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Author: avisbabel

In ogni azimut

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Cosa c’è di più conturbante del riflesso di un cielo carico di uragani su un mare mosso? Gli occhi spalancati. Di una foresta autunnale con mille sfumature illuminate dalle fiamme che danzano sulla pala eolica industriale? Imperturbabili. Della cura impiegata nel far germogliare una collera implacabile contro la macabra normalità di un mattatoio industriale? Con determinazione. Delle ombre che si aprono un varco nella notte dei corpi addormentati, lasciandosi alle spalle le ceneri della reclusione? Senza esitazione. Di una montagna lacerata che si tinge coi colori di ostinati sabotaggi piuttosto che del minerale che le viene estratto? Avanzando. Di un campo sportivo per cravatte ed uniformi rivoltato e trasformato nell’area di un altro gioco per contrastare le frontiere? Con immaginazione. Del sordo grido del vetro che si crepa senza il mormorio del minimo rimpianto per le famiglie delle vetrine? Furtivamente. Del covo troppo banale da cui si dipanano i lacci tecnologici che finisce per essere scovato e carbonizzato? Con attenzione. Della diffusione di attacchi distruttivi contro mille ingranaggi che abbiamo proprio sotto il naso? In ogni azimut.
È successo sul passo di Salettes e sul passo del Monginevro, a Hotonnes, a Parigi ed a Nantes, a Besançon ed a Kouaoua, a Saint-Martin-d’Hères ed a Fresnes, a Lione ed a Limoges, da ovest ad est di un territorio considerato esagono d’orgoglio pur essendo, come tutti gli altri, ricettacolo della nostra oppressione quotidiana. È successo contro un impianto eolico e un campo da golf, contro un mattatoio e diversi veicoli di costruttori di galere, contro vari veicoli di imprese del nucleare o della propaganda di Stato, contro il nastro trasportatore di una miniera di nickel, contro l’intero magazzino di un gestore della reclusione e contro automobili di secondini, contro una multinazionale dell’avvelenamento e contro gli uffici di un gestore di fibre ottiche. Ecco alcune tracce, rivendicate o meno, di un mese ordinario trascorso sotto gli auspici di una conflittualità permanente, tanto varia nei suoi obiettivi quanto possono esserlo i tentacoli del dominio.
Tracce di una dimensione qualitativa sempre presente nella guerra sociale, senza linee comuni, calcoli politici e composizione cittadinista, come altrettanti punti di riferimento che illuminano con la loro tonalità particolare un presente grigio come la pacificazione. Attraverso un’autorganizzazione portata verso l’attacco, su basi e con temporalità proprie, dove ogni individuo con le sue singole associazioni sia al tempo stesso centro e periferia, in costellazioni senza inizio né fine. Ecco quindi alcune tracce di atti che sono scritte nel presente, in tutto ciò che abbiamo attorno, dove il domani non assomiglia affatto a ieri quando si agisce direttamente in prima persona contro ciò che ci distrugge. Quando, almeno per un momento, quello in cui si riprende la propria vita in mano realizzando l’azione progettata, si spezza il tran tran di una riproduzione sociale che ci vorrebbe tutti sottomessi o rassegnati. Ad ogni modo, è così che un vento leggero è giunto a portare questi molteplici echi di rabbia e rivolta, gonfiando magari qua e là con la sua aria tonificante i polmoni di altri individui. Alimentando forse col suo respiro altri cuori che battono per la distruzione di questo mondo d’autorità e d’oppressione, attraverso un negativo che chiede solo d’essere nutrito, sviluppato ed approfondito da ciascuno.
È una vera fortuna che una parte dei sovversivi ed il potere non parlino la stessa lingua, che quest’ultimo non sia sempre in grado di comprendere il significato degli atti di antagonismo, né di afferrarne la logica o decifrarne la modalità. Almeno non finché ci saranno individui capaci di far crescere il proprio mondo da protagonisti, qualunque cosa si possa pensare di questo. Spingendo il ragionamento un poco oltre, è facile rendersi conto che il potere e i suoi difensori non cercano in ogni modo di capire realmente l’altra parte della barricata, ma soltanto di circoscriverla per meglio isolarla, di reprimerla e, se possibile, annientarla. Naturalmente qualora esca dagli ambiti del dialogo e della politica, quando non c’è più una possibile via di comunicazione comune, ma solo la stessa irriducibile alterità che c’è tra autorità e libertà. Certo, è vero che si guarda pur sempre coi propri occhi, con la propria prospettiva, una prospettiva per parte nostra continuamente da elaborare, progettare e sperimentare, e che il modo in cui lo facciamo condiziona già in parte il nostro agire. Da qui l’importanza di coltivare quella piccola cosa così preziosa che si chiama singolarità, proprio allo scopo di poter guardare altrove e altrimenti, una singolarità che non ha nulla a che vedere con la congerie di cervelli e cuori diversamente identici che questo mondo ci impone. Se da parte nostra è uno sforzo incessante per tentare di scrollarci di dosso ciò che ci condiziona giorno dopo giorno (pensiamo ad esempio al lavoro o alla  tecnologia), dato che tutto è stato costruito e pensato contro di noi (pensiamo al nostro ambiente o alla nostra sensibilità), dall’altra parte c’è chi incontra una difficoltà di tutt’altro genere: cercare di cogliere una dimensione ostile che gli sfugge. Un lavoro condotto in particolare da eserciti di specialisti, accademici, psichiatri, giornalisti e criminologi, al fine di perfezionare le tecniche del potere per smistare e far rientrare nei ranghi coloro che appaiono recuperabili e reintegrabili. Quanto agli altri, sono da eliminare a freddo o a caldo.
Per ciò che concerne le azioni, le cose non vanno diversamente, come si è potuto osservare di recente. E la presenza di un comunicato di rivendicazione non cambia nulla. Lasciamo perdere per un attimo il dibattito tra chi la considera indispensabile per chiarire la prospettiva, pur correndo il rischio di spingere gli altri o all’approvazione o al silenzio per non aiutare la repressione, e chi ritiene che un’azione possa continuare ad esistere al di là delle intenzioni specifiche dei suoi autori — appartenendo anche direttamente a tutti coloro che la condividono — che semplicemente non hanno nulla da aggiungere ad essa oltre ai danni provocati al nemico. Giacché, quando lo Stato e i suoi tirapiedi vogliono vedere il lupo, lo trovano a colpo sicuro, a costo di inforcare i loro grandi occhiali. In seguito all’attacco contro il mattatoio di Hotonnes (Ain), la proprietaria — indispettita per essere stata alleggerita del peso del suo lucrativo compito — si è dilungata da grrrande esperta sulla stampa giudicando il comunicato non credibile, tacciando persino gli anonimi Lune Blanche/Meute noire (Luna bianca/Branco nero) d’essere dei recuperatori opportunisti, in quanto il loro testo era troppo così e non abbastanza colà. Se qualcuno non vuole accordare credibilità a un comunicato non lo farà comunque (e viceversa), un po’ come il giustiziere di Black Bloc dopo il contro-vertice di Genova nel 2001 e sfortunato candidato alle elezioni comunali, Serge Quadruppani, che in un recente libro sul «mondo delle Grandi Opere» non fa che ripetere a pappagallo che i primi attacchi del 1996-97 contro il TAV in Val Susa (alcuni dei quali rivendicati) erano sicuramente frutto di una collaborazione tra l’estrema destra ed i servizi segreti! Miseria del complottismo e della dietrologia. Invece, in seguito all’attacco contro Eiffage a Saint-Martin-d’Hères (Isère), si sono distinti soprattutto alcuni «anticapitalisti», «anarco-libertari» ed altre figure colorite, e ciò malgrado un comunicato diffuso il giorno dopo. In questa occasione, il potere si è adoperato soprattutto a collegare questo attacco ad altri, rivendicati o anche no, recenti o passati, vicini o lontani, in funzione di criteri tutti suoi (geografici, tematici), cosa che ha fatto cancellandone o distorcendone il contenuto. Nello stesso modo in cui può deliberatamente passare sotto silenzio diversi attacchi di ogni tipo, che siano o meno seguiti da scritti, a seconda dei suoi imperativi di gestione dell’ordine sociale e della pace dei mercati.

Beninteso, il riflesso rimandatoci dal potere non è la cosa più interessante al mondo per chi non è intenzionato né a rimirarsi al suo interno né a dialogare con esso, ma a distruggerlo senza mediazioni. Anche perché gli specchi deformanti del potere sono solo una prigione in più per cercare di costringerci a guardare con i suoi occhi, a pensare con le sue categorie, a sognare con il suo progetto. Ciò non fa che sottolineare ancor più la necessità di far vivere fin d’ora, nelle lotte come negli attacchi, nelle discussioni come nelle solidarietà, attraverso la nostra etica ed il nostro rifiuto, un mondo che sia nostro, che ci sia proprio. Di fronte agli specchi deformanti del potere come di fronte alla loro simmetria riflessa dagli autoritari (contro-cultura di lunedì mattina [corsivo dei traduttori] o contro-potere dell’efficienza politica), imbevuta di dialogo conflittuale e di compromessi tattici con lo Stato, questo «nostro» non può essere che «altro». Un altro che non si basi né su una composizione con l’esistente né sulla massa. Un nostro che non sia unico come un partito o triste come un sindacato, ma al contrario libero e selvaggio come una molteplicità di individualità in guerra col potere.
In questo senso, la sperimentazione e lo sviluppo di un metodo di lotta che propone una diffusione degli attacchi piuttosto che la loro concentrazione, a partire da piccoli gruppi mobili e autonomi che compiono atti più distruttivi che simbolici, non sono le gioie meno importanti portate da questo venticello autunnale. All’interno di questa eterogeneità, la questione della progettualità — dei progetti — rimane ovviamente aperta per molti, ma non si può evitare che emerga ancora una volta. In un mondo in guerra con il vivente, dove lo spossessamento generalizzato avanza ogni giorno a suon di tecnologia e di strisciante abbrutimento, dove i diversi aspetti del dominio attraversano un periodo di ristrutturazione che li rende anche meno stabili, gli attacchi diffusi costituiscono in effetti un elemento indispensabile per ogni progettualità sovversiva, ma non bastano a soddisfarla.
Quindi, salvo a considerare che questi atti bastino a se stessi come scintille o segnali nella notte, si potrebbe forse interrogarsi su come andare ancora più lontano. Nel contesto di un’ipotesi insurrezionale che ricorre ad atti diffusi, come possono questi ultimi contribuire ad una rottura che sia in grado di cominciare veramente a sconvolgere l’esistente? O ancora, più in generale, offensive il cui obiettivo sia di essere più incisive come possono esigere di andare oltre le ristrette possibilità di un gruppo autonomo? A  partire da tutti questi spazi informali e queste costellazioni la cui materialità degli attacchi non è che un aspetto, come immaginare delle progettualità che si basano solo sulla mera moltiplicazione di gruppi o di sforzi, ad esempio attraverso proposte, informazioni, coordinamenti o rifrazioni dirette e indirette? Ecco alcune vecchie questioni di attualità che sono già state poste diverse volte dagli anni 70 (per non risalire alla fine del XIX secolo) sia dai gruppi autonomi e di affinità dell’epoca che dalle diverse costellazioni anarchiche, e che continuano ancora ad agitare i cuori e le braccia di tanti compagni nel mondo. Questioni che troveranno sicuramente delle risposte, continuando ad alimentare i vasi comunicanti tra idee ed azioni.

 


«Astr.: Azimut ha origine dalla parola (as-)samt (“la via dritta”) in lingua araba, divenuta acimut in spagnolo (fine del XIII secolo), poi azimuth in francese (1544, 1751). Da allora è diventata sinonimo di “direzione”. Una “arma a tous azimut” è un’arma che spara in tutte le direzioni e una “difesa a tous azimut” può intervenire contro gli attacchi provenienti da tutte le parti»
Un qualsiasi dizionario


 

Di fronte a noi non abbiamo solo il potere ed i suoi sbirri, che operano attraverso un doppio meccanismo di partecipazione/integrazione e di repressione/esclusione, accompagnati dai falsi critici che intendono sostituirlo (dal basso o dall’alto). Abbiamo anche un’intera corte di cittadinisti indignati che intendono modificare alcuni aspetti del potere mantenendone la sostanza, di democratici radicali che intendono criticarlo purché la violenza rimanga collettiva e strategica, e di preti che sostengono la rivoluzione indietreggiando ogni volta davanti agli atti di rottura che essa richiede, soprattutto quando avvengono qui ed ora piuttosto che in un passato lontano e in un esotico altrove. E poi altrettanti avversari che non esiteranno a condannare, soffocare o recuperare tali atti, quando già non lo fanno.

