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Category: Italiano

Realtà virtuale

Posted on 2021/10/23 - 2021/11/05 by avisbabel

Qualcuno si ricorda ancora del fenomeno che in pochi mesi del 2016 ha visto quasi 500 milioni di giocatori in oltre cento paesi scontrarsi improvvisamente con la materialità del mondo, col naso inchiodato sullo schermo di un telefonino, in cerca di piccoli personaggi colorati da catturare? Un gioco che aveva messo perfino in subbuglio il responsabile della Direzione della Protezione delle Installazioni Militari (DPID), il quale di fronte alle ripetute intrusioni di civili nel territorio dell’esercito constatava con amarezza che «al momento, diversi siti del ministero, fra cui zone di difesa altamente sensibili (ZDHS), ospiterebbero questi oggetti e creature virtuali». E che aveva anche sollevato le vive proteste dei responsabili del vecchio carcere dei Khmer Rossi, Tuol Sleng, trasformato in museo del genocidio cambogiano, come di quelli dell’ex-campo di sterminio polacco di Auschwitz-Birkenau, i cui siti erano a loro volta invasi da indelicati cacciatori di Pokemon, ossessionati dalle apparizioni fittizie che si sovrapponevano in modo aleatorio ad un ambiente tragicamente reale. E anche se avessimo potuto farci beffe cinicamente di quegli abbrutiti precipitati da una scogliera ad Encinitas (California), o dispersi in mezzo ai campi minati di Posavina (Bosnia-Erzegovina), sempre per catturare quelle prede immaginarie, ciò avrebbe comunque segnato la ributtante diffusione in pompa magna non solo degli smartphone, ma soprattutto delle loro applicazioni di realtà aumentata attorno a noi.

Cinque anni più tardi, questo gioco sviluppato da Niantic — una start-up uscita dall’incubatore di Google destinata a sfruttare e diffondere massivamente la combinazione di telefono cellulare, app Internet, videocamera e geolocalizzazione — ha certo perso la sua vanagloria come qualsiasi moda, ma va da sé che altri tentativi di offuscare definitivamente i confini tra reale e virtuale stanno ribollendo di nuovo nelle pentole degli squali tecnologici. Ognuno avrà sicuramente già testato con amarezza la passività delle folle di zombi prigionieri sprofondati in uno schermo durante i loro spostamenti coi mezzi pubblici, o constatato fino a che punto i rapporti sociali abbiano subito un nuovo assalto di beota virtualizzazione nel corso dei vari confinamenti — e non solo nell’ambito della schiavitù salariale. Allo stesso modo, alcuni politici populisti hanno potuto pavoneggiarsi sotto forma di ologrammi in occasione di incontri simultanei, mentre vecchi cantanti popolari tornati in auge hanno previsto di organizzare tour di concerti con la medesima modalità. Ma tutto ciò suonava un po’ troppo falso, allorquando il colosso Facebook lo scorso 18 ottobre ha fatto il roboante annuncio della creazione di 10.000 posti di lavoro nei suoi laboratori del vecchio continente (Monaco, Parigi, Zurigo, Cork) al fine di «investire nei nuovi talenti europei per contribuire a costruire un metaverso».
Contrazione di meta ed universo proveniente dalla fantascienza, questo grottesco concetto è il progetto di punta del pioniere dell’esibizionismo on line, consistente nientemeno che nello sviluppo illimitato e persistente di una sorta di controfigura digitale del mondo fisico, che interagirebbe di rimando con la realtà sotto forma di universo parallelo. Oltrepassando ampiamente il mondo dei videogiochi, le sue prime espansioni — che mirano a rovesciare in un universo smaterializzato parte dell’esperienza sensibile, sostituendosi parzialmente alla realtà — riguardano già, ad esempio, visite tridimensionali ai musei dal proprio divano, o noiose riunioni di lavoro a distanza in sale digitali, il tutto dirigendo il proprio avatar con un casco per la realtà virtuale infilato sulla testa. Ma gli sviluppatori informatici di tutto il pianeta lavorano ovviamente anche su altri tipi di «realtà immersive» a base di caschi e occhiali «aumentati», in particolare in materia di insegnamento a distanza da svolgere interamente in un mondo irreale (interazioni umane e manipolazione di oggetti), o di prove di calzature di marca mediante il proprio doppio in pixel nei negozi delle città del metaverso… prima di ricevere a casa quelle ordinate.
Quanto a Microsoft, che non è da meno, da parte sua si è appena lanciata in un altro tipo di fusione di un universo virtuale con funzionalità ben reali, come la creazione di «gemelli digitali» delle infrastrutture sensibili, ossia cloni virtuali delle «reti di distribuzione di energia o di fabbriche complesse», dove ogni macchina e ogni sistema vengono riprodotti perfettamente identici (pezzo per pezzo), allo scopo di prevedere costantemente l’usura di un’apparecchiatura o di anticipare il rifornimento di un apparato, il che implica anche la copertura dell’insieme dei sensori in modo che le due dimensioni possano interagire simultaneamente in parallelo. Infine, nella direzione opposta, l’esercito americano ha appena acquistato lo scorso aprile 120.000 caschi IVAS (Integrated Visual Augmentation System) da Microsoft per 22 miliardi di dollari, che non fungeranno più soltanto da addestramento per i soldati ricreandone e modificando virtualmente le condizioni di combattimento, ma diventeranno efficaci in missione, combinando visualizzazione e condivisione di informazioni in tempo reale, commutazione automatica di modalità di visione (termica, ad infrarossi), mappa in sovrimpressione e identificazione del nemico, il tutto oggetto di calcoli informatici permanenti tramite un cloud, al fine di «prendere decisioni tattiche e ingaggiare obiettivi», come si dice nella neolingua militare. Allo stesso modo, nel dicembre 2020, il Comitato di Etica del Ministero della Difesa francese ha ufficialmente dato il via libera alla ricerca sul «soldato aumentato», ovvero né più né meno che un passo verso l’inserimento di chip sottocutanei che consentano loro di inviare o ricevere informazioni, l’operazione alle orecchie per sentire frequenze molto alte o molto basse, o anche l’inserimento di impianti «che permettano di assumere il controllo di un sistema di armamenti».

Questo sviluppo del metaverso in cui gli esseri umani verrebbero zavorrati con dispositivi rivestiti di rilevatori sensoriali per parte della loro giornata, perché possano interagire fra loro in forma più o meno virtuale all’interno di una realtà ricostituita e gestita da algoritmi (per il lavoro, il consumo o il tempo libero), in definitiva qui non fa altro che prolungare il rapporto sociale già ampiamente prodotto dai vari guinzagli elettronici, dove la percezione della realtà viene colta solo indirettamente. Con la particolarità che questa nuova offensiva produttiva verso la derealizzazione tende ormai a colpire poco alla volta tutti i nostri sensi. Di fronte a tutto ciò, se ne resta solo uno da coltivare, non può essere il bene che accresce questa ulteriore mutilazione della nostra sensibilità, bensì il suo opposto, quello che porta a scatenare tutte le cattive passioni, a cominciare da quella della distruzione di tutto ciò che distrugge. E poiché nulla di virtuale si realizza in questo mondo in mancanza di infrastrutture molto materiali — dalle migliaia di satelliti Starlink che richiedono basi terrestri (situate a Gravelines per il nord, a Villenave-d’Ornon per il sud e a Saint-Senier-de-Beuvron per l’Ovest) fino ai famigerati data center così avidi di elettricità o alle antenne e ai cavi in ​​fibra ottica — ciascuno sa certamente cosa resta da fare.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]

