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Category: Italiano

E se tornassimo indietro…

Posted on 2023/01/23 by avisbabel

Le nubi che si profilavano nell’autunno del 2017 non erano le più favorevoli per intraprendere lunghe passeggiate. Eppure è stato nel corso di quei mesi piovosi, durante scambi e discussioni animati, esitazioni e fantasticherie, che l’idea di un bollettino anarchico periodico su carta è infine maturata. Più che una rivista o un giornale di agitazione, abbiamo inteso dar vita piuttosto a quello che fra di noi chiamavamo, non senza una punta di orgoglio, un foglio di lotta. Era giunto il momento di lanciare qualcosa di nuovo, considerato lo scoramento che stava prendendo il sopravvento sul precedente entusiasmo. Le rivolte e le sommosse nel Magreb e in Medio Oriente erano appena state soffocate nel sangue, o si erano trasformate in guerre civili dai contorni sempre più contraddittori. Le lotte specifiche contro le strutture di reclusione o il nucleare – che erano state terreno di molteplici esperimenti di organizzazioni informali, progettualità e agitazioni – cominciavano a dissolversi. L’ennesimo movimento sociale che avrebbe dovuto dare fuoco alle polveri si stava evidentemente facendo attendere. E all’interno di quella vasta lotta territoriale che è stata la ZAD di Notre-Dame-des-Landes, le logiche politicanti e gestionali, dopo anni di connivenze e conflitti, hanno finito col prevalere sulle ultime frange offensive. Così abbiamo lanciato il primo numero di questo bollettino come sfida per ricominciare. Non per cantare all’infinito lo stesso ritornello o ripetere gli errori del passato, non per confinare lo sguardo nel giardino ben delimitato della Doxa anarchica del momento, ma per esplorare strade di nuove progettualità in un mondo in piena mutazione, basandoci su esperienze recenti dell’agire anarchico autonomo dalle molteplici sfaccettature, tentando di elaborare una riflessione più approfondita.

È con queste esigenze in mente che abbiamo difeso la possibilità dell’azione minoritaria anarchica, l’attacco diffuso, l’organizzazione informale, i gruppi di affinità e autonomi, sia in tempi più tranquilli che in tempi più foschi (quelli del Grande Confinamento) o di rivolta sociale (quella dei Gilet Gialli). Nel corso delle ricerche e degli approfondimenti delle evoluzioni del dominio, il nostro sguardo si è sempre più concentrato anche sugli sviluppi tecnologici che stanno modificando radicalmente i rapporti sociali rafforzando al tempo stesso l’infrastruttura di una terribile prigione a cielo aperto, oltre che sulle devastazioni irreversibili provocate dall’industrialismo. Queste analisi, ma soprattutto la realtà della conflittualità, non hanno tardato a farci intravedere una possibile via per riarmare la sovversione e proporre un metodo di azione praticabile e adatto al mondo che abbiamo di fronte: il sabotaggio delle sue infrastrutture logistiche, energetiche e tecnologiche.

Questa ricerca alquanto ostinata ci ha probabilmente portato, nelle riflessioni avviate mese dopo mese negli ultimi cinque anni, a trascurare alcuni aspetti o a sottovalutare altre notevoli evoluzioni del dominio. È una constatazione, più che un rammarico, perché abbiamo sempre voluto considerare questo bollettino, anche quando non c’era quasi più una pubblicazione anarchica periodica che non fosse relegata alla sfera digitale, come un contributo tra gli altri nel magma della teoria e dell’azione. Pure alcune scelte supplementari, più legate al modo di redigerlo e diffonderlo, in particolare il suo rigoroso anonimato, sono state pensate fin dall’inizio in modo che il bollettino potesse essere concepito fra altri strumenti.

D’altronde, inutile nasconderlo, abbiamo anche cercato volontariamente di rompere con certe abitudini, consuetudini e riflessi condizionati del movimento anarchico, prendendo inoltre di mira ciò che al suo interno, a nostro avviso, deriva da un riciclaggio di cadaveri. Sul primo punto, questo bollettino ha dedicato poco spazio, per esempio, alla lotta «antirepressiva», non perché la sorte riservata a quelle compagne e compagni ci lasci freddi o indifferenti, ma in quanto riteniamo che spezzare l’accerchiamento repressivo passi per una progettualità che attacca e sceglie lucidamente il proprio terreno d’azione, più che tentando di restituire i colpi – ammettiamolo, spesso invano – rimanendo esattamente dove lo Stato vuole che restiamo.
Quanto al secondo punto, si sarà notato che non ci siamo allineati alla resurrezione di concetti obsoleti come «la classe», «i padroni» o «il proletariato» che proliferano negli ultimi tempi in seno al movimento anarchico internazionale, né ai fantasmi a proposito delle famose «masse popolari oppresse» col loro consueto seguito vittimista, né all’attuale spirale delle cosiddette «politiche identitarie». Abbiamo piuttosto cercato di porre questioni che una parte del movimento a volte sembra preferisca ignorare per restare il più vicino possibile a motivi più «classici» (il razzismo, la gentrificazione, i movimenti sociali, l’esclusione).
Quale progettualità sviluppare nell’èra del brutale cambiamento climatico, della transizione energetica, della ristrutturazione del capitalismo industriale? Quali mezzi darsi per continuare ad attaccare di fronte all’ingabbiamento digitale del mondo e alla sorveglianza che ne deriva? Quali angoli e terreni di attacco diventano prioritari oggi? Quali forme di organizzazione informale ci appaiono auspicabili e necessarie? Come prepararsi per continuare ad agire in tempi più instabili, di guerra, di catastrofi, di «tracolli» parziali? Certo, non sarà questo piccolo bollettino ad aver posto tutte queste domande sul tavolo, per quanto speriamo di avervi contribuito nella nostra misura, a rischio d’essere stati talvolta maldestri o limitati nelle nostre proposte. E piuttosto che considerare tali questioni come qualcosa di concluso, pensiamo che sia perfino cruciale che vengano riprese e sviluppate all’interno del movimento internazionale, non necessariamente per arrivare alle stesse conclusioni, ma quanto meno per sforzarsi di non sprofondare nella sclerosi, ancorché combattente come vanta di essere. È appunto per tutto ciò che abbiamo l’impressione di essere giunti ​​al limite di ciò che si possa fare con un simile bollettino, poiché certi approfondimenti e discussioni non possono che proseguire altrove più che in questo tipo di strumenti.

Volgendo lo sguardo ai quasi sessanta numeri di Avis de tempêtes già pubblicati, possiamo notare rileggendoli come certe riflessioni si siano affilate, altre siano state tralasciate lungo il percorso, ed altre ancora siano state rafforzate dal confronto critico con la realtà dello scontro. Questo confronto critico si è sviluppato anche cercando di guardare oltre i confini, per interessarsi a dinamiche di lotta e a rivolte che si stavano svolgendo un po’ più lontano da noi, dalla guerra civile in Siria alla rivolta sociale in Cile, dalla lotta dei Mapuche alle dure lotte degli anarchici nei paesi dell’Est e in Russia. Questa tensione internazionalista corrisponde del resto alla stessa volontà di approfondimento che ci ha talvolta portato a immergerci nel passato: dalla guerriglia libertaria contro il franchismo fino ai refrattari alla guerra tra Stati; dai piccoli gruppi di intransigenti che offrono alla vita «la squisita elevazione della ribellione del braccio e della mente» in Sud America fino alla lotta clandestina degli anarchici russi contro vecchi e nuovi poteri. Più che rappresentazioni di ciò che è stato, questi ritorni su esperienze poco accettate sono in realtà suggerimenti di ciò che può essere. Non riproducendole in modo identico, non mutilandole sotto forma di iconografie da esibire per celebrare la propria inazione, ma come esperienze vive che riannodino dei fili là dove sono stati spezzati dall’avanzata del dominio.

Al di là dei tanti articoli scritti per il bollettino, delle traduzioni di testi da altrove, delle note di lettura, dei rimandi storici o delle perle estratte dal forziere, Avis de tempêtes ha anche fornito in ogni numero una panoramica di attacchi, azioni e sabotaggi avvenuti in Francia, ma anche in diversi paesi europei. Questa cronologia non voleva certo essere esaustiva, tanto più che lo Stato ha spesso interesse a coprire gli atti anonimi con un velo di silenzio. Nel movimento anarchico contemporaneo, le opinioni sono divise su tale approccio, in particolare per quanto riguarda le azioni che non sono seguite da un post-scriptum rivendicativo. Senza voler qui proseguire in questo dibattito, diciamo semplicemente che il bollettino ha ripreso nella sua cronologia tutti gli attacchi che ci hanno ispirato per metodo ed obiettivo, sia che fossero rivendicati o meno – ammettendo appunto di non conoscere le intenzioni dei loro autori, e non pretendendo che si mostrassero alla luce del giorno affinché i loro atti fossero menzionati. Molte ragioni possono suggerire che essi non vengano spiegati ulteriormente, che vanno ad esempio da una tattica difensiva contro la repressione, fino alla considerazione che una eventuale spiegazione svanisce allorché l’obiettivo e il metodo sono chiari. Allo stesso modo, esistono altre ragioni che inducono a rivendicare un attacco, che vanno ad esempio dalla volontà di dare una portata più ampia all’azione compiuta, fino al tentativo di comunicare con altri attraverso di essa. Ma a nostro avviso, non esiste davvero alcuna ragione per scartare a priori qualsiasi azione non rivendicata o per esigere per principio dai sabotatori notturni un certificato di convalida formale; così come non c’è ragione per non riflettere su tale questione, e questo costantemente in relazione alle proprie prospettive e progettualità.

Per concludere, se è sempre stato un piacere redigere ed elaborare ogni numero di questo bollettino, dobbiamo pur dire adesso che dopo cinque anni è arrivata la voglia di mettere un punto. Una certa fatica nel cercare di assicurare questa regolarità, l’assenza talvolta penosa di riscontri o dibattiti incrociati, la constatazione di una ridondanza nel nostro modo di affrontare le vaste questioni dell’azione, certamente anche i limiti dello strumento stesso, sono tutti elementi che hanno contato nella nostra decisione di concludere l’esperienza di Avis de tempêtes. Una tale decisione potrebbe forse sembrare paradossale, ben sapendo che l’interesse e il bisogno che sentiamo per tali spazi di riflessione e di approfondimento restano sempre vivi, ma lo strumento che abbiamo forgiato in questi anni non è pronto per un nuovo inizio o un nuovo formato. Ci è sembrato quindi più appropriato farlo scomparire, in modo che altri progetti possano nascere.

Non ci resta che ringraziare coloro che hanno contribuito all’esistenza di questo bollettino, che l’hanno alimentato, diffuso e discusso, che l’hanno criticato senza far finta che non esistesse, che hanno tradotto articoli o interi numeri in altre lingue, che sono riusciti a trovare le strade per inviarci riscontri e suggerimenti, nel corso di un’avventura che è diventata molto più della nostra da quel lontano autunno tempestoso.

[Avis de tempêtes, n. 59/60, 15 dicembre 2022, tradotto da Ab Irato]

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Figli di Eichmann?

Posted on 2022/06/25 - 2022/07/06 by avisbabel
«L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è la velocità del progresso, quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto più è intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione e la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi»
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)

La nostra concezione della storia è rimasta fondamentalmente lineare. A dispetto di mostruose smentite quali Auschwitz o Hiroshima, rapidamente rimosse grazie all’incoscienza macchinica, il mito del progresso ha retto bene negli ultimi decenni. Si è mostrato in grado di incassare colpi, di accettare di includere qualche sfumatura e ancora oggi sembra perfettamente attrezzato per resistere al disincanto ispirato dalla catastrofe climatica che sta accelerando sotto i nostri occhi. «Sotto i nostri occhi» forse non è una bella espressione, essendosi creato da molto tempo un «dislivello» tra le azioni che svolgiamo all’interno dell’apparato produttivo e le conseguenze di tali azioni. Non perché siano impercettibili, troppo insignificanti per essere individuate dai nostri sensi e dalla nostra mente, ma al contrario, perché sono diventate troppo enormi.

L’ondata di caldo — un eufemismo che traduce bene la limitatezza del linguaggio, e quindi della nostra capacità di rappresentare le cose nell’ambito del sensibile e del razionale — che si sta oggi abbattendo su vaste aree del globo è tristemente indicativa a tale proposito. Non è possibile per l’essere umano immaginare l’enormità di ciò che sta accadendo, terribile conseguenza di un secolo e mezzo di industrializzazione. Centinaia di ettari di foreste che vanno a fuoco in Siberia, uccelli disidratati che piombano rigidi dal cielo sopra lo Stato indiano del Gujarat, esseri umani che boccheggiano e muoiono in una canicola dantesca di quasi 50°C abbattutasi su India e Pakistan, mentre torrenti di fango scatenati dall’improvviso scioglimento dei ghiacciai fanno straripare laghi d’alta quota devastando tutto al loro passaggio (compresi città e villaggi pakistani). Oggigiorno, la sopravvivenza di decine di milioni di persone stipate nelle città di questi due Paesi dipende dall’arrivo quotidiano di autocisterne di acqua potabile.

Facendo vacillare ogni schema della linearità tanto cara alla nostra concezione storica, il mondo di domani sta già attraversando l’oggi, un mondo in cui interi territori diventano inabitabili. Ci aggrappiamo disperatamente alle proiezioni provvisorie di ieri rapidamente smentite dall’accelerazione e dall’inattesa instabilità di molti fattori climatici e dal loro effetto retroattivo oggi, così da provare a immaginare il famoso mondo di domani. Da qualche mese si è riproposto, rivelando solo una frazione della sua violenza omicida. E con 1,2 gradi in più, con 2 o 3 gradi in più, aumenta la probabilità che quel mondo di domani si instauri definitivamente e irrimediabilmente.

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, è verso la fine dello sprint che si raggiunge la massima velocità. L’intero essere è allora pronto a compiere lo sforzo supremo, a realizzare la perfetta coordinazione tra il movimento muscolare, la circolazione sanguigna, i battiti del cuore e la respirazione. È questo il momento in cui «diamo tutto», poco prima di dover accettare che la fatica si riaffacci con forza in tutto il nostro organismo. L’accelerazione degli ultimi anni dell’espansione della civiltà termo-industriale e la devastazione planetaria che comporta sembra corrispondere ormai all’ultima fase dello sprint. Si direbbe persino che l’organismo stia già cedendo.
L’anno scorso, ad esempio, sono stati battuti quattro tristi record. Il 2021 è stato uno degli anni più torridi mai registrati. Le concentrazioni di gas serra hanno raggiunto un nuovo picco nel 2020, quando la concentrazione di anidride carbonica (CO2) ha raggiunto le 413,2 parti per milione (ppm) nel mondo, ovvero il 149% del livello preindustriale. Anche la temperatura dell’oceano ha di conseguenza raggiunto un livello record lo scorso anno. E pur assorbendo circa il 23% delle emissioni annue di CO2 di origine umana, rallentando in tal modo l’aumento delle sue concentrazioni nell’atmosfera, per contro l’anidride carbonica reagisce con l’acqua del mare e causa l’acidificazione degli oceani, danneggiando per lungo tempo le condizioni di vita nelle acque. Per di più, l’aumento del livello delle acque ha raggiunto un nuovo record, con un aumento due volte più rapido rispetto all’inizio del XXI secolo. Infine, il buco nell’ozono sopra l’Antartico non è mai stato così ampio e profondo come nel 2021.

In questa corsa verso l’abisso due nuovi confini sono stati valicati all’inizio dell’anno, quando un quinto, poi un sesto «limite planetario» — processi naturali che garantiscono la perpetuazione della vita in condizioni di esistenza «accettabili» — sono stati superati, col superamento della soglia critica dell’«introduzione di nuove entità nella biosfera», ossia dell’inquinamento chimico del nostro ambiente. Prima di questo quinto straripamento, la civiltà industriale aveva già sfondato il tetto del cambiamento climatico e della diversità genetica (provocando l’erosione della biodiversità), compromesso l’utilizzo del suolo e turbato il ciclo del fosforo e dell’azoto. Qualche mese dopo è stata la volta del «sesto limite»: il ciclo dell’acqua dolce. L’acqua dolce è la circolazione sanguigna della biosfera, ed è quindi essenziale al mantenimento di condizioni ambientali e climatiche vivibili. Spesso si opera una distinzione fra «l’acqua blu» — che il nostro consumo non mette ancora in pericolo, corrispondente all’acqua proveniente dalle precipitazioni, poi accumulata nei laghi e nei bacini idrici o riversata nell’oceano — e l’«acqua verde» — anch’essa proveniente dalle precipitazioni atmosferiche, poi assorbita dalle piante. È questa a risentirne. «L’interferenza umana con l’acqua verde ha assunto ormai una tale portata che il rischio di cambiamento non lineare e su larga scala ne è rafforzato, e mette in pericolo la capacità del sistema terrestre di rimanere in condizioni che rientrino nell’Olocene», precisa uno studio dedicato a questo oltrepassamento. L’«acqua verde» è tra l’altro importante per l’evaporazione, e di conseguenza per la regolazione dell’atmosfera e l’umidità del suolo, atte a prevenire l’essiccazione delle foreste. Per illustrarne le conseguenze, si potrebbe evocare l’immagine dell’Amazzonia vicina a un punto di svolta in cui vaste zone potrebbero passare da foreste tropicali a territori simili alla savana. Nello stesso mese di aprile in cui è stato superato quel limite del ciclo dell’acqua dolce verde, si apprende d’altronde che in Amazzonia non ci si aspetta più nemmeno l’essiccazione della foresta, poiché la deforestazione industriale ha polverizzato tutti i record. Nell’arco di un mese sono stati abbattuti l’equivalente di 1.400 campi di calcio.
E con il caldo, il mondo s’inaridisce. In Francia il termometro sale e le riserve idriche diminuiscono. Nel Corno d’Africa, «la peggiore siccità mai vissuta» minaccia di affamare 20 milioni di persone. In Cile, i tagli all’acqua sono ormai consueti. Quest’anno «più di 2,3 miliardi di persone dovranno affrontare lo stress idrico. Dal 2000, il numero e la durata delle siccità sono aumentati del 29%», si legge in un rapporto sulla desertificazione del mondo. La siccità è parte di un circolo vizioso: meno acqua significa meno fotosintesi dalle piante e quindi meno stoccaggio di CO2… e gli ecosistemi si trasformano poco alla volta in emettitori di carbonio, soprattutto nei periodi di siccità estrema. Negli ecosistemi europei, ad esempio, la fotosintesi è stata ridotta del 30% durante la siccità dell’estate 2003, determinando un rilascio netto di carbonio stimato in 0,5 giga-tonnellate. E pur essendo grosso modo equivalente la quantità di pioggia che cade in un anno, non si può comunque ripartire come si fa oggi: schematicamente, ci saranno forti piogge e lunghi periodi di siccità. «Se l’azione non viene intensificata, si prevede che entro il 2030 circa 700 milioni di persone rischiano di essere sfollate a causa della siccità», afferma lo stesso rapporto. Entro il 2050, le siccità potrebbero colpire più di tre quarti della popolazione mondiale e fino a 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare. A quella data, dai 4,8 ai 5,7 miliardi di persone vivranno in aree dove l’acqua scarseggia almeno un mese all’anno, contro i 3,6 miliardi di oggi.

Le tempeste di sabbia che da due mesi colpiscono l’Iraq in modo particolarmente duro sono un altro esempio delle conseguenze della desertificazione. In tutto il mondo, il deserto avanza in maniera inesorabile. Le sue nuvole arancioni seppelliscono le città. Manca l’acqua e i terreni si degradano. In Iraq, mentre migliaia di persone sono ricoverate in ospedale per problemi respiratori dovuti al «diluvio di sabbia», il lago Sawa è completamente scomparso e il Paese dovrà conoscere «272 giorni di polvere» all’anno nel corso dei prossimi due decenni. Si stima che il 70% della superficie terrestre sia già stato trasformato dalle attività umane, e che fino al 40% sia danneggiato principalmente dalla deforestazione, dalle monocolture intensive, dallo sfruttamento minerario e dall’urbanizzazione. Ogni anno va in polvere l’equivalente della superficie del Benin, ovvero 12 milioni di ettari. La desertificazione, la distruzione del suolo e più in generale le conseguenze del cambiamento climatico si intersecano con quasi la metà dei conflitti armati attualmente in corso sul pianeta, se ci limitiamo a questo solo aspetto.

«Se ieri si è verificato il mostruoso, allora non è perché c’è stato “ancora” ieri, ma al contrario perché c’è stato “già” ieri; quindi perché “quelli passati sono stati i precursori dei nostri mostruosi mondi di oggi e di domani”. Perché infatti non c’è dubbio che la macchinizzazione del mondo, e perciò la nostra comacchinizzazione, è terribilmente progredita rispetto a ieri».
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)

Questi abbozzi pieni di cifre dell’agonia del pianeta e del vivente non possono colmare il divario tra la nostra percezione e la nostra rappresentazione. Un evento così abnorme, così mostruoso, così inglobante come il cambiamento climatico e la devastazione delle condizioni del vivente supera decisamente la nostra capacità di comprensione. Sarebbe forse troppo azzardato evocare un possibile parallelo, addirittura una eventuale continuità tra i sistemi che hanno integrato milioni di brave persone come rotelle di una macchina industriale che ha gassato e bruciato più di 6 milioni di persone, o che hanno impiegato milioni di altre persone per la progettazione e l’uso effettivo della bomba atomica… e i miliardi di noi presi oggi nell’ingranaggio di un industrialismo a tappe forzate, il cui orizzonte non può che essere un olocausto del vivente?

Si potrebbe argomentare che una tale continuità non esista, non può esistere, dato che lo sterminio degli ebrei (e degli altri) è stato un piano deliberato, architettato dai nazisti; che la scelta delle città di Hiroshima e Nagasaki per perpetrare gli eccidi di massa atomici sia stata una scelta che rispondeva a criteri politici e scientifici stabiliti da un ben preciso gruppo di generali, politici e scienziati. Si può sostenere che non esista un progetto deliberato per distruggere il vivente (anche se i progetti di «eugenetica climatica» hanno sempre accompagnato lo slancio dell’industrialismo per «afferrare per la coda la natura», per «dominare le forze della natura», per correggere i «difetti» o, più di recente, per indirizzare l’umanità verso un destino transumanista o per domare il clima mediante la «geo-ingegneria»). Ciò non toglie che l’intossicazione del mondo sia qui. Che l’esposizione del vivente a migliaia di esplosioni nucleari sia un dato di fatto. Che la sostituzione delle piante con chimere geneticamente modificate in nome del risultato economico sia in corso.

Quando si agisce con cognizione di causa, quando si continua a porre un preciso obiettivo (l’espansione e l’accumulazione) al di sopra di ogni altra considerazione, anche quando le conseguenze sono talmente nefaste da minacciare ormai la continuità stessa della vita sulla terra; quando d’altro canto, riguardo la suddivisione del lavoro, non si fa nulla, o quasi, per opporsi all’avanzata di questa mega-macchina sterminatrice, ma al contrario si prosegue senza storcere troppo il naso (se non forse per pretendere una parte più consistente del bottino della predazione) a fare il proprio lavoro nelle raffinerie, nelle start-up, negli stabilimenti chimici, negli uffici direzionali, quando insomma ci «rifiutiamo espressamente di sapere quel che facciamo», quando «ci rendiamo volutamente ciechi nei confronti [delle conseguenze del nostro agire]… incoraggiamo o addirittura produciamo la cecità degli altri, o… non la combattiamo», non ci troviamo al cospetto di una logica eichmanniana?

Non si può certo ammettere che Eichmann facesse null’altro che il suo lavoro, come si è difeso al processo, tra l’altro non ai suoi esordi. Per organizzare i trasporti verso i campi di sterminio, doveva avere ben chiaro in mente il suo obiettivo. Era «solo» un ingranaggio — anche se, di fronte alla mostruosità, quel «solo» suona in modo inappropriato. Ma è possibile che in seguito egli si sia abituato al proprio lavoro, che si sia lasciato assorbire dai compiti da svolgere e che nella sua mente l’obiettivo abbia ceduto il posto al calcolo, all’approccio prevalentemente tecnico. È in tal senso che oggi possiamo scoprire, davanti alle conseguenze nefaste del nostro agire, un atteggiamento «degno» di un Eichmann all’opera.
Allo scopo di scongiurare tutto ciò che potrebbe sembrare una sorta di «colpa collettiva», si è giunti ​​al punto di provare a sostenere che sotto il regime hitleriano le persone non fossero necessariamente, o semplicemente non fossero, al corrente del destino riservato agli ebrei deportati e agli altri. Che la gassatura e l’incenerimento di sei milioni di esseri umani fossero il ​​segreto ben custodito dal regime hitleriano e dal complesso industriale che erano diventate le SS incaricate di quello sterminio. Eppure, non c’era nessun tedesco che non fosse al corrente, e se mai qualcuno non lo sia stato veramente, era perché non voleva esserlo — il che è più o meno lo stesso. Certo, non si può sostenere che «tutti i tedeschi» avessero come progetto lo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, ma ciò non toglie che una stragrande maggioranza vi abbia contribuito. O direttamente, o indirettamente. Non hanno le stesse responsabilità di un Eichmann o di un guardiano di Dachau, non hanno lo stesso coinvolgimento, ma hanno fatto altrettanto parte della macchina. È qua che si vede in azione l’effetto del carattere macchinico, e in effetti è incontestabile che a partire da Auschwitz il mondo sia diventato più macchinico, non certo meno.
Perciò, come stupirsi che, malgrado il fatto che siamo al corrente, che cominciamo a sentire sulla nostra pelle che la gestione statale dell’informazione non impedisce affatto di sapere che in India e Pakistan gli esseri umani soffocano in quelle fornaci che sono diventate le città in preda alle conseguenze del progetto industriale, continuiamo nonostante tutto a fare il nostro lavoro? E non solo, ma inoltre che si usi la forza contro coloro che si oppongono — coloro che tentano di distruggere ciò che ci distrugge, coloro che malgrado il pessimismo generato dalla loro lucidità critica scelgono di mettersi in gioco piuttosto che continuare a fare il gioco altrui — come fossero terroristi estremisti che meritano d’essere rinchiusi nei campi? Ed anche fra coloro che si dicono lucidi e che non marciano ciecamente al suono dell’industrialismo trionfante, c’è chi si concede fin troppo facilmente al surrogato artificiale piuttosto che all’azione reale, al conforto morale di un lieve distacco dalla frenesia consumistica piuttosto che allo sforzo e al rischio che comporta un tentativo concreto di mandare in cortocircuito quella frenesia, o magari alla cinica rassegnazione che finisce per crogiolarsi nello snobbare, ovvero nel disprezzare, chi ancora parte all’assalto ed osa ancora amare la libertà in un mondo incatenato.
E intanto, la situazione continua a peggiorare. L’instabilità del clima non è più alla nostra porta, è entrata con passo deciso nella casa della civiltà industriale. Carestie e siccità, canicola e tempeste omicide, deforestazione e desertificazione, scioglimento dei ghiacciai ed estinzione di massa delle specie si abbattono sul pianeta in cui l’umano continua tuttavia a credere che alla fine lo aspetti un destino migliore. Ma la realtà smentisce definitivamente questa convinzione. Prenderne atto e agire di conseguenza significa contribuire a spezzare l’abbraccio mortale della logica eichmanniana.

[Avis de tempêtes, n. 54, giugno 2022, tradotto da Finimondo]
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Silvaticus

Posted on 2022/05/30 - 2022/06/09 by avisbabel

Davanti ai rulli compressori della civiltà industriale e del progresso, uno degli ultimi mondi sensibili popolato da immaginari terrificanti e fantasie incantate sta scomparendo sotto i nostri occhi: quello delle foreste. Quelle che erano un feudo dei signori i quali vi allineavano gli impiccati, o un riparo per sottrarsi alle persecuzioni. Quelle che rappresentavo l’oscurità dove poter abbandonare la propria prole affamata o il folto rifugio da cui partire all’assalto dell’esistente. Quelle che ospitavano misteri popolati da driadi e licantropi o che vedevano passare i costruttori di navi da guerra e altri mastri forgiatori giunti a spogliarle in massa. Quelle che vedevano a Sherwood audaci banditi depredare i ricchi, in Ariège Demoiselles (*) col volto coperto di fuliggine bruciare e saccheggiare i castelli, in Courlande dei rivoluzionari continuare a sferrare feroci colpi contro la tirannia zarista, ma anche assistere sulle Alpi o in Polonia alla morte per assideramento dei migranti cacciati dalle guardie di frontiera europee.
Fondamentalmente, le foreste sono ambigue anche per la loro stessa etimologia, dal momento che foresta stava ad indicare anzitutto lo spazio esterno non utilizzato dagli abitanti del villaggio — la stessa parola selvaggio proviene da silvaticus, cioè silvestre — prima di designare vaste zone boschive riservate alla nobiltà e ai monasteri protetti dagli usi contadini. Per una singolare inversione di significato, la parola foresta, l’ignoto periglioso che la civiltà romana non poteva soggiogare, finì col qualificare in capo a qualche secolo il territorio per eccellenza del dominio religioso e feudale, prima di diventare infine un termine generico e piuttosto vago.

Perché, se con foreste ci si riferisce ad immense distese naturali di alberi lasciati più o meno a se stessi che formano un ecosistema autonomo allo stesso tempo ricco e complesso, quasi un’eco lontana dai racconti della nostra infanzia, come definire allora quei tristi allineamenti di conifere, tutte della stessa età e della medesima dimensione, su un terreno disseminato d’aghi dove il canto degli uccelli è ammutolito? E nell’incedere all’ombra di maestosi pioppi, come immaginare che questi alberi hanno avuto la sventura nel 2006 d’essere i primi il cui genoma è stato interamente sequenziato, per utilizzarne lo sviluppo nel mondo dei pioppeti per la cellulosa o per i biocombustibli, sotto forma di immense piantagioni di cloni? E poiché bisogna a tutti i costi rinfrancare l’economia alimentando il mercato delle compensazioni di carbonio (ossia i permessi di inquinare altrove), possiamo ancora chiamare foresta la recente piantagione industriale di 40.000 ettari di acacie a crescita rapida importati dall’Australia dalla Total… distruggendo la savana gabonese per impiantarvi per di più una fabbrica di legnami all’avanguardia ? Infine, se ci avviciniamo un po’ di più, ad esempio al radioso terreno boschivo del Commissariato per l’Energia Atomica (CEA) situato a Saint-Paul-lès-Durance, come non cadere sulla pepita dello sfruttamento statale delle foreste pubbliche? Giacché è proprio accanto al centro nucleare di Cadarache che si trova il Polo nazionale delle risorse genetiche e il Vivaio sperimentale dell’ONF, in cui l’ente statale clona il DNA degli alberi che considera più interessanti in termini di resistenza al riscaldamento climatico, al fine di ripiantare poi le loro copie un po’ dappertutto. E parallelamente a ciò, sono gli stessi apprendisti stregoni dell’ONF ad introdurre nelle vecchie foreste di abeti, querce e faggi (in particolare nel Grand-Est e in Bourgogne-Franche-Comté) nuove specie esotiche nei cosiddetti «isolotti d’avvenire», che vanno dal frassino della Manciuria al cipresso dell’Arizona, col pretesto che quelle foreste non riescano ad adattarsi da sole ai cambiamenti climatici. L’aria brucia, l’acqua manca e per di più lo scarabeo della corteccia prolifera nelle immense foreste monospecifiche di abeti rossi piantati in pianura dall’ONF da 50 anni? Semplice, modifichiamo sbrigativamente le foreste nella stessa folle corsa verso l’artificializzazione di tutti i viventi (umani compresi), anziché abbattere il sistema tecno-industriale responsabile di tutte queste devastazioni! Flessibilità e resilienza, non sono forse i mantra della neolingua del potere?

Certo, non è da oggi che la «natura» è stata elevata a soggetto separato dai civilizzati così fieri della loro cultura del dominio, una «natura» barbara da analizzare, classificare, misurare, sfruttare, razionalizzare e ordinare, fino a farla diventare — su immagine della foresta — sempre più mitica col progredire del suo addomesticamento e sradicamento dalle antiche relazioni quotidiane con essa. Fino alla creazione di riserve, parchi e altri «spazi naturali», ricreativi e attrezzati, al fine di conservare il suo ricordo nostalgico presso i cittadini che abbisognano di verde. Quindi sì, ci sono sempre meno foreste recalcitranti e rigogliose e più campi di alberi, il cui obiettivo finale rimane il loro forsennato sfruttamento industriale (quando non vengono semplicemente rase al suolo per progetti autostradali o l’incessante estensione di miniere di carbone, come in Germania). Il Vertice mondiale sul clima delle Nazioni Unite del 2014, dove molti paesi si sono impegnati a rimboschire nientemeno che 350 milioni di ettari entro il 2030, si è soprattutto tradotto nella pratica in piantagioni di alberi in serie da poter tagliare regolarmente per il legname o la carta, e ovviamente non per offrire più spazio a foreste in libera evoluzione. Quanto al famoso piano Francia rilancia dell’autunno 2020 seguito al grande confinamento, di cui 200 milioni di euro erano destinati ad «aiutare le foreste ad adattarsi al cambiamento climatico» piantando «50 milioni di alberi in due anni», non è altro che una sovvenzione statale agli industriali del legno per finanziare i loro giganteschi abbattimenti di specie forestali ritenute non produttive, al fine di sostituirle con buone vecchie monoculture di douglas.

Nel ciclo infernale delle catastrofi ecologiche che sono ormai passate alla fase in cui si retroalimentano l’una con l’altra in modo quasi irreversibile, cosa che nessuna bacchetta magica tecnolatra riuscirà ad arrestare, le foreste sono diventate oggi malgrado tutto il simbolo della corsa in avanti verso l’abisso. Ridotte a «riserve di biodiversità» da salvare per gli uni, a «magazzini di carbonio intrappolato» da far crescere o fruttare per gli altri, e a «risorse di metri cubi di legno» da estrarre per gli ultimi, le foreste incarnano la perdita di ogni rapporto con un ambiente di cui dovremmo essere intrinsecamente parte. Sarà per questo che quando un mapuche distrugge con accanimento e costanza i macchinari e i camion degli sfruttatori forestali sul territorio dominato dallo Stato cileno, questo ci parla? Sarà per questo che la devastazione di piantagioni industriali di conifere (cedri e douglas) a Corrèze ci diverte? Sarà anche per questo che gli incendi che negli ultimi tempi stanno colpendo le mietitrici e i portatori di cooperative forestali e dell’ONF, dalla Nièvre all’Ile-de-France, ci rallegrano? Poiché strappare al mondo della devastazione industriale un rapporto radicalmente altro tra gli individui e il loro ambiente, è sicuramente far vibrare insieme idee e azioni, ma anche dare spazio alle indiavolate foreste del nostro immaginario…
[Avis de tempêtes, n. 53 maggio 22, tradotto da Finimondo]]

 

(*) I Demoiselles erano contadini abbigliati con vesti femminili, lunghe camicie bianche, il volto ricoperto di fuliggine e maschere o pelli di animali, e che effettuavano azioni di guerriglia contro il nuovo codice forestale del 1827

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Tutti coinvolti

Posted on 2022/05/24 - 2022/05/29 by avisbabel

Alle prime luci dell’alba, un camion di 40 tonnellate si mette in marcia sotto una pioggia fine. Non è che uno delle migliaia di veicoli che assicurano il trasporto su strada delle merci, ma la sua missione è assai meno anodina. A fari accesi, il camion avanza nei sobborghi della capitale bavarese, Monaco. Sulla sua scia si staglia la lugubre sagoma di una gru che sembra pronta a piombare coi suoi artigli meccanici su una qualsiasi preda. Si tratta di un vero e proprio convoglio: infatti il camion è scortato da alcune volanti della polizia a lampeggianti spenti. Arrivati a destinazione, alcuni poliziotti saltano giù dai loro veicoli, sfondano una porta, poi si precipitano nei locali. L’operazione non mira ad effettuare qualche scoperta, sono lì per sequestrare. Contrariamente perciò a quanto si potrebbe immaginare, non sono lì a prelevare persone sospette. Né bidoni stagni di ingredienti esplosivi o di armi ben nascoste, la cui assenza non costituisce certo la prova di un’innocenza poco raccomandabile in questo mondo mortifero. Non c’è la benché minima tanica di benzina in giro. E comunque, non è questo che cercano gli agenti, i quali intendono mettere le mani su ben altro armamento, di quelli che affilano la mente e rafforzano il pensiero. A Monaco, il 26 aprile 2022, gli sbirri sono andati per impadronirsi… di una stamperia destinata ai testi anarchici.
Come riportato in seguito dai compagni, la polizia ha messo le mani sull’intera tipografia: «dalla Risograph ((un duplicatore digitale) coi relativi tamburi fino alla taglierina, dal raccoglitore alla brossuratrice, e persino una storica stampante tipografica coi suoi caratteri di piombo, il tutto finito nel deposito dei reperti di prova degli sbirri». Decine di migliaia di fogli di carta bianca, di litri d’inchiostro ed altri materiali di consumo per stampa, insieme a migliaia di libri, opuscoli e giornali. Un bottino considerevole, che spiega la presenza del camion e della gru in quel detestabile convoglio mattutino.

Altrove, in città, altre squadre di polizia coordinate dal Servizio di protezione statale (sezione K43, «Criminalità con finalità politiche») sfondano le porte di quattro appartamenti e perquisiscono diverse cantine e la biblioteca anarchica Frevel. Il pretesto giuridico per tutta questa operazione non è granché originale: è il sulfureo §129, l’articolo del codice penale tedesco che colpisce «la creazione di un’organizzazione criminale». Da sempre gli anarchici, fuorilegge per eccellenza — almeno nelle idee (perché i loro ranghi non sono stati risparmiati dalla malattia del legalitarismo e dalla paura paralizzante o calcolata di qualsiasi trasgressione della legge) — vengono perseguitati dagli Stati che si servono di tali articoli nel codice penale. Fino ad oggi, abbiamo visto gli Stati sguainare questi strumenti legali per reprimere i gruppi anarchici, attaccare l’informalità organizzativa e le costellazioni affinitarie che rifuggono gli schemi troppo rigidi di un’Organizzazione con la maiuscola, limitare il margine sempre precario delle iniziative pubbliche e degli spazi di incontro e diffusione, scoraggiare coloro che si adoperano a scrivere e diffondere scritti anarchici come il settimanale anarchico Zundlumpen, bersaglio della polizia bavarese e che sembra costituire uno degli attaccapanni ai quali la polizia intende attaccare ulteriori elementi della sua indagine.
Contrariamente a una certa retorica, purtroppo sempre in voga tra compagne e compagni, che sembra fare più opera di terapia autoconsolatoria, noi non pensiamo che lo Stato attacchi i nostri spazi, le nostre pubblicazioni e le nostre strutture tipografiche perché avrebbe paura della parola anarchica, o  si senta minacciato dalla diffusione che facciamo di libri e giornali. È solo che, per esso, è diventata una delle cose talmente facili da fare. Il «movimento» anarchico e anti-autoritario odierno non è in grado di far scendere migliaia di persone in piazza quando una delle sue tipografie viene sequestrata (sebbene sia avvenuto in precisi tempi storici), né di essere all’altezza quando le sue iniziative pubbliche vengono soffocate da una spirale poliziesca. E questo non ha solo a che vedere con una riduzione quantitativa — molto importante — dei ranghi anarchici, ma anche con la profonda trasformazione dei rapporti sociali negli ultimi decenni. La ristrutturazione tecnologica dello sfruttamento capitalista, l’inclusione di quasi tutti i settori della vita nella gestione statale e nella sfera capitalistica, lo sradicamento di qualsiasi comunità che non sia quella (molteplice, è vero) prodotta dall’idra tecnologica, per non parlare dello spaventoso assalto del linguaggio, il suo terribile impoverimento e la sua sostituzione con immagini diffuse su schermi onnipresenti, o l’abisso di incoscienza e di abbrutimento in cui buona parte dell’umanità si sta lanciando (o viene spinta, in fondo importa poco): tutto ciò non è senza conseguenze per l’azione e la diffusione delle idee anarchiche. Allo stesso modo, neppure gli anarchici ne escono indenni: anche loro sono colpiti, ovvero assorbiti dalla valanga delle nuove tecnologie, della comunicazione mediata istantanea, dalla difficoltà di proiettarsi più in là di domani o dall’incapacità di operare una distinzione tra ciò che sarebbe importante pubblicare e diffondere oggi e quella che è solo una triste testimonianza del vuoto esistenziale che s’impadronisce di loro come dei loro contemporanei. In breve, il fatto che lo Stato se la prenda regolarmente e con una disinvoltura sempre più noncurante coi pochi spazi anarchici che sono ancora visibili, non testimonia la nostra forza, quanto la nostra debolezza. Onestamente, tutto il resto sembra essere solo una verbosità che non fa avanzare la riflessione necessaria, del crescendo retorico in modo di non dover affrontare la questione che diventa essenziale ad ogni attacco di un giornale, ad ogni persecuzione degli anarchici col misero pretesto di un’organizzazione illecita (a scelta, «criminale», «terrorista», «sovversiva», «illegale», …): come continuare ad agire in questa èra di tenebre tecnologiche in cui le coscienze si spengono e le nostre foreste mentali sono rase al suolo? Con quale metodologia, con quali forme organizzative, con quali tentativi per non commettere gli stessi errori? Se non possiamo che condividere la fiera affermazione che rifiuteremo fino alla fine di adattare le nostre idee, che resisteremo all’appiattimento, a costo di diventare gli ultimi dei Mohicani a difendere l’idea di una libertà totale, pensiamo che dovremmo apprendere le condizioni in cui agiamo e non ignorarle.

Un’operazione così grossolanamente totalitaria come il sequestro di macchine da stampa (ricordiamo che all’epoca della censura sistematica applicata alle pubblicazioni anarchiche, lo Stato si limitava per la maggior parte del tempo ad oscurare i passaggi ritenuti troppo virulenti o che superavano il quadro della «libertà di espressione» diventando una «istigazione al crimine”, e perfino nei casi più estremi al sequestro della stampa — non agli strumenti di stampa) è qualcosa che riguarda tutti gli anarchici, indipendentemente dalle attività cui si stanno dedicando o da quali sentieri abbiano scelto di percorrere. Non certo perché fornisca la prova che la parola anarchica costituisce comunque una minaccia per la stabilità dello Stato, né in quanto rinsaldi la vecchia convinzione che immaginava l’avvento della rivoluzione come il risultato del risveglio delle coscienze addormentate grazie agli instancabili sforzi dei propagandisti anarchici, che non dormono mai. No, ci riguarda tutti perché è indicativa dello stato del mondo, dello stato dei rapporti sociali e del prossimo futuro in cui saremo portati ad agire — o a rinunciare. Pur senza unirsi ai cori dell’indignazione legalitaria, si può tuttavia affermare che i sequestri delle stamperie, le chiusure di locali pubblici, lo scioglimento di gruppi relativamente aperti, ci trasportano in un’altra dimensione rispetto alla repressione, in definitiva del tutto «normale» e «logica», che mira a mettere in condizione di non nuocere coloro che attaccano fisicamente le strutture e le persone del dominio. Sebbene queste due dimensioni vadano sempre insieme e non siano così separate come alcuni vorrebbero credere, portare un camion da 40 tonnellate a prelevare una taglierina e una macchina tipografica coi caratteri di piombo fa pensare piuttosto a misure adottate in altri regimi. E in questa epoca di corsa in avanti industriale e tecnologica apertamente pluralista ma profondamente totalitaria, una tale pratica che sembrava obsoleta potrebbe quindi sorprenderci di nuovo — tanto più che il modo migliore per disinnescare ogni possibile pericolo proveniente dalla diffusione dei testi anarchici è ovviamente la sua attuale virtualizzazione, la sua derealizzazione tecnologica. Ma nulla scompare per sempre e tutto rimane potenzialmente presente.

La generalizzazione del salariato non ha abolito definitivamente la schiavitù, l’installazione di centrali nucleari non ha fatto scomparire le miniere di carbone, la razionalizzazione della produzione non ha rimandato le miniere artigianali nella spazzatura nella storia. Questo mito del progresso sembra oggi sottostare ai rovesci della realtà che strappano il velo della derealizzazione. Molte cose che quel mito aveva relegato in un passato che non sarebbe più tornato, stanno oggi prendendo posto in una realtà da cui in fondo non erano mai scomparse del tutto. La guerra irrompe nuovamente nel continente europeo, la penuria diventa visibile negli scaffali dei supermercati, la minaccia dell’annientamento nucleare si aggiunge alle pratiche di genocidio che accompagnano i conflitti, il cambiamento climatico fa avanzare lo spettro della carestia e dello sterminio per sempre più abitanti di questo pianeta agonizzante. In un tale scenario, il sequestro di una tipografia anarchica non dovrebbe sorprenderci. Il tempo in cui si dovevano nascondere le stamperie, immagazzinare discreti stock di carta, organizzare una diffusione sotterranea e capillare delle notizie dalle lotte e dell’approfondimento del pensiero, non è scomparso definitivamente dalla scena della storia. Le condizioni per simili scenari, anche all’ombra delle tolleranti democrazie occidentali, confluiscono sempre più e si accentueranno con l’aumento delle pressioni sociali e l’estensione dello squilibrio sociale.

Ecco perché il sequestro di una tipografia anarchica a Monaco è un affare che ci riguarda tutte e tutti.

[Avis de Tempêtes n. 53, maggio 22, tradotto da Finimondo]

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Colpire dove più nuoce

Posted on 2022/04/28 - 2022/05/21 by avisbabel

Le catene da spezzare

Raggiungi le lunghe macabre radici morbose che l’aratro dimentica,
Scopri le profondità; lascia che i lunghi viticci pallidi consumino tutto per scoprire il cielo; ora niente va bene
A parte gli specchi d’acciaio della scoperta ….
E le magnifiche enormi albe del tempo,
Dopo che saremo morti.
Robinson Jeffers, The broken Balance (1929)

Il poeta americano che ha scritto queste righe era un uomo che non amava la vita in società. Era troppo innamorato della bellezza della natura selvaggia per inchinarsi davanti alle misere realizzazioni della civiltà umana, preferendo la libertà solitaria ad una vita in compagnia degli orrori, dei genocidi e delle devastazioni avvenuti, che considerava segni peculiari della civiltà. Definiva filosofica la sua poesia, che è stata un’importante fonte di ispirazione per il risveglio ecologico degli anni 60, un «disumanesimo»: «Dobbiamo decentrare le nostre menti da noi stessi / Dobbiamo disumanizzare un po’ i nostri punti di vista e diventare più saldi / Come la roccia e l’oceano di cui siamo fatti». Questi richiami risuonano ancora oggi, nelle foreste oscure e nelle valli remote, e forse perfino nei corridoi delle città-prigioni dove più nulla ci collega alla realtà, a parte le merci inebetenti. E se c’è un ostacolo che ancora ci impedisce di voler demolire tutto per non prolungare l’attesa morbosa che ci attanaglia, un ostacolo da rimuovere con urgenza, dobbiamo sicuramente volgerci verso i famigerati miti del progresso, una convinzione del passato che la storia umana avanzi inesorabilmente verso maggiori libertà e felicità. Ormai  è diventato impossibile ignorare che i grandi ecosistemi stanno crollando, o che l’appiattimento e la dipendenza prodotti da un secolo di industrialismo a tappe forzate ci stanno stritolando, e in effetti è sempre dietro la stessa tromba sfiatata del progresso che si schiera ogni adesione alla civiltà.

Giacché una nuova causa a cui aderire ci apre le sue braccia, una nuova prospettiva si delinea infine per l’umanità, una nuova era si preannuncia in pompa magna: la transizione ecologica che farà fronte al cambiamento climatico. L’ennesima appassionata battaglia politica volteggerà contro il pessimismo, quello che acquisisce vigore ogni qualvolta si fanno i conti con la realtà delle cose anziché col loro doppio digitale. La transizione energetica, le nuove tecnologie, la dematerializzazione, il rinverdimento dei processi produttivi hanno già i loro profeti, mentre i capitani chiamati alla riscossa per dirigere le operazioni hanno già preso posto a bordo. Infine, non mancano che le masse, ancora alquanto riluttanti. Perché, malgrado l’adesione entusiasta di folle di consumatori, rimangono la disillusione e il disincanto generati da un mondo ricoperto dal velo tecnologico, da un’artificializzazione esacerbata del mondo sensibile e da una negazione del vivente, che non determinano per forza di cose la produzione di un nuovo consenso così semplice. Nessuno stupore che tale disincanto si possa manifestare allora in tutte le direzioni, e non necessariamente quelle più gratificanti per l’individuo, rivolgendosi magari a mitiche nostalgie di un’approssimativa età d’oro, o al risveglio del fanatismo religioso, fino ad evocazioni più militaresche che auspicano un’accelerazione verso la fine del mondo e l’apocalisse finale.

Nel mondo che conosciamo, né gli squilibri dei mercati mondiali, né le guerre in corso e a venire, né i populismi moderni o i fantasmi divini devono far deviare la megamacchina dalla corsa di velocità in cui è impegnata. La transizione energetica dovrà compiersi con le buone o con le cattive, la terra dovrà essere percossa, trafitta e stritolata ancor più, come mai prima, al fine di estrarvi tutte le materie prime e i metalli necessari per la perpetuazione di questa civiltà mortifera. Le fabbriche dovranno funzionare a pieno regime per inondare il mondo coi loro motori elettrici, i loro circuiti stampati, i loro semiconduttori e i loro nanomateriali. Il fanatismo dei crociati del progresso non è disposto a ritrarsi davanti a niente e a nessuno. Costruiranno dighe per far fronte all’aumento del livello dei mari. Erigeranno nuove centrali nucleari e copriranno la superficie della terra con pannelli solari e pale eoliche per garantire il flusso continuo della corrente elettrica. Svilupperanno procedimenti di rilevamento dei gas responsabili dell’effetto serra per sostituire i «polmoni del pianeta» che sono incessantemente tagliati, rasati e devastati. Tuttavia, di fronte alle forze che si stanno scatenando, tutta la loro ingegnosità e la loro folle fiducia in soluzioni di tipo tecnico serviranno solo a prolungare l’agonia. Non faranno che rendere sempre più improbabile un radicale cambiamento di rotta verso una prospettiva di libertà e di autonomia, all’interno di un cambiamento climatico ormai irreversibile. «Nature bats last», la nature si sta comunque giocando la sua ultima carta.

Davanti a questa vera e propria macchina da guerra, al cui servizio le trombe del progresso continuano ad affermare che la felicità e la libertà si realizzeranno contro la natura, sottomettendola indefinitamente agli imperativi della società umana, altri continuano a sussurrare qui e là che la libertà può solo esistere nella natura. Che l’autonomia non sarà mai compatibile con la dipendenza tecnologica, quale che sia. Che le catene da spezzare sono quelle che la società ci ha imposto di forza nel nome del nostro bene, per la nostra sicurezza, la nostra sopravvivenza o il nostro comfort. Un bene  di cui conosciamo ormai l’incommensurabile prezzo da pagare, a cominciare da quello della nostra libertà.


Colpire dove più fa male

Se qualcuno ti colpisce con un pugno, non puoi difenderti efficacemente colpendo il suo pugno: non puoi ferirlo in questo modo. Per vincere il combattimento, devi colpirlo dove più gli fa male. Il che significa schivare il suo pugno e colpire le parti vulnerabili del corpo dell’avversario.

[…] attaccare il sistema è come colpire un pezzo di gomma. Un colpo di mazza può frantumare la ghisa, dato che è rigida e friabile. Ma si può martellare un pezzo di gomma senza procurargli alcun danno, dato che è flessibile. Ciò contribuisce inizialmente a far scemare la protesta fino a farle perdere forza ed impeto. E il sistema rimbalza all’indietro.
Ecco perché, per colpire il sistema dove più gli possa nuocere, occorre selezionare le questioni che gli impediscono di rimbalzare e per cui combatterà ad oltranza. Ciò  di cui abbiamo bisogno non è scendere a compromessi col potere, bensì di una lotta all’ultimo sangue.
Ted Kaczynski

Il sistema conta più che mai sulle sue capacità elastiche di difesa. Concedere all’occorrenza nuovi diritti flessibili, anche integrando le minoranze, con la soppressione d’altro canto di quelli più arcaici e recuperando qualsiasi slancio inizialmente sovversivo che non sia possibile sradicare: è una delle strade raccomandate dal progetto tecnologico in via di sviluppo nei paesi occidentali. In altri continenti (come in Asia o in America del Sud), lo stesso progetto può perfino assumere tratti più apertamente autoritari, tanto che i conflitti non cessano di esplodere tra i diversi modelli, tra le differenti modalità di gestione e di sviluppo del potere tecno-industriale. Oggi tali conflitti scoppiano in periferia, ma domani potrebbero spuntare anche altrove.

Opporsi alle sole forme che essi assumono senza intaccarne la sostanza, non ha perciò molto senso. Al massimo, ciò porterà solo acqua al mulino di uno dei modelli in conflitto, come il fatto di denunciare superficialmente il controllo tecnologico di cui si serve lo Stato cinese o l’attuale foga guerrafondaia della Russia, facendo supporre che il controllo capillare in vigore su questo versante e le sue molteplici «operazioni anti-terroriste ed umanitarie» attraverso il pianeta siano comunque la cosa meno peggiore da auspicare. Certo, non si può ragionevolmente affermare che combattere in un territorio dominato da uno Stato onnipresente e super-equipaggiato sia equivalente a combattere in un territorio controllato da uno Stato meno aggiornato. Ma questo non impedisce che in ciascuno dei due casi, una delle insidie ​​mortali da evitare è quella di partecipare volontariamente, con le nostre stesse lotte, al riaggiustamento in corso o alla sistemazione del dominio (la cui caricatura risiede sicuramente alle nostre latitudini nelle lotte a favore di tecnologie più inclusive garantite dallo Stato). Ecco perché è il caso di prestare più attenzione, cercando di colpire dove più nuoce, dove il sistema possa riprendersi meno facilmente rimbalzando all’indietro per riconquistare meglio il controllo in seguito. In breve, non dobbiamo solo renderci incontrollabili o ingovernabili, ma essere in grado di puntare direttamente ai suoi angoli morti facendo uno sforzo di analisi e di progettualità.

In diverse occasioni, negli scritti come nei mormorii, negli scambi e nelle osservazioni, le «infrastrutture critiche» sono state identificate come uno dei punti vulnerabili, perché irrorano con dati ed energia, come vene, il corpo della società e suoi organi. Vene che possono essere tranciate, anche da piccoli gruppi dotati di mezzi piuttosto rudimentali. È questo che ci mostra la continuità dei sabotaggi di antenne e ripetitori in diversi paesi europei, con una notevole intensità in alcune regioni come l’Occitania in cui, a partire dall’inizio dell’anno, queste vere e proprie torri di controllo della società tecnologica hanno subìto diversi assalti calorosi a Tolosa (12 gennaio), Renneville (18 gennaio), Lacroix-Falgarde (26 febbraio) o Carbonne (31 marzo), con oltre una decina di strutture di telefonia mobile ridotte in cenere dallo scorso anno nella zona. Per non parlare del fatto che ciò ha indotto gli operatori a dover affrontare alcuni rompicapo tecnici, tipo: come sostituire adeguatamente un traliccio troppo danneggiato e pericolante con antenne provvisorie, senza ritardare ulteriormente il ritorno alla normalità?

Un altro esempio di arterie indispensabili a questa società iper-connessa è dato dalla fibra ottica, attraverso cui corrono i dati che fanno funzionare questo mondo e che è anch’essa oggetto di tagli dolosi e talvolta coordinati in aperta campagna… quando non a pochi metri da un commissariato, come è successo a Quimper lo scorso gennaio, allorché sono stati incendiati due armadi di telecomunicazione. E infine, non possiamo dimenticare altre strutture sempre più prese di mira che garantiscono la continuità del flusso di energia elettrica, quella che fa girare le braccia delle macchine, quella che accende le luci che nascondono le stelle, quella che assicura che tutto funzioni e che tutto vada avanti. Attacchi che hanno colpito stazioni di trasformazione, tralicci dell’alta tensione o armadi di media tensione, causando spesso interruzioni di corrente, alcuni effimeri ed altri più lunghi.

A monte

Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Quelli che di notte sognano nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma quelli che sognano di giorno sono pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni ad occhi aperti, per renderli possibili.

T. E. Lawrence

Sono le 2.40 di lunedì 4 aprile 2022. Nell’industria STMicroelectronics di Crolles, nell’Isère, le macchine si fermano, poi le batterie di emergenza intervengono per ripristinare l’illuminazione, mentre le procedure di sicurezza vengono innescate. L’azienda, la cui produzione è assicurata 24 ore al giorno, è temporaneamente bloccata, il che non è un’inezia, in quanto STMicro è uno dei principali attori mondiali nel settore della produzione di semiconduttori, elementi di base dell’industria tecnologica, settore che con la pandemia da Covid e i problemi di catene logistiche sta attraversando difficoltà a livello mondiale, con una penuria di semiconduttori che ha rallentato la ripresa economica. L’origine del blocco di questa industria così strategica è in un sito dell’alta tensione posto un po’ più lontano, a Froges. Nel recinto di quella stazione elettrica, «alcuni elementi di cablaggio molto precisi sono stati bruciati su un trasformatore», coinvolgendo «all’avvio le linee interrate ad altissima tensione (225.000 volt) che collegano il sito al trasformatore della STMicro a Crolles. Sul posto sono state vergate alcune scritte col simbolo dell’anarchia che prendoo di mira la società ST Microelectronics».

È l’1.44 di martedì 5 aprile. Le luci si spengono nelle città di Crolles e Bernin. Sull’importante zona industriale, la corrente è stata tagliata. Decine di imprese all’avanguardia non sono più alimentate, e presso i due giganti della Silicon Valley di Grenoble, STMicroelectronics e Soitec (rispettivamente con 4300 e 1700 dipendenti), la produzione di semiconduttori e chip elettronici è totalmente ferma. Il blocco è stato provocato dall’incendio doloso di otto linee da 20.000 volt e di una da 225.000 volt sotto il ponte di Brignoud, che attraversa il fiume Isère tra Villard-Bonnot e Crolles. L’incendio è durato diverse ore e ha indebolito la struttura del ponte, importante punto di passaggio per gli automobilisti e i lavoratori della zona industriale del Grésivaudan. Nella zona, sia internet che la telefonia sono stati interrotti. L’indomani vengono installati alcuni generatori di emergenza, una linea elettrica provvisoria viene portata fino alla Soitec per ripristinare una parte della corrente, il che non impedisce il crollo in borsa delle azioni della STMicro e della Soitec.
E comunque il ritorno alla normalità non sarà immediato, giacché «l’industria dei semiconduttori è molto sensibile ai problemi elettrici… Il riavvio della produzione richiede tempo, perché è necessario ispezionare tutte le macchine e riattivarle alla bisogna. Cosa che può richiedere giorni, o anche settimane. Le stanze bianche, utilizzate in particolare nei processi di produzione dell’industria di semiconduttori, dipendono soprattutto da sistemi di ventilazione filtrata e da diversi sensori (temperatura, umidità, ecc.) per assicurare un livello molto basso di concentrazione di particelle e di polveri sospese nell’aria, che occorre essere in grado di ricalibrare in particolare quando vengono riavviati. Per non parlare delle impostazioni delle stesse macchine di produzione, che devono garantire la combinazione di un alto livello di qualità ed una produzione di volume, producendo al contempo in una scala molto piccola, dell’ordine del nanometro». La valutazione dei danni è ancora in corso, ma pare siano quantificati in «decine di milioni di euro», solo per i due giganti dei semiconduttori. Il vicepresidente della Soitec ha anche tenuto a precisare che «Gli incidenti degli ultimi due giorni sono avvenuti all’esterno delle società. Tutti riconoscono che siamo un’industria strategica per il Paese ma vediamo che oggi alcuni atti dolosi, alcuni attacchi riescono a colpire questo settore. La ridondanza delle fonti di energia non è stata sufficiente a proteggerci dato che i malfattori hanno attaccato tutte le linee dell’alimentazione elettrica».
Sono le 15.30 di mercoledì 13 aprile. In 380 aziende del settore delle tecnologie digitali e situate in un’importante tecnopoli dell’agglomerato di Grenoble, Innovallée, la corrente viene tagliata. Un totale di 10.000 clienti tra individui, istituzioni e imprese vengono privati ​​dell’elettricità in 6 comuni. L’origine del blocco temporaneo è in quello che sembra essere un nuovo sabotaggio: all’interno della cinta di una centrale elettrica ad alta tensione di Enedis, un’installazione collocata tra edifici aziendali e l’A41, nel cuore della tecnopoli, un incendio «verosimilmente criminale» ha messo fuori uso «uno dei due gruppi del sito, la cui funzione è di trasformare l’alta tensione in media tensione (20.000 volt)». Secondo Enedis, «la corrente sarebbe stata molto rapidamente ripristinata».

Questi sabotaggi non hanno ovviamente mancato di suscitare le dichiarazioni patetiche delle autorità, accompagnate da appelli ad avere più mezzi affinché la polizia possa acciuffare le persone che la stampa ha definito nell’occasione «sabotatori inafferrabili», non senza aggiungere che «c’è un rimprovero che non può che essere indirizzato ai gruppuscoli anarchici sospettati di essere all’origine delle ultime due azioni dirette contro questo vasto sito di alta tecnologia che è diventato il Grésivaudan: la mancanza di coerenza nella linea di quella che reputano una lotta nobile. Tuttavia, la cosa più importante resta di gran lunga altrove: è il fatto che anche le più grandi industrie, particolarmente sorvegliate e considerate strategiche, possono essere sabotate. Un fatto e un suggerimento operativo che tutti coloro che sognano di giorno di mettere realmente e concretamente i bastoni fra le ruote a ciò che devasta questo mondo e sfrutta la vita potranno forse apprezzare: colpire a monte per colpire dove più nuoce.

[Avis de Tempêtes n. 52, aprile 22, tradotto da Finimondo]

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Logiche di guerra

Posted on 2022/03/25 - 2022/03/25 by avisbabel
Campismo. Se al tempo della prima macelleria mondiale è divenuta celebre la terribile presa di posizione di Kropotkin in favore della vittoria di una parte degli Stati belligeranti e in nome della stessa speranza di emancipazione, ciò è avvenuto probabilmente perché essa incarnava il fallimento dell’internazionalismo e dell’antimilitarismo, malgrado le risposte date da altri anarchici. Una scelta di campo nemmeno originale, dal momento che i principali partiti socialisti e sindacati operai dell’epoca avevano dal canto loro già ceduto alle sirene dell’Unità nazionale, allineandosi dietro il proprio Stato bellicista. Pur essendo assurdo dimenticare che talvolta alcuni anarchici hanno vacillato sentendosi con le spalle al muro, e ciò si è verificato anche in altri tipi di situazioni come le guerre civili (ricordiamoci del dilemma «guerra o rivoluzione?» risolto a favore della prima da parte della direzione della CNT spagnola), sarebbe tuttavia affrettato limitarsi a considerare solo questo aspetto.
Nel corso delle guerre che hanno costellato lo scorso secolo, ed in cui sono stati coinvolti i compagni, è anche malgrado e contro di esse che sono stati messi in pratica molti interventi sovversivi a seconda del luogo in cui i compagni si trovavano: sono stati costituiti gruppi di combattimento autonomi (generalmente decentrati e coordinati), costruite reti di sostegno ai disertori dei due campi, realizzati sabotaggi del dispositivo militare-industriale nelle retrovie, indebolita la mobilitazione degli animi e minata l’unità nazionale, esacerbato lo scontento ed il disfattismo nel tentativo di trasformare quelle guerre per la patria in insurrezioni per la libertà. Magari ci verrà detto che le condizioni sono assai cambiate dall’epoca di quegli esperimenti, ma certo non al punto di non poter attingere a quell’arsenale se si desidera intervenire nelle ostilità, vale a dire partendo innanzitutto dalle nostre idee e progettualità, piuttosto che dal male minore che consiste nel sostenere il campo e gli interessi di uno Stato contro un altro. Perché, se siamo contro la pace dei mercati, contro la pace dell’autorità, contro la pace dell’abbrutimento e della servitù, siamo ovviamente anche contro la guerra. Perché pace e guerra sono in realtà due termini che rivestono una medesima continuità dello sfruttamento capitalista e del dominio statale.

Energia. Tra i vari pacchetti di pompose sanzioni stabilite dagli Stati occidentali per colpire il loro omologo russo, alla testa come alla base, si saranno potuti notare alcuni evidenti trucchi. Tra le grosse eccezioni a queste sanzioni (che sono alla loro quarta raffica), troviamo infatti le esportazioni russe di materie prime energetiche (petrolio e gas) e minerarie. E ciò capita a proposito, dato che la Russia produce il 40% del palladio e il 25% del titanio del mondo, essendo tra l’altro il secondo più grande produttore mondiale di alluminio e di gas, così come il terzo di nichel e di petrolio. Tutte materie i cui prezzi si sono impennati a partire dall’inizio dell’invasione del territorio ucraino, procurando maggiori entrate monetarie alla Russia… che d’altronde le vengono fornite in gran parte dai potenti degli stessi paesi che emettono incessantemente grida di sdegno umanitario riferendosi alla situazione attuale. A titolo di esempio, dall’inizio di questa guerra l’Unione europea versa ogni giorno alla Russia più di 400 milioni di dollari per il gas e quasi 280 milioni per il petrolio, incassati direttamente attraverso le due banche risparmiate dalle sanzioni finanziarie (e non a caso!), ovvero Sberbank e Gazprombank. E vi risparmiamo i giganteschi importi di tutto il resto, indispensabile sia all’industria automobilistica occidentale (palladio), che alla sua aeronautica e alla difesa (titanio) o alle batterie elettriche (nichel).
Quando si dice che la guerra comincia qui, spesso sembra una semplice rielaborazione di un vecchio slogan ideologico del secolo scorso, ma se qualcuno arrivasse oggi a chiedersi chi finanzia di fatto l’attacco russo, dovrebbe volgersi precisamente verso gli stessi che finanziano il campo avversario, vale a dire la difesa ucraina: si tratta in particolare del sistema tecno-industriale degli Stati occidentali, che non smetterà di girare a pieno regime per così poco, visto che la guerra, i massacri e le devastazioni sul pianeta fanno già intrinsecamente parte del suo funzionamento.
Per colmo d’ironia, esistono allora interessi diversi che i due Stati belligeranti si guardano bene dal mettere in mostra in questa guerra assassina, per non danneggiare i loro comuni finanziatori occidentali: i due enormi gasdotti Brotherhood e Soyuz provenienti dalla Russia, che attraversano poi tutto il territorio ucraino, prima di dirigersi verso la Germania e l’Italia. Un po’ come nessuno dei due belligeranti vuole toccare altri obiettivi sensibili per la propria economia nazionale quanto vitali per le industrie aeronautiche della difesa europea (soprattutto Airbus e Safran), vedi la fabbrica di titanio del gruppo VSMPO-Avisma situata nella città ancora sotto controllo ucraino di Nikopol, e tuttavia proprietà diretta del principale esportatore del complesso militare-industriale russo, Rosoboronexport. Quel che potrebbe sembrare un paradosso è in realtà l’amara illustrazione di una delle caratteristiche delle guerre inter-statali: sebbene le scatenino spudoratamente attraverso l’odio nazionalista, religioso o etnico, raramente sono i potenti a farne le spese — essendo ovviamente in grado di accordarsi fra loro in caso di necessità — ma sono le popolazioni a subirne le conseguenze mortali. Un po’ come la Francia che ha continuato a fornire alla Russia tra il 2014 e il 2020 dalle telecamere termiche per attrezzare i suoi veicoli blindati attualmente utilizzati nella guerra in Ucraina, ai sistemi di navigazione e ai rilevatori ad infrarossi per i suoi aerei da caccia e i suoi elicotteri, pur rifornendo l’Ucraina di missili anti-aereo e anti-carro. In materia di energia come di equipaggiamento militare, i finanziatori e i profittatori della guerra sono ugualmente qui, ed è anche qui che si possono combattere.
Uno dei vantaggi della creazione di piccoli gruppi autonomi che decidano contemporaneamente i loro bersagli e i loro tempi — per chi qui guardasse la guerra con un altro occhio o altrove non avesse l’opportunità di fuggire o decidesse volontariamente di restare — può quindi consistere ad esempio nel sabotaggio degli interessi capitalisti e strategici comuni ai leader dei due Stati e dei loro alleati, non potendo più servire in seguito né all’uno né all’altro, quale che sia il vincitore. Un’altra possibilità certo, ma che però non può cadere dal cielo viste le difficoltà da affrontare, richiede forse di essere già sviluppata e preparata prima, in particolare con l’aiuto di strumenti organizzativi che facilitino la condivisione di sforzi, conoscenze e mezzi adeguati. Questa vecchia questione degli interessi in gioco già agitava del resto le reti dei partigiani francesi sotto l’occupazione tedesca, il cui comando come i servizi anglo-americani insistevano ovviamente sul fatto che i loro sabotaggi industriale di tali siti e strutture sensibili restassero soprattutto reversibili limitandosi a rallentare la produzione nemica, o distruggevano solo obiettivi non-critici alla futura ripresa del paese.

Sudditi. In questa sporca guerra, in mancanza di impegnarsi per il momento in intensi combattimenti in zona urbana, l’esercito russo procede da diverse settimane all’accerchiamento e a pesanti bombardamenti di diverse città, secondo una tattica già provata ad Aleppo. A Mariupol, per esempio, dove 300.000 persone sopravvivono assediate in condizioni terribili, molti hanno dovuto capire a proprie spese che erano in realtà presi in ostaggio sotto il fuoco di entrambi gli Stati. In mezzo ad edifici sventrati, è il proprio esercito che molti gruppetti di civili affamati devono affrontare uscendo dai rifugi per andare in cerca di cibo nei negozi abbandonati.
Al fine di mantenere il suo monopolio sulle rovine e di continuare ad assegnare con priorità ogni risorsa agli uomini in armi, lo Stato ucraino ha quindi affidato ai volontari delle brigate di Difesa territoriale (Teroborona) non solo il compito di proteggere in seconda linea le sue infrastrutture critiche, ma anche di preservare l’ordine pubblico, che riguarda ad esempio i tentativi di saccheggio dei disperati. Per uno Stato che ha decretato la legge marziale tollerando, principalmente nelle città bombardate, forme di auto-organizzazione inquadrate che consentano di supplire alle proprie carenze, il dovere patriottico sarebbe beninteso di aspettare le sue briciole a pancia vuota bevendo l’acqua dei radiatori, essendo risaputo che i saccheggi della sacrosanta proprietà abbandonata possono essere effettuati solo da soldati nemici o da traditori, come scandiscono i suoi ordini del giorno. E al di là della tragica situazione di Mariupol, è la stessa logica messa in atto nella capitale Kiev accerchiata man mano dalle truppe russe, questa volta con dei coprifuoco, l’ultimo dei quali in ordine di tempo non più notturno ma di 36 ore continue per dare priorità all’esercito e alla polizia, che considerano «tutte le persone che si trovano in strada durante questo periodo come membri dei gruppi di sabotatori nemici», con le conseguenze che questo comporta.
Anche qui, affermare che in tempo di guerra lo Stato si impone col pugno di ferro ancor più che in tempo di pace non solo sulle menti ma anche sui corpi di tutti i suoi sudditi, non è una semplice banalità trita e ritrita: carne da cannone o carne da bombardamento, alla ricerca di cibo o di complici per auto-organizzarsi al di fuori della morsa statale, cioè semplicemente per respirare un’altra aria rispetto alla promiscuità dei rifugi o per comprendere la situazione da sé, ogni individualità è indotta ad annullarsi volente o nolente sulla scacchiera dei due eserciti che si fronteggiano. Una situazione che ovviamente si estende fino ai confini occidentali dell’Ucraina, che più di tre milioni di rifugiati hanno già oltrepassato… dopo essere stati debitamente controllati per scartarne tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni idonei al servizio. Se un’ondata di mutuo appoggio con le famiglie si è diffusa su entrambi i lati del confine, uno degli aspetti più rimarchevoli concerne tuttavia la tenue solidarietà che comincia ad instaurarsi, nonostante l’ostilità di una parte degli abitanti, verso coloro che rifiutano di combattere e non hanno la possibilità di pagare 1500 euro alle corrotte guardie delle frontiere ucraine. In particolare, grazie alla compilazione di falsi certificati medici o all’assegnazione di passaporti biometrici, unico documento ufficiale accettato in Ungheria o in Romania durante le prime due settimane del conflitto per far entrare i rifugiati nel proprio territorio.
Smistare, selezionare, dare priorità, registrare, classificare per separare alle frontiere i poveri buoni da quelli cattivi (anche a seconda della loro nazionalità, come hanno constatato sulla propria pelle i cittadini dei paesi africani), non è ovviamente una specificità dello Stato ucraino in guerra, ma la continuità di un vasto inferno di collaborazioni inter-statali, di contrattazioni economiche e di imperativi geo-strategici. Così gli uni sono condannati ad annegare nel Mediterraneo, altri a marcire nei campi Onu per i Rifugiati al fine di essere smistati nei vicini territori, e gli ultimi a servire gloriosamente la loro patria o come schiavi salariati nei paesi ricchi sempre in cerca di manodopera a basso costo da sfruttare. Perché in fin dei conti la ferocia del potere — che non si rivela mai tanto quanto nelle guerre, nella miseria e nei massacri che genera — consiste forse anzitutto in questo: la sua intrinseca pretesa di spadroneggiare in nome dei propri interessi nel territorio che controlla, cercando di trasformare ogni essere che comanda in suddito sostituibile, a costo del suo annientamento come individuo.

Emergenza. Da diversi anni ondate di minacce vengono brandite e strumentalizzate ad ogni pie’ sospinto per distillare la paura, all’interno di una gestione sempre più militarizzata della «pace» sociale: terrorismo, catastrofi ecologiche, Covid-19… o una ormai possibile deflagrazione nucleare nell’estensione del conflitto che brucia ai confini dell’Europa. E, naturalmente, il ritornello degli ennesimi sacrifici da accettare in fila dietro lo Stato diventa anche qui ogni giorno più stridente. Ma nella sostanza, forse è vero che ci sarebbe qualcosa da sacrificare senza neppure aver bisogno di percorrere migliaia di chilometri. Giacché, tutto quel vasto sistema di morte su larga scala non è forse alimentato da un’energia, un’industria, dei trasporti, delle comunicazioni e una tecnologia che scorrono tutti i giorni proprio sotto i nostri occhi? Rimandare la guerra al mondo che la produce interrompendo il suo rifornimento, può essere allora un altro modo di rompere i ranghi del nemico, sparpagliando dovunque il conflitto contro di lui.

[Avis de Tempêtes n. 51, 15/3/22, tradotto da Finimondo]
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Rinnovamento industriale

Posted on 2022/02/01 - 2022/02/16 by avisbabel
In questi giorni qualche timido fiocco sta imbiancando le pianure, le foreste e le colline di Belgrado est. Il termometro stenta a salire sopra lo zero nella capitale serba. In questo secondo fine settimana di gennaio sono previste nuove giornate di azione contro il progetto di apertura della più grande miniera di litio d’Europa (58.000 tonnellate all’anno), lanciato dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Da diversi mesi migliaia di persone partecipano a manifestazioni, ma soprattutto a blocchi stradali in tutto il paese. La devastazione ambientale programmata da questo progetto minerario nella valle di Jadar è l’innesco di una «rivolta ecologica» che a poco a poco sta minacciando la stabilità del regime autocratico. E se le massicce proteste non hanno dato luogo ad ostilità più accese in un Paese particolarmente devastato dall’inquinamento industriale, il governo serbo comincia tuttavia a ritenere più prudente sospendere temporaneamente l’arrivo del colosso minerario Rio Tinto.
All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l’ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell’Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia. Fino alla fine del novembre 2020, Varin era anche a capo della lobby industriale France Industrie. È d’altronde in tale veste che è stato sollecitato dal governo a scrivere quel famoso rapporto, il cui contenuto non sarà reso pubblico per intero in quanto «contiene dati sensibili e segreti industriali».
Al di là dei dati tecnici coperti da segreto di Stato, il contenuto del rapporto sembra comunque chiaro. Il rallentamento della fornitura e il blocco delle catene logistiche, in parte imputabili alla pandemia da Covid19 e alle misure sanitarie, hanno danneggiato l’economia europea, mettendo ancora una volta in rilievo la sua dipendenza in termini di materie prime quali rame, cobalto, metalli rari, di prodotti finiti quali semi-conduttori e altri componenti elettronici utilizzati nei processi produttivi ancora siti in Europa, e infine di fonti energetiche quali gas e petrolio. D’altra parte, la transizione energetica e digitale che sembra costituire l’asse portante della nuova grande mutazione del capitalismo e la sconcertante risposta davanti al disastro climatico, stanno fomentando gli ardori industriali per restare nella fuga in avanti con rinnovata fiducia nella tecnologia, il che si traduce in una sempre maggiore intensificazione dell’estrazione di materie prime. La domanda di metalli (necessari alla costruzione di impianti eolici), di pannelli solari, auto elettriche, batterie, componenti elettronici, di tutto ciò che costituisce l’infrastruttura del mondo connesso, esplode ed anche le previsioni più timide stimano che il loro consumo raddoppierà nei prossimi decenni.
Per alcuni metalli come il litio, componente essenziale delle batterie che a loro volta sono i mattoni fondamentali di un’economia elettrificata, le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) evocano addirittura, da qui al 2040, una vertiginosa moltiplicazione per 40 della domanda mondiale. Per il cobalto, estratto in maggior parte nel Congo, le previsioni parlano di una moltiplicazione per 24. Non sorprende che i prezzi stiano salendo alle stelle ed i metalli si consolidino come un temibile fattore di instabilità per le economie in tutto il mondo. La loro importanza economica e militare (oltre alle tecnologie verdi, anche i sistemi di difesa — dagli aerei da combattimento fino ai droni e ai missili — sono avidi di metalli rari) li pone al centro di conflitti geopolitici e di guerre commerciali più o meno latenti, soprattutto perché la Cina ne è il principale indiscusso produttore. «Stiamo entrando in un super ciclo dei metalli», ha dichiarato un importante trader di fondi d’investimento in risposta al rapporto Varin. L’incremento dei prezzi ha quindi un effetto palla di neve sui mercati, rendendo ormai sempre più redditizie le estrazioni difficili e delicate dai costi prima esorbitanti. Ma di fondo, siccome la dipendenza dalle materie prime non cesserà di crescere, le attività estrattive si moltiplicheranno comunque. 

Materie prime strategiche e critiche
Nessuna sorpresa quindi che gli Stati europei stiano pensando seriamente di riaprire le miniere, tanto più che i sottosuoli europei rigurgitano di metalli, come il litio, che ieri non rappresentavano un grande interesse, ma oggi sono definiti «critici». Da alcuni anni l’Unione Europea redige un rapporto annuale per indicare le materie prime ritenute strategiche e critiche, quelle la cui eventuale interruzione di fornitura (causata per lo più dall’esterno) rischierebbe di far vacillare le sue economie nazionali. Per contrastare tale dipendenza critica, la quale potrà solo aumentare man mano che si procede verso la transizione energetica e digitale, in diversi paesi europei si prevede la ripresa di attività minerarie e l’apertura di raffinerie di minerali.
In Francia, mentre alcune miniere sono ancora in funzione, sono stati attivati molti permessi di ricerca per metalli che troviamo su questo elenco europeo (pur non approdando necessariamente ad un progetto minerario), come nel Basso Reno il litio (estrazione del litio dalle salamoie, un processo definito «rispettoso dell’ambiente» dall’operatore Eramet); nell’Alta Vienna e nei Paesi Baschi l’oro, le terre rare, il tungsteno: o nell’Ariège ancora il tungsteno. In altri paesi, le titubanze politiche in relazione alla ripresa dell’attività mineraria finiscono per scomparire di fronte all’indiscutibile: se le economie europee intendono restare in corsa e in previsione delle crescenti instabilità geopolitiche (relative all’accesso alle materie prime, ai cambiamenti climatici, alle egemonie militari in alcuni territori, ecc.), non bisogna «proibirsi nulla» — come ha ben sintetizzato il ministro francese per la Transizione ecologica pochi giorni dopo il rapporto Varin. «Proibirsi nulla», contrariamente a quanto aveva deciso negli anni 90 il colosso chimico Rhône-Poulenc (oggi Solvay), in genere poco attento all’inquinamento. Invece di continuare l’attività estremamente nociva e radioattiva della sua raffineria di terre rare a La Rochelle, che rappresentava il 50% della produzione mondiale, il colosso aveva deciso allora di delocalizzarla in Cina. Un vecchio responsabile aveva così riassunto laconicamente questa scelta: «C’era merda che non volevamo, ecco di cosa si trattava».
Questa «merda» che ora non si vuole più proibire costituisce l’altra faccia della green-tech e della transizione energetica e digitale. I metalli rari sono definiti tali non perché siano «rari», ma perché sono mescolati con metalli abbondanti (come ferro o rame) nella crosta terrestre in proporzioni spesso infime. Sono chiamati «rari» perché sono difficili da rilevare, estrarre e separare chimicamente dagli altri. Tra i metalli rari come il cobalto, il gallio, il tantalio o il tungsteno, ci sono anche le «terre rare», una famiglia di 17 metalli particolarmente apprezzati dall’industria tecnologica e la cui estrazione e separazione sono particolarmente complicate e inquinanti. Il loro stesso stoccaggio genera seri rischi legati alle polveri cancerogene e radioattive. L’estrazione dei metalli rari, indispensabili alla transizione energetica e digitale, mobilita d’altronde enormi quantità di energia, acqua e prodotti chimici. I semplici rapporti di estrazione possono dare un’idea della montagna di rocce da estrarre: per ottenere 1 kg di gallio è necessario estrarre in media 50 tonnellate di roccia; per 1 kg di vanadio, 8,5 tonnellate; per 1 kg di lutezio, 1200 tonnellate…
Dopo la loro estrazione per mezzo di acidi, le rocce vengono poi lavate con una miscela di acqua (200 metri cubi per tonnellata) ed additivi chimici, da qui la moltiplicazione di laghi artificiali altamente tossici come quelli della regione di Baotou in Cina (che assicura il 95% della produzione mondiale di terre rare), triste specchio fumante del tasso di tumori dell’intera popolazione della Mongolia Interna, a nord-ovest di Pechino. Dall’America Latina (dove si trova soprattutto il triangolo dell’oro bianco, cioè il litio, con sfruttamenti in Cile, Bolivia e Argentina che rappresentano un quarto della produzione mondiale) fino all’Australia, le attività estrattive lasciano dietro di sé una scia di laghi tossici e di territori trasformati in discariche chimiche.
Oltre a puntare su una ripresa di questo tipo di attività mineraria sul suolo europeo (con progetti già in corso come l’estrazione di litio in Portogallo, Austria o Finlandia), gli industriali europei intendono posizionarsi anche nel settore del riciclo di materie prime. Con la vera e propria irruzione di prodotti elettronici e la loro obsolescenza programmata, questa via sembra raccogliere non poche speranze, tanto più che «riciclo» può far rima con «verde»… quindi con transizione ecologica. Poco importa allora se, dati i processi industriali e chimici impiegati per riciclare i metalli, ciò assomigli più ad una seconda forma di estrazione ritardata nel tempo, che mobilita, al pari dell’estrazione mineraria, nuove ed enormi quantità di risorse energetiche producendo nuove montagne di rifiuti industriali. Per questa componente di «riciclo», sono stati concessi ingenti fondi europei a innumerevoli progetti di ricerca e ad altri progetti industriali «innovativi». 

Le linee d’attacco tracciate dalla transizione
Ripresa dell’estrazione mineraria, re-industrializzazione attraverso la costruzione di raffinerie e nuovi stabilimenti, nonché insediamenti di centrali di riciclaggio fanno parte di uno stesso insieme strategico. Il diplomatico slovacco Šefčovič, vicepresidente della Commissione europea dal 2020, ha così riassunto questo programma in un «appello ad agire» della lobby Alleanza Europea sulle Materie Prime (ERMA): «La nostra previsione strategica mostra chiaramente che la domanda di materie prime critiche aumenterà, a maggior ragione con la transizione in corso verso un’economia verde e digitale. […] L’Alleanza Europea sulle Materie Prime contribuirà ad aumentare le nostre capacità e gli investimenti per tutta la catena del valore, dall’estrazione passando per la lavorazione fino al riciclo. Ciò rafforzerà la nostra resilienza e la nostra autonomia strategica».
Per quanto riguarda la capacità industriale, molti governi europei stanno sbloccando ingenti somme per contribuire al finanziamento di nuovi progetti. Sempre in relazione al litio, si possono citare, ad esempio, quelli in corso per la costruzione di «giga-factory» — enormi complessi industriali destinati alla produzione di batterie — elementi-chiave del tutto-elettrico. In Francia, progetti simili sono attualmente in corso a Douvrin, Douai, Grenoble, Belfort e Saint-Fons. Una delle raccomandazioni del rapporto Varin è appunto la creazione di un fondo d’investimento pubblico-privato a sostegno di questi progetti di fabbrica, nonché la costituzione di due piattaforme industriali, una a Dunkerque (nord) per i metalli, la seconda a Lacq (sud-ovest) per i magneti, la raffinazione, la fabbricazione dei precursori delle batterie (catodi, anodi), oltre al riciclo.
Come sottolineato dalla lobby europea delle materie prime — e non c’è dubbio che il rapporto Varin contenga lo stesso appello urgente — è nei prossimi due anni che dovranno essere prese le decisioni, concessi i permessi, avviati i progetti. Se la costruzione di una fabbrica di batterie o di magneti, di una raffineria o di un impianto di riciclaggio di metalli rari richiede generalmente dai 2 ai 5 anni, se l’avvio dell’estrazione di metalli rari da miniere esistenti o nuove va dagli 8 ai 15 anni, in mancanza di «azione» le economie europee rischierebbero secondo loro di sprofondare sotto il peso della totale dipendenza dalle importazioni nel giro di una decina di anni. Tali previsioni a medio termine si basano ovviamente sulla discutibile ipotesi di una prosecuzione più o meno costante — e di certo non turbata da fattori di instabilità come rivolte o cambiamenti climatici — della famigerata transizione.
Tuttavia, se vengono combinate con gli enormi sforzi fatti per moltiplicare le fonti di approvvigionamento energetico, esse indicano chiaramente i contorni del mostro da affrontare: un rinnovamento industriale alimentato da un rincaro energetico e da un’estrazione di risorse senza precedenti nella storia umana. È in questo contesto che bisogna porre anche gli ultimi progetti energetici annunciati, come il rilancio del nucleare, il raddoppio della capacità eolica, la realizzazione di progetti geotermici, il ripristino di centrali a gas, o il potenziamento di interconnessioni europee atte a rispondere alle sfide della nuova economia che si profila all’orizzonte.
In fin dei conti, a ben pensarci, niente di nuovo sotto il sole. È dalla comparsa delle città che il potere economico, fondamentalmente, cammina sulle medesime gambe: energia ed estrazione. Dalla schiavitù al nucleare, il progresso economico somma le fonti energetiche che conferiscono sempre più potenza ai dominatori, e viceversa, poiché è lo sfruttamento delle fonti energetiche ad alimentare direttamente il dominio. Come l’estrazione del petrolio che ha sprigionato una vertiginosa forza energetica, vecchia di milioni di anni, accrescendo in modo inaudito l’industrializzazione e la guerra su scala mondiale, l’economia digitale ed elettrificata dipende dalla velocità d’estrazione dei metalli di cui ha bisogno. Così vengono tracciate le linee del fronte su cui si combattono e si combatteranno terribili battaglie. Sconvolgere le loro previsioni, trasformare occasioni e situazioni in fattori di disordine e d’imprevisto, scrutare queste linee di attacco dove il nemico appare sì fiducioso, ma tuttavia più vulnerabile che altrove, lanciarsi nei conflitti che si stanno delineando portandovi senza indugio l’azione diretta, queste sono le grida di battaglia che potrebbero metterci attivamente sulle tracce del nemico.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 49, 15 gennaio 2022]

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Il dado è tratto

Posted on 2021/12/20 - 2022/02/16 by avisbabel

Il mondo accelera. Ciò che resiste si fa calpestare dal gran balzo in avanti. Se diventa ogni giorno più evidente che il cambiamento climatico è diventato irreversibile, la pressione nelle caldaie dello scafo infernale di questa civiltà-Titanic aumenta, alimentata dall’illusione che un crescendo tecnico possa ripristinare gli equilibri turbati. Da parte dei ribelli, si tarda ancora troppo ad affrontare questa realtà ed a trarne le debite conseguenze, magari provvisorie, per il nostro agire e le nostre prospettive di lotta. Tuttavia i giochi sono fatti ed è a partire da qui che dovremmo riflettere.

Troppo tardi
Se mai è esistita una qualche possibilità di far deviare il treno dall’espansione industriale attraverso una decisione politica del gestore della rete per invertire, o perlomeno rallentare il processo del cambiamento (una convinzione illusoria, dato che la sopravvivenza della mega-macchina non può essere disgiunta dalla crescita produttiva), essa si trova ormai alle nostre spalle. Nessuna misura, per quanto totalitaria o faraonica, potrà disinnescare questo processo già molto avanzato. Il cambiamento climatico è un fatto; la sola cosa che resta aperta alla speculazione (e qualsiasi approccio scientifico che pretenda di elaborare un modello preciso e globale del fenomeno non può che rimanere cieco — una deformazione professionale, probabilmente — davanti all’assoluta impossibilità di prevedere un fenomeno di tale ampiezza, di tale grandezza, da fattori tanto vari quanto ignoti), è il suo ritmo, le sue conseguenze immediate e, a medio termine, ciò che accadrà dopo il tracollo degli eco-sistemi locali. Poiché questo cambiamento climatico non è che la riacutizzazione di un processo di devastazione ambientale che coincide con l’espansione industriale e la mobilitazione di quantità di risorse energetiche inedite nella storia delle civiltà umane, a fini di espansione, conquista e dominio.
Anche ciò che avrebbe potuto essere l’ultimo monito di fronte al pericolo delle forze accumulate dalla civiltà industriale, di fronte al «divario prometeico» tra le sue realizzazioni tecniche e la coscienza singolare dell’individuo (prima colpito da una sensazione di umiliazione davanti alla potenza delle macchine che ha sviluppato, poi inghiottito da questa fino a diventarne un’appendice) — vale a dire davanti alla produzione di Auschwitz e di Hiroshima — in fin dei conti non è stato che il calcio d’inizio di un nuovo assalto, ancora più imponente, a ciò che si poteva sottomettere, sfruttare, estrarre, addomesticare.
Mentre i massacri cui la specie umana sembra consacrare un culto più unico che raro tra gli esseri viventi continuavano ad accompagnare la nascita del meraviglioso mondo della lavastoviglie e dell’automobile, le contraddizioni tra lavoro e capitale trovavano una via d’uscita nell’idolatria tecnologica. Una parte considerevole della popolazione umana mondiale è stata ridotta in schiavitù, cioè in totale dipendenza dal sistema industriale, dopo essere stata spogliata di quanto rendeva possibile la propria autonomia. Fino a caratterizzare l’umanità con una nuova tappa simbolica nel 2008: per la prima volta, più della metà degli esseri umani abitano ormai in agglomerati urbani, la maggior parte dei quali in baraccopoli.
In meno di cinquanta anni sono stati fatti passi da gigante nella devastazione della flora e della fauna di questo pianeta. Esistono infatti buone ragioni per definire l’èra industriale come l’Antropocene, ossia un’èra nella storia della terra in cui l’influenza dell’essere umano sulla biosfera ha raggiunto un livello tale da diventare una «forza geologica». Tra il 1970 e il 2016, le popolazioni dei vertebrati (pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili) sono diminuite del 68%. Alcuni parlano addirittura di Sesta Estinzione: la civiltà umana sarebbe in gran parte responsabile della scomparsa prevista dal 20 al 50% delle specie viventi sulla terra entro la fine di questo secolo. Un accademico nordamericano ne ha tratto sommariamente la constatazione in un libro che raccoglie quasi un decennio di ricerche ambientali: «Nel corso dei prossimi cento anni, la metà delle specie sulla terra, che rappresentano un quarto della riserva genetica del pianeta, spariranno funzionalmente se non completamente. […] L’ampia traiettoria dell’evoluzione biologica è stata fissata per i prossimi milioni di anni. In tal senso, la crisi dell’estinzione — la corsa per preservare la composizione, la struttura e l’organizzazione della biodiversità così come esistono oggi — è finita, e noi abbiamo perso».
Ogni persona che presti un po’ d’attenzione, dagli abitanti delle aree interessate agli osservatori dilettanti, può accorgersi direttamente dell’instabilità in corso dei fenomeni climatici. Non passa un mese senza che un nuovo fenomeno, più o meno grave, non aggiunga il suo fardello di perturbazioni agli equilibri e alle lente evoluzioni su cui sono basati gli ecosistemi. La fusione dei ghiacci nell’Artico, dei ghiacciai in Groenlandia o degli strati antartici sta accelerando irrimediabilmente facendo innalzare il livello dei mari. Mentre alcune isole sono già state evacuate, le sorgenti d’acqua dolce in Bangladesh stanno per diventare salate e aumenta la pressione sui modi di vivere della fauna oceanica. Gli incendi delle foreste devastano via via con violenza inaudita le aree settentrionali, mentre la siccità accelera una desertificazione cheentro il 2050 potrebbe interessare un terzo delle terre emerse. A sua volta, nel prossimo decennio l’irrefrenabile disgelo del permafrost rilascerà enormi quantità di gas serra (anidride carbonica e metano) ad un ritmo esponenziale, contribuendo di rimbalzo al riscaldamento globale che è la causa dello stesso disgelo. E così via.

Imminente apocalisse?
Ogni generazione sembra produrre la propria imminente apocalisse contro cui deve combattere, ma che non avviene mai. Tuttavia, bisogna anche convenire che le ultime generazioni avevano davvero ragione a temere eventi di una ampiezza mostruosa, visto i mezzi apocalittici di cui civiltà si era già dotata. La devastazione industriale scatenata durante la Seconda guerra mondiale deve aver ispirato nei più lucidi una terribile paura di fronte ad un’eventuale reiterazione, i cui pretesti non mancavano con una probabilità ancora molto elevata. Le migliaia di testate nucleari con cui per esempio si sono equipaggiate le «superpotenze», così come le centinaia di centrali nucleari civili disseminate sui loro territori, hanno ragionevolmente fatto temere l’imminente avvento di un inverno nucleare (il cui rischio non è ancora scomparso). Poi, via via che l’automazione e la meccanizzazione hanno preso definitivamente il sopravvento sull’essere umano, o meglio, lo hanno integrato del tutto nella mega-macchina, il massiccio inquinamento, le subdole intossicazioni, la diffusione di elementi cancerogeni, hanno sovraccaricato le catastrofi reali del presente in modo abnorme.
Certo, proprio come il «principio di speranza», questo auto-inganno umano, troppo umano, l’invocazione dell’imminenza dell’apocalisse serve anche a scopi banalmente mobilitanti. Timore e speranza hanno forse una radice fin troppo comune, e questo binomio sentimentale è sempre stato il terreno preferito dei suonatori di flauto a caccia di soggetti da arruolare. Non è quindi sorprendente che discorsi sempre più allarmistici risuonino oggi fin nelle più alte sfere del potere: l’evocazione del «cambiamento climatico» servirà presto da comodo lasciapassare per consentire loro di aprire le porte più impreviste. La gestione statale della pandemia da Covid19, con la sua accelerazione del tecno-totalitarismo e il suo rafforzamento della sorveglianza in tutte le sfere della vita, fornisce un esempio di come la gestione del potere possa mutare rapidamente e bruscamente.
Il riscaldamento climatico, il picco di combustibili fossili, la fusione dei ghiacciai, la scomparsa della biodiversità, la deforestazione e la desertificazione, gli uragani e le inondazioni, pur essendo fenomeni dalle conseguenze eminentemente planetarie, non annunciano probabilmente l’apocalisse planetaria finale, il crollo in tutto ill pianeta dello Stato e del capitale. Ma si tratta nondimeno di fenomeni reali, che sono in procinto di cambiare le società umane e di ridisegnare il terreno di scontro e di lotta. Dagli studi delle assicurazioni ai rapporti strategici militari, dai progetti condotti dalle grandi imprese energetiche alle ricerche portate avanti nei laboratori: in tutte le stanze di comando che guidano la corsa in avanti di questa civiltà-Titanic si prende atto dei cambiamenti che sono in corso e che si annunciano. Lontano dalle conferenze globali come da quelle dedicate al clima che giungono a confessare pubblicamente l’obsolescenza politica davanti all’ampiezza del cambiamento climatico, e mentre persone di buona volontà continuano ad implorare misure forti, centinaia di migliaia di esperti preparano un avvenire con il cambiamento climatico, con il riscaldamento del pianeta, con la penuria di materie prime, con pandemie facilitate dall’urbanizzazione, dalla mobilità motorizzata e dalla globalizzazione. Gli scenari che essi sviluppano (e che notoriamente mostrano spesso d’essere profezie auto-realizzatrici) tengono conto nel contempo delle carestie legate all’impoverimento dei terreni a causa dell’agricoltura intensiva i cui effetti saranno moltiplicati dal riscaldamento globale; delle migrazioni di massa provocate dal fatto che alcuni territori diventeranno più o meno inabitabili (per via della salinizzazione delle sorgenti, delle alluvioni causate dall’aumento delle acque, della desertificazione…); dei crolli di Stati già indeboliti e dell’impossibilità di questi ultimi di mantenere il controllo su certi territori; della penuria di materie prime e dei problemi di sicurezza dell’approvvigionamento energetico che indeboliscono la crescita economica… Tutti questi scenari hanno in comune la previsione di una certa perdita di controllo da parte delle autorità, che in effetti risponde ad una assenza di controllo su cambiamenti tanto vasti come quello climatico in corso. Più che inaugurare il crollo finale della civiltà, questa perdita di controllo inaugura piuttosto nuovi paradigmi di gestione (come può esserlo la transizione energetica) volti a perpetuare e ad accentuare il dominio.

Far precipitare la situazione
«Se le guerre climatiche del futuro saranno un prolungamento delle condizioni attuali, probabilmente saranno più vaste e più estreme. In certi luoghi alcune persone, e fra loro alcuni anarchici, potranno trasformare queste guerre climatiche in insurrezioni libertarie. In altri luoghi, la lotta sarà forse unicamente per la sopravvivenza o magari anche solo per una morte dignitosa e significativa. Quanto a coloro che si troveranno in ambienti sociali relativamente stabili, probabilmente si confronteranno con uno Stato totalitario e con una “massa” che teme sempre più “la barbarie dietro le mura”».
Desert (2011)

Se una rivoluzione globale che tiri il freno di emergenza è oggi altrettanto improbabile di un crollo apocalittico del capitalismo e dello statalismo; se è più che probabile che i prossimi decenni siano contrassegnati da uno scatenamento di violenza a causa dei cambiamenti climatici; se sarebbe di cattivo gusto sottovalutare la vastità degli strumenti di devastazione mentale e fisica che questa società ha prodotto e continua a produrre, così come l’effetto che essi hanno sull’essere umano — allora è meglio rielaborare alcune prospettive. Ogni teoria rivoluzionaria che consideri ancora oggi come problema centrale e principale la proprietà dei mezzi di produzione, la distribuzione disuguale delle merci, o chi trae beneficio dalla produzione, e non l’esistenza stessa di questi mezzi di produzione, ovvero la produzione industriale in sé ed i suoi effetti nefasti sull’ambiente e sull’insieme del vivente (umani compresi); chi crede sempre, al di là di qualche facile concessione ecologista, che il problema rivoluzionario resti fondamentalmente un problema di gestione, continuerà a percorrere le megalopoli e le campagne alla ricerca del famoso proletariato che dovrà contribuire a tale progetto rivoluzionario, incitando sfruttati e poveri a prendere «la loro fetta di torta», o meglio ancora «l’intero panificio», anziché distruggere l’esistente. E, per quanto incredibile possa apparire, questi fantasmi sembrano ancora tormentare molti spiriti ribelli, impedendo loro di percorrere risolutamente ben altri sentieri.
La devastazione della natura, la scomparsa delle specie, il degrado della biodiversità, l’artificializzazione del vivente, ci lacerano un cuore consapevole che non è più possibile fermare il cambiamento climatico in atto, e che cercare di attenuarne le conseguenze sembra consistere soprattutto in un’assistenza allo Stato nelle sue prossime ristrutturazioni a carattere sempre più totalitario. Partecipare alle lotte per «prendere una fetta della torta» sembra piuttosto allontanarci da una più fondamentale e audace messa in discussione della situazione catastrofica cui l’industrialismo ci ha portato, senza bloccare minimamente l’espansione della mega-macchina. Ecco perché, se esiste un’urgenza, è viceversa quella di riflettere su come far precipitare la situazione.
Per noi che vogliamo sia vivere che diffondere l’anarchia, i cambiamenti climatici in corso e futuri non mancheranno di sconvolgere le nostre certezze. Alcune possibilità note si chiuderanno, altre ignote si apriranno: dai territori «sacrificati» che lo Stato potrebbe temporaneamente abbandonare fino a felici concordanze, fatte di azioni e circostanze, che potrebbero inceppare la macchina momentaneamente, essendo tutte le sue parti interdipendenti; dalle lotte radicate in territori meno addomesticati contro l’avanzamento dell’industrializzazione fino al pericoloso caos che può impadronirsi delle metropoli quando le sue vie d’approvvigionamento vengono interrotte; da zone meno ospedalizzate da cui possono partire attacchi di briganti fino all’azione audace che lancia una sfida al fiero grido di anarchia, in un mondo in cui la libertà deve ridiventare ciò che è sempre stata: una libertà selvaggia.
Molti segnali lasciano prevedere che da un lato nel prossimo periodo si presenteranno situazioni inedite e possibilmente molto caotiche, forse anche in Europa, a causa degli sconvolgimenti climatici. Dall’altro, le lotte contro progetti devastanti o inquinamenti programmati (come le dighe idroelettriche, i parchi eolici o solari, le nuove infrastrutture energetiche e di telecomunicazione, i progetti minerari per estrarre i metalli necessari all’economia 4.0) che oggi rimangono spesso ancora limitati ad una saggia protesta più o meno gestibile, potrebbero anch’esse trasformarsi in scontri più duri e offensivi. Come sempre, le possibilità di agire all’interno e in parallelo a queste lotte sono numerose, ma ciò che conta innanzitutto è che la nostra prospettiva sia chiara: contribuire affinché questi conflitti diventino incontrollabili, affinché la collera che alberga in essi esploda. In particolare, è apportandovi l’ingrediente dell’azione diretta, immediatamente e senza ulteriori esitazioni, che le odierne contestazioni ecologiche fin troppo giudiziose potrebbero diventare focolai di rivolta ingestibili, sia dal potere che dai suoi oppositori autoritari o democratici che sognano solo di cavalcarle.
Certo, come al solito non esiste alcuna garanzia. Non si tratta di un programma di trasformazione sociale, né di una speranza di poter accumulare sufficienti forze in vista dell’epilogo finale. La sola promessa, se mai esistesse, da fare è che agire per far precipitare la situazione e far esplodere le ostilità potrebbe costituire un assaggio di una libertà finalmente fuori controllo.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 48, 15 dicembre 2021]

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Invito

Posted on 2021/11/27 - 2021/11/27 by avisbabel

«Il francese è un animale da cortile così bene addomesticato
che non osa scavalcare alcuna palizzata»
Charles Baudelaire, 1864

Da qualche settimana, i trafficanti di carne umana a capo degli Stati europei lanciano l’allarme sullo sfondo di questioni geopolitiche ed energetiche ben più ampie: alle loro porte orientali si accalcano alcune migliaia di viaggiatori indesiderati che tentano di fuggire dalla miseria, dalla guerra, dall’oppressione. Provenienti dall’Iraq, dalla Siria, dall’Afghanistan, dallo Yemen o dal Kurdistan, sono rimasti incastrati nelle gelide foreste bielorusse di fronte a 15.000 soldati polacchi e ai loro reticolati di filo spinato srotolati in tutta fretta. Nella sola giornata del16 novembre, i cani da guardia delle frontiere d’Europa affermano di aver respinto quasi 160 tentativi di «attraversamento illegale» del confine, due dei quali collettivi e in forze, che hanno lasciato sul selciato durante gli scontri nove fra gendarmi e militari.
Questa situazione, che ricorda su scala ridotta quella del 2015, quando la via dei Balcani era già stata bloccata poco alla volta con l’ausilio di muri (in Bulgaria, Ungheria, Slovenia, Austria), campi recintati con filo spinato e picchiatori in uniforme, ha riportato alla ribalta un’espressione di primo acchito banale: Fortezza Europa.

Più a sud, se si pensa effettivamente all’enorme sbarramento di torrette e sensori eretti nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, o alla recinzione «anti-migranti» lunga 40 chilometri inaugurata questa estate dalla Grecia, o anche ai vari muri in cemento ed acciaio che circoscrivono a nord tutto il porto di Calais, l’immagine si fa quanto meno impressionante. Tuttavia, sarebbe come dimenticare un po’ troppo in fretta che, in mezzo al flusso incessante di merci di cui gli esseri umani fanno certamente parte, le frontiere e i loro miserabili pezzi di carta timbrati (come la loro assenza) servono sia a smistare le diverse categorie di migranti che a proibire ogni passaggio agli indesiderabili, secondo gli imperativi dello sfruttamento o gli accordi interessati fra Stati. E dall’altra parte la blindatura di questi dispositivi non fa che accentuare a titolo dissuasivo il tragico costo del loro attraversamento illegale, trasformando il Mediterraneo in un gigantesco cimitero, o delegando i compiti più bassi a Stati-terzi come la Libia, i cui centri di tortura e di stupro di massa sono al servizio di una politica europea di terrore preventivo. Perché, dopo un viaggio così lungo e pericoloso, è difficile essere disposti a rinunciare di fronte a quelle muraglie finali erette sulla propria strada, come dimostra in mezzo ad altri tentativi il vittorioso assalto di 238 migranti riusciti ad attraversare in forze le recinzioni di Melilla lo scorso luglio, o il record a inizio novembre di 853 traversate illegali della Manica riuscite in una sola giornata (portando il fruttuoso totale a 21.000 dall’inizio dell’anno).
In sostanza, esiste senz’altro una stretta relazione tra le devastazioni ecologiche, la guerra per le risorse o le ristrutturazioni tecnologiche che producono milioni di esseri umani superflui, e gli spostamenti di popolazioni che passano fondamentalmente da un paese povero all’altro. Mentre qua e là la rabbia contro lo spossessamento delle nostre vite trova un facile sbocco nell’odio nei confronti di un fantomatico Altro, o la violenza delle frontiere si manifesta ugualmente senza pietà nel loro medesimo territorio, al tempo stesso sotto forma di gerarchia tra galeotti, che rafforza ulteriormente l’organizzazione sociale dello sfruttamento e del dominio, e di estensione dei dispositivi di controllo contro tutti.

Se occorresse un esempio di quest’ultima sul vecchio continente, si potrebbero osservare i numerosi programmi civili lanciati alle frontiere, sotto la copertura di finanziamento della ricerca (programma Orizzonte 2020 dell’Unione Europea), la cui mole di conseguenze pratiche lasciamo all’immaginazione di ciascuno.
Innanzitutto c’è il progetto Roborder (contrazione di robot e border, ovvero confine) lanciato nel 2017 e attualmente sperimentato in Grecia, Portogallo ed Ungheria, il quale consiste né più né meno che nel dispiegare sciami di droni autonomi forniti di radar, telecamere e sensori di frequenze, che pattugliano insieme in aria, sull’acqua o sott’acqua coprendo grandi distanze, con un’intelligenza artificiale volta ad identificare gli umani che si avvicinano ai confini, poi a distinguere se questi ultimi commettono dei reati (come tentare di passarli illegalmente, o essere armati, o motorizzati, ecc.), prima di inviare in modo mirato verso di loro «il personale operativo» necessario.
Poi c’è il progetto IborderCtrl, lanciato nel 2018 e sperimentato in Grecia, Ungheria e Lettonia fino all’anno scorso, ossia un sistema di rilevazione di menzogne basato sul riconoscimento emotivo gestito dall’intelligenza artificiale (con l’esame di «38 micro-movimenti del volto», come l’angolo della testa o il movimento degli occhi): se l’algoritmo reputa che una persona dice «la verità», le viene dato un codice per passare il controllo; in caso contrario, sarà indirizzata in una seconda fila, verso guardie di frontiera in carne e ossa il cui interrogatorio ovviamente non sarà né indiretto né dei più teneri.
C’è pure il progetto TressPass, lanciato nel 2018 e sperimentato presso l’aeroporto di Schiphol (Paesi Bassi), il posto di confine terrestre di Nadbużanski (Polonia) e il porto crocieristico del Pireo (Grecia), allo scopo di sviluppare un controllo non più basato sulla validità complessiva dei documenti presentati da un flusso di passeggeri, ma su un approccio in termini di «rischio» individualizzato, ovvero «l’uso di dati per la profilazione». In pratica, abbina tramite l’intelligenza artificiale l’insieme dei dati passivi di una persona (database passeggeri, scansione dei bagagli, convalida biometrica dell’identità, database della polizia, itinerari e scali, in particolare quelli che combinano diversi mezzi di trasporto) al fine di stabilire un profilo di coerenza che sarà a sua volta incrociato in tempo reale con un’analisi comportamentale attiva grazie a telecamere e sensori (modo di camminare, movimenti nella folla, oggetti spostati, frequenza cardiaca del volto umano, fattori di stress)… il tutto per costruire una scala «preventiva» di quattro livelli di «minaccia» individuale, permettendo di «regolare il numero e i tipi di controlli di sicurezza richiesti per ogni viaggiatore».
Infine, c’è anche il progetto Foldout, lanciato nel 2018 e sperimentato d’estate in Bulgaria e in Grecia, d’inverno in Finlandia e il resto del tempo nella Guiana francese allo scopo di testare tutti i tipi di temperature e tassi di umidità, poiché consiste nel fornire «una rapida rilevazione di attività illegali alle frontiere che ripercorre i movimenti e gli itinerari delle persone» servendosi di dati gestiti in tempo reale dall’algoritmo, presi dai sensori di terra (acustici e sismici), da telecamere termiche nascoste, da droni, da palloni stratosferici, da lidar e radar, e da micro-veicoli senza pilota dotati di scanner… il tutto in un ambiente composto da foreste o giungle. Ossia, nella neolingua tecnopoliziesca, «sotto la copertura di alberi e di altro fogliame denso su vaste aree».

Ci fermiamo qui in questa recensione non esaustiva delle sperimentazioni in corso su grande scala, che hanno il tratto comune di rendere le frontiere ancora più mortali, non senza sottolineare che esse non implicano solo la collaborazione di diverse istituzioni poliziesche, ma soprattutto di molte aziende e start-up di punta talvolta ridicolmente piccole quanto specializzate, oltre ad università pubbliche la cui responsabilità viene troppo spesso trascurata. Solo per i quattro progetti di cui sopra, si possono rispettivamente citare le università di Atene, Sheffield Hallam e l’italiano Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni (CNIT); l’Università Leibnitz di Hannover e l’Università Metropolitana di Manchester; l’Università di Friburgo, l’Università nazionale d’Irlanda Maynooth e l’Università di Reading. E più vicino a noi, aggiungiamo quelle di Namur e di Scienze-Po Parigi, entrambe parti integranti del progetto Bodega, che mira in particolar modo a «migliorare le prestazioni [umane] delle guardie di frontiera nelle attività critiche».
Poiché è così che a fianco degli incravattati in ingegneria, degli impomatati in informatica e degli incamiciati in optronica, collabora anche tutta una sfilza di sociologi, psicologi e linguisti in jeans e scarpe da ginnastica, che si lavano le mani per bene dal sangue versato alle frontiere, dato che in fondo fanno tutti solo il loro sporco lavoro. Quello di costruire e perfezionare droni, sensori, telecamere, algoritmi ed altre analisi pseudo-comportamentali per conto del più freddo dei mostri freddi.

Nella versione in prosa del suo Invito al viaggio, un critico della religione del progresso — «questa idea grottesca, che è fiorita sul terreno marcio della fatuità moderna» — domandava con una certa malinconia: «dalla nascita alla morte quante ore di gioia effettiva, di azione decisa e riuscita possiamo contare?». Il celebre poeta non si riferiva certo ai boriosi zelatori del vapore, dell’elettricità e del gas, ma a chi come lui cominciava a subire la tirannia industriale della «serie indefinita», di fronte ad ogni singolarità individuale. Ora che alcune migliaia di indesiderati stanno combattendo con i loro scarsi mezzi, stretti nella partita a biliardo che stanno giocando la Russia e la NATO in relazione al gasdotto Nord Stream 2 (la stessa che fa infiammare anche i prezzi del gas europeo), non potrebbe qualche «azione decisa e riuscita» ricordare ai potenti che poiché la loro cara energia non conosce frontiere, nemmeno gli amanti della libertà le conoscono? Perché, dopo tutto, esiste poesia più meravigliosa di quella che viene inaspettatamente a recidere le camicie di forza del reale?

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 47, 15 novembre 2021]

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A tentoni…

Posted on 2021/10/27 - 2021/11/05 by avisbabel
Soli nella foresta?

«Isère: Complottista e arrabbiato con lo Stato,
incendia alcune antenne-ripetitori»
«Drôme: Il piromane di Pierrelatte:
anti-5G ma non anti-fibra ottica»
«Rhône: Arrestati due monaci
per aver dato fuoco ad alcuni ripetitori 5G»
«Parigi: Antivax sabota 26 antenne 5G
per salvare la Francia dal complotto del Covid19»
(alcuni titoli di giornali negli ultimi mesi)

I servizi statali hanno registrato centinaia di sabotaggi a partire dal 2018 contro infrastrutture di telecomunicazione. Antenne incendiate, fibre ottiche sezionate, centraline bruciate, armadi di distribuzione telefonica scardinati: queste pratiche si sono diffuse in tutto il territorio e hanno avuto un evidente incremento quantitativo nel corso degli ultimi due anni. Anche la qualità delle attività notturne dei sabotatori sembra aver fatto un salto di qualità: ci sono stati sabotaggi che hanno interessato nodi particolarmente sensibili, altri coordinati o ripetuti nella stessa area geografica, alcuni volti a interrompere le comunicazioni di un struttura precisa, in una zona precisa o in un momento preciso… Insomma, malgrado i reiterati avvertimenti delle autorità, le grida di allarme degli operatori e un numero non trascurabile di arresti, continuano gli attacchi contro queste infrastrutture che restano difficili da proteggere da un colpo di tenaglia furtivo o da un incendio notturno.
Tuttavia, pur prendendo indubbiamente di mira le vene del dominio tecnologico, le motivazioni specifiche e le aspirazioni più ampie delle mani che li realizzano rimangono spesso sconosciute. La repressione, di cui uno dei compiti principali è ovviamente quello di individuare gli autori di misfatti che turbano il buon funzionamento della società, ha però svelato in parte la diversità delle persone che si dedicano a queste passeggiate sotto la luna. Leggendo con cautela le notizie dei giornali o le dichiarazioni dei condannati «citate» dai giornalisti, ed evitando di riprendere a nostra volta i «profili» e le «categorie» stabilite dai servizi dello Stato a fini di mappatura, schedatura e repressione, negli ultimi anni abbiamo visto condannare persone assai diverse per attentati contro la connessione permanente. Durante il periodo di massimo splendore dei Gilet gialli, diversi piccoli gruppi hanno effettuato, ad esempio, sabotaggi nel contesto o a margine di questo eterogeneo movimento di rivolta. Altri condannati hanno specificato in tribunale la loro sensibilità ecologista, la loro opposizione al 5G per i suoi effetti nocivi sulla salute e sull’ambiente, la loro appartenenza alla sinistra o il rifiuto da parte loro del controllo. Altri ancora, pur di fronte a prove a proprio carico e infine condannati, hanno rifiutato fino alla fine di lanciarsi in lunghe spiegazioni in tribunale o sulla stampa. Dietro il loro ostinato silenzio potrebbero certo nascondersi visioni poco liberatrici, ma rifiutarsi di parlare con uno sbirro o un giudice, o non vedere il senso di spiegare le proprie tensioni e le proprie idee a un giornalista, non significa necessariamente non avere alcun «problema a venire associato al complottismo o all’estrema destra». Allo stesso modo, non appartenere a nessun ambiente più o meno «militante», non avere un «comitato di solidarietà» che difende le proprie idee quando si viene arrestati, non scrivere lettere pubbliche per spiegare le proprie azioni, non vuol dire far automaticamente parte dei «nazistoidi» che progettano lo scatenamento di una guerra razziale attraverso una diffusione del caos, o dei «complottisti» che si fanno imbottire il cervello da internet, o dei «fondamentalisti» che equiparano le innovazioni tecnologiche all’opera del diavolo.
Ma negli ultimi mesi, titoli di giornale come quelli riportati all’inizio di questo testo hanno perfino messo in discussione quella che qualcuno potrebbe definire «benevolenza» nei confronti del silenzio degli autori di attacchi, arrivando in qualche caso a provocare un attacco di febbre esistenziale nei compagni. Il ragionamento sembra essere così imbastito: se dietro tutti questi atti anonimi — sì, bisogna precisarlo, la maggioranza degli attacchi contro le infrastrutture di telecomunicazione non è stata seguita da comunicati di rivendicazione, e non è stato fornito alcun indizio di appartenenza ideologica agli investigatori né ai diffidenti guardiani della genealogia — ci possono essere anche individui poco affidabili come illuminati da Dio, attivisti patriottici o persone alquanto confuse con poche velleità di approfondimento, … allora ogni attacco anonimo dovrebbe essere trattato come qualcosa che proviene probabilmente, o molto probabilmente, da persone poco raccomandabili.
L’errore logico salta agli occhi, ma poco importano i ragionamenti, le argomentazioni, le valutazioni critiche o gli approfondimenti, quando è più facile sentirsi soli nella foresta piuttosto che apprendere che altre persone non disprezzabili, che non si conoscono e che hanno forse, con molta probabilità, visioni e sensibilità assai diverse dalle nostre, possano ugualmente sgattaiolare attraverso il sottobosco. Soli nella foresta, soli come anarchici, puri servitori di un alto ideale, senza contraddizioni nella nostra vita, senza «macchie» sul nostro blasone patrimoniale, senza dubbi nei nostri pensieri e senza «colpe» nei nostri rapporti e nel nostro modo di vivere, chiaro come un plenilunio e senza alcuna «illusione rivoluzionaria» o «insurrezionale». Eppure, sebbene sia sempre possibile mentire a se stessi, sebbene sia sempre possibile costruire castelli di carte che il primo vento della realtà spazzerà via come sabbia, esistono anche altri percorsi che non si astraggono dal mondo che ci circonda, che non hanno bisogno di issare le nostre idee e coloro che le incarnano in cima a un piedistallo al di sopra di ogni possibilità di errore, al fine di dare un senso alla lotta e un significato alla propria vita.
Perché noi non siamo soli nella foresta. Non siamo gli unici fattori umani del disordine, così come neanche gli esseri umani sono gli unici fattori che turbano i fragili equilibri su cui questo mondo in pieno dissesto cerca di avanzare. Altre persone agiscono, con idee forse meno approfondite delle tue, con sensibilità forse più affinate delle mie, mosse da un immediato desiderio di rivalsa contro un sistema mortifero, da un’oscura vendetta contro una vita privata di senso, così come da una convinzione ideologica o religiosa in conflitto con la marcia tecnologica del mondo.

I perché
«Perché in fondo il succo della questione non riguarda i presunti perché di perfetti sconosciuti di cui comunque non sapremo mai nulla (salvo in caso di un eventuale arresto, malaugurato per chiunque), ma come intendiamo, in seno alla guerra sociale, far risuonare gli atti che ci parlano e vibrano con le nostre idee. Siano essi collettivi o individuali, diffusi o specifici, ampiamente condivisibili o perfidamente eterodossi, totalmente anonimi o etichettati come sovversivi, all’ombra dei riflettori o pubblicizzati dai loro autori in differenti maniere»
(Ricercati interconnessi, luglio 2021)

Di fronte alla constatazione che la foresta non ospita solo anarchici, si aprono sostanzialmente due possibilità, come sempre con mille sfumature intermedie.
La prima consiste nel considerare che, poiché nessun altro oltre a noi condivide le idee anarchiche (almeno nella loro completezza che le differenzia fortemente da ideologie che si possono più o meno fare a pezzi a seconda della situazione e dell’inclinazione del momento), l’insieme degli «atti di rivolta», di «brevi del disordine», di «frammenti di guerra sociale» — poco importa come vogliamo chiamarli — sono sicuramente parte del panorama in cui agiamo, il fondo della trama, ma occorre stare ben attenti a non fornir loro delle motivazioni. Poi, via via che le motivazioni sfuggiranno dalla penombra della foresta dando un colore specifico a questi atti, colore che in linea di principio non ci piacerà mai del tutto (dato che gli anarchici sono gli unici a condividere le idee anarchiche), avremo sempre più bisogno di affermare o di chiarire le nostre intenzioni e motivazioni rispetto a quelle degli altri. Perché qualsiasi silenzio da parte nostra potrebbe portare acqua al mulino di chi non condividiamo. Saremo allora costretti ad accendere torce in mezzo alla foresta, e fare in modo che i roghi che appicchiamo ardano ancora più forti, più alti e più luminosi di quelli degli altri. Correndo quindi il forte rischio che l’identità anarchica diventi in realtà la nostra principale preoccupazione, che si finisca con l’instaurare (anche all’interno della nostra stessa cerchia) una sorta di catechismo che determina i punti positivi e negativi, non riuscendo più a cogliere in definitiva la diversità e la ricchezza delle individualità come un frutto della libertà, ma come una terribile minaccia.
La seconda possibilità resta quella di partire sempre da noi stessi, dalle nostre idee e aspirazioni anarchiche, ma percependo gli altri come «fattori di disordine» e non cose da assimilare o da presentare come se fossero — inconsapevolmente e sotterraneamente — ispirate dal sacro fuoco dell’anarchia, bensì semplicemente come elementi che hanno un loro peso e un significato nella guerra concreta (e non platonica o idealista) condotta dagli esseri umani. Una guerra «sociale», se si vuole, nel senso che attraversa l’intera società e ruota pur sempre attorno alla questione del potere (in tutte le sue declinazioni), e in cui gli anarchici sono coloro che difendono la necessità della distruzione del potere anziché la sua riorganizzazione. Questa «guerra sociale» non è l’espressione della tensione verso la «liberazione totale» né verso «l’anarchia», essa costituisce solo il conflitto da cui emergono e si modificano i rapporti sociali, che a loro volta forgiano le modalità della «guerra sociale». Le motivazioni espresse, tacitamente o esplicitamente, da chi è coinvolto in questa guerra devono allora essere ricollocate nel loro contesto storico, e non estratte per compararle nel pantheon delle astrazioni. Senza beninteso negare il loro peso, questa seconda possibilità (scusate lo schematismo troppo grossolano) non considera tali motivazioni l’unico riferimento, il solo indizio della realtà, ma uno fra i tanti. L’esigenza di stabilire una genealogia degli «atti di rivolta», di sondare le motivazioni dei loro autori, si fa qui sentire di meno — proprio come l’esigenza di rivestire sistematicamente di spiegazioni i propri di atti. Le spiegazioni degli atti singolari lasciano allora posto all’elaborazione di una progettualità che tenta di andare oltre ciascuno di essi, e il fatto che questa progettualità abbia finalità insurrezionali (lo scatenamento di una situazione di rottura) o altre ancora, non farà necessariamente grossa differenza. È vero, come sottolineano certi critici, che ciò potrebbe portare a scartare del tutto il peso delle motivazioni, col rischio di non considerare tale fattore, che non è certo l’unico ma che comunque resta. In questo caso, se le «motivazioni» dietro agli atti di rivolta non sono l’elemento esclusivo che potrebbe interessare gli anarchici per ciò che esse generano, ciò non dovrebbe però spingere a negare completamente la loro influenza nella realtà della guerra sociale.

Azioni che parlano da sole?
«Niente di ciò che viene pronunciato appare
tanto carico di minaccia quanto il non-pronunciato»
Stig Dagerman

In una realtà complessa come la nostra le cose sono ovviamente ancor più complicate e finiscono anche per gettare nella confusione ogni schematismo e ansia, richiedendo ulteriori riflessioni.
Se da un lato il mutismo degli insorti può talvolta finire per offuscare il peso delle motivazioni, dall’altro risponde anche all’esigenza pratica di non fornire indizi al nemico statale. Allo stesso modo, se da un lato difficilmente si può dubitare della necessità di chiarire le ragioni in un contesto confuso, ovvero in un contesto di aspro malcontento che incontra una proiezione strategica dei neofascisti (come nell’attuale opposizione al pass sanitario e negli attacchi contro strutture come i centri vaccinali), dall’altro occorre restare lucidi sul peso relativo delle parole e di ciò che riescono ad esprimere e a trasmettere. Ciò vale ovviamente per qualsiasi espressione linguistica, dal manifesto al volantino passando per la discussione, e fino ad un giornale o ad una rivendicazione: tutte sono condizionate dall’altrui capacità di comprendere ciò che viene scritto o detto.
Se, ad esempio, vogliamo continuare a poter apprezzare le azioni altrui quali differenti espressioni in seno alla «guerra sociale» — dagli attacchi contro la polizia nelle periferie fino ai sabotaggi anonimi di infrastrutture — dobbiamo allora trovare un altro modo per farlo, che non sia semplicemente quello di pesarle sul bilancino dell’anarchismo. Altrimenti dovremo deciderci una volta per tutte ad evocare solo azioni debitamente rivendicate da anarchici, unico modo per evitare alla radice ogni rischio di speculazione, di valutazioni affrettate e di malsane inquisizioni — sapendo che ciò sarebbe solo provvisorio, giacché l’anarchico che ieri ha compiuto una bella azione potrebbe anche rivelarsi oggi una merda nei suoi rapporti quotidiani o cambiar bandiera domani…
In ogni modo, rimane ovviamente importante prendersi il tempo per approfondire in maniera critica il nostro rapporto con gli altri esseri della foresta, così come il nostro modo di agire. Per contro, se in effetti non esiste nessuna ricetta da applicare né vulgata da raccontare, non possono esserci neanche consegne da rispettare sul «come fare», pena l’essere accusati di volersi nascondere dietro immondi nazistoidi o altri fanatici. Nessuno, nemmeno il più ottuso fra loro, può tentare di imporre alle compagne e ai compagni l’obbligo di motivare le loro azioni, di spiegare e giustificare in dettaglio i loro progetti, di etichettare le loro azioni in base a certi requisiti, solo per evitarsi l’acredine di un qualunque cronista della guerra sociale. Spetta comunque a ciascuno agire come meglio crede. A costo di lasciare gli uni nell’ignoranza e nell’incomprensione, e di preservare l’ombra per coprire le attività degli altri. O a costo di deludere gli uni con una esibizione ritenuta troppo indelicata, e di ispirare gli altri con l’affermazione chiara e precisa delle idee e dei sentimenti che hanno ispirato un’azione.
Perché, alla fin fine, le azioni parlano davvero da sole? Da un lato sì, nel senso che sono la manifestazione di un attacco concreto contro una struttura o una persona concreta. La distruzione di un traliccio è la distruzione di un traliccio, poco importa come si vorrebbe interpretarla. Dall’altro no, perché non possono esprimere di per sé tutte le motivazioni, le tensioni, le sensibilità che hanno spinto gli autori a realizzarle. Quindi le azioni sono ciò che sono, un fatto materiale distruttivo che può ispirare o aprire l’immaginazione (oppure no), né più né meno. Allo stesso tempo, sono anche tutti questi atti a costituire il panorama in cui si agisce, e di cui si fa parte. Essi assumono quindi il loro significato anche in un contesto, e non solo grazie all’eventuale espressione esplicita degli autori. Disturbando, interrompendo, mettendo in discussione la vita di altre persone, non potranno mai essere proprietà esclusiva dei loro autori, così come gli autori non saranno mai i soli ad attribuire ad esse un senso (poco importa che sia per apprezzarle o condannarle). Di fronte a ciò, il fatto di rivendicare o meno un’azione non cambia radicalmente la situazione. «Gli altri» non sono semplici spettatori passivi che subiscono senza batter ciglio sia gli atti che i significati che talvolta i loro autori vogliono dar loro: ne sono direttamente coinvolti visto che le loro vite vengono modificate (in modo più o meno passeggero) dall’azione, visto il disgusto o l’entusiasmo che può ispirare in loro, ecc. ecc.
Può allora una rivendicazione aiutare a comprendere un’azione? Ovviamente, così come potrebbe viceversa renderla incomprensibile ai suoi lettori, gonfiandola a tal punto o gravandola talvolta di così tante parole da farla quasi annegare in un trattato e seppellire il semplice suggerimento che essa contiene sempre: distruggiamo ciò che ci distrugge. E d’altro canto, il fatto di rivendicare ci mette davvero al riparo dalla possibilità di essere accomunati a persone poco raccomandabili? Considerato che la foresta è vasta e che le azioni risuonano ben più lontano e al di là delle nostre stesse parole (gli «effetti» della propaganda, attraverso i giornali anarchici o attraverso rivendicazioni anarchiche, saranno comunque relativi), si sarebbe piuttosto propensi a relativizzare questa convinzione, e in ogni caso a non considerare la rivendicazione una sorta di soluzione magica, un bicarbonato destinato a risolvere tutti i problemi posti dalle azioni e dalla loro possibile comprensione.

Sinistra, destra, sinistra, destra: al di fuori!
«Il fatto che da settimane la sinistra vada a spasso mano nella mano con i fascisti/cospirazionisti dovrebbe metterci in guardia sul pericolo insito nell’idea di lotta comune, che ci induce a non badare a chi siano le persone con cui lottiamo, finché si hanno le stesse pratiche e lo stesso obiettivo. Dimentichiamo che queste persone di cui applaudiamo le azioni o con cui manifestiamo hanno posizioni opposte alle nostre su quasi tutto, e che noi in altri contesti saremmo il loro bersaglio»
(Refrattari solidali, rivendicazione contro
Orange a Grenoble, settembre 2021)

Da diversi mesi, buona parte dell’opposizione alle misure sanitarie restrittive del governo sembra essere guidata da personaggi di destra. Anche in altri paesi, come l’Italia, i Paesi Bassi o la Germania, i nazistoidi sono scesi in piazza numerosi e hanno chiaramente segnato la loro presenza nel corso delle mobilitazioni d’altronde molto eterogenee. In diverse occasioni gli anarchici sono stati persino attaccati da gruppi fascisti, e per fortuna è successo anche il contrario. Tuttavia, ritrovarsi sullo stesso terreno del conflitto non significa necessariamente essersi appropriati dell’indigesto vocabolario degli opportunisti in cerca di «fronti comuni» o teorizzanti «oggettive alleanze» come strategia politica. Pur avendo sempre la possibilità di sbattere la porta ed abbandonare un terreno di lotta che non ci sembra offrire alcuna possibilità di sovversione o di azione liberatrice, nessun conflitto potrà comunque mai corrispondere pienamente ai soli criteri anti-autoritari. Agire su un terreno conflittuale che non è «puro» (e quale lo sarebbe?) ovviamente non significa avallare l’autoritarismo che vi può essere presente, e la questione sarà sempre più quella di come agiamo, e in quale prospettiva.
Dall’altra parte del Reno, ci sono ampi settori della sinistra radicale e libertaria che accusano coloro che difendono gli attacchi anonimi contro le infrastrutture di telecomunicazioni o energetiche di fare «fronte comune» con i nazisti, o in ogni caso di giocare il loro gioco (dato che in generale i militanti nazisti pare siano poco inclini a rivendicare e teorizzino inoltre l’attacco alle infrastrutture al fine di accelerare il Tag X, il Giorno del crollo sociale e inizio della «guerra razziale»). Per di più, siccome buona parte del terreno dell’opposizione al 5G sembra essere colà occupato da comitati apertamente complottisti («Querdenker») e condiscendenti nei confronti dell’estrema destra, gli attacchi alle infrastrutture possono non essere più percepiti come sabotaggi al tecnomondo, ma come dimostrazioni della virulenza nazista. Dall’alto dei collettivi antifascisti e dei circoli di movimento vengono poi screditate le azioni non rivendicate, una volta sancito il principio para-poliziesco che «azione non rivendicata contro un’infrastruttura uguale azione nazista». Tanto più che alcuni di loro, da buoni adepti del progresso collettivo e civilizzatore, generalmente non riescono a concepire la portata sovversiva di attentati a quel «bene comune» che a loro dire sarebbe l’elettricità o la connettività virtuale.
Di fronte alle attuali ristrutturazioni tecnologiche del dominio, e da qualsiasi parte lo si prenda, una piccola frase di Orwell — di certo non un nemico di ogni autorità — resta di inquietante attualità: «La vera divisione non è fra conservatori e rivoluzionari, ma fra autoritari e libertari». Al di là del Reno, queste voci della sinistra radicale o libertaria tedesca non solo accusano gli anarchici di voler scatenare una «guerra civile» mediante attacchi alle infrastrutture (allo scopo principalmente di creare disordine e compromettere le catene tecnologiche, pratiche che possono anche far parte di una progettualità insurrezionale), ma poi, puntando il dito accusatore, insistono affinché tali attacchi siano perlomeno accompagnati da attestati politici di buona volontà («giustizia sociale» ed «emancipazione progressiva» invece di scatenamento della libertà, «contro i dominanti» ma comunque comprensivi nei confronti della sottomissione e dell’adesione dei dominati). Di fatto, chiedono solo la continuazione della buona vecchia tradizione opportunista che è sì disposta ad usare l’arma del sabotaggio, ma a condizione che serva da veicolo e da megafono ai propri disegni politici.
E se gli anarchici qui e altrove finissero per fare più o meno lo stesso? Per esigere spiegazioni sugli atti di sabotaggio delle infrastrutture, per distanziarsi di fatto da ogni atto che non sia rivendicato come «anarchico», per vedere solo la mano di nazisti, di complottisti — e perché no, era un classico dello scorso secolo: di servizi segreti stranieri — dietro sabotaggi i cui autori decidono di restare nell’ombra? In tal modo finirebbero così per rifiutare ogni propensione o volontà che auspichi e si adoperi a favore di una moltiplicazione incontrollata dei sabotaggi di infrastrutture di telecomunicazione, energia e logistica, per accettare e valorizzare unicamente la loro moltiplicazione sottomessa ad un controllo ideologico. Ciò significa difendere la libertà, o piuttosto temerla?
Il fatto che dei fascisti/cospirazionisti e perfino dei monaci abbiano attaccato alcuni ripetitori non toglie neanche un briciolo di validità al fatto di attaccare tali strutture, di voler incoraggiare i sabotaggi contro di esse, di desiderare ed operare per l’incontrollabile moltiplicazione di questi ultimi. D’altra parte, ciò potrebbe forse costringerci a riflettere di più sul perché queste azioni possano essere suggerite, sul perché vogliamo davvero che vengano diffuse, riflettere cioè per affinare le nostre prospettive. Se disertare i terreni dove anche altri sono attivi non è un’opzione, se timbrare sistematicamente le azioni non risolve la questione dello «stesso terreno», è perché bisogna cercare ancora più lontano: nella prospettiva che diamo al nostro agire, nelle idee che diffondiamo, nelle metodologie che suggeriamo, nei progetti che elaboriamo.

Quale libertà?
«Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere»
La foresta dell’agire, aprile 2021

Quali prospettive elaborare, allora? Potremmo forse cominciare da quelle che riusciamo a comprendere, ma che ci ispirano di meno. Ad esempio, quella che spesso trapela tra le righe ma stenta ad esplicitarsi: si tratta della prospettiva che pone come obiettivo principale l’esistenza e il rafforzamento qualitativo e quantitativo del movimento anarchico. Un movimento più forte, più ampio, meglio organizzato, che sarebbe in grado di affrontare le forze oscure del fascismo, le manipolazioni complottiste di collera assai reale, le forze di sinistra il cui ruolo sembra proprio essere quello di accompagnare il capitalismo e il dominio verso futuri più sostenibili, più tecnologici, più equi. Un movimento che osi prendere se stesso come punto di riferimento, e sviluppi una capacità di diffusione, di attacco e di rilevanza sufficienti a costituire una forza reale, capace di pesare nel dibattito pubblico, di fare la differenza nelle lotte intermedie, di cacciare i nazisti dalle manifestazioni.
In una simile prospettiva, esiste un forte rischio che il rafforzamento quantitativo del movimento anarchico, anche difficilmente immaginabile (in fondo, pensiamo veramente che le idee anarchiche possano oggi essere condivise dalle masse?), finisca per accontentarsi della rappresentazione di tale rafforzamento. L’effetto-specchio incita facilmente all’esibizionismo, svuotando rapidamente la lotta per sostituirla con un’immagine presa per realtà. Alla fine, una tale prospettiva finisce in genere per puntare anzitutto sul rafforzamento dell’identità anarchica, per arrivare ai ferri corti… con gli altri abitanti della foresta. Così l’identità tenderà a gonfiarsi oltre misura, a sostituire la qualità della sostanza con la preminenza della forma, finendo per misurarsi per paragone, nello specchio della rappresentazione, con tutte le altre identità.
Restano tuttavia possibili altri percorsi, sicuramente un po’ più tenebrosi o pericolosi. Sentieri che non sono fatti per chi ha troppa paura del fango o non sopporta di lavorare nell’ombra. Sentieri al termine dei quali non esistono garanzie e nessun riconoscimento ci attende, che non considerano la mera esistenza degli anarchici e la loro sopravvivenza come l’alfa e l’omega della sovversione o dell’anarchia. È il cammino che si inerpica, scava e si insinua per far deragliare il treno del Progresso e della società attuale. Senza rinunciare alla diffusione delle nostre idee (attraverso vari strumenti), senza sottovalutare l’utilità e la necessità della critica anarchica, il cammino di cui parliamo mira soprattutto a contribuire allo sconvolgimento della situazione, all’esplosione insurrezionale, al crollo di quanto tiene in piedi le strutture produttive e sociali. Questo progetto, questa progettualità, non punta alla crescita numerica del movimento anarchico, né al potenziamento della sua reputazione, ma a far precipitare le situazioni conflittuali in un più ampio pandemonio, perché adoperarsi per la moltiplicazione incontrollata delle azioni e per l’imprevista disconnessione potrebbe consentire l’emergere della libertà, o meglio, è una delle possibilità per far decollare la libertà.
Il fatto che pure alcuni di cui non condividiamo le motivazioni si diano da fare, o che altri di cui non conosciamo affatto le motivazioni vi si dedichino, non suscita in noi un timore paralizzante, né ci induce a partecipare ad una spirale esibizionista (una trappola vecchia come il mondo, conosciuta e tesa da tutti i servizi segreti di ieri e di oggi), ma ci spinge piuttosto ad affinare ulteriormente i nostri suggerimenti, la nostra progettualità, la nostra etica. E soprattutto, ad approfondire sempre più, con i nostri mezzi e le nostre modeste capacità, l’urgente demolizione dell’attuale società.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]
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