Affinché gli attacchi senza mediazione continuino a diffondersi per non esaurirsi in un fuoco di paglia soffocato troppo in fretta, oltre a «moltiplicarsi cosicché le nostre paludi restino impenetrabili ad ogni cartografia giornalistica, inestricabili per qualsiasi ipotesi poliziesca», come proponeva un testo recente, ci pare altrettanto indispensabile dar loro più ossigeno. Da un lato, difendendo ciascuno a modo proprio quelli che condividiamo di fronte ai silenzi imbarazzati del potere e di alcuni suoi oppositori. Dall’altro, affinando continuamente i metodi per renderli sempre più taglienti, aprendo spazi di dibattito che possano arricchire le prospettive di ciascuno senza schiacciare le diversità.

Insomma, di fronte a tutti i becchini dell’azione diretta anti-autoritaria, minoritaria o individuale, è più che mai il momento di prolungare gli atti in ogni azimut contemporaneamente, ma anche di approfondirne le potenzialità.

 

[Avis de tempêtes, n. 10, 15 ottobre 2018]
Tradotto da Finimondo.
Posted in Italiano

Rompere il cerchio

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
La reclusione non appare paradossalmente in nessun luogo, relegata in un altrove invisibile tra la folla dei cuori addomesticati e dei cervelli anestetizzati, eppure è presente dappertutto. Nel senso di asfissia che afferra la gola ad ogni passo falso, come nella lunghissima catena di obblighi e sanzioni che si trascina come una palla al piede. È dovunque vengano imposte le regole del gioco (e le leggi sono sempre regole imposte dall’autorità, cioè da coloro che esercitano il potere nella società) a scapito della libera associazione tra individui e della loro reciprocità.
La reclusione è nella cella famigliare, con il suo aiuto reciproco forzato per affrontare la sopravvivenza e la riproduzione elementare di ruoli sociali indispensabili all’ordine in atto. È nella scuola, quella caserma posta sotto il segno dell’obbedienza e della formazione di schiavi-cittadini adeguati ai bisogni del dominio, che ruba un tempo infinito a tutta la gioventù. È nel lavoro salariato, la migliore delle polizie, che costringe gli esseri umani a vendersi al miglior offerente, scambiando una vita di sottomissione a beneficio di pochi con merci adulterate quanto effimere. È nella religione che sfrutta la sofferenza nel nome di un’autorità superiore, forte di leggi divine piuttosto terrene, che presuppongono come quelle dello Stato che gli individui non siano in grado, peggio, non debbano avere in nessun caso la libertà di decidere da soli della propria vita, né di come rapportarsi con gli altri. È nelle catene tecnologiche e negli schermi di ogni tipo, che ci privano via via non solo di relazioni dirette, ma anche della capacità autonoma di costruire il nostro mondo interiore in cui pensare, sognare, immaginare, poetare, progettare e distruggere tutto ciò. È nell’architettura totalitaria, diretta al controllo e alla sorveglianza, affinché i flussi di merci (umane o meno) fluiscano senza troppi ostacoli. È nelle camicie di forza chimiche, distillate con o senza camice bianco, per farci continuare a sopportare l’oppressione quotidiana senza ribaltare il tavolo troppo bruscamente. È dovunque uomini e donne, per abitudine, rassegnazione, servitù volontaria o interesse, siano disposti a difendere i privilegi dei ricchi e il potere. È nello stesso espropriarci della possibilità di unirci e accordarci liberamente in tutti gli aspetti della vita, tentando nel contempo di privarci della possibilità di affrontare i conflitti senza l’intervento di una polizia e di una giustizia.
E naturalmente, la reclusione è anche nella prigione cinta da mura, sotto forma di ospedale psichiatrico o di campo detentivo per indesiderabili, di centri di reinserimento per minori o di sepolcri per lunghe condanne. È lì, a prolungare vieppiù la sua vendetta lontano dalle sue garitte, con la spada di Damocle della condizionale, del controllo, del braccialetto elettronico, dell’obbligo di lavoro o di assistenza, dei regimi di semi-libertà… raffinatezze per cercare di tenerci in balìa di sbirri, psichiatri, assistenti sociali, padroni e giudici. Come prede da sottomettere per molti anni ancora prima e dopo essere passati da un tribunale o in un carcere.

«Se consideriamo le prigioni come roccaforti ben isolate, rimarranno intoccabili. Ma la prigione è anche l’architetto che la progetta, la società che la costruisce, la legge che la stabilisce, il tribunale che ti ci manda, il poliziotto che ti ci porta, il guardiano che ti sorveglia, il prete che sugge la tua sofferenza, lo psicologo che spia la tua mente. Essa è tutto questo e altro ancora. È l’impresa che sfrutta il lavoro dei detenuti, quella che fornisce il cibo o gli apparati di controllo; è l’insegnante che la giustifica, il riformatore che la vuole più “umana”, il giornalista che ne tace le finalità e le condizioni reali, è il cittadino che la osserva rassicurato o che distoglie lo sguardo»
Agli ammutinati del carcere sociale, maggio 2000

Il 12 settembre, lo Stato francese ha finalmente annunciato lo schema del suo nuovo piano carcerario, dividendo quello inizialmente previsto nel 2016 di 33 nuove prigioni e i 15.000 posti aggiunti, in 7000 posti entro il 2022 e 8000 in seguito. L’elenco dei siti scelti in tutto il paese dovrebbe seguire a breve, con tutte le possibilità offerte da questo tipo di costruzioni agli ammutinati del carcere sociale.
Al di là di questa fase preparatoria, tuttavia, ci sembra che un ulteriore aspetto, lungi dall’essere trascurabile, debba attirare la nostra attenzione. Finché non saremo in grado di percepire la prigione, non come un problema specialistico legato al sostegno dei prigionieri, ma piuttosto come il riflesso della società nel suo insieme di spaventare e reprimere i refrattari (alla proprietà, alle frontiere, all’ordine o al lavoro salariato) in particolare e i ribelli in generale, resteremo incapaci di cogliere le mutazioni indotte da questo progetto carcerario, sia in termini di cambiamenti di mentalità promossi all’interno che di nuovi possibili angoli di attacco dall’esterno. Nello stesso modo in cui la ristrutturazione del mercato del lavoro e la tecnologia hanno trasformato le antiche forme di sfruttamento, aumentando la flessibilità, l’auto-imprenditorialità e l’autocontrollo, questo progetto di gestione carceraria vuole effettivamente accrescere il processo di differenziazione tra la maggior parte dei prigionieri, basata non più unicamente sulla pena o sul reato iniziale, ma su una maggiore partecipazione e collaborazione alla propria detenzione. Un po’ come se tutto il sistema di reclusione, dipendenza, arbitrarietà e tortura non fosse altro che una vasta condizione contrattuale. Una condizione in cui ci viene ordinato di diventare sempre più “responsabili” di una pena da scontare e cogestire con l’amministrazione, essendo paradossalmente frammentata all’interno di una struttura di massa, diventando il secondino degli altri in nome dell’evoluzione del proprio percorso carcerario. Va da sé che un tale processo di totalitarismo democratico, in cui partecipare significa dividere, non potrà che accompagnarsi ad un ulteriore giro di vite contro la minoranza di ribelli che non accetterà di collaborare.
In pratica, si giunge così da un lato di fronte ad uno sviluppo di «moduli di rispetto che si ispirano ai moduli “respecto” diffusi in Spagna, con la responsabilizzazione come filo conduttore: i prigionieri firmano una carta d’impegno basata sul rispetto del personale, dei co-detenuti, dell’igiene, delle regole di vita in collettività. In cambio, possono godere di una certa libertà di movimento [muniti di tesserini] e di un maggiore accesso ad alcune attività». Dall’altro lato, si verifica un’estensione delle cosiddette «strutture stagne» (riservate per il momento ai “terroristi” e ai “radicalizzati”), che sono molto più che reparti di isolamento in seno alla detenzione, ma costituiscono una vera e propria prigione nella prigione (sul modello italiano o tedesco delle carceri speciali degli anni 70 o degli ex-FIES spagnoli), destinati a lungo termine a tutti gli irrecuperabili che rifiutano di sottomettersi o rinnegarsi, a coloro che non passerebbero né ai test di valutazione regolari né alle osservazioni dei servizi di intelligence penitenziaria. Se a questo aggiungiamo, all’altra estremità della catena, la costruzione di due carceri “sperimentali” interamente dedicate al lavoro d’impresa (dalla fabbrica-prigione alla prigione-fabbrica) e l’aumento di misure esterne alternative, del braccialetto elettronico e della semi-libertà (con obblighi di tirocinio, formazione e lavoro) per le innumerevoli condanne di meno di un anno, possiamo iniziare ad avere un quadro completo.
Con il rafforzamento delle condizioni di detenzione sotto forma di percorsi, statuti, interessi, e le più disparate carote per costringere a cogestire la propria condanna con le autorità, non sono solo le proposte di lotta di tipo sindacale a integrare più che mai nel processo di reclusione, ma sono anche i margini tra piena cooperazione e messa alla prova che tendono a ridursi per ciascun individuo, ancor più con la collaborazione di altri detenuti riluttanti a veder crollare tanti sforzi pagati a caro prezzo di rispetto per «le regole di vita in collettività». Su immagine dell’esterno, insomma, dove la figura dell’operaio-massa è stata liquidata da tempo a favore di una competizione generalizzata.
Di fronte a questo progetto di potere, rimane ancora un piccolo elemento che i loro calcoli miserabili non potranno mai controllare completamente, e che può rompere in qualsiasi momento il circolo vizioso della collaborazione: la sete di libertà. Da un lato attraverso la ribellione provocata dalla detenzione, come ci ricorda la rivolta devastante della prigione moderna di Vivonne nel settembre 2016. Partita dall’iniziativa di alcuni individui, è durata più di sei ore, portando alla chiusura dell’ala del carcere per 18 mesi per lavori e provocando 2 milioni di euro di danni. D’altro canto, col fatto che la moltiplicazione di attori esterni di ogni tipo per valutare, far partecipare, far lavorare e controllare i prigionieri, accresce a sua volta le possibilità di intervento dall’esterno, vedi le diverse auto di secondini che sono bruciate nel parcheggio di Fresnes dal mese di maggio.
L’unica riforma accettabile delle carceri è raderle al suolo, insieme alla società autoritaria che le produce e ne ha bisogno.
[Avis de tempêtes, n. 9, 15 settembre 2018]
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Il nemico di sempre

Posted on 2021/08/02 - 2021/08/02 by avisbabel
Se un giorno morirà l’anarchismo, accadrà perché gli stessi anarchici l’avranno ucciso. Un’affermazione forte, certo, ma se ci riflettiamo un po’, non così priva di significato. Gli avversari dell’anarchia, dallo Stato ai capitalisti, dai preti ai vari autoritari, possono ferirla, anche gravemente, ma non sono mai riusciti a eliminarla. Forse a causa dell’attrazione irresistibile che essa esercita sulle anime ribelli, sui refrattari all’ordine, sugli assetati di vendetta e di libertà, forse perché l’idea che sta nel cuore, anzi no, che è il cuore dell’anarchismo – ovvero, che l’autorità è nemica della libertà, l’origine di ogni sofferenza e di ogni oppressione – non cessa di emergere in quella infame prigione che è la società umana moderna. In ogni caso, due secoli di repressioni feroci, di fallimenti di rivoluzioni e di insurrezioni, di tradimenti, non hanno spedito l’anarchismo «al museo della storia umana», come avrebbero sperato i suoi detrattori corazzati di «realismo» e di «dialettica storica». Il nostro nemico, il potere in tutte le sue forme, è potente, forse perfino più potente che mai, ma l’anarchismo non morirà finché ci saranno anarchici che l’incarneranno attraverso la lotta, che lo custodiranno, che lo ameranno.
Finora, malgrado tutte le tempeste che ha attraversato e che hanno marchiato la sua storia con la polemica, ma anche con gli infiltrati o i politicanti, un destino come quello subito dal marxismo (un discredito storico e generale, l’ombra di regimi totalitari e atroci che si sono rivendicati, le atrocità commesse nel nome del partito, i plotoni di esecuzione che hanno falciato numerosi rivoluzionari,…) è stato risparmiato all’anarchismo. Oggi, perfino i marxisti (benché i loro predecessori si rivolterebbero nella tomba) devono qualificarsi come «libertari» o «antiautoritari», pur di non passare per inaccettabili fantasmi. Il fallimento di ogni visione autoritaria della rivoluzione, della guerra di classe, della lotta contro l’oppressione, si manifesta non solo sul piano teorico, ma anche a livello pratico. Ciò non impedisce di riconoscere che esistono rivoluzionari sinceri che lottano per davvero, pur drogati di materialismo storico, di favole sulle contraddizioni del capitale che ne generano il tracollo, di classe operaia incaricata di una missione escatologica, ma questo riconoscimento non può smorzare in alcun caso le nostre critiche.
Se oggi rimarchiamo che alcune visioni autoritarie solitamente derivanti dalle apparenze «libertarie» si insinuano nei discorsi anarchici, altre ancora, d’origine forse più emancipatrice, si dedicano anche al compito di trasformare l’idea anarchica svuotandola della sua sostanza, se così si può dire. Ma procediamo con ordine. Ad esempio, perché alcuni anarchici oggi parlano di dominazioni, e non del dominio? Perché parlare di poteri, e non del potere? È per sottolineare che il potere assume forme diverse nei rapporti sociali, o per dire che in realtà il potere non esiste, ma ci sono solo poteri? Noi non concordiamo con questa maniera di considerare la liberazione anarchica, che si sta sempre più affermando. Sarebbe ovviamente stupido negare che il dominio assume diverse sembianze, che prende a prestito volti diversi a seconda dei contesti, dei periodi storici o delle relazioni sociali. Tuttavia, ed è per questo che siamo anarchici, la causa dei nostri guai è a nostro avviso sempre e comunque una: il dominio, o il potere, o l’autorità, che poi è la stessa cosa. Il problema non è che il potere o il dominio risiede qui o lì, il problema è l’esistenza stessa del potere, contrapposto e inconciliabile con la libertà cui aspiriamo come base di ogni rapporto sociale. Quando, magari sotto l’influenza di un certo femminismo, di un post modernismo universitario alla Foucault (per cui il potere in sé non ha mai costituito un problema) e delle diverse teorie di «minoranze oppresse» (riprendendo questo termine-parapioggia per una maggiore comprensione), gli anarchici cominciano a discernere non del potere ma dei poteri, non del dominio ma delle dominazioni, cosa li differenzia più da coloro che intendono l’emancipazione e la liberazione come una mera redistribuzione di poteri all’interno dell’esistente o anche di un futuro utopico? Quella terminologia viene magari usata per sottolineare che esistono alcuni aspetti del dominio storicamente meno considerati o relegati in secondo piano da troppi rivoluzionari, come il razzismo o il patriarcato, e che tuttavia strutturano la società autoritaria e i suoi rapporti. Bene, ma allora perché differenziare fondamentalmente questi aspetti se il problema resta sempre lo stesso (ovvero il potere), così come del resto il rimedio (la libertà, ossia la distruzione del potere in tutte le sue forme)? A meno di ritenere che il potere, quando ad esempio si esprime attraverso i rapporti patriarcali, non sia sostanzialmente lo stesso di quando si incarna nello Stato, nel capitale o nella religione. In tal caso, separarli e differenziarli acquisisce tutto il suo significato. Che fare allora di tutte queste analisi, generalmente anarchiche ma non solo, che hanno tentato di dimostrare l’inestricabile groviglio di tutte le strutture del potere, dal patriarcato (o la sua alternativa, il matriarcato) fino al capitalismo di mercato (o la sua alternativa, il socialismo di Stato)? Perché in fondo, rimanendo su questo aspetto del dominio, il problema risiede nel fatto che siano degli uomini a dettare socialmente alle donne come devono comportarsi e quale ruolo debbano subire ed assumere, e non nell’esistenza stessa dei ruoli, nel fatto in sé che esista qualcuno ad avere il potere di dettare qualcosa.

 

«Porre la questione dell’emancipazione della donna alla stessa stregua della questione dell’emancipazione del proletario, questo uomo-donna, o, per dire la stessa cosa in maniera diversa, questo uomo-schiavo — carne da serraglio o carne da laboratorio —, si capisce ed è rivoluzionario; ma porla di fronte e al di sotto del privilegio-uomo, oh! allora dal punto di vista del progresso sociale, è privo di senso, è reazionario. Per evitare ogni equivoco, è dell’emancipazione dell’essere umano che bisognerebbe parlare. In questi termini la questione è completa»
J. Déjacque, 1857

 

Un gioco di prestigio retorico, diranno forse alcuni, o anche un tentativo di respingere la critica del patriarcato e di tutti gli altri aspetti del dominio a lungo considerati come «meno urgenti», diranno altri. No, è una difesa dell’idea anarchica, di quell’idea che riconosce in qualsiasi potere il nemico da abbattere. A caratterizzare la critica anarchica fin dalla sua creazione è il suo prendere di mira il potere, che si incarna nei rapporti capitalisti, nei rapporti patriarcali, nei rapporti religiosi, nei rapporti statali, criticando ogni società, ogni rapporto, fondati sull’autorità. Contrariamente ai marxisti, ai socialisti, ai sindacalisti o ai comunisti, gli anarchici non hanno teorizzato gerarchie fra le differenti espressioni del potere — cosa che sarebbe stata assurda e che ovviamente non significa che tutti i rapporti autoritari siano sempre stati attaccati con lo stesso vigore. A nostro avviso, se non vogliamo venire assimilati volenti o nolenti, per incoscienza o per volontà di recupero, alle campagne orchestrate nei vertici o negli anfiteatri di Stato contro le «violenze sessiste» o le «aggressioni razziste», né alle nuove forme di dominio prodotte all’interno di tutte le imprese tecnologiche (un dominio inclusivo, per così dire, dove la sola cosa che conta è la venerazione della tecnologia quale che sia il nostro genere, la nostra età, la nostra sessualità o il colore della nostra pelle), è importante intendersi su questo punto.
Inoltre, pensiamo che tenendo bene a mente che il problema chiave è il potere, forse potremmo risparmiarci strada facendo i fantasmi sulle «categorie sociali» più inclini alla rivolta rispetto ad altri. Quando cerchiamo di instillare l’odio verso il ricco fra «i poveri», è perché aspiriamo a una rivoluzione sociale che spazzi via la proprietà privata. Quando cerchiamo di acuire il desiderio di liberazione dal giogo patriarcale fra «le donne», è perché aspiriamo a una sovversione totale nei rapporti sociali. Quando cerchiamo di affilare le coscienze fra «le persone», è perché siamo convinti che la distruzione del potere non possa essere opera di masse incoscienti, ma di individui trascinati da uno slancio di libertà. E siccome il potere è prima di tutto un rapporto sociale, pur essendo incarnato in esseri e strutture, la nostra critica non risparmia nemmeno lo schiavo che perpetua la schiavitù. Criticare il capitalismo senza criticare il feticismo della merce che ipnotizza gli sfruttati, sarebbe nell’ipotesi migliore sparare al vuoto, e nella peggiore preparare il nuovo parto di sanguisughe di domani. Criticare il patriarcato senza criticare la sua riproduzione anche da parte di vaste masse di donne, o gli effetti nefasti che esso esercita anche su uomini e bambini, sarebbe nell’ipotesi migliore gettare fumo negli occhi, e nella peggiore contribuire alla ristrutturazione in corso del dominio.
Un punto importante deve essere qui aggiunto. Potremmo considerarlo superfluo, talmente ci sembra evidente, ma a forza di considerare le cose come scontate si finisce col considerarle scontate e col perdere di vista che sono diventate ben più ipotetiche che reali. Può darsi che l’insistenza a parlare di dominio al plurale voglia sottolineare che non esistono sfere separate nelle nostre vite, per l’appunto. Giacché non c’è da un lato la lotta, e dall’altro tutto il resto. Questa separazione fra lotta e vita in tutti i loro aspetti può senz’altro convenire a militanti o a professionisti della politica, ma sarebbe una rinuncia inaccettabile da un punto di vista anarchico. Lottare da anarchici significa anche vivere da anarchici. Certo, si tratta di una tensione che genera conflitti con il mondo che ci circonda come fra compagne e compagni che ci sono vicini. Ma siccome i fini e i mezzi non possono che coincidere, se non si vuole che i fini vengano modificati a causa di mezzi incompatibili messi in atto, vita e lotta coincidono. Noi non combattiamo lo Stato da un lato per accettare dall’altro che degli anarchici si comportino come leaderini autoritari, non combattiamo i rapporti patriarcali per rassegnarci poi alla loro riproduzione all’interno dei nostri ambienti. Se non siamo affatto convinti che l’elaborazione di nuove «regole» comportamentali per relazionarci gli uni con gli altri siano sinonimo della liberazione a cui aspiriamo, ciò non toglie che tale liberazione, intesa come una tensione entusiasmante e talvolta dolorosa, comincia qui, oggi, ovunque, in ogni istante e non potrebbe in alcun caso essere rimandata nel nome di qualsivoglia cosa.
Nella lotta contro il potere, pensiamo che gli anarchici debbano contare sulle individualità piuttosto che sulle proprie sedicenti identità: stimolare il loro fiorire, rafforzare la loro singolarità, affinare la loro sensibilità, armare le loro mani. Da dove provengono un o una compagna, in quali circostanze sono cresciuti, quali esperienza hanno vissuto, quali sofferenze hanno attraversato, quali conoscenze hanno potuto acquisire, tutto ciò fa sì che per fortuna e per l’appunto non siamo tutti e tutte identici, che non parliamo tutte e tutti nello stesso modo, che non comprendiamo tutti e tutte nella stessa maniera i diversi aspetti del dominio. Ciò dimostra ancor più che, innanzitutto, siamo tutte e tutti degli individui. Ed è agli individui che riteniamo si rivolga l’idea anarchica. Non ad individui simili in ogni aspetto, ma ad individui differenti, i quali si ritrovano in base ad affinità e a progetti, in una autentica galassia di innumerevoli  stelle brillanti.
Allora sì, occorre continuare a difendere l’anarchismo dalle intrusioni autoritarie, dall’ennesima ri-ri-rilettura del profeta Marx (giovane o vecchio), ma anche da concezioni che vengono brandite come fossero un approfondimento della critica anarchica, ma che di fatto devitalizzano una stessa tensione verso la libertà frantumandola in mille frammenti sparsi. Uno stesso vigore dovrebbe essere impiegato nell’approfondimento delle individualità, ma anche nel gettare fuori bordo tutta questa tolleranza e comprensione che si sono lentamente incrostate negli anarchici al cospetto di delatori, opportunisti, stupratori, manipolatori e leaderini politici.
Come diceva qualcuno: «la dignità è molto preziosa, non la si può perdere che una sola volta».
[Avis de tempêtes, n. 9, 15 settembre 2018]
Tradotto da Finimondo.
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Pronto, Pronto?

Posted on 2021/08/02 by avisbabel

Per affrontare l’argomento complesso quanto sconsolante che viene spesso definito «perdita del linguaggio», forse potremmo partire da qualche esempio. Sebbene molto utilizzato, non sempre è il modo più onesto di procedere. Nello scegliere gli esempi, infatti, si può facilmente falsare il ragionamento o magari portare il lettore o l’interlocutore a conclusioni già preesistenti nella mente di chi scrive o parla. Partire dall’esempio, da ciò che comunemente viene chiamato «un fatto», sottolinea il più delle volte una deduzione logica che cammina su un solo piede: si sceglie il «fatto» per arrivare più facilmente ad una conclusione. Ma il ragionamento diventerebbe monco se un altro «fatto» venisse preso come punto di partenza. Da notare che le discussioni o i dialoghi girano spesso a vuoto proprio a causa di tali procedimenti: viene sollevato un fatto per «provare» una tesi, un altro viene sollevato per contestarla, e così via… Alla fine, la discussione ristagna perché non riesce ad andare oltre, verso un dialogo reciproco sulle idee, cosa ben diversa da un duello di fatti, sempre interpretabili e re-interpretabili a volontà, con l’ausilio delle acrobazie del linguaggio.
Ciò detto, procediamo con brio. Poniamo che alcuni anarchici si ritrovino in una piazza a distribuire volantini contenenti un testo con un linguaggio conciso, che parlano di qualcosa che è accaduto (una rivolta, una bella azione diretta, l’annuncio di un progetto del potere, una repressione particolare, poco importa), che bene o male analizzano il contesto in cui la cosa ha avuto luogo e che arrivano, talvolta a colpi di slogan un po’ scontati ma non sempre, a proporre in quella piazza un ragionamento o un’evocazione delle loro idee generali contro questo mondo e sulla vita. Siamo veramente sicuri che un tale volantino possa ancora essere compreso? Perché per arrivare ad una «comprensione» (a titolo contro-informativo, per sollevare i cuori e le braccia, per cercare complicità, per identificare il nemico, poco importa), sono comunque necessari alcuni elementi di base. Ciò che per l’uno è un «fatto che è successo» non lo è necessariamente per l’altro, perché non può collegare l’evocazione di quel fatto con nulla di quanto abbia visto su youtube e seguito sulla sua bacheca facebook. Per quanto riguarda l’analisi di quel fatto, alcuni strumenti della ragione sono altresì indispensabili — è difficile cogliere un’analisi unicamente col sentimento — come i procedimenti logici o una certa capacità di concettualizzare, al fine di poter passare da un fatto ad un contesto o di poter mettere in relazione due fatti singolari. Una tale lettura finalizzata alla comprensione di un semplice volantino, pur essendo ovviamente diversa a seconda di ogni individuo, richiede inoltre un minimo di tempo e una certa concentrazione. Infine, per effettuare il salto dall’analisi all’ambito delle idee, si impongono all’individuo altre esigenze ancor più stravaganti: immaginazione, astrazione, creatività, capacità di ragionamento… Insomma, siamo davvero sicuri che il nostro volantino possa ancora essere compreso?
In passato, nonostante il loro numero sovente limitato, gli anarchici hanno prodotto incredibili quantità di carta. Volantini, giornali, riviste, opuscoli, libri. Accanto all’agitazione orale, venivano usati tutti i mezzi scritti per far vacillare le certezze, nutrire le menti, scuotere il pensiero, spezzare le catene della superstizione e del pregiudizio, diffondere l’idea. Al confronto, malgrado il loro numero spesso ben più superiore, socialisti e comunisti non si sono impegnati in maniera così insistente e stupefacente quanto gli anti-autoritari.
Certo, la lotta contro l’analfabetismo non è stata condotta solo dagli anarchici. Socialisti, progressisti, filantropi ed a partire da un certo momento anche religiosi se ne sono occupati. Infine, con la crescente necessità del capitalismo di disporre di una manodopera leggermente più istruita, con la tendenza dello Stato a rafforzare sempre più il suo controllo sugli individui al fine di trasformarli in «cittadini», specialmente attraverso l’educazione scolastica e, perché no — non siamo pii credenti del solo determinismo economico — con una certa volontà liberale di emancipare i «poveri di spirito», l’analfabetismo non è più stato considerato dal dominio una virtù, ma una piaga. Ovviamente, saper leggere e scrivere non è una capacità «neutra». È intrinsecamente legata al linguaggio, che a sua volta è «creatore di mondi». Le campagne di alfabetizzazione e scolarizzazione di quasi tutte le popolazioni europee non hanno quindi dato il risultato tanto atteso dagli anarchici del secolo scorso: piuttosto che menti libere ed emancipate, con idee proprie e dotate di facoltà di ragionamento e d’immaginazione, ciò che è venuto fuori dalle scuole e dalle loro caserme sono stati generalmente esseri obbedienti e indottrinati.
Se ciò non ha impedito l’esplosione di grandi sollevamenti contro l’esistente — la voce del ventre, della miseria e dell’oppressione ha le proprie ragioni — la mancanza di spiriti liberi e di individualità ha tuttavia costituito un limite enorme nel momento dell’arrivo di nuovi poteri: l’adesione popolare ai fascismi, l’accettazione dello spossessamento dei soviet da parte dei bolscevichi o della partecipazione della CNT al governo per trasformare la rivoluzione in guerra, non si spiegano solo con i rapporti di forza o con basse considerazioni tattiche. Di fronte alle logiche del quantitativo e dell’efficienza, la libertà di spirito individuale è ciò che consente sia di mantenere una visione critica, anche su ciò che ci è vicino al di là di ogni ideologia, e sia di aprire le porte verso altri mondi, verso altre possibilità diverse da quelle dettate dai bisogni materiali, tecnici o militari. Una piccola qualità indispensabile per approfondire qui e ora l’agire contro questo mondo, così come per evitare i tranelli ​​della facilità e della riproduzione del potere, una volta messo con le spalle al muro dai grandi sconvolgimenti sociali.
E se questo problema era già presente nel secolo scorso, cosa possiamo aspettarci oggi, nel mondo attuale, in cui la voce e l’immaginario del potere non sono più dotati solo di scuole, ma anche di televisori in ogni casa, di telefoni intelligenti in ogni tasca, di un incessante bombardamento di flussi di «fatti» e «informazioni»? Di incontrare spiriti liberi ed emancipati?
Il fatto che la capacità di leggere e scrivere non dica in fondo granché, è dimostrato da ciò che ormai è definito «analfabetismo funzionale», ovvero la capacità di leggere e scrivere accompagnata da una incapacità di comprenderne il significato. Se vogliamo per un istante dimenticare il nostro orrore delle statistiche — per quanto sembrino confermare il nostro vissuto quotidiano —, questo fenomeno starebbe sommergendo il mondo assumendo proporzioni di pandemia. In Francia, oltre il 60% degli adulti ne sarebbe interessato, mentre in Italia e in Spagna i tassi sfiorerebbero l’80%. Stupore, perché ciò vorrebbe dire che meno di una persona su due sarebbe ancora in grado non di leggere, ma di cogliere il significato di un discorso, di un’analisi, di un’idea. È davvero così? Difficile da dire. Ma quando constatiamo quotidianamente che le idee anarchiche hanno, ancor più che nel passato, pochi immaginari collettivi a cui ricorrere per facilitarne la comprensione, la «perdita del linguaggio», la perdita del «linguaggio della ribellione», diventano innegabili. Come dialogare, scambiare, discutere, approfondire, nutrire la mente, esacerbare l’immaginazione quando la persona che ci sta davanti non coglie il significato generale di ciò che diciamo, ma ne afferra al massimo un dettaglio particolare (il che, detto per inciso, è una sindrome che si manifesta sempre più spesso nelle assemblee anti-autoritarie)? Quando non esiste un mondo interiore a cui collegare ciò di cui vogliamo parlare? Quando il linguaggio è a volte privo di vocabolario, o quando questo diventa essenzialmente funzionale? Quando in aggiunta a tutto ciò, in materia di idee anche vaghe e generali, si mescolano i grandi trafficanti di senso come i predicatori religiosi, i confusionisti youtuber, o gli abbreviatori di tale o tal’altra applicazione (del tipo snapchat o whatsapp, per essere chiari)? Quando il luogo del detto e della parola viene respinto ad esclusivo beneficio dell’immagine?
Quando un fenomeno assume una tale portata, la nostra mente scettica non può accontentarsi di liquidarlo nel lungo elenco della stupidità umana. È la differenza tra una rissa fra due persone che si picchiano per una ragione che può sfuggirci, e milioni di persone che si uccidono a vicenda durante una guerra. La prima situazione può provocare un’alzata di spalle, è un incidente che capita sul cammino della vita, né più né meno. La seconda situazione ci incita necessariamente a voler sondare le ragioni di quella guerra, gli interessi, i meccanismi che sono in gioco. Allora, in un mondo in cui prevale il valore dell’«informazione», come è possibile che l’oscurantismo nella sua versione «analfabetismo funzionale» sembra essere diventato la nuova norma? Così come l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è comparsa negli anni 80, ed è stata effettivamente pensata come un superamento dell’antagonismo di classe derivante da un certo modello di capitalismo industriale (le grandi fabbriche, le grandi concentrazioni di proletari che vivono in condizioni simili, facilitando la possibilità dell’emergere di comunità di lotta che si oppongono alla classe ben circoscritta dei padroni), ed era quindi un progetto del dominio, la distruzione del linguaggio diverso da quello funzionale allo Stato e al capitale a nostro avviso deriva anch’esso da un progetto. Se è impossibile prevenire — cioè impedire che si manifestino — le febbri di rabbia contro il vuoto assoluto di questo mondo o contro la sua sanguinosa ferocia, rimane di certo possibile prevenire l’emergere, la diffusione, la contaminazione di idee rivoluzionarie ed emancipatrici.
In passato, gli anarchici venivano inviati alla Guyana solo per aver distribuito un volantino (grazie alle leggi scellerate). I giornali venivano sequestrati, i loro redattori o amministratori gettati in prigione. Lo Stato imperversava censurando, ostacolando la diffusione, rinchiudendo i propagatori e gli agitatori dell’idea. Oggi, non solo può continuare a far ciò in base ai suoi bisogni (anche in Europa; è una costante della repressione prendere di mira coloro che animano locali, pubblicazioni, iniziative), ma dispone inoltre anche di strumenti formidabili per tagliare, dall’altra parte, la potenziale ricezione del messaggio. Distruggendo la capacità umana di comprendere il significato, il senso di un’espressione, il dominio mina anche la potenzialità che la sua rabbia, la sua rivolta si faccia idea, visione, sogno. Creatore di mondi, il linguaggio — orale o scritto — è uno dei veicoli, ci piaccia o no, attraverso cui passa «l’elevazione individuale della mente». E per distruggere il dominio, non abbiamo bisogno solo della dinamite e della rivolta, ma anche di questa «elevazione».
Per tornare al nostro esempio iniziale, è sempre meno certo che la nostra agitazione scritta possa ancora venire compresa, in ogni caso non da sola (e ancor meno quando idea e azione non si alimentano più come vasi comunicanti). Dobbiamo allora rinunciarvi, dobbiamo rassegnarci al progetto del dominio di abbrutimento dello spirito umano? Sicuro, potremmo farlo. Ma finché ci siamo, andiamo fino in fondo. Basta libri (ad ogni modo ce ne sono già tanti, bastano al pugno di anarchici che tentano ancora di appropriarsi del loro contenuto), basta riviste e bollettini (a che serve la teoria?), basta occasioni per scambiare e dibattere (solo gli sbirri se ne interessano), limitiamoci ai fatti e al concreto. E il clamore della nostra agitazione si muterà in sussurri, ed i sussurri in silenzio, e il silenzio alla fine concluderà l’idea. Storia finita. È una china fatale.
Oppure, preferendo l’esagitato che cerca tenacemente di abbattere i mulini a vento al piccolo ragioniere che ci vede poca efficacia e soprattutto solo illusioni, non possiamo non tener conto della progressiva distruzione del linguaggio. Se rifiutiamo le soluzioni, sempre più sostenute persino da alcuni anarchici (i militanti di sinistra non avevano esitato un secondo), che consistono grosso modo nell’adattarsi al «livello» di questo mondo — trasformando l’idea in immagine, riducendo l’analisi ad alcuni slogan premasticati, ripetendo banalità pensando di usare un linguaggio «chiaro e conciso» — quale avvenire è riservato all’agitazione anarchica?
Nel rileggere le pubblicazioni del passato, vi troviamo non solo l’amore per l’idea e un linguaggio che è per l’appunto «creatore di un mondo», ma il più delle volte anche un linguaggio «chiaro e conciso» che non ha il gusto amaro della banalità. La confusione era ovviamente diffusa anche tra gli anarchici, ma si cercava instancabilmente di superarla piuttosto che di mantenerla. Ci si dirà che ciò corrispondeva a un mondo che oggi non c’è più, un mondo in cui si lottava accanitamente, dove il nostro sangue scorreva spesso, così come quello dei nostri nemici, dove degli immaginari collettivi accompagnavano gli accessi di febbre. Questo è vero, e non si può resuscitare un passato che in ogni caso non può ritornare.
Ma perché ciò dovrebbe impedire alla nostra agitazione di continuare ad accarezzare gli stessi slanci di vita: combattere i luoghi comuni e i pregiudizi del tempo, rafforzare le capacità di ragionamento e la sensibilità degli individui, identificare il nemico e abbozzare dei suggerimenti su come colpirlo, infrangere le porte del realismo per incitare ad avventurarsi nelle vaste pianure, negli oceani tempestosi e sulle maestose montagne dell’idea, dell’utopia? Non foss’altro perché rinunciarvi non farebbe che portare acqua al mulino del progetto di abbrutimento del dominio.

[Avis de tempêtes, n. 8, 15 agosto 2018]
Tradotto da Finimondo.

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Nessuna vittoria nessuna sconfitta



Posted on 2021/08/02 - 2021/08/02 by avisbabel
«Gli anarchici hanno sempre perso, non hanno mai vinto nulla». Non è raro sentire frasi del genere anche tra i nemici dell’autorità, assaliti dall’esitazione o dal rimorso. Questo genere di sentenze definitive arriva talvolta ad apostrofare i dibattiti sulle lotte recenti, quando non s’intromettono con sicumera nelle discussioni sui contributi degli anarchici durante i sollevamenti, le insurrezioni e le rivoluzioni di un passato ormai trascorso. Pensando alle orgogliose colonne dei gioiosi miliziani anarchici, che brandivano armi, bandiere ed intonavano canti per sollevare i cuori, mentre lasciavano Barcellona nel luglio del 1936, emettiamo un sospiro nostalgico che ci porta dritti alla malinconia così caratteristica in molti anarchici – secondo un noto cantante – per concludere fatalmente: «Perderemo sempre, siamo le pecore nere della storia».
Eppure, se le speranze possono spesso infiammare il tenero cuore degli anarchici, non dimentichiamo che anche la disperazione è stata un fiele che ha accompagnato molti dei loro viaggi. Innamorati dell’idea, odiavano allo stesso modo gli oppressori. È così che l’amore appassionato che bruciava la loro vita di desideri rasentava un odio feroce che poteva colpire implacabilmente e versare il sangue dei tiranni, dei loro tirapiedi e dei loro adoratori. Ma perché parlare al passato? Quell’universo, quel vocabolario, quel mondo interiore degli anarchici, è forse cambiato? Non si sono accese le speranze quando centinaia di migliaia di oppressi si sono sollevati contro i regimi in carica in molti paesi alcuni anni fa, durante le cosiddette «primavere arabe»? La disperazione nel vedere quei sollevamenti venire liquidati da una reazione dalle molteplici facce non ha armato le braccia di molti di loro per colpire, ancora una volta? Eppure là non c’era traccia di fatalismo, che come vedremo si trova altrove…

Se l’idea anarchica propone la distruzione dell’autorità e dei rapporti sociali che genera, ciò non implica necessariamente una fede nella famosa «aurora di libertà» definitiva e irreversibile. Anzi, contrariamente alla logica della vittoria e della sconfitta, l’anarchia è prima di tutto una tensione, un’idea pratica che tende in permanenza verso la distruzione di ogni potere. La «fede» non ha molto a che vedere con ciò. Se l’orizzonte dell’anarchia non si limita alla rivolta, ma si apre anche alla rivoluzione sociale, è perché per distruggere da cima a fondo il potere non è sufficiente una somma di rivolte individuali. Certo, chi parla di «rivoluzione sociale» negando la rivolta individuale che ne è la base ha un cadavere in bocca, e sarà probabilmente tra i primi ad urlare coi lupi quando un individuo – o un pugno di individui – unirà idea ed azione.
Ma anche al contrario, pensare che la prospettiva di una rivoluzione sociale equivalga a nutrire una fede cieca in una soluzione definitiva, non fa che reintrodurre la nozione di vittoria e di sconfitta, annullando ogni tensione o facendo proprio l’orribile determinismo marxista (quello che ha fatto accettare il peggio ai proletari comunisti del secolo scorso, nel nome della «ineluttabile necessità storica»).
Se un sollevamento o un’insurrezione permettono di accentuare, di approfondire, cioè di generalizzare la tensione verso la libertà, perché non adoperarsi allora al fine di affrettarla, di scatenarla? Davanti all’amnesia storica, all’abbrutimento tecnologico, al livellamento dei cuori e delle menti, a conti fatti, come non sostenere che l’insurrezione è forse ancora più necessaria, più desiderabile che mai? I ritornelli sulle condizioni materiali e sociali che non sono le stesse di quelle dell’inizio del secolo scorso o sul fatto che lo Stato è ormai superattrezzato, a volte logorano la discussione invece di farla avanzare. Gli anarchici sarebbero malinconici al punto di vedere solo i molteplici ostacoli che sorgono sulla loro strada, finendo col dimenticare che la questione è come affrontarli noi stessi, qui ed ora, in una prospettiva acrata. Altrimenti, ciò non si chiamerebbe né lotta, né rivolta, né niente di tutto ciò, ma, prendendo a prestito il gergo marxista, solo l’osservazione della talpa che scava – e che crepa.
Ritorniamo allora al nostro problema iniziale: gli anarchici, con la loro idea di libertà e di distruzione dell’autorità, sono fatalmente condannati a perdere, a vedere cioè tutti i loro sforzi, tutti i loro sacrifici, tutte le loro iniziative liquidati, in tempo di relativa pace come in periodo di estesa rivoluzione? «È sempre stato così nella storia», diranno i pragmatici. «Non bisognerebbe credere nella rivoluzione e nelle masse», diranno i cinici. Ma esiste un’altra possibilità, forse più intimamente anarchica: a differenza dei gatti abbiamo una sola vita, ed osiamo sostenere che è proprio in questa vita, l’unica che abbiamo, che bisogna battersi, vivere questa tensione verso la distruzione dell’autorità. È andando, percorrendo il sentiero che abbiamo scelto, che ci realizziamo, che diventiamo ciò che siamo. È la qualità che fa irruzione nella nostra vita, la qualità dell’idea e dell’azione che vanno di pari passo. Vittoria o sconfitta non hanno significato, laddove non esiste che ostinazione o abbandono, determinazione o rassegnazione, amore e odio appassionato o annientamento politico. Sì, molti anarchici sono sognatori incorreggibili. «Agire significa non pensare più solo col cervello, è far pensare l’intero essere. Agire significa chiudere le sorgenti più profonde del pensiero nel sogno, per aprirle nella realtà», diceva Maeterlinck. Infatti gli anarchici sognano la propria vita ad occhi spalancati, il che comporta armare i loro desideri, le loro convinzioni e le loro scelte per realizzarli. Magari altri sfruttati, una volta saziata la loro rabbia distruttrice, potranno tornare ad adorare un qualche leader, ad inchinarsi davanti un dio, a consolidare un nuovo potere. È possibile, e la reazione fa di tutto perché sia così. Ma ciò non invalida di certo il tentativo iniziale, non invalida gli sforzi degli anarchici di cercare di approfondire la rottura, di distruggere l’autorità sempre più alla radice. Anche qualora ciò non durasse che qualche giorno, qualche settimana o qualche mese, l’occasione di palpare, di sentire vibrare, di vivere pienamente la qualità, non può che attrarre appassionatamente tutti gli amanti della libertà.
Viceversa, è proprio quando gli anarchici rinunciano alla qualità, alla tensione verso la libertà contro ogni autorità, per sostituirla con una logica di vittoria e di sconfitta presa a prestito dalla politica, è allora che viene imboccata la china fatale. Che tutti i fondamenti dell’idea anarchica si erodono, appassiscono e si dissolvono. Che il primo venuto in vesti più o meno libertarie (e chi non sfoggia questo aggettivo, oggi?) può arraffare tutto facendo balenare una organizzazione forte, un vasto lavoro di massa, una presunta temibile efficacia militare, la fine dell’«isolamento». Che l’anarchico, stufo di andare in prigione «per niente» o molto poco, stanco dell’amore insoddisfatto che gli brucia il cuore, sfinito dall’odio che lo nutre e che trova poche complicità, deluso dall’incomprensione dei suoi simili in miseria, afferra la mano avvelenata che gli viene tesa, credendo di superare – finalmente! – le vecchie rigidità e chiusure ideologiche. È là che risiede il solo fatalismo: l’anarchico che rinuncia all’anarchia cercando di farla collimare col concetto di vittoria e di sconfitta. L’amore per l’idea viene allora percepito e respinto come una folle storia di gioventù, bella ed appassionata, ma alla lunga impraticabile.
D’altro canto, la vita degli anarchici non deve per forza assomigliare al passaggio di una cometa che si consuma nell’atmosfera in pochi secondi. Certo, la scelta spetta ad ognuno. Sarà anche più simpatico perire infiammandosi che deperire aspettando la grande sera. Ma non innalziamo opposizioni assolute laddove non devono necessariamente esserci. Seppure in passato certi anarchici si sono accesi intensamente, è opinabile che volessero che ciò avvenisse il più rapidamente possibile. Perché sperare in una fine rapida delle ostilità quando si può cercare di prolungarle senza rinnegarsi? Se la fine è arrivata talvolta molto in fretta per alcuni anarchici del passato, è perché ciò che li circondava, specialmente le forze repressive, hanno colpito rapidamente, troppo rapidamente, non perché essi desiderassero farla finita il prima possibile, o perché cercassero per principio una fine tragica.
La passione per la vita può scontrarsi, anche troppo rapidamente, con le forze che vogliono annientarla; l’odio per l’oppressore può portare ad avvicinarsi pericolosamente alla morte in agguato, sono le conseguenze della scelta di mettere la propria vita in gioco, di vivere piuttosto che sopravvivere. Ribelli per eccellenza, gli anarchici non dovrebbero comunque sviluppare il culto degli occhi bendati. Abbiamo un cervello per riflettere, un cuore per sentire, delle braccia per agire. Perché privarsi di una di queste facoltà? Tra vivere il momento ed aspettare i domani che cantano, c’è un intero oceano di possibilità. Quando ci si lancia nella pugna, ferocemente se è necessario, non lo si fa ad occhi bendati, ma con il mondo che si vuole distruggere nel mirino. La ferocia non si misura con l’accecamento, ma con le prospettive con cui stimoliamo le nostre vite, che diamo ai nostri sforzi. Se dobbiamo essere comete, che sia, ma non affrettiamone la fine. Il nostro passaggio su questa terra è breve, saziamolo sfruttando tutte le possibilità, tutte le potenzialità. Fatale non è scontrarsi con le rocce, ma rendersi conto di non avere una bussola in tasca quando si scatena la tempesta. Contro la logica della vittoria e della sconfitta, contro il fatalismo di una presunta efficienza che annulla qualsiasi tensione anarchica, è pur sempre possibile pensare i passi da fare, orientare le esplorazioni, progettare gli sforzi. L’amore per l’idea e l’odio per l’autorità si combinano perfettamente con una progettualità, con una riflessione a medio e a lungo termine per dare un respiro più ampio, più vasto, più audace al nostro passaggio sulla superficie di questo pianeta.
Più di un secolo fa, un anarchico aiutato da alcuni complici mise in piedi un formidabile piano. Dopo alcuni furti più o meno riusciti, Alexander Marius Jacob alzò lo sguardo per guardare ancora più lontano. Gli venne in mente un’idea folle: invece di accontentarsi di un furtarello simpatico qui e là (già non male), perché non elaborare un vasto progetto di espropriazione su tutto il territorio (ancora meglio)? Alla fine, i lavoratori della notte diventarono centinaia e svaligiarono centinaia di ville borghesi, pianificando minuziosamente i loro colpi, la loro logistica, i loro mezzi (fino ad equipaggiarsi di una fonderia d’oro e d’argento, di un negozio di antiquariato destinato alla ricettazione e di un negozio di ferramenta per ordinare legalmente le più moderne casseforti e studiarle in tutta tranquillità). Alexander Jacob avrebbe potuto accontentarsi di qualche furto occasionale, e forse ciò gli avrebbe evitato la deportazione alla Guyana. Ma  ha voluto volare più in alto, per splendere più forte e più a lungo. Nulla è stato facile nel suo viaggio, nessuno sforzo è stato risparmiato, alcune speranze sono andate deluse e l’espropriazione generalizzata non è avvenuta come avrebbe desiderato così ardentemente. E allora?
Non indietreggiamo davanti a ciò che è difficile, affrontiamolo secondo le nostre prospettive. Osiamo lanciarci nei progetti più smisurati, viviamo l’anarchia.

[Avis de Tempêtes, n. 7, 15 luglio 2018]
Tradotto da Finimondo.
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Diario di bordo

Posted on 2021/08/02 - 2021/08/02 by avisbabel

Una progettualità per far fronte alla guerra (e alla pace)

Sulla necessità di bussole
Troppo spesso pensiamo alle nostre idee come a pilastri conficcati in un terreno inamovibile. Ma il terreno il più delle volte è solido solo in apparenza. Basta che cambino le condizioni, che la terra diventi melmosa o che l’acqua salga, perché il terreno solido si riveli mobile e i nostri amati pilastri si affloscino come castelli di carta. A quel punto il panico ci assale, e noi cominciamo a correre da un’alleanza indigesta ad un’altra ancora più improbabile, mentre i nostri concetti che reputavamo tanto solidi si fanno gelatinosi, trasformandosi in pasta da modellare, e in poco tempo anche noi diventiamo ciò di cui abbiamo sempre avuto orrore: semplici pedine su una scacchiera che non comprendiamo. È successo a numerosi anarchici quando è scoppiata la Prima Guerra mondiale, è successo agli anarchici spagnoli trascinati da una situazione rivoluzionaria ad una guerra in piena regola, è successo a tantissimi rivoluzionari coinvolti nei giochi geopolitici della Guerra Fredda, e succederà lo stesso anche domani.
Allora, piuttosto che pilastri in un terreno per nulla stabile, consideriamo le nostre idee come bussole che ci consentano di orientarci. Da anarchici, lottiamo contro ogni potere, sia esso sanguinario o tollerante, democratico o dittatoriale, senza cercare di associarci a nessuna delle parti di un potere contro un altro. Una barricata ha solo due lati, e quando non è la nostra non c’è un lato dove possiamo stare. Ecco perché è fondamentale disporre di queste bussole-idee, e anche approfondirle, perché è proprio in situazioni particolarmente tese che occorre utilizzarle. Certamente è più facile rifiutare ogni rapporto con gli autoritari quando la morte o la prigione non sono in agguato (per quanto gli opportunisti non lo disdegnino affatto), piuttosto che rifiutare in una situazione di guerra un’alleanza militare con un esercito quando le persone cadono attorno a noi sotto le bombe di un’aviazione spietata. Una situazione di guerra può mettere il nostro anarchismo a dura prova, e proprio come tanti compagni (spesso minoritari) non hanno rinunciato né alla propria etica né alle proprie idee nelle peggiori condizioni, è necessario oggi ricominciare ad approfondire quello che è il nostro anarchismo, se non vogliamo ritrovarci a naufragare… molto presto.