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Scovare il nemico

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

Nella Chicago del 1948 la vita non doveva essere facile per la sua famiglia, e ancor meno per lei. Il suo nome era Suvaki Yamaguchi ed era nata su un’isola del Giappone alla fine degli anni 30. Nelle sue vene scorreva sangue di mille colori, tutti sbagliati nel paese a stelle e strisce. Il padre era giapponese, ma di discendenza filippina. La madre era nativa americana, Cheyenne, e fra i suoi avi c’erano americani scozzesi-irlandesi. La piccola Suvaki era quindi la perfetta incarnazione del meticciato, con tutto ciò che ne consegue. Verso la fine della seconda guerra mondiale la sua famiglia venne rinchiusa per un periodo nel campo di concentramento Manzanar, in California, ai piedi della Sierra Nevada. Se questo era il destino degli americani rei di non essere bianchi e di provenire dalla terra del sol levante, figurarsi quello riservato a loro!
Riacquistata la libertà, la famiglia Yamaguchi si trasferì nella celebre metropoli dell’Illinois. Per quella bambina girare per le strade dei quartieri occidentali della città era un’impresa ardua e pericolosa: insulti, canzonature, minacce. Agli occhi di molti bianchi (e pure neri) lei era una «Tojo», dal nome del pilota militare giapponese che iniziò l’attacco a Pearl Harbor. Per di più, il suo corpo cominciava a formarsi in maniera rapida ed eccessiva, troppo rapida ed eccessiva, costringendola ad indossare larghe vesti per nasconderlo. In un giorno d’estate del 1948, poco prima del suo decimo compleanno, la piccola Suvaki stava tornando a casa quando fu circondata da un gruppo di cinque uomini, i quali la caricarono sulla loro automobile. Cosa accadde a quella bambina metà «pellerossa», metà «occhi a mandorla» e troppo procace per la sua età, è purtroppo immaginabile… La scaricarono in un vicolo come un rifiuto, priva di sensi e sanguinante. La sua famiglia sporse denuncia e i responsabili furono identificati. Ma la giustizia aveva ben altro da fare che occuparsi di quanto accaduto ad una mocciosa bastarda sanguemisto, soprattutto quando il giudice era stato ripagato profumatamente, così i cinque uomini poterono tornare indisturbati alle loro faccende. Come se nulla fosse successo.
Ma per Suvaki no, qualcosa era successo — qualcosa di inaccettabile. E se la giustizia non poteva farci nulla, allora, tanto peggio per la giustizia! Dopo quel fatto, la piccola Suvaki crebbe terribilmente in fretta. Il mondo degli adulti prima la mise in una scuola riformatorio, poi a 13 anni le organizzò un matrimonio che sarebbe durato meno di un anno. Da parte sua, Suvaki decise che non sarebbe mai più stata una preda. Grazie al padre imparò le arti marziali, diventando cintura verde di aikido e cintura nera di karate. Diventò una ragazza irrequieta, formò una banda giovanile chiamata Gli Angeli con le amiche italiane, ebree e polacche del suo quartiere.
A 15 anni si trasferì a Los Angeles dove, per iniziare una nuova vita, si procurò dei documenti falsi che attestassero la sua maggiore età. Sostituì il nome con il nomignolo cheyenne con cui la chiamava la madre e conservò il cognome del primo marito. Diventò ballerina di burlesque, fotomodella, attrice.
Ma, soprattutto, essendo una ragazza selvaggia e non una pedagogica militante, prima del suo venticinquesimo compleanno andò a scovare, uno per uno, tutti i cinque uomini che avevano infranto la sua infanzia, prendendosi la sua vendetta. Come avrebbe ricordato nelle sue memorie, «giurai a me stessa che un giorno, in qualche modo, avrei saldato i conti con tutti loro. Non hanno mai saputo chi fossi, finché non gliel’ho detto».
Un paio di anni dopo aver regolato l’ultimo conto venne scelta per recitare in un film destinato a renderla famosa in tutto il mondo. Non dovette sforzarsi troppo per interpretare il personaggio di Varla e rifiutò persino la controfigura. Le bastò essere se stessa: Tura Satana, l’indimenticabile protagonista di Faster, pussycat! Kill! Kill!.

 

[Publicato su Finimondo il 23/7/21 e ripreso en Avis de tempêtes, n°43-44, agosto 2021]

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Il piccolo suggerimento di Lagertha

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel
Eretto sulla punta settentrionale dell’isola danese della Zelanda, il maestoso castello di Elsinore controlla da secoli lo stretto che porta al Mar Baltico. Se questo monumento è ancora oggi l’orgoglio degli abitanti del posto, altri non mancano di ricordare con malizia che fuori dall’isola resta famoso soprattutto per aver fatto da scenario a una famosa tragedia, di cui di solito si conserva solo il motto «c’è qualcosa di marcio in Danimarca». E per di più, non si può nemmeno contare sulla più recente attualità per smentire il vecchio adagio shakespeariano. Anzi. Il 3 giugno non è infatti stata votata proprio lì la legge che consente di far sloggiare in massa dal paese i richiedenti asilo, subappaltando la loro “accoglienza” a Paesi terzi fuori dall’Unione Europea una volta esaminato il dossier relativo (sono in corso trattative con l’Egitto, l’Etiopia e il Ruanda)? E non è stato, quel territorio del vecchio continente, pioniere nell’imposizione alla popolazione già dal 21 aprile di un Covid-pass obbligatorio per chi ha più di 15 anni e voglia accedere in cinema, stadi, biblioteche, bar o anche… autoscuole e parrucchieri?
D’altra parte, è proprio in questo Paese nordico che è venuto fuori un piccolo suggerimento anonimo, offerto a tutti i contestatori che attualmente fanno fuoco e fiamme per porre fine a queste nuove misure liberticide. Un piccolo suggerimento che è stato ripetuto per due volte (nel caso in cui qualcuno non abbia ben compreso) a una trentina di chilometri dal castello di Elsinore, colpendo appunto qualcosa di marcio nel regno di Danimarca e non solo. Si è manifestato nientemeno che nell’ostacolare i controlli di identità della polizia e quelli del QR sanitario effettuati da qualsiasi altro tirapiedi sabotando le onde che connettono smartphone e tablet ai loro indispensabili database di tutti i tipi.

Vejby (Danimarca), 25 maggio 2021
Il primo allarme per le autorità è arrivato il 25 maggio nella cittadina di Vejby, vicino alla costa zelandese di Kattegat, a circa 50 km a nord di Copenaghen. Lì, un incendio notturno è divampato contro un’antenna-ripetitore e il suo edificio adiacente, tagliando fuori tutti gli operatori di telefonia mobile della zona. Ma non è tutto, visto che le autorità hanno rivelato in punta di piedi che l’infrastruttura carbonizzata ospitava inoltre non solo un radar dell’esercito per il monitoraggio delle acque (in questo caso la Marina), ma anche diverse apparecchiature della rete criptata della polizia danese necessarie al controllo (SINE, SIkkerhedsNettet). Gli inquirenti, dapprima circospetti, si sono subito incuriositi per la presenza di «un grosso buco praticato nella recinzione dietro la struttura protetta», poi hanno transennato l’area prima di farla rastrellare dai cani per tutto il giorno successivo.

Helsinge (Danimarca), 15 luglio 2021
Il secondo allarme è arrivato il 15 luglio nella città di Helsinge, situata a 5 chilometri da Vejby, quando una seconda antenna-ripetitore è andata in fumo intorno alle 2:30 del mattino. Ancora una volta il fuoco ha bruciato i cavi tra l’edificio che ospitava gli apparati di telecomunicazione e l’antenna stessa, prima di risalire su quest’ultima. Le autorità stizzite hanno precisato che «qualsiasi collegamento con precedenti incendi di natura analoga sarebbe stato incluso nell’indagine», poi hanno anche là richiamato i fedeli canidi (quelli a quattro zampe) per ispezionare la zona.

Mentre gli acuti segugi danesi, certo meno esperti sul campo di altri colleghi europei, si stanno concentrando sulla fumosa teoria dell’autocombustione di antenne — certamente stanche di servire il controllo poliziesco e sanitario o di garantire il telelavoro — o sull’ipotesi che possa «trattarsi semplicemente di una strana coincidenza», per parte nostra potremmo azzardare un’altra ipotesi. E un po’ più realistica, che diamine!

Per questo bisogna risalire alle mitiche vichinghe Skjaldmö, guerriere munite di scudi che hanno combattuto anche a centinaia contro i Goti o gli Unni, secondo i racconti delle saghe nordiche. Una di loro, forse la più nota, si chiamava Lagertha e aveva raggiunto il Valhalla già da diversi secoli, quando improvvisamente si dev’essere resa conto che attendere con Odino la grande catastrofe finale sarebbe stato un mero riecheggiare millenarista delle idiozie cristiane. Se questo insulso ventunesimo secolo deve finire per essere rappresentato da musica tecno, videogiochi, serie televisive o, peggio, da fantasmi neonazisti, tanto vale tornare a Kattegat per devastare tutto ciò che ha reso questo possibile. Tornata nella sua amata baia, è proprio là, la scorsa primavera, che è rimasta disgustata da questo mondo mediato da appendici sempre più tecnologiche, dove troppi esseri brandiscono con diletto lo schermo della propria servitù. Lungi da qualsivoglia rassegnazione, si è impegnata ancora una volta a «trascinare il panico degli amici verso il campo nemico», come già narrato dall’odioso monaco che un tempo tramandò la sua leggenda. Se le è certo mancato il tempo per comprendere i nuovi rapporti sociali all’origine di tutta questa merda, ci è voluto poco per dare fuoco gioiosamente alle due torri di cavi e radar che la circondavano. Queste strutture di telecomunicazione non solo urtavano la sua stessa sensibilità, non solo sbarravano ogni orizzonte desiderabile, ma fornivano concretamente al nemico gli strumenti di un controllo permanente e diffuso, risparmiandogli parecchie battaglie.

Apprendendo un po’ più tardi ciò che il poeta anglosassone ha inserito nell’Amleto sulla Danimarca, Lagertha non poteva fare a meno di sorridere. Camminando sul bordo delle onde, ha proceduto ancora meglio, pensando che se l’intero pianeta era ormai colpito dallo stesso marciume tecnologico che ci priva a poco a poco di ogni autonomia, il rimedio primitivo appena impiegato per riflesso a Vejby come a Helsinge avrebbe invece continuato a funzionare sempre a meraviglia…

[Publicato su sansnom.noblogs.org e ripreso en Avis de tempêtes n°43-44, agosto 2021]
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Politica dei grandi numeri

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Fin dal suo inizio, la gestione dell’epidemia di Covid-19 da parte del potere è stata logicamente segnata alle nostre latitudini da una predominanza degli imperativi economici e da una preservazione dell’ordine sociale, cosa che oggi nemmeno la ragione medica di Stato tanto invocata riesce più a celare.
Ma ciò che colpisce è che le infinite forme di auto-organizzazione che avrebbero potuto emergere dalle singolarità individuali per far fronte al virus e continuare ad agire malgrado il virus, siano state d’un tratto come paralizzate dalle sabbie mobili di raccomandazioni contraddittorie e di cifre sfibranti: tasso di mortalità e di letalità, tasso di positività, tasso di incidenza, tasso di passaggio al pronto soccorso e di posti occupati nelle terapie intensive, tasso di anticorpi persistenti, tasso di reinfezione… e via di questo passo. Ciò evidenzia ancora una volta che ponendosi sul terreno della politica dei grandi numeri invece di partire da se stessi — con i propri dubbi come con i propri infuocati desideri — la riflessione finisce generalmente per impantanarsi in una logica gestionaria, in cui il calcolo produttivo prende rapidamente il posto della vita e dei suoi eccessi dispersivi. Per spezzare lo stesso schema che presiede ad ogni riduzione statistica della complessità umana, bisogna dare vita ad un’unicità al di là dei media e ricreare diversità smontando gli aggregati di dati — non ci sono molte altre soluzioni. Questo è lo stesso terreno in cui ogni individuo è invitato a piegarsi di fronte ad un interesse superiore collettivo che sarebbe da rifiutare. È il suo rapporto sensibile con la vita, la morte, la malattia, i rischi da prendere, il mutuo appoggio, le stelle da cogliere, che va difeso davanti all’esigenza sociale di sacrificarlo sull’altare della quantità. Che quest’ultima si chiami patria, economia, bene comune… o anche immunità collettiva.
Se il metodo medico di comprensione statistica è certo costitutivo del rapporto contemporaneo con le epidemie, come mostra il vecchio dibattito tra contagionisti e infezionisti durante quella del colera nel 1832 (per gli uni la malattia si trasmette dal contatto coi malati, per gli altri dall’insalubrità dell’ambiente) o anche la prima elaborazione matematica a partire dall’epidemia di peste in India (1927), questo rapporto autoritario che ingabbia le singolarità ha tuttavia radici assai più lontane ancora. Si potrebbe magari farlo risalire alle origini della scrittura in Bassa Mesopotamia, dove tale invenzione non era concepita come un mezzo per rappresentare il linguaggio, ma direttamente per bassi fini di contabilità amministrativa e commerciale, collegando intrinsecamente i primi numeri incisi su tavolette alla comparsa del dominio statale (con le sue esigenze di identificare, tassare, misurare, classificare, uniformare, gestire, prevedere). Tanto che potremmo persino chiederci se non sia con la stessa nozione di calcolo e con la volontà di quantificare il mondo che è cominciato il processo di addomesticamento dei nostri sensi.
Oggi non stupisce nessuno che in materia medica come in molte altre, la politica statistica dei grandi numeri sia diventata padrona nell’amministrazione della nostra vita da parte dei potenti, come ha ancora mostrato l’epidemia di Covid-19. Per quanto riguarda le autorizzazioni pubbliche per i vaccini (e i farmaci), il criterio viene definito tranquillamente rapporto benefici/rischi, basando gli studi su piccoli campioni considerati rappresentativi, a partire dai quali vengono poi proiettate estrapolazioni sull’insieme dei nostri congeneri, riducendo la vita ad una collezione di macchinari più o meno standardizzati e funzionali. A costo di trasformare la popolazione mondiale in cavie di un gigantesco laboratorio sperimentale con misture a base di chimere genetiche, di cui uno degli attuali miracoli scientifici non è quello di evitare i vaccinati né d’essere contaminati, e neppure d’essere contagiosi, ma solo di sviluppare le forme gravi della malattia.
Nella stessa logica, al fine di effettuare il loro smistamento in materia di cure vitali, pesanti, costose, di emergenza o crisi, tra chi può eventualmente sopravvivere e chi tutto sommato non serve più, gli statistici in camice bianco ad esempio assegnano quotidianamente dei punteggi ai pazienti. Questi non sono ovviamente collegati alla complessità di ogni individuo, sulla quale la fabbrica inospitale non si prende comunque la briga di soffermarsi, ma sulle probabilità medie di sopravvivenza potenziale al momento di questo smistamento decisivo: abbiamo così il punteggio di fragilità (da 1 a 9, con gli ultimi livelli attribuiti in base alla «aspettativa statistica di vita a 6 mesi»), il punteggio OMS (da 1 a 4, basato ad esempio sul fatto che si resti allettati «più o meno il 50% della giornata») e il punteggio GIR (da 1 a 6, determinante il livello di dipendenza, legato al fatto che un individuo possa effettuare un certo numero di compiti «spontaneamente, totalmente, correttamente o abitualmente»). È questa combinazione di punteggi, tanto performativa quanto arbitrariamente normativa, a determinare ufficialmente chi può vivere o morire, qui tra un paziente affetto da Covid e una persona vittima di un incidente stradale o di un infarto, e là tra due malati di Covid. Uno smistamento chiamato pudicamente selezione o priorizzazione, e di cui è meglio conoscere in anticipo le griglie di valutazione in caso di cura.
Ovviamente, è possibile sottolineare che questi strumenti di gestione dalla pretesa scientifica e oggettiva sono innanzitutto il riflesso di un mondo che ha bandito la qualità e l’individuo a beneficio dell’efficienza e della massa, dopo aver espropriato ciascuno di ogni autonomia, all’interno di un ambiente sempre più degradato che a sua volta richiede una moltiplicazione di situazioni di crisi o d’emergenza. E che quando aleggia la paura e la morte, per molti è indubbiamente più rassicurante trincerarsi dietro il noto della fredda razionalità di Stato che affrontare l’ignoto sperimentale di individui liberamente associati per farvi fronte. A ciò si potrebbe rispondere con un sorrisetto, che quando non si ha alcuna pretesa né volontà di gestire la merda esistente a un livello così globale come quello di una società, neppure in maniera alternativa, si può tuttavia auto-organizzarsi per tentare di porvi fine.
Attualmente, questo rapporto autoritario del quantitativo non riguarda unicamente la gestione clinica immediata della situazione instabile in corso — che passa anche attraverso la priorità assoluta data alla Covid-19 rispetto ad altre gravi malattie con pesanti conseguenze posticipate nel tempo — ma include anche un’altra dimensione di cui si intravedono appena le premesse: il rapido adattamento dell’apparato statale a un’epidemia che non è disposta a fermarsi, creando un nuovo tipo d’ordine sanitario e produttivo segnato in poco più di un anno da un’accelerazione dell’artificializzazione tecnologica della nostra vita.
Tralasciando la Cina che figura troppo facilmente da comodo spaventapasseri, la molto democratica Corea del Sud, per esempio, ha fissato fin dal marzo 2020 un tracciamento dei contatti della popolazione sfruttando i dati personali accumulati dai vasti sondaggi sanitari, come la situazione finanziaria, le fatture telefoniche dettagliate, lo storico di geolocalizzazione, le immagini di videosorveglianza pubblica o le informazioni trasmesse dalle amministrazioni e dai datori di lavoro. Tutte informazioni raccolte e poi integrate in un registro nazionale e liberamente accessibile, indicante la nazionalità delle persone, la loro età, il sesso, il luogo della loro visita medica, la data del loro contagio e informazioni più precise come l’orario di lavoro, il loro rispetto di misure come indossare la mascherina in metropolitana, le fermate abituali, i bar o i centri massaggi frequentati. Un gran bell’esempio di abbinamento di algoritmi informatici per alimentare la costruzione di un modello epidemiologico e permettere una gestione ottimale da parte delle autorità, il tutto completato da quarantene individuali obbligatorie, implementate tramite un’applicazione di geolocalizzazione sonora e che avvisa direttamente le forze dell’ordine se gli individui interessati si spostano, o se il loro smartphone è spento per più di 15 minuti, al fine di formare un «recinto elettronico» attorno ai refrattari, con in aggiunta chiamate casuali della polizia e una segnalazione al vicinato tramite SMS della presenza di una persona contagiosa.
Per quanto caricaturale sia questo esempio ben reale, potrebbe non essere un caso se un rapporto senatoriale uscito all’inizio di giugno in Francia per delineare alcune prospettive in vista di future epidemie (o di «catastrofi naturali o industriali, o attacchi terroristici») che richiedano reclusioni di massa, abbia appunto avanzato alcune proposte in tal senso. Nell’èra della connessione permanente, quando chiunque passeggia volontariamente con una spia elettronica in tasca, abituatosi a poco a poco al telelavoro, alla telemedicina e all’insegnamento a distanza, per il sogno totalitario cosa c’è di meglio di un democratico digitalizzato, a cui poter finalmente disattivare da remoto il pass per il trasporto, trasformando gli smartphone in braccialetti elettronici (coi selfie alle forze dell’ordine per dimostrare la propria presenza) o consegnare/ritirare dei lasciapassare differenziati di ogni tipo sotto forma di codici QR grazie a una Crisis Data Hub centralizzata?
Per chi, poniamo, ha iniziato a travestirsi in viaggio, vedendo pattuglie di droni della polizia durante il gran confinamento; per chi si è immobilizzato vedendo aggiungersi nello spazio pubblico a telecamere di videosorveglianza intrusive nuovi dispositivi di controllo del corpo come i rilevatori termici, i certificati di spostamento e altri certificati di vaccinazione; per chi è giunto più spesso di tanti altri alla conclusione che è molto meglio essere soli e selvaggi che accompagnati da reti algoritmiche… è certamente tempo di alzare gli occhi verso quei grossi cavi di rame tesi nel cielo o sporgersi verso tutte quelle canaline in cui le catene del ventunesimo secolo sfrecciano sotto i nostri piedi alla velocità della luce.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 42, 15/6/21]
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La foresta dell’agire

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel

In ordine sparso

«Suggeriamo perciò, in Italia e fuori, a tutti coloro che vogliono molestare, fino a fiaccarlo, il nemico, la guerriglia autonoma e per ordine sparso; di piccole entità più difficilmente raggiungibili e identificabili»
“Non molliamo”, gennaio 1927

Forse è giunto il momento di provare a tornare sulle ipotesi organizzative, sul rifiuto o l’assenza delle stesse, nella piccola galassia di individui, di piccoli gruppi, di vari progetti differenti, di costellazioni conflittuali, che si riconoscono nella lotta per l’anarchia, una lotta certo dai metodi più variegati, ma che si svolge qui e ora. Una lotta che pone al centro il problema della distruzione. Distruzione di quanto ostacola la libertà e l’anarchia, anziché la sua gestione. Distruzione di ciò che opprime, sfrutta e devasta, piuttosto che un’educazione popolare di coloro che aderiscono, più o meno coscientemente, a ciò che opprime, sfrutta e devasta. Distruzione di tutto ciò che media, di tutto ciò che sopprime l’autonomia a favore della dipendenza, più che la creazione di piccoli isolotti alternativi negli interstizi del dominio. Le discussioni che ci allontanano da questa distruzione e dal nostro modesto contributo ad essa; le discussioni che non si interrogano su come incoraggiare la distruzione, su come contribuire a creare condizioni materiali e soggettive che favoriscano la distruzione, ci conducono solo al ristagno della paralisi.
Ciò detto, intendiamoci bene. La distruzione non è solo questione di fuoco, di sabotaggio, d’insurrezione o di armi. Se da un lato la distruzione comprende la soppressione materiale delle strutture e delle persone autoritarie, dall’altro implica una critica corrosiva dei rapporti sociali che sostengono, favoriscono e riproducono tali strutture, fino a toccare le nostre stesse responsabilità, i nostri compromessi, le nostre rinunce, che sono altrettanti mattoni dell’edificio sociale da demolire. La distruzione non è tanto un affare di guerra, dove sono tracciate le linee di demarcazioni tra amici e nemici; ciò di cui stiamo parlando va ben oltre un tale schema probabilmente troppo facile per spiegare l’eternità dell’oppressione e dello sfruttamento nel calvario della storia umana. Inoltre la distruzione, come fatto materiale violento, non è riducibile al semplice atto della distruzione (che essa si esprima contro le cose o contro gli uomini, da questo punto di vista  non fa alcuna differenza: l’atto di distruggere comporta comunque l’uso della violenza — offensiva o difensiva, giustificