue siendo un nudo gordiano imposible de resolver. Y no son los vastos programas estratégicos lanzados a nivel de la Unión Europea para desarrollar un sector de reciclaje muy sofisticado, con el fin de reducir su dependencia casi total del suministro de metales necesarios para su renovación industrial, los que harán desaparecer mágicamente la toxicidad de estos residuos. Ésta sólo se suma a la de los residuos nucleares, con los que no se sabe qué hacer, y a la de los residuos altamente tóxicos de la industria química o electrónica, que acaban en barriles enterrados bajo tierra. A la espera de ser un poco más sofisticados, esto no impide que los industriales y los Estados sigan organizando, de forma más o menos mafiosa, la exportación de residuos electrónicos a otros países : desde el vertedero de Agbogbloshie (Ghana) donde barcos procedentes de Europa descargan mas de 250.000 tonelada anuales, pasando por los infernales vertederos cercanos a las ciudades de Lagos, Ibadan y Aba, hasta los vertederos a cielo abierto diseminados por Camerún, Kenya, Tanzania, Uganda o Chad. A parte del hecho que actualmente existe un auténtico tráfico internacional de desechos a través del cual los grandes del reciclaje aprovechan para deshacerse de lo que no es rentable reciclar. Por ejemplo, no menos del 60% de los ordenadores y aparatos electrónicos de segunda mano entregados por las autoridades europeas a los países africanos como « ayuda al desarrollo » resultan ser irreparables, es decir, residuos camuflados.

Otra obra de embergadura

Otra obra del mismo tipo, que no tiene nada que envidiar a los desechos electrónicos en términos de toxicidad, supera de lejos esta producción anual. Después del gran salto hacia delante de la petroquímica a finalizar la II Guerra Mundial, cuando todos los ejércitos se alimentaban por la magia de la química, la producción mundial de plástico experimentó un crecimiento exponencial, pasando de 2,3 millones de toneladas anuales en 1950 a 448 millones de toneladas en 2015. Desde el auge del plástico, la industria petroquímica a agraciado al planeta y sus habitantes con mas de 7 mil millones de toneladas de plástico (un material casi indestructible, no biodegradable, cuya duración de vida va de los 450 años al infinito, por si quedaba alguna duda sobre la durabilidad del legado industrial)… de las cuales casi cerca de 6 mil millones de toneladas se acumulan ahora en los vertederos y en la naturaleza. Es probable que una muralla así supere la imaginación más megalómana de cualquier emperador, ya sea romano, chino, maya o egipcio. Se puede añadir con orgullo a la ya bien nutrida lista de logros de la civilización industrial, que ha cubierto la superficie de la tierra con fábricas, centrales nucleares, presas gigantescas, autopistas, megapuertos, complejos químicos y bases militares, superando con creces a los imperios del pasado en todos los aspectos (tanto en términos de recursos energéticos utilizados como de cantidad de súbditos gobernados).

El plástico tiene un 99 % de compuestos de origen fósil. Se fabrica a partir de nafta, un líquido producido mediante destilación de petróleo, o de etanol, que se encuentra en el gas natural. Para producir plástico, el sector petroquímico utiliza petróleo y gas, como materias primas y como fuentes de energía, lo que la convierte en la industria más ‘energívora’ del mundo. La Agencia Internacional de Energía (AIE) calcula que la industria petroquímica mundial crecerá un tercio entre 2020 y 2030. La petroquímica, que ya consume el 14 % de la producción total de petróleo y el 8 % de la de gas, es la causa principal del crecimiento del uso del petróleo. Las previsiones más conservadoras sugieren que más de mil millones de toneladas de plástico al año inundarán el planeta en 2040, lo que significa que el petróleo acabará utilizándose más para fabricar plástico que como combustible para los vehículos. En todo el mundo, los planes para construir, ampliar o reconfigurar las refinerías para producir plásticos avanzan a buen ritmo. En Francia, la inversión en desarrollo de productos y capacidad de producción petroquímica han aumentado un 40 % entre 2020 y 2021, con la ayuda de subvenciones estatales concedidas en el marco del componente « insumos esenciales para la industria » del famoso programa de renovación industrial France Relance. Sin embargo, la gran mayoría de los nuevos proyectos destinados a aumentar la capacidad de producción de plásticos se encuentran en Asia y en los países del Golfo, donde se están construyendo o ampliando enormes complejos petroquímicos, como el fruto de la colaboración entre la petrolera saudí Aramco y el gigante energético francés Total, situado en Jubail (Arabia Saudí). Llamado Admiral, este faraónico centro petroquímico producirá nada menos que 2,7 millones de toneladas de productos químicos plásticos al año a partir de 2024.

Cada tres segundos, una tonelada de plástico va a parar al océano. Expuesto al agua y a la sal, los trozos de plástico se rompen en pequeñas bolitas, del tamaño de un grano de arroz o mas pequeñas todavía, que poco a poco acaban formando continentes flotantes, o mejor dicho, una sopa de plástico. En tierra firme, el plástico usado simplemente se entierra, cuando no se incinera (proceso que emite una cantidad impresionante de partículas tóxicas al aire, además de contribuir al calentamiento global por la emisión de gases de efecto invernadero, equiparable a la emitida durante su proceso de producción). Pero como los vertederos se llenan rápidamente, los residuos de plástico pronto entraron al mercado. Hasta 2018, cuando China puso fin a todas las importaciones de residuos, el país representaba casi tres cuartas partes de las importaciones mundiales de residuos plásticos, ya que las empresas occidentales aprovechaban la oportunidad de llenar los contenedores en la otra dirección de este gran exportador de productos manufacturados. Tras el embargo chino, la industria del reciclaje trasladó inicialmente parte de su actividad a los países del sudeste asiático, encabezados por Malasia, seguida de Tailandia e Indonesia. Luego, el año pasado, ante las protestas de los Estados afectados por esta verdadera avalancha de residuos plásticos en su territorio, los industriales, como era de esperar, se remiten continente africano, igual que con otros residuos. En lugar de « reciclar » el plástico, se trata, una vez más, del simple vertido de residuos, ya que esta operación sigue siendo un asunto muy complejo: la mitad del plástico no es reciclable, y alrededor de un tercio sólo se puede reciclar una vez. Todo este hermoso plástico petroquímico termina inevitablemente en los vertederos, esparcido por todo el mundo, o engullido por los océanos.

Herencias mortíferas

El industrialismo no sólo significa la producción de montañas de objetos nocivos, la maquinización y la robotización del presente, sino que también tiende a constreñir tanto el pasado (destruyendo autonomías y saberes, y arrasando las condiciones materiales que hacían posible una vida ajena a la dependencia industrial) como el futuro, condenándolos a un presente perpetuo.

La producción de residuos que supera la escala de muchas generaciones, y posiblemente de la humanidad, es un claro ejemplo. El presente, determinado por la producción industrial, se expande entonces indefinidamente hasta engullir todo lo que podría ser el futuro. Se trata de una ruptura sin precedentes que ya habían planteado los primeros críticos lúcidos de la energía nuclear: no sólo la existencia de esas centrales condiciona fuertemente, por su peligrosidad, las posibilidades de crear un mundo distinto al técnico y autoritario, sino que los residuos radiactivos que producen masivamente hipotecan cualquier horizonte de futuro. Un mundo sin residuos radiactivos, con todo lo que ello conlleva, ha desaparecido de la lista de posibilidades. Y es aquí donde la producción nuclear alcanza dimensiones casi absolutas, determinando hoy todo lo que será posible (o no) por los siglos venideros. A la vista de la ingente producción de residuos industriales, desde plástico hasta metales pesados, la formidable espada de Damocles que la energía nuclear puso en manos del Estado y sus técnicos el siglo pasado, ya no tiene nada que envidiar a la de este podrido siglo XXI.

En todos los rincones del planeta, en medio de la ya innegable aceleración del cambio climático, al que la civilización industrial parece decidida a responder intensificando su guerra contra la vida, el legado tóxico de nuestro mundo se acumula día tras día. Su terrible carga ontológica ha hecho inútil cualquier intento de disolverlos en los océanos, de enterrarlos en las entrañas de la tierra, de convertirlos en humo que se disipa en el aire o de reciclarlos para alimentar a la insaciable bestia de la producción industrial. De hecho, los residuos están en el corazón mismo del proceso industrial, que al reducir la noción de pasado, presente y futuro a un presente insoportable y eternamente envenenado, se han convertido en un factor intrínseco a cualquier experiencia humana, actual y futura. A pesar de ello, y del lúcido pesimismo que podría inspirar esa conciencia, estas modernas Grandes Murallas, al igual que su predecesor histórico, no hacen imposibles o inútiles las incursiones hostiles en territorio enemigo, ni obsoletos los asaltos salvajes. En un mundo que se hunde, siguen expresando una libertad indómita y una conciencia sensible. Y eso es quizá lo que más importa hoy.

[Traduccion de Avis de tempetês, n. 55-56, 15 agosto 2022]

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Storm Warnings #55-56 (August 2022)

Posted on 2022/08/28 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 55-56 (August 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

Storm warnings, issue 55-56 (August 15, 2022) :

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“Spanning the four corners of the globe, in the midst of a now undeniable acceleration of climate change which industrial civilization seems determined to respond to by intensifying its war on life, piles of toxic legacies bequeathed by our world are accumulating day after day. Their terrible ontological burden has made futile any attempt to dissolve them in the oceans, to bury them in the bowels of the earth, to transform them
into smoke dissipated in the air or to recycle them in order to feed the insatiable beast of industrial production.
Waste is indeed the very heart of the industrial process.”

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El corte es posible

Posted on 2022/08/28 by avisbabel

Si el silencio da miedo, puede ser porque la ausencia de ruidos familiares tiene tendencia a devolvernos a nosotrxs mismxs. Avanzando en la oscuridad silenciosa, es común hablarse a unx mismx, chiflar un estribillo, pensar en voz alta para no encontrarse presa de la ansiedad. Esto no es tan fácil, incluso puede exigir un poco de ejercicio, pues nuestros cerebros son condicionados a identificar silencio con peligro y oscuridad con riesgo. Es la ansiedad provocada por el vacío, este sentimiento de encontrarse al borde del abismo y no tener la capacidad de desviar la mirada del precipicio abriéndose frente a nosotrxs. No obstante son también estos momentos en los que unx tiene tendencia a encontrarse con unx mismx, sin intermediario, ni intermediarixs, haciendo frente con la mente y las emociones.

Es difícil encontrar silencio y oscuridad en el mundo moderno. Los ruidos industriales nos acompañan en permanencia, los aparatos emiten sin cesar sus sonidos electrónicos y sino casi siempre hay alguien para llenar el vacío con su cháchara que es igualmente inaguantable y superficial. Hoy en día el miedo del vacío, la ansiedad del silencio, es sublimado entre otros por la conectividad permanente. Nunca solx, nunca en silencio, nunca frente al abismo. Y entonces nunca cara a cara con nosotrxs mismxs. Las llamadas y las voces del “interior”, todo este universo constituyendo la imaginación, la conciencia, la sensibilidad, la reflexión, el ensueño son vueltos mudos, ignorados, aplastados y remplazado por el bombardeo continuo de informaciones, de ruidos, de mensajes, de citas, de llamados al consumo, de recordatorios al orden. Así es que el mundo moderno esta exterminando al universo interno de lxs individuxs. Una vez destruido este ultimo, el ser humano se encuentra en las condiciones ideales para aceptar la esclavitud, incluso para abrazar la esclavitud aun sin disponer de capacidades de comprensión del estado en el cual se encuentra. Enredadxs en la telaraña.

Claro, todo esto no es nuevo. La historia de la opresión no empezó con el Smartphone. No hace mucho tiempo, el condicionamiento del espíritu humano se hizo sobre todo a través de una galaxia de campamentos/campos1. El campamento del trabajo que es la fábrica, el campamento de la educación que es la escuela, el campamento del control que es la autoridad familiar y los lugares del culto. Lo que no impide que a pesar de los hilos tejidos entre todas estas estructuras de dominación, quedara- relativamente- mucho vacío. Y este vacío, este intersticio, permitió alimentar la revuelta dentro de estos campamentos, contra estos campamentos y a la inversa. Lxs prisionerxs que se amotinan tienen, a pesar de todo, los ojos centrado en un horizonte, lo cual va más allá de los muros, no importa si el imaginario de este horizonte nos encanta o no. Aunque los diferentes campamentos aún no hayan desaparecido, la reestructuración capitalista y estatal, que se realiza específicamente a través de la implantación y extensión de tecnología, apunta a la eliminación de todo vacío, más allá de una explotación aumentada y un control aún más y más totalitario. La sed de conectividad permanente es al corazón de esta sinfonía mortífera. Una vez conectadx, unx siempre está un poco en el trabajo, en la familia, en el supermercado, en un concierto. Vinculadx por las correas electrónicas, unx esta expuestx sin cese a las órdenes del poder, rodeadx de advertencias a consumir, desnudx a los ojos del control. Nos encontramos enteramente a la disposición del capital, nos volvemos esclavxs llevando collares invisibles.

Alguien dijo que si la sociedad es una cárcel a cielo abierto, sus vigías deben ciertamente ser estas antenas y redes de comunicación que obstaculizan al cielo azul por todos lados con sus alambrados de fibra óptica y de electricidad. Para quienes desean frenar la reproducción de la dominación se vuelve esencial el lograr a mirar hacia otra dirección y diferentemente. No es que la comisaria de la esquina no deba atraer la atención de lxs enemigxs de la autoridad, o que la vitrina del banco no amerite ser destrozada, o que el tribunal no debería recibir visitas rabiosas, pero también es cierto que la dominación ha difundido sobre el territorio una vasta cantidad de estructuras relativamente pequeñas y poco protegidas, de las cuales mas y mas cosas dependen. Es en estas pequeñas cosas que se materializa la red invisible que nos encierra y que permite la reestructuración del Estado y el capital. Es ahí que pueden ser atacadas las arterias de la dominación que irrigan los campos de la explotación y de opresión. Es ahí que finalmente pueden ser reducidos al silencio las prótesis tecnológicas y sus zumbidos esclavizantes.

Pues el corte no solamente es necesario, es también posible. El 11 de febrero 2019 en Mérey-Vieilley en los alrededores de Besancon (región Doubs), una antena de retransmisión telefónica quedó fuera de servicio por un incendio devastador. El poste situado en pleno bosque de repente se abraso, consumido por las llamas, que de ninguna manera fueron accidentales. Un proveedor encargado de la gestión de éstos postes de telefonía móvil en la región incluso entregó esta revelación: “Este acto puso fuera de servicio nueve retransmisores más. Para dar una idea, esto representa varios decenas de miles de comunicaciones impactadas, todos los días.” Varios meses van a ser necesarios antes de restablecer completamente el funcionamiento de la antena. Y éste incendio nos recuerda que otras tres antenas fueron destruidas en los alrededores de la ciudad desde septiembre: en Chapelle-des-Buis, en Jourande, en Amagney. “Pirómanos, anarquistas, vengadorxs enfrentando a un operador?” balbucean comentaristas en búsqueda de hipótesis policiales, mientras que por otro lado lo que es seguro es que los nudos de ésta red están al alcance de la mano de cualquiera, y pueden ser estropeados con las estrellas como cómplices. Además de este caso, otras regiones dónde las antenas de telecomunicaciones son atacadas por lxs saboteadorxs: Cher (fueron cuatro episodios entre el 26 y 30 de septiembre 2018), en Alsace, en el Midi, en Gironde (Casseuil, el 24 de diciembre), en Gard (Bernis, el 23 de diciembre), en Vendée (Saint-Julien-des-Landes, el 11 diciembre), en Iles-de-France (Villeparisis, el 12 noviembre), en Isère (Grenoble, el 29 enero), para citar nada más que los ataques más recientes [el texto original fue publicado en febrero 2019]… Y se añaden los sabotajes hábiles a lo que conecta por vía subterránea éstas torres, centrales telefónicas y centros de computación: las fibras ópticas. A veces simplemente se logra cortando los cables, a veces incendiando los armarios de empalme, que contienen los retransmisores locales, que abastecen a un barrio, a una zona industrial o comercial… Se suman otros tipos de sabotajes de flujos de transporte (ferrocarriles y autopistas) y también de energía, como por ejemplo en Ile-de-France, la Drome, los Hautes-Alpes, el Hérault, el Ain, en el Norte… Pues la identificación de estos centros tecnológicos que son vitales para el funcionamiento de los Estados y del capital pasa también más allá de las fronteras ya que éstas prácticas destructivas, regularmente perturban los flujos, específicamente en Italia, Bélgica, Alemania y en Suiza.

Éstos son algunos ejemplos que sin duda lejos de ser exhaustivos, sucedieron en los últimos meses solamente, y muestran en todos los casos que un poco por todos lados, el corte es posible.

Es posible de manera autónoma, en tiempos de relativa tranquilidad, pero también en períodos más intensos, dónde la rabia muestra sus dientes, como es el caso en estos últimos tiempos en el Hexágono [Francia]. En el seno de la guerra social, toda ésta seguidilla de sabotajes dispersos y permanentes contra las infraestructuras de telecomunicaciones, de transporte y de energía pueden abrir un panorama aún más amplio para lxs que saben que están luchando en un territorio hostil y que aun así no bajan la cabeza.

Ya que nos encontramos detrás de las líneas del enemigo que nos rodea, entonces porque no actuar en consecuencia? Desorganizar las fuerzas adversarias, más que medirse a ellas en un enfrentamiento simétrico. Golpear y desaparecer, para reaparecer en otro lugar y golpear otra vez,

más que usar fuerzas particularmente destinadas a la represión. Lxs autoritarixs no pueden concebir el intento de revolución del mundo sin pensar en tomar los templos del poder y la gestión de las masas, con un tipo de simetría sesgada contra un enemigo bastante mejor equipado.

En cambio nosotrxs, lxs anarquistas ¿Podríamos desarrollar mejor la agilidad de los grupos pequeños, las capacidades de lxs individuxs, las relaciones interpersonales de reciprocidad, de confianza y conocimiento, hacia una difusión y dispersión de hostilidades, más que hacia la centralización y concentración? Tal manera de organizarnos nos parece más interesante para atacar a un enemigo cada vez más tentacular, pero que sigue dependiendo de la interconexión entre todos sus instrumentos y construcciones. Frente a la diseminación en el territorio de una gran cantidad de estas estructuras pequeñas de transmisión de ondas, energía o datos, nada es más adecuado que una constelación de grupos pequeños, actuando con total autonomía, capaces de coordinarse entre ellos cuando esto lo requiera, para ejercitarse de manera difusa, en la vieja y buena artimaña del sabotaje en contra las arterias del poder.

En el silencio que estos sabotajes imponen a las maquinas, en la perturbación que ellas infligen al “tiempo real” de la dominación, unx se encontrará frente a si mismx. Y esto es imprescindible y condicionante para practicar la libertad.

 

Notas

1Traducido de la palabra francés “camp”. Se refiere a (entre otros): un lugar para acumular mucha gente para una actividad especifica, para separarles de la sociedad, para disciplinarlas. por ejemplo “camp de réfugiés” campo de refugiados, “camp de travail” campo de trabajo, “camp de concentracion” campo de concentración. “camp” un lugar de estacionamiento o formación militar.

 

Traducido de Avis de tempetes, nr. 14, febrero 2019.

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Storm Warnings #54 (June 2022)

Posted on 2022/07/04 - 2022/07/04 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 54 (June 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

Storm warnings, issue 54 (June 15, 2022) :

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“That the armed forces intervene in the event of anything other than “natural” disasters is already the order of the day. That they are preparing themselves to deal with these interventions in an expanded capacity (whether we simply think of forced population displacements, wars over resources or explosions of revolt that the consequences of global warming can only exacerbate) is not new either. But the fact that we have now officially moved from a war of the economy to an economy of war is perhaps more so. One of the consequences is certainly to take note of it, by no longer looking with the same placid eye at all those small companies that swarm around us, participating nolens volens in the ongoing militarization. And to let them know what we think, each in our own way.”

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Hijos de Eichmann?

Posted on 2022/07/02 by avisbabel

Hemos de abandonar definitivamente la esperanza ingenuamente optimista del siglo XIX de que las «luces» de los seres humanos se desarrollarían a la par que la técnica. Quien aún hoy se complace en tal esperanza no es sólo un supersticioso, no es sólo una reliquia de antaño.

[…] Cuanto más trepidante es el ritmo del progreso, cuanto mayores son los efectos de nuestra producción y más compleja la estructura de nuestros aparatos, tanto más rápidamente pierden nuestra representación y nuestra percepción la fuerza de avanzar al mismo ritmo, cuanto más rápidamente se eclipsan nuestras «luces», más ciegos nos volvemos.

Gunther Anders, Nosotros, los hijos de Eichmann (1964)

Nuestra concepción de la historia ha sido fundamentalmente lineal. A pesar de monstruosas contradiccionescomo las de Auschwitz o Hiroshima, rápidamente reprimidas gracias a la inconsciencia mecánica, el mito del progreso se ha mantenido sólido durante las últimas décadas. Ha demostrado ser capaz de encajar golpes, de aceptar incluir algunos matices, y hoy parece que sigue estando plenamente armado para hacer frente al desencanto que inspira la catástrofe climática que se acelera ante nuestros ojos. “Ante nuestros ojos” posiblemente sea una mala expresión. Hace mucho tiempo que existe un “desfase” entre las acciones que realizamos dentro del aparato productivo y las consecuencias de estas acciones. No porque sean imperceptibles, demasiado pequeñas para ser captadas por nuestros sentidos y nuestra razón, sino porque se han vuelto (demasiado) inmensas.

La ola de calor –eufemismo que refleja la incapacidad del lenguaje y, por tanto, de nuestra capacidad para representar las cosas en el ámbito de lo sensato y lo racional– que actualmente recorre vastas zonas del planeta es tristemente indicativa de ello. No es posible para los humanos concebir la inmensidad de lo que está ocurriendo, terrible consecuencia de un siglo y medio de industrialización. Cientos de hectáreas de bosque arden en Siberia, pájaros deshidratados caen del cielo en el estado indio de Gujarat, seres humanos se asfixian y mueren a causa de un calor dantesco (nuevo récord de 51°C) que ha invadido la India y Pakistán, mientras que los torrentes de lodo desatados por el repentino deshielo de los glaciares y el desbordamiento de los lagos de las tierras altas arrasan todo lo que encuentran a su paso (incluidas ciudades y pueblos pakistaníes). Decenas de millones de personas hacinadas en ciudades de estos dos países ahora dependen de la llegada diaria de camiones cisterna con agua potable para sobrevivir.

Rompiendo todos los esquemas de linealidad tan apreciados en nuestra concepción histórica, el mundo del mañana ya está sucediendo hoy, un mundo en el que territorios enteros se vuelven inhabitables. Entonces nos aferramos desesperadamente a los modelos provisionales de ayer, rápidamente desmontados por la aceleración y el desbordamiento inesperado de tantos factores climáticos y sus retroalimentaciones, para tratar de imaginar ese famoso mundo de mañana. Durante los últimos meses se está volviendo a abrir paso, pero sigue revelando tan sólo una parte de su violencia mortal. Y de 1,2 grados, hasta los 2 o 3 grados de incremento, aumenta la probabilidad de que ese mundo del mañana se establezca de forma permanente e irremediable.

Al contrario de lo que se podría pensar, es llegando al final del sprint cuando alcanzamos nuestra máxima velocidad. Es cuando todo el cuerpo está preparado para realizar el mayor esfuerzo, para lograr la coordinación perfecta entre el movimiento muscular, la circulación sanguínea, los latidos del corazón y la respiración. Es el momento en el que “lo das todo”, justo antes de tener que aceptar que el cansancio se abrirá paso en tu cuerpo. La aceleración de la expansión de la civilización termoindustrial en los últimos años y la devastación planetaria que implica, parecen corresponder perfectamente con esta última fase del sprint. De hecho, parece que el organismo ya está fallando.

Por poner un ejemplo, el año pasado se batieron cuatro tristes récords. 2021 fue uno de los años más calurosos de los que se tiene constancia. La concentración de gases de efecto invernadero alcanzó un nuevo pico mundial en 2020, cuando la concentración de dióxido de carbono (CO2) alcanzó 413,2 partes por millón (ppm) en todo el mundo, lo que supone un 149% del nivel preindustrial. Como resultado, la temperatura del océano también alcanzó un récord el año pasado. Y aunque absorba cerca del 23% de las emisiones humanas anuales de CO2, ralentizando el aumento de su concentración en la atmósfera, el dióxido de carbono reacciona con el agua del mar y provoca la acidificación de los océanos, dañando de forma permanente las condiciones para la vida en las aguas. Además, el aumento del nivel del mar también ha alcanzado un nuevo récord, con una subida dos veces más rápida que a principios del siglo XXI. Por último, el agujero de la capa de ozono sobre la Antártida nunca había sido tan grande y profundo como en 2021.

En esta carrera hacia el abismo, a principios de este año se superaron dos nuevos hitos: el quinto y el sexto “límite planetario” – los procesos naturales que aseguran la perpetuación de la vida en condiciones de existencia “aceptables”.

A principios de año se superó el umbral crítico de “introducción de nuevas sustancias en la biosfera“: la contaminación química de nuestro entorno. Antes de este quinto desbordamiento, la civilización industrial ya había rebasado los umbralesdel cambio climático, la diversidad genética (causando la pérdida de biodiversidad), comprometido el uso de la tierra y alterado el ciclo del fósforo y el nitrógeno. Unos meses más tarde, le llegó el turno al “sexto límite”: el ciclo del agua dulce. El agua dulce es la savia de la biosfera y, por tanto, esencial para mantener unas condiciones ambientales y climáticas sostenibles. Se suele distinguir entre el “agua azul”, la que nuestro consumo todavía no ha puesto en peligro, que corresponde al agua proveniente de las precipitaciones y que acabará almacenada en lagos, embalses o en el océano. Por otra parte, está el “agua verde”, que también procede de las precipitaciones atmosféricas y es absorbida por las plantas. Es esta agua la que se ve afectada. “La interferencia humana en el agua verde ha alcanzado ya una escala tal que aumenta el riesgo de cambios no lineales a gran escala y pone en peligro la capacidad del sistema terrestre de permanecer en las condiciones del Holoceno“, señala un estudio al respecto. Esta “agua verde” es, entre otras cosas, crucial para la evaporación, y por tanto para regular la atmósfera, así como para la humedad del suelo, que impide que los bosques se sequen. Para ilustrar las consecuencias, podríamos evocar la imagen del Amazonas, que se acerca a un punto de inflexión en el que grandes zonas podrían pasar de ser bosques tropicales a territorios de tipo sabana. En el mismo mes de abril en que se superó este límite del ciclo del agua dulce verde, nos enteramos de que en la Amazonía ya ni siquiera esperan a que se seque la selva. La deforestación industrial ha batido todos los récords: en un mes se ha talado el equivalente a 1.400 campos de fútbol.

Y con el calor, el mundo se seca. En Francia, el termómetro sube y las reservas de agua bajan. En el Cuerno de África, “la peor sequía de la historia” amenaza con la inanición a 20 millones de personas. En Chile, los cortes de agua son ya habituales. Este año, “más de 2.300 millones de personas se enfrentarán al estrés hídrico. Desde el año 2000, el número y la duración de las sequías han aumentado un 29%“, según un informe sobre la desertización mundial. La sequía forma parte de un círculo vicioso: menos agua significa menos fotosíntesis por parte de las plantas y, por tanto, menos almacenamiento de CO2… con lo que los ecosistemas se convierten gradualmente en emisores de carbono, especialmente durante las sequías extremas. En los ecosistemas europeos, por ejemplo, la fotosíntesis se redujo un 30% durante la sequía del verano de 2003, lo que supuso una liberación neta de carbono estimada en 0,5 gigatoneladas. Y aunque la cantidad de lluvia que caiga en un año sea la misma, no se distribuirá de la misma manera que hoy: en términos generales serán lluvias intensas y largos períodos de sequía. “Si no se intensifican las medidas, se calcula que 700 millones de personas correrán el riesgo de verse desplazados por la sequía de aquí a 2030” según el informe. De aquí a 2050, las sequías podrían afectar a más de tres cuartas partes de la población mundial y hasta 216 millones de personas podrían verse obligadas a emigrar. Para entonces, entre 4.800 y 5.700 millones de personas vivirán en zonas donde el agua escasea al menos un mes al año, frente a los 3.600 millones actuales.

Las tormentas de arena que han azotado a Irak con especial dureza en los últimos dos meses son otro ejemplo de las consecuencias de la desertificación. En todo el mundo, el desierto avanza de manera inexorable. Sus nubes anaranjadas entierran ciudades. Hay falta de agua y el suelo se está degradando. En Irak, mientras miles de personas son hospitalizadas con problemas respiratorios debido al “diluvio de arena”, el lago Sawa ha desaparecido por completo y se espera que el país experimente “272 días de polvo” al año durante las próximas dos décadas. Se calcula que el 70% de la masa terrestre mundial ya ha sido transformada por las actividades humanas, y hasta el 40% está degradada, principalmente a causa de la deforestación, los monocultivos intensivos, la minería y la urbanización. A causa del polvo, cada año se pierden 12 millones de hectáreas, el equivalente a la superficie de Benín. Esta desertificación, la destrucción del suelo y, en general, las consecuencias del cambio climático están implicadas en casi la mitad de los conflictos armados actuales del mundo, si nos atenemos sólo a este aspecto .

* *
*

« Si ayer se verificó el monstruo, no es porque existiese “todavía” ayer, sino porqueexistía “ya” ayer; (…) porque los de ayer fueron precursores de nuestro monstruoso mundo de hoy y de mañana. “Porque es indiscutible que la maquinización del mundo –y por tanto nuestra co-maquinización–, ha progresado desde ayer de la forma más aterradora”.

Gunther Anders, Nosotros, los hijos de Eichmann (1964)

Estos esbozos altamente cuantificados de la agonía del planeta y de los seres vivos no pueden salvar la distancia entre nuestra percepción y nuestra representación. Un acontecimiento tan enorme, tan monstruoso, tan global como el cambio climático y la devastación de las condiciones de vida supera definitivamente nuestra capacidad de comprensión. ¿Sería demasiado arriesgado evocar un posible paralelismo, una posible continuidad incluso, entre los sistemas que integraron a millones de buenas personas como engranajes de una máquina industrial que gaseó y quemó a más de 6 millones de personas, o que empleó a otros millones de personas en el diseño y el uso efectivo de la bomba atómica… y los miles de millones atrapados hoy en los engranajes de un industrialismo forzado, cuyo horizonte sólo puede ser un holocausto de los vivos?

Se puede argumentar que tal continuidad no existe, no puede existir, dado que el exterminio de los judíos (y de otros) fue un proyecto deliberado ideado por los nazis; que la selección de Hiroshima y Nagasaki para perpetrar los asesinatos masivos atómicos fue una elección realizada según criterios políticos y científicos establecidos por un grupo muy concreto de generales, políticos y científicos. Podría decirse que no existe un plan deliberado para destruir los seres vivos (aunque los proyectos de “eugenesia climática” siempre han acompañado el auge del industrialismo para “torcer la cola de la naturaleza”, para “dominar las fuerzas de la naturaleza”, para corregir “defectos” o, más recientemente, para encaminar a la humanidad hacia un destino transhumanista o para domar el clima mediante la “geoingeniería”). No obstante, esto no impide que la intoxicación del mundo siga ahí. La exposición de los vivos a miles de explosiones nucleares es un hecho consumado. La sustitución de las plantas por quimeras modificadas genéticamente en nombre de la eficiencia económica está en curso.

Que actuemos con pleno conocimiento de causa, que sigamos anteponiendo un objetivo concreto (la expansión y la acumulación) a cualquier otra consideración, incluso cuando las consecuencias son tan nefastas que amenazan la propia continuidad de la vida en la Tierra; que por otro lado, de cara a la división del trabajo, no hacemos nada, o casi nada, para oponernos a la huida hacia delante de esta megamáquina exterminadora, al contrario, seguimos sin rechistar demasiado (salvo, quizás, para reclamar una mayor parte del botín de la depredación), realizando nuestro trabajo en refinerías, start-ups, plantas químicas, despachos, cuando, en definitiva, “nos negamos expresamente a saber lo que hacemos“, cuando “nos cegamos voluntariamente ante las consecuencias de nuestros actos, promovemos la ceguera de los demás y no la combatimos“, ¿no estamos ante una lógica eichmanniana?

Desde luego, no se puede admitir que Eichmann sólo hiciera su trabajo tal y como defendió en su juicio, y menos aún al principio. Para organizar los transportes a los campos de exterminio, debía tener el objetivo bien claro. No era “sólo” un engranaje –aunque, ante la monstruosidad, ese “sólo” suene inapropiado–. Pero es posible que más tarde se acostumbrara a su trabajo, que acabara absorbido por las tareas a realizar, y que en su mente el objetivo fuera sustituido por los cálculos, por el enfoque primordialmente técnico. Es en este sentido que podemos descubrir hoy, ante las consecuencias nefastas de nuestros actos, una actitud “digna” de un Eichmann manos a la obra.

Para evitar cualquier cosa que pueda parecerse a una especie de “culpa colectiva”, la gente ha llegado a intentar argumentar que bajo el régimen de Hitler, la gente no era necesariamente consciente del destino reservado a los judíos y al resto de deportados. Que el gaseo e incineración de seis millones de personas siguió siendo un secreto bien guardado del régimen de Hitler y del complejo industrial en que se conviertieron las SS encargadas del exterminio. Sin embargo, no había ningún alemán que no lo supiera, y si alguien realmente no lo sabía, era porque no quería saberlo – que viene a ser lo mismo. Ciertamente, no se puede decir que “todos los alemanes” tuvieran en mente el exterminio de judíos, gitanos, homosexuales y enfermos mentales, pero eso no impidió que una gran mayoría contribuyese. Ya sea directa o indirectamente. No tienen la misma responsabilidad que un Eichmann o un guardia de Dachau, no tienen la misma implicación pero formaban parte de la máquina. Aquí es donde vemos el efecto del carácter mecánico en el trabajo, y de hecho, es indiscutible que desde Auschwitz, el mundo se ha vuelto más similar a una máquina.

A pesar de estar al corriente, de que hayamos empezado a sentirlo en nuestras carnes, de que la gestión estatal de la información no nos impida saber que en India y Pakistán la gente se asfixia en los hornos en que se han convertido las ciudades a consecuencia del proyecto industrial, ¿acaso es de extrañar que a pesar de todo sigamos haciendo nuestro trabajo? Y no sólo eso, sino que además ¿tratemos como terroristas extremistas que merecen ser encerrados a quienes se oponen por la fuerza, a quienes intentan destruir lo que nos destruye, aquienes a pesar del pesimismo que engendra su lucidez crítica eligen arriesgarse antes que seguir el juego? Entonces, ¿incluso entre aquellos que pretenden ser lúcidos y que no marchan ciegamente al son del industrialismo triunfante, resulta demasiado fácil entregarse al falso sucedáneo en lugar de a la acción real, el consuelo moral de un ligero distanciamiento del frenesí consumista en lugar del esfuerzo y el riesgo que supone un intento real de cortocircuitarlo, o bien la resignación cínica que acaba regodeándose en la depreciación, incluso el desprecio, de quienes todavía atacan y se atreven a enamorarse de la libertad en un mundo encadenado?

Mientras tanto la situación sigue empeorando. El cambio climático ya no está a las puertas, ha entrado con paso firme en la casa de la civilización industrial. Las hambrunas y sequías, las olas de calor y las tormentas devastadoras, la deforestación y la desertificación, el deshielo de los glaciares y la extinción masiva de especies azotan un planeta donde los humanos siguen creyendo que tras las adversidades les espera un futuro mejor. La realidad está ahí para desmentir esta creencia definitivamente. Tener esto en cuenta y actuar en consecuencia es contribuir a romper el abrazo mortal de la lógica eichmanniana.

Traducido de Avis de tempêtes, n. 54, 15 junio 2022. Traduccion recibida por mail.

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Economía de guerra

Posted on 2022/07/02 by avisbabel

En Bihar, uno de los estados más pobres y poblados de la India, la gota que colmó el vaso fue el miércoles 15 de junio, antes de extenderse a otras regiones, cuando miles de manifestantes comenzaron a atacar los intereses del Estado en una docena de ciudades. En Nawada, se prendió fuego a una oficina del partido gobernante (el ultranacionalista BJP), en Rewari se bloqueó la crucial autopista que une el estado de Rajastán con Nueva Delhi, en Gwalior se saqueó la estación de tren y se dañaron los trenes, en Secunderabad, Ballia, Arrah, En Buxar y Lakhisarai cientos de manifestantes prendieron fuego a vagones de tren, en Palwal atacaron la residencia del subcomisario de la ciudad y quemaron cinco coches de policía, en Bettiah atacaron la casa del viceministro (BJP) del estado y en Aligarh incendiaron el coche de un dirigente local del BJP. En total, en sólo tres días, además de que trenes enteros fueron consumidos por la ira y otros 300 vieron cancelada su salida, cientos de manifestantes fueron detenidos y decenas murieron o resultaron heridos por las balas de la policía, mientras que Internet fue suspendido por el gobierno en 12 distritos de Bihar.

Pero, ¿qué tiene el Estado indio que ha provocado toda esta ira? ¿Fue su inacción ante el calentamiento global, que provocó inusuales olas de calor de hasta 50ºC de marzo a mayo, una pérdida del 10 al 35% en el rendimiento de las cosechas en este granero de Asia, o las lluvias monzónicas más intensas en dos décadas que inundaron y arrasaron dos millones de hogares en 4.000 pueblos de la región de Assam (con decenas de muertos) a mediados de junio? No, lo que inflamó las mentes de los más pobres hasta el punto de llevarles a reducir a cenizas muchas estructuras estatales fue nada menos que el anuncio del vasto plan de reestructuración del ejército del país, que vino a destrozar sus sueños de una futura carrera militar que les asegurara un mejor empleo, matrimonio, casa y pensión.

Después de China, con sus 2,3 millones de soldados, la India tiene el segundo ejército más grande del mundo -lo que también lo convierte en el segundo creador de empleo del país- y ha decidido, al igual que su poderoso competidor, reducir su personal. En concreto, a los 46.000 jóvenes contratados este año en el ejército indio sólo se les ofrecerá un contrato de cuatro años, tras el cual sólo el 25% se mantendrá durante otros 15 años con los beneficios de los asesinos de Estado. Esto ha desencadenado una ola de ira entre los jóvenes desempleados de las regiones más pobres.

Más allá de la decepción de algunos de sus ciudadanos que habían depositado su dignidad en el más sangriento de los patriotismos, el Estado indio se limita a seguir la carrera armamentística mundial, recortando su reducido personal para reinvertir el dinero en una mayor tecnificación. En 2021, por ejemplo, se han gastado más de 2.000.000 millones de dólares en gastos militares en el mundo, mientras que en el momento álgido de la Guerra Fría, en los años 80, este gasto se acercaba a los 1.500.000 millones, y los tres primeros puestos los ocupan actualmente Estados Unidos (800.000 millones), China (293.000 millones)… e India (77.000 millones). Este ritmo infernal es compartido por todos los países del viejo continente, cuyo símbolo es sin duda la rica Alemania, que ha pasado de su hipócrita “Nie wieder Krieg” posterior a 1945 a una revisión de su Constitución votada casi por unanimidad el pasado 3 de junio, con el fin de grabar en piedra la creación de un fondo especial de 100.000 millones de euros destinado a rearmar el país. Dentro de la OTAN, estas cantidades forman parte del viejo objetivo de alcanzar el 2% del PIB dedicado al gasto militar, lo que ha llevado a Italia a aumentar su presupuesto de 25 a 38.000 millones de euros anuales para 2028, o a la pequeña Bélgica de 5 a 10.000 millones para 2035. Después de los miles de millones vertidos en Europa para “reactivar la economía” post-confinamiento, he aquí como se utiliza la guerra en Ucrania como pretexto para acelerar sus planes de inversión masiva en la industria bélica.

El 13 de junio, en la inauguración de la gran feria de armamento Eurosatory, celebrada junto a París, el miserable encorbatado al frente del país llegó a hacer un anuncio sensacional acorde con los tiempos: Francia había entrado en una “economía de guerra“. Pero, ¿qué significa esto, aparte de justificar, como en otros lugares, el enésimo aumento del presupuesto militar (de 41 a 50 mil millones de euros anuales para 2025) y el almacenamiento de municiones, proyectiles y otros misiles que la guerra en Ucrania está agotando demasiado rápido? Más allá de los asombrosos gastos, los ejércitos modernos se enfrentan a un doble problema: Por un lado, el aumento de las inversiones en investigación tecnológica, cuyas sumas nacionales no garantizan necesariamente resultados convincentes en la competencia internacional en este campo, y por otro, el tiempo necesario para fabricar equipos cada vez más sofisticados, que se alarga aún más por carencias como la que afecta al sector de los semiconductores o las tensiones en torno a ciertas materias primas (¡el tiempo de producción de un solo cañón de largo alcance Caesar, la joya de la corona de la industria militar francesa, ha pasado de nueve meses a dos años! ).

Es aquí donde la cuestión se vuelve ciertamente mucho más interesante para aquellos que no pretenden resignarse a esta nueva fase de aumento del poder asesino de los Estados, que obviamente no sólo concierne a las intervenciones armadas externas, sino también a todos los sujetos encerrados dentro de sus fronteras. Porque ¿cómo imaginar que en un momento en que las consecuencias climáticas sobre las poblaciones se aceleran a gran velocidad, la cuestión de su gestión militarizada no esté en el orden del día? En este sentido, es bastante significativo que el Primer Ministro belga haya puesto recientemente como ejemplo las graves inundaciones que afectaron a Valonia en 2021… para exigir un aumento del presupuesto militar. Más ampliamente, para resolver los problemas de temporalidad y criticidad del complejo militar-industrial que el maná financiero no puede resolver por sí solo, la “economía de guerra” que se acaba de decretar significa una drástica integración con fines militares de todos los sectores civiles que se consideren necesarios.

Siguiendo el ejemplo del Programa del Sistema de Prioridades y Asignaciones de Defensa (DPAS) -que autoriza al Estado norteamericano a requisar recursos humanos y materiales con fines de seguridad nacional-, la Direction Générale de l’Armement (DGA) francesa está en proceso de identificar todas las empresas industriales y tecnológicas vitales que aún no son de doble uso, es decir, que no trabajan tanto para el sector civil como para el militar. En el marco de la actual revisión de la ley de programación militar 2019-2025, el ejemplo aportado por los asesinos con galones es la posibilidad de una requisición estatal de pymes del sector de la mecánica de precisión, con el fin de ponerlas temporalmente a disposición de un fabricante de armas para que éste pueda acelerar sus ritmos y su ciclo de producción. El segundo ejemplo se refiere al suministro de materias primas críticas (titanio, aceros especiales, metales raros y ciertos componentes electrónicos), de las que el Estado desea asignar una parte prioritaria a su industria de guerra y a sus subcontratistas, en particular requisando las existencias latentes aquí y en las empresas. Y, de hecho, en este caso, el gobierno no sólo se limita a hablar de boquilla, sino que planea dirigir una parte más sustancial de la economía hacia sus objetivos belicistas.

Hoy, el viejo eslogan antimilitarista “la guerra empieza aquí” parece más pertinente que nunca, siempre que uno quiera tomárselo en serio y abrir mínimamente los ojos, para dirigirlos hacia los colaboradores con las manos manchadas de sangre que se multiplican bajo apariencias a veces inocuas.

Por ejemplo, algunos de los dominios tecnológicos más recientes se sitúan inmediatamente bajo el signo de la doble aplicación civil y militar, en particular en todo lo que se refiere a la inteligencia artificial, la simulación, la robótica o la realidad virtual, como atestiguan las 67 start-ups presentes en el salón de Eurosatory, como Conscious Labs (París-15), especializada en neurotecnologías, o Cilas (Orleans), con su láser antidrones.

Otras conforman la red de miles de pequeñas empresas de doble uso más tradicionales, que ya suministran a los grandes grupos armamentísticos (Thales, Dassault, Aubert & Duval, Arquus, Nexter), sabiendo que “Dassault tiene cinco mil proveedores para su Rafale” y que “basta con que uno se atasque para que todo se paralice“, como se recordaba recientemente un ingeniero en prensa especializada. Y para los que les falte imaginación en la materia, desde 2019 existe incluso una etiqueta “Utilizada por las Fuerzas Armadas Francesas” (UAF) otorgada por el ministerio del mismo nombre, la número 300 de las cuales fue a parar a la empresa Musthane (Willems, en el norte de Francia) por sus placas antideslizamiento para vehículos blindados, y una de las primeras fue concedida a Cailab (Rennes), que diseña componentes ópticos para telecomunicaciones.

Que las fuerzas armadas intervengan en caso de cualquier catástrofes excepto “naturales” ya es un hecho. Que se preparen para hacerles frente de manera creciente (ya sea pensando simplemente en desplazamientos forzados de población, guerras por los recursos o estallidos de revuelta que las consecuencias del calentamiento global sólo pueden exacerbar) tampoco es una novedad. Pero el hecho de que hayamos pasado oficialmente de una guerra de la economía a una economía de la guerra quizás sea más novedoso. Una de las consecuencias, sin duda, tomad nota de ello, es el dejar de ver con los mismos ojos a todas esas pequeñas empresas que pululan a nuestro alrededor, participando nolens volens* en la militarización en curso. Y para que sepan lo que pensamos, cada uno a su manera.

Traducido de Avis de tempêtes, n. 54, 15 junio 2022. Traduccion recibida por mail.

[NdT]* Volens nolens: quiera o no quiera

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