 

Sulla necessità di carte
Se le nostre bussole-idee possono indicarci la direzione da prendere e soprattutto gli errori da evitare, non ci consentono tuttavia di discernere i contorni degli ostacoli da affrontare. Questa è la dimensione dell’analisi. Se già questo compito dovrebbe essere una costante di qualsiasi nemico dell’autorità, diventa ancora più cruciale se vogliamo anche essere capaci di batterci in uno scenario di guerra. Ciò implica per esempio fin d’ora di mappare accuratamente le industrie militari e le aziende tecnologiche, ma anche tutto ciò che attiene al buon funzionamento operativo del dominio: reti di comunicazione, assi di trasporto, risorse e reti energetiche, riserve strategiche di materie prime e di approvvigionamenti. Non in modo approssimativo, ma dettagliato e lungimirante.

 

Sulla necessità di informazioni
Acquisire informazioni è un concetto che logicamente può dare fastidio, in quanto fa pensare alla schedatura generalizzata che gli Stati sono riusciti a mettere in atto, ma noi pensiamo in ogni caso che sia non solo necessario avere quante più informazioni possibili sul funzionamento degli organi repressivi (che in una situazione di guerra mostreranno i loro denti ben più aguzzi che in tempi «normali»), ma anche conoscere la loro gerarchia. Infatti ci sono molte possibilità che il commissario capo di polizia o il colonnello della gendarmeria di oggi saranno, per esempio, anche quelli di domani. Su un altro piano, sarebbe ovviamente necessario dotarsi di capacità di comunicazione difficilmente accessibili dal nemico, ma prepararsi anche alla disgraziata eventualità di sequestri a sorpresa, interrogatori feroci e detenzioni speciali, così come all’ampia gamma di mezzi di cui dispone lo Stato per condurre una guerra sporca contro i refrattari (confidenti, infiltrati, pressione sui parenti, manipolazioni…). Prepararsi a questo è certamente un compito difficile, ma in tempi di guerra esservi un minimo pronti sarà sempre meglio di niente (sapendo che l’importanza di tali contromisure statali è già troppo poco presa sul serio, se non trascurata, nel presente).

 

Sulla necessità di strumenti e di conoscenze

Sapere dove è situata l’antenna militare è una cosa, saper metterla fuori uso è un’altra. Molte conoscenze, da come confezionare il materiale che serve per il sabotaggio alle modalità per spostarsi, si rivelano indispensabili. La buona volontà è un inizio, ma non basta. Occorre sviluppare capacità tecniche e conoscenze precise, proiettandole in una situazione che potrebbe essere molto diversa da quella che conosciamo oggi. Certi strumenti scarseggiano in uno scenario di guerra, altri diventano improvvisamente più facili da reperire: per non lasciar dipendere tutto dal caso, occorre prepararsi.

 


Sulla necessità di coordinarsi

Pur restando in una dimensione informale, il coordinamento tra individui, gruppi di affinità e altre costellazioni autonome è indispensabile, sia per la raccolta di informazioni, la messa a disposizione di mezzi, la logistica e il supporto, la condivisione di notizie, l’elaborazione di strumenti di contro-informazione e di agitazione, che per i progetti di attacco. Da qui la necessità di riflettere fin d’ora su quali forme potrebbero assumere simili coordinamenti e come possono essere praticabili anche in situazioni in cui potrebbe essere meno ovvio ritrovarsi in più persone (cioè in più di qualcuno). Ovviamente tali coordinamenti devono essere anti-autoritari, agili, partendo dall’autonomia di ogni individuo e di ogni gruppo che vi partecipa.

 


Sulla necessità di prospettive

Tutto questo, perché? Verso quale scopo, in quale prospettiva? Se lo scoppio di un’insurrezione rivoluzionaria costituisce la prospettiva, i percorsi per arrivarvi sono molteplici, e dipendono anche da particolari contesti. Una situazione che sprofonda nella guerra civile a seguito di una carestia di massa, di un disastro ambientale, o anche di odi identitari è una cosa, uno Stato che prepara un intervento militare altrove è un’altra. Eppure, alla base, pensiamo che i sabotaggi diffusi contro ciò che rende possibile la guerra e il controllo, contro ciò che fornisce l’energia allo Stato, potrebbero costituire il primo passo. Permetterebbero non solo di agire immediatamente e coerentemente, ma anche di accendere, per quanto piccola sia, una scintilla nelle tenebre, possibile punto di riferimento per altri, aprendo un campo per il coordinamento e l’approfondimento organizzativo. Prendere l’iniziativa è il primo passo per disorganizzare i piani del nemico, molto meno agili di quanto potrebbero essere i nostri.

Se la guerra, questa «organizzazione della potenza», è costitutiva di ogni Stato; se le diverse forme di cui si serve sono quindi animate da una medesima logica di dominio; se i massacri delle operazioni militari propriamente dette e la repressione, lo sfruttamento capitalista e l’abbrutimento messi in atto dal potere, sono i due lati della stessa medaglia dell’ordine del mondo, le tracce e i suggerimenti qui evocati possono non solo figurare nel diario di bordo di chi si troverà immerso in un sanguinoso conflitto, ma servire anche solo a sviluppare una semplice progettualità anarchica.
Non sfuggirà nemmeno ai ciechi più ostinati che gli strumenti di repressione, di controllo e di fabbricazione del consenso stanno crescendo di pari passo col numero di regioni del mondo coinvolte in nuove guerre: si tratta della stessa ristrutturazione in corso del dominio, che tocca l’insieme degli aspetti della società che conosciamo. Questo è ciò cui bisogna far fronte, ed è a questo che potrebbero servire le poche note di questo diario di bordo.

 

[Avis de Tempêtes, n. 4, 15 aprile 2018]
Tradotto da Finimondo.
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Senza riparo

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Più nulla sembra poter fermare la corsa bellica. Da quando la rivolta popolare in Siria si è trasformata in guerra civile di lungo corso, i massacri, le distruzioni e gli esodi hanno superato di gran lunga ciò che riusciamo semplicemente a concepire. I bollettini di morte hanno da tempo rinunciato a fare gli aggiornamenti quotidiani. Cento, duecento, quattrocento, settecentomila morti… Tre, quattro, sei milioni di rifugiati. Mille, quindicimila, trentamila attacchi aerei. I massacri avvengono su una scala fuori dalla portata del nostro cervello. Eppure, sono fin troppo reali.
La rivolta in Siria è diventata un magma di interessi internazionali (Stati Uniti, Russia, Iran, Israele, Turchia, Francia, Inghilterra, Arabia Saudita…), in cui alleanze e accordi oscillano nella corsa verso il baratro finale. Tutto sembra indicare che un’ulteriore estensione della guerra sia ineluttabile, superando la soglia di uno scontro indiretto tra potenze coinvolte nella guerra siriana verso conflitti aperti, dalle conseguenze imprevedibili, a prezzo di altre decine di migliaia di morti. Così verrà modellato il nuovo mondo in cui non tarderemo a svegliarci, un mondo diverso da quello della Guerra Fredda, diverso dal dominio di un gendarme del mondo dagli accenti democratici garante della pace dei mercati con operazioni militari limitate ad una precisa regione. L’invasione di Afrin da parte dell’esercito turco è forse il preludio dell’estensione di una guerra annunciata, dai tratti ben più vasti.
Siamo lontani dai sollevamenti che hanno scosso tanti paesi in un momento in cui la ristrutturazione capitalista mondiale si affermava sempre di più. Questi sollevamenti, le loro grida di rivolta e di libertà, sono stati spesso affogati nel sangue, aprendo la strada ad un’accelerazione della militarizzazione, ad una moltiplicazione degli interventi militari, con tutte le loro conseguenze anche all’interno dei paesi belligeranti. Se le centinaia di migliaia di profughi che arrivano in Europa hanno condotto un po’ di quelle «guerre lontane» e delle devastazioni capitaliste alla porta delle democrazie occidentali, se gli sporadici attentati jihadisti hanno fatto riecheggiare il suono degli attentati indiscriminati – la guerra è guerra! – nelle strade di diverse città europee, la spirale in cui il mondo sta per lanciarsi porta direttamente ad una vera e propria guerra sia esterna che interna, che non lascia più nessuno al riparo.

La guerra che monta con forza giorno dopo giorno determinerà i contorni del mondo di domani. E gli anarchici, in tutto questo? Ci saranno ancora, attraversando la prova del fuoco in questo mondo di domani? Niente è meno certo, tanto più che siamo già – diciamolo chiaramente – terribilmente in ritardo. Noi guardiamo ancora a un ennesimo movimento sociale come se annunciasse in sé una nuova ondata di sovversione, lottiamo contro questo o quel progetto del dominio, ma senza includere queste lotte in un contesto più ampio, più vasto, più internazionale, e restiamo un po’ a bocca aperta quando persino le nostre pubblicazioni o le nostre sedi si trovano nel mirino della democraticissima giustizia antiterrorista. Ci muoviamo entro i margini che ci vengono lasciati, piuttosto che su terreni da noi stessi creati e conquistati con forza e convinzione. La questione non è di insistere sull’urgenza, quanto di portare uno sguardo lucido e critico su a che punto siamo davvero. Il mondo va in fiamme, i massacri seminano gli odi di domani, le favole di un mondo fatto di tecnologie partecipative e inclusive si rivelano ogni giorno di più per ciò che sono: controllo e ancora controllo. E noi, in tutto questo? Niente, o molto poco. Se è sempre tempo di sbattere la porta, come diceva qualcuno, tanto vale provarci. Provare, partendo dalle nostre idee anarchiche, rifiutando la guerra dei potenti, rifiutando la pace dei mercati, alzando il nostro sguardo verso la sola liberazione che non è foriera di nuove oppressioni: una rivoluzione sociale che distrugga da cima a fondo le vestigia dell’autorità, la mentalità di obbedienza e sottomissione. Puntare alla rivoluzione sociale è assurdo, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria sembra così lontana? Forse, ma i tempi non sono più approssimativi, e nemmeno buoni per proposte possibiliste o nichiliste che riflettono fin troppo questo mondo: il realismo o il nulla. Per gli anarchici, che vogliono tutto, subito, e molto di più, occorre un progetto, con proposte chiare, lucide, coraggiose. Le idee ci sono, maturate nel corso dei secoli, spesso messe a dura prova, a volte approfondite e spesso trascurate, ma ci sono. Distruzione di ogni autorità, guerra contro ogni potere e ogni schiavitù, libertà per tutte e tutti. Anche le nostre armi ci sono: sabotaggio, azione diretta decentrata, attacco senza mediazione, immaginazione creativa piuttosto che programma. Anche i nostri metodi esistono: azione individuale, gruppi di affinità, coordinamenti puntuali, lotta di «guerriglia» asimmetrica piuttosto che guerra militarista, auto-organizzazioni informali e solidarietà rivoluzionaria. A partire da questo, sì, anche in un momento in cui il mondo si dirige verso l’abisso, abbiamo qualcosa da dire, qualcosa da fare, qualcosa da proporre.
Il cielo può anche offuscarsi, la morte può anche essere in agguato, ma non vogliamo in nessun caso rinunciare alle nostre proposte anarchiche, qui come altrove. Amiamole, difendiamole, battiamoci per esse. Non è detto che avremo una seconda possibilità.
[Avis de Tempêtes, n. 4, 15 aprile 2018]
Tradotto da Finimondo.
Posted in Italiano

Rubicone

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Un altro Rubicone è stato attraversato. Ciò che malauguratamente era prevedibile non ha tardato a realizzarsi, favorito da un disgustoso giochino diplomatico avviato dagli Stati Uniti. In seguito al loro annuncio di voler costituire un esercito regolare di stanza lungo il confine turco-siriano – arruolando una parte significativa di combattenti curdi dell’YPG nel nord della Siria –, il regime di Ankara ha lanciato il 19 gennaio una offensiva militare contro l’enclave di Afrin tenuta da questi ultimi.
Ovviamente, questa offensiva era stata preparata da tempo, come dimostra ad esempio l’integrazione di molti gruppi armati islamisti a fianco dei soldati turchi (membri della NATO), un’integrazione che non avviene in pochi giorni. È difficile credere che le diverse potenze presenti
nel conflitto siriano, specialmente la Russia che controlla i cieli, non ne fossero al corrente. Ad ogni modo, sono stati esplicitamente fatti taciti accordi, l’aviazione turca ha bombardato a proprio piacimento le posizioni dell’YPG ed i villaggi attorno ad Afrin, così come la città stessa. Ancora una volta nella storia, la popolazione curda – e non solo – fa le spese di un terribile gioco internazionale.
Il fatto che noi non abbiamo aderito agli elogi della «rivoluzione in Rojava», intessuti da quasi tutta la sinistra e da una parte considerevole di anarchici, deriva da molte ragioni. Una delle più importanti è senza dubbio il fatto che ogni tensione rivoluzionaria sul posto resta subordinata all’agguerrita gerarchia proveniente da una molto classica versione stalinista della lotta di liberazione nazionale.
Che i sollevamenti non privi di spirito libertario di questi ultimi anni – inclusi quelli in Siria – abbiano provocato ripercussioni anche sugli apparati del movimento curdo ci sembra un fatto indiscutibile, aprendo effettivamente la via ad un approccio meno centralizzato e meno dirigistico della lotta in Kurdistan. Tuttavia, ciò non cambia nulla al fatto che un apparato politico-militare resta un apparato, «costretto» a fare tutto ciò che viene prescritto dalla strategia politica: alleanze inaccettabili, improvvise inversioni, repressione delle voci discordanti, propaganda ipocrita. Pur riconoscendo l’importanza dei combattimenti fatti da migliaia di uomini e donne, in Rojava siriana come nelle montagne della Turchia, animati da una certa idea di liberazione, gli elogi ci sembrano come minimo fuori luogo, se non mistificanti, quando la gerarchia dellYPG firmava in piena rivoluzione siriana un «accordo» con il regime sanguinario di Assad per assicurarsi la gestione di una parte del territorio siriano («era una necessità strategica»); quando poi concludeva accordi militari con paesi come gli Stati Uniti per garantirsi rifornimenti d’armi ed addestramento con i loro istruttori («altrimenti come difendersi contro lo Stato Islamico?»); quando non cercava mai di estendere il «conflitto rivoluzionario» fuori dai confini del Kurdistan («bisogna essere realisti») per esempio chiamando a lottare contro le democrazie europee immerse fino al collo nel prolungamento di questa guerra; e quando infine, triste necessità, ha accettato la presenza di almeno duemila soldati americani, francesi, ecc. sul suo «territorio liberato», arrivando oggi ad offrire l’installazione di due basi americane in Rojava, una a Rmeilan e l’altra a sud-est di Kobane. Forse siamo limitati, ma come anarchici continuiamo ad avere qualche difficoltà a comprendere come possa realizzarsi una vera rivoluzione sociale sotto le ali protettrici degli F-16 americani o delle forze speciali francesi.
Ciò detto, stare in disparte da questo conflitto in una sorta di dolce indifferenza per non doversi sporcare le mani ci sembra inaccettabile quanto chiudere gli occhi di fronte alla direzione gerarchica dell’YPG ed alla sua dottrina politico-militare. L’offensiva turca da Afrin fa eco ad esempio alla guerra che il regime di Erdogan scatena contro il Kurdistan in territorio turco a colpi di massacri, bombardamenti ed esecuzioni – del resto non senza incontrare una forte resistenza. In sostanza, sono i termini stessi della questione che andrebbero cambiati. E questo ci sembra valga anche per molti altri conflitti attraversati da enormi strategie geopolitiche, che sia nello Yemen dove la guerra continua senza sosta, nel resto della Siria, in Palestina dove la guerra si intensifica di nuovo, in Ucraina o in numerosi paesi africani.
Certo, possiamo portare il nostro sostegno ai gruppi di combattimento anarchici costituitisi in Kurdistan con chiare prospettive rivoluzionarie. E anche se al momento mancano informazioni più precise – almeno a noi – sulle loro attività e posizioni di fronte alla gerarchia militare dell’YPG, non possiamo che riconoscere un’autentica volontà internazionalista tra i compagni impegnati in tale lotta, auspicando che le loro esperienze e rievocazioni critiche aiutino a capire meglio la situazione. Anche altrove possiamo allo stesso modo portare la nostra solidarietà agli anarchici catturati in una guerra o che subiscono regimi repressivi particolarmente feroci. Sì, possiamo fare tutto questo, ma non solo.

A questo proposito ci tornano in mente le parole di Louis Mercier Vega, instancabile combattente anarchico che ha attraversato numerose situazioni di conflitto acceso in diversi continenti, parole che datano 1977, in piena esplosione di guerriglie e di guerre: «L’eterna considerazione che ogni atto, ogni sentimento espresso, ogni atteggiamento fa il gioco dell’uno o dell’altro antagonista, è senza dubbio esatta. Si tratta di sapere se bisogna scomparire, tacere, diventare un oggetto, per la sola ragione che la nostra esistenza potrebbe favorire il trionfo dell’uno sull’altro. Mentre una sola verità è eclatante: nessuno farà il nostro gioco se non lo facciamo noi stessi. Non voler partecipare alle operazioni di politica internazionale, in uno dei campi in lotta, non significa che bisogna disinteressarsi della realtà di tali operazioni». Fare il nostro gioco, dunque. Per irrigidimento identitario? Per chiusura ideologica di fronte a realtà sociali e storiche complesse? Per paura di impantanarsi e fare da manovalanza? Al di là di queste difficoltà, alcuni ragionamenti ci portano per ben altri motivi a condividere la prospettiva qui esposta dal vecchio combattente acrata.

Il primo parte dal fatto che se l’autorità non è levatrice di libertà, non lo è mai stata, e nessuna auto-organizzazione può nascere da un approccio autoritario, centralista e gerarchico della lotta, resta comunque il fatto che tensioni verso l’auto-organizzazione e la libertà sono spesso presenti pure all’interno di questi conflitti, anche quando questi sono dominati da correnti autoritarie (ad esempio con un’ideologia comunista o di liberazione nazionale). In questo caso, sappiamo in anticipo che gli apparati di queste organizzazioni di lotta, prima o poi non esiteranno a reprimere, schiacciare, recuperare o eliminare tali tensioni, pur mostrando (spesso, non sempre) cautela per non perdere il controllo della situazione. Piuttosto che mettere di fatto le loro energie e il proprio entusiasmo a disposizione di un tale apparato, gli anarchici non potrebbero al contrario immaginare dei modi per sostenere, difendere ed espandere queste tensioni verso l’auto-organizzazione e la libertà, preparando e preparandosi all’inevitabile confronto decisivo con le forze autoritarie?
Numerosi esempi del passato – dall’Ucraina libertaria del 1917-1921 alla Spagna rivoluzionaria del 1936, nonché durante situazioni profonde di conflitto negli anni 70 – ci mostrano come gli anarchici e le tensioni libertarie all’interno di ampie fasce della popolazione perdano in velocità e forza, finendo per essere sconfitti con più o meno facilità, con più o meno terrore e massacri, a furia di aspettare che gli autoritari si «smascherino» da soli scatenando la loro repressione finale. È difficile prevedere il momento di una rottura insurrezionale all’interno di un conflitto che comprende un’importante presenza autoritaria, ma è tuttavia certo che se l’iniziativa non verrà dagli anti-autoritari, se non saremo noi a superare i punti di non ritorno, la rivoluzione sociale sarà condannata a morte certa.

Un secondo ragionamento, più legato ad una situazione di guerra come è il caso oggi in diverse regioni del pianeta, è che fare il nostro gioco, vale a dire combattere per la liberazione totale e per distruggere ogni potere, deve certo prendere in considerazione le analisi sulla situazione politica, sulle questioni strategiche o sui progetti del dominio al fine di avere la conoscenza indispensabile delle condizioni in cui avviene la lotta, ma tale conoscenza non dovrebbe sostituirsi al progetto anarchico stesso. Per essere chiari, non dovremmo in nessun caso mettere tra parentesi, anche se in nome della nostra solidarietà con coloro che si battono, il nostro progetto di distruzione di ogni potere. Solidarizzare, intervenire direttamente in una lotta di oppressi contro oppressori, non dovrebbero quindi comportare il sostegno ai primi quando a loro volta vogliono ergersi a nuovi oppressori. Ciò può effettivamente portarci a tenere una certa distanza da particolari situazioni di conflitto, in assenza di un punto di riferimento che ci aiuti a cogliere le tensioni libertarie presenti al loro interno, e nell’impossibilità di potervi prendere parte direttamente senza mettersi sotto gli ordini di una qualsivoglia gerarchia.
D’altra parte, pur rimanendo nel caso di una simile situazione, se analizziamo le connessioni intrinseche tra guerra esterna e guerra interna, tra l’intervento militare condotto da uno Stato in un paese lontano ed il suo necessario mantenimento di ordine, repressione ed intensificazione dell’accumulazione capitalista all’interno, è difficile non vedere tutte le possibilità di intervento che ci si offrono. Prendiamo ad esempio il caso delle operazioni militari francesi nel Sahel nel nome dell’«anti-terrorismo». La mancanza di un punto di riferimento sul posto che possa aprire l’opportunità di un intervento rivoluzionario diretto e internazionalista, non impedisce affatto di agire anche qui, nello Stato da cui provengono queste operazioni, in quello che se ne serve per consolidare il consenso sociale tra dominati e dominanti, per ottenere importanti benefici o per incrementare la sorveglianza contro chiunque…


Allora sì, fare il nostro gioco. Ma il nostro gioco consiste solo nell’elaborare belle teorie dal porto mentre la tempesta infuria al largo? Mentre migliaia di persone crepano sotto le bombe e si fanno massacrare in nome di un qualsiasi potere? No, impossibile accettare una simile posizione se non si vuole buttare nella spazzatura la coerenza rivoluzionaria che dovrebbe caratterizzare la nostra azione, la sensibilità che si trova nel cuore di ogni nemico dell’autorità, l’etica che ci distingue, talvolta a caro prezzo, dalla politica e dal calcolo. La nostra  non dovrebbe quindi consistere in solenni dichiarazioni di principio o in proteste simboliche. Di fronte ai massacri perpetrati ieri nell’ex Jugoslavia o oggi ad Afrin, nello Yemen, in Siria, sulle montagne del Kurdistan, in Palestina, in molti paesi dell’Africa, in Birmania o altrove… bisogna agire da anarchici, cioè agli ordini di nessuno e nel solo nome della libertà, per esempio colpendo la guerra laddove viene prodotta. Nelle imprese belliche, nella logistica degli armamenti, nei profittatori di guerra, nei convogli e nei trasporti di materiale di rifornimento, nei loro centri di ricerca: in realtà, molte piste si presentano a chi vuole opporsi – concretamente – alla guerra in corso.
In questi ultimi anni molti sforzi sono già stati fatti in questa direzione e restano di bruciante attualità, come in Italia dove macchinari di cantiere di imprese attive nella costruzione di una nuova base militare sono stati incendiati nel sud, o dove il laboratorio Cryptolab dell’università di Trento e il polo Meccatronica che partecipano alla ricerca militare sono stati dati alle fiamme. Come anche in Belgio, dove tre grandi imprese del settore bellico sono bruciate, devastando in due casi la quasi totalità di queste fabbriche di morte. Sotto un’altra angolazione ancora, infrastrutture logistiche dell’esercito e di industrie belliche sono state oggetto di sabotaggi, come a Basilea, dove la ferrovia che serve per trasportare le truppe svizzere è stata sabotata, come a Monaco dove la linea ferroviaria per merci utilizzata da un grande complesso militare-industriale è stata sabotata, come a Sant’Antioco in Italia dove un convoglio militare è stato bloccato o sempre in Italia, in Trentino, dove sono state bruciate alcune antenne di telecomunicazione militare. Talvolta alcuni attacchi hanno preso di mira direttamente le forze armate, come a Monaco dove un camion militare è stato dato alle fiamme, a Montevideo dove un’Accademia Militare è stata raggiunta da molotov, a Decimomannu in Italia, dove un incendio ha colpito l’aeroporto militare, a Brema in Germania, dove 18 veicoli militari del genio sono stati inceneriti, a Dresda dove un veicolo militare è bruciato, o anche in Francia quando una caserma della gendarmeria (che è un corpo militare) è stata incendiata o veicoli di gendarmi sono stati bruciati proprio sotto il loro naso. Echi di attacchi contro i profittatori e gli intermediari di guerra sono venuti alla luce, come quei sabotaggi in Italia contro gli interessi della multinazionale del petrolio e del gas ENI, coinvolta nel conflitto libico, o come a Parigi quando un attacco incendiario contro un camion-betoniera di Lafarge è certo fallito, ma non senza trovare un’eco a Tolosa il mese seguente, dove tre di questi stessi camion sono andati in fiamme. Lafarge-Holcim è un produttore di cemento che ha importanti interessi economici in Siria, dove da un lato ha costruito bunker per conto del regime di Assad, e dall’altro ha collaborato finanziariamente con lo Stato Islamico in nome del business as usual, quando le sue industrie di cemento si trovavano nel territorio occupato dall’ISIS.
Queste poche piste ed esempi recenti non sono destinati ad aiutarci a trovare più facilmente il sonno mentre i massacri continuano. Non sono litanie da recitare per mettere in pace la propria coscienza. Trovano qui il loro posto semplicemente perché nei fatti è attaccare la guerra, suggerendoci delle possibilità di intervento laddove ci troviamo. Il progetto anarchico di liberazione totale non può fare a meno – ancor più in questi tempi di accresciuta militarizzazione e di continue guerre – di un approfondimento su come intervenire in tali situazioni, che ci si trovi nel cuore del conflitto o, per così dire, ad una certa distanza geografica. Esprimendosi attraverso l’attacco,  simili approfondimenti probabilmente diranno a coloro che stanno combattendo contro un’oppressione molto più della nostra concezione di libertà e solidarietà, che issare bandiere che non possono essere le nostre.
[Avis de tempêtes, n. 2, 15 febbraio 2018]
Tradotto da Finimondo.
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Ricominciare

Posted on 2021/08/02 - 2021/08/02 by avisbabel
Ricominciare, sempre. È il destino, che può apparire alquanto tragico, di tutti coloro che sono in guerra contro questo mondo di infiniti orrori. Lungo la via alcuni cadono sotto i colpi, altri non resistono alle sirene che invitano a rassegnarsi e a rientrare nei ranghi, cioè a cambiare bandiera una volta per tutte. Gli altri, quelle e quelli che insistono a battersi fra alti e bassi, devono ogni volta ritrovare forza e determinazione per ricominciare. Eppure, a ben pensarci, la tragedia non è quella di ricominciare, di ripartire da zero, ma di abbandonare e di tradire se stessi. La coscienza, sempre individuale, può essere un fardello pesante da portare, e diventa crudele quando la si tradisce senza disporre di sufficienti anestetici. Perché questo mondo non ne è privo, e li distilla pure a volontà. Una piccola carriera alternativa in proprio, qualche domenica alla scoperta di un parco naturale, un progetto umanitario o culturale, o magari droghe decisamente più pesanti: schermi di ogni tipo, realtà e socialità virtuali, abbrutimento totale. No, un simile destino ci spaventa assai più di qualsiasi sofferenza, di qualsiasi difficoltà legata all’impossibilità di distruggere l’autorità.
Allora, ricominciare. Per affilare le coscienze in un mondo che le prende di mira lanciando contro di esse i suoi letali veleni. Perché cosa sono l’accettazione, la rassegnazione e la sottomissione, se non il soffocamento della propria coscienza, giustificato — o meno — dalle condizioni in cui siamo tutti impantanati? «Sono troppo forti», «le persone sono troppo stupide», «la mia sopravvivenza è già troppo difficile», «è troppo fuori dalla mia portata» sono le frasi classiche. Allora, affilare le coscienze significa anche riprendere gusto per le idee che permettono di vedere, di distinguere più chiaramente i contorni di coloro che gettano cemento sulla libertà, e nello stesso tempo aprire orizzonti al fine di poter guardare, anche solo furtivamente, al di là dei muri e delle antenne, al di là delle prigioni e dei laboratori, al di là dei massacri e dei soldati. Le idee non si comprano al supermercato e non si approfondiscono su internet. È ogni individuo che le fa proprie passo dopo passo fino ad amarle, e le difende superando ogni ostacolo, soprattutto in tempi come i nostri in cui il totalitarismo democratico, mercantile e tecnologico pretende di sopprimere ogni slancio, di insediare schiavitù e dipendenze ancora più perfide. Da qualche parte si trova il tesoro più prezioso dell’anarchico: la sua convinzione che non vi è adeguamento possibile tra libertà ed autorità, che si escludono reciprocamente, dovunque e sempre. Mille istituzioni, organizzazioni, ideologie cercano di distruggere quel tesoro. Si tratti di uno Stato che affoga nel sangue le grida finalmente risvegliate degli oppressi di ieri o del tecnocrate che parla di libertà per indicare un sistema tecnologico che estende ogni giorno di più la sua influenza in tutto il pianeta. Si tratti di futuri capi che cercano di guidare un movimento di rabbia o dell’abile acrobata della retorica che si sforza di sottrarre significato agli attacchi sferrati contro questo mondo.
Se parliamo di ricominciare, è per esprimere la nostra volontà di riprendere, ancora una volta, l’approfondimento delle nostre idee, per renderle tossiche a tutti gli autoritari che le avvicinano, e rivitalizzanti per tutti gli amanti della libertà che le abbracciano. È per ricominciare ancora una volta, nei contesti che ci sono dati e che sono parecchio cambiati in pochi anni, ad elaborare il nostro progetto anarchico di sempre: distruggere l’oppressione e lo sfruttamento. Nel tempo, se ci applichiamo, sorgeranno altre esperienze, altri tentativi, altri fallimenti: tutto ciò fa parte del nostro arsenale, del nostro patrimonio se vogliamo, che invece di farci cadere in una plumbea malinconia può armarci per ricostruire un progetto di liberazione individuale e collettiva, una prospettiva rivoluzionaria. Certo, è impossibile evitare errori, non ritrovarsi in certi momenti in un vicolo cieco, non naufragare in acque tempestose, ma quei fallimenti fanno parte a pieno titolo del nostro percorso. Come diceva quell’anarchico all’inizio del XX secolo: «Ci muoviamo con ardore, con forza, con piacere in un determinato senso in quanto abbiamo la consapevolezza di aver fatto e di essere pronti a tutto perché questa sia la direzione giusta. Dedichiamo allo studio la più grande cura, la più grande attenzione e impiegheremo nell’azione la massima energia. (…) Per affrettare il nostro cammino, non abbiamo bisogno di miraggi che ci mostrino la meta vicina, a portata di mano. Ci basta sapere che andiamo… e che, se a volte segniamo il passo, non ci smarriamo».
Ma le idee da sole non ci bastano. Sapere che l’autorità è nostra nemica, e che tutto ciò che l’incarna è quindi un bersaglio, dai politicanti agli sbirri, dai tecnocrati agli ufficiali, dai capitalisti ai capireparto, dai preti ai delatori, è una cosa; progettare la distruzione necessaria dei rapporti sociali, delle strutture e delle reti che permettono loro di esistere è un’altra. I vasi comunicanti fra idea e azione sono il cuore dell’anarchismo. Affinché l’idea non appassisca, occorre che l’azione la rinvigorisca. Affinché l’azione non giri a vuoto, occorre che l’idea la incanti. Le idee per corrodere la mentalità di obbedienza, le ideologie e le sottomissioni; l’azione per distruggere le strutture e gli uomini del dominio. E se è sempre ora di agire, se è sempre tempo di colpire ciò che sfrutta ed  opprime, l’agire non può essere tuttavia un semplice riflesso condizionato, non può accontentarsi di rispondere (re-agire) al solo caso per caso con rabbia e fragore. Affinché l’agire divenga veramente tale, in una prospettiva anarchica e rivoluzionaria, l’iniziativa deve venire da noi, in una offensiva che parta dalla nostra individualità, dalla nostra immaginazione, dalle nostre analisi e dalla nostra determinazione. Siccome l’agire non ci è concesso e non cade dal cielo, è indispensabile riflettere sul suo come. Ecco perché non possiamo che rimettere sul tavolo ancora una volta la questione della progettualità, la nostra capacità autonoma di proiettare idee ed azioni direttamente nel campo del nemico. Attendere che «la gente» — quella vuota astrazione che ha sostituito il defunto proletariato — prenda coscienza e desideri la libertà, sforzarsi di «educarla», non fa per noi. Non solo perché non funzionerebbe, ma anche perché una simile prospettiva è ormai del tutto obsoleta (sempre che non lo sia sempre stata) di fronte al continuo bombardamento delle menti e delle sensibilità da parte del dominio. Avanzare a poco a poco, lotta dopo lotta, movimento sociale dopo movimento sociale, verso il grande momento in cui tutto convergerà infine per annunciare lo sconvolgimento totale, non ci convince nemmeno: se in ogni rivolta contro ciò che ci viene imposto sonnecchia sempre il potenziale della messa in discussione di tutto al di là del suo punto di partenza iniziale, troppi freni, troppe ripetizioni e canalizzazioni sono all’opera in questo genere di movimenti sociali perché saltino le dighe e si apra l’ignoto della sovversione.
Rimane allora, perdonateci se andiamo un po’ alla svelta, la possibilità di agire da anarchici, per conto nostro — ma al fine di andare ben oltre noi stessi. Restituire i colpi è una base, elaborare una progettualità per non limitarci a colpire, ma anche a distruggere le dighe del dominio, ne è un prolungamento più che desiderabile. È qui che rientriamo nell’ambito dell’insurrezione: la prospettiva di far saltare le dighe, di scatenare le cattive passioni come diceva qualcuno, di aprire un arco temporale per poter dare colpi altrimenti più sferzanti allo Stato e al Capitale. Ovviamente non esistono ricette di insurrezione, malgrado gli appelli da parte dei leninisti moderni che riciclano sotto abiti un po’ meno rattoppati la vecchia ricetta della presa del potere (questa volta dal basso). Ma senza ricette, ciò non impedisce che delle ipotesi anti-autoritarie possano comunque essere ponderate, messe alla prova ed esplorate: da una lotta contro una realizzazione specifica del potere all’intervento autonomo in un accesso di febbre, dalla paralisi di infrastrutture che permettono la riproduzione quotidiana della schiavitù salariale allo sconvolgimento impetuoso ed improvviso dei piani di un nemico in fase di ristrutturazione dall’esito ancora incerto. Sperimentare nella propria stessa vita simili ipotesi insurrezionali su basi anarchiche, anche in piccola scala (la nostra), ci conduce in ogni caso ben oltre i noiosi dormitori del militantismo, oltre i ritornelli speculativi su ciò che pensa o meno «la gente», su ciò che «il movimento» fa o non fa, oltre l’attesa del prossimo movimento sociale, e così di seguito. Significa prendere da sé l’iniziativa di attaccare secondo i propri modi e tempi.
Pensare una prospettiva insurrezionale ed anarchica ci porta infine per forza di cose alla questione di come organizzarci per avanzare in tal senso. Che i sindacati, compresi quelli più o meno libertari, non siano gli strumenti adatti è abbastanza evidente, soprattutto coi tempi che corrono in cui le antiche «comunità» basate sul lavoro sono state accuratamente sezionate e dissolte dai progressi del capitale. Lo stesso dicasi per le grandi organizzazioni anarchiche, con le loro sezioni, i congressi, le risoluzioni e le sigle. Meno evidente è forse il fatto che nemmeno le grandi assemblee (che si amano agghindare con l’aggettivo «orizzontali») hanno senso. Che, pur non negando l’importanza che la discussione aperta e contraddittoria può avere all’interno delle lotte e delle rivolte, e quindi l’eventuale interesse di prendervi parte, gli anarchici non dovrebbero comunque limitarsi a partecipare a questi momenti di scambio, ma anche organizzarsi al di fuori di essi. Che il miglior elemento per garantire i vasi comunicanti tra idea e azione, per avere una reale autonomia di azione, è l’affinità fra individui: la conoscenza reciproca, delle prospettive condivise, una disponibilità all’azione. E che poi, per dare maggiore incisività, aumentare le possibilità, elaborare una progettualità più vasta, coordinare gli sforzi, apportare il proprio aiuto a momenti potenzialmente cruciali, può anche nascere fra tutte queste costellazioni affini — sempre secondo le necessità di un progetto — una organizzazione informale, ovvero una auto-organizzazione senza nome, senza delega, senza rappresentazione… E per essere chiari: le organizzazioni informali sono anch’esse molteplici, in funzione degli obiettivi. Il metodo informale non aspira a radunare tutti gli anarchici in una medesima costellazione, ma consente di moltiplicare i coordinamenti, le organizzazioni informali, i gruppi d’affinità. Il loro incontro può avvenire sul terreno di una proposta concreta, di una ipotesi o di una progettualità precisa. È questa la differenza tra una organizzazione informale, dai contorni per forza di cose «vaghi e sotterranei» (senza cercare riflettori nei confronti di nessuno), ed altri tipi di organizzazioni di lotta, per le quali l’importante è quasi sempre affermare la propria esistenza nella speranza di pesare sugli avvenimenti, dare indicazioni riguardo i percorsi da seguire, essere una forza che rientra nella bilancia degli equilibri del potere. L’organizzazione informale si proietta altrove: sottraendosi alle attenzioni dei cani del dominio, esiste solo nei fatti che favorisce. In breve, non ha un nome da difendere o da affermare, ha solo un progetto da realizzare. Un progetto insurrezionale.
Ecco allora da dove ricominciamo: coi tempi che corrono, in cui le rivolte stentano ad esplodere, e sono più sulla difensiva che offensive, in cui la guerra avanza parallelamente all’ingabbiamento tecnologico del mondo, in cui la rete del controllo si restringe su tutti, quindi anche sugli anarchici, in cui l’adesione di numerosi oppressi al sistema che li abbrutisce costituisce come sempre la miglior difesa di cui il dominio possa servirsi, noi ci ostiniamo a voler propagare le nostre idee di libertà attraverso una lotta senza compromessi con l’autorità. Al di fuori dei cammini battuti, con l’affinità e l’organizzazione informale, coscienti della necessità della rivoluzione sociale, indipendentemente dal fatto che essa possa apparire vicina o più lontana, per trasformare da cima a fondo i rapporti sociali su cui si fonda ogni società autoritaria. Diffondendo così idee ed echi di attacchi distruttivi contro le strutture e gli uomini che incarnano l’oppressione e lo sfruttamento, per aprire orizzonti insurrezionali.

 

[Avis de tempêtes, Bullettin anarchiste pour la guerre sociale, n. 1, 15 gennaio 2018]
Tradotto da Finimondo.

 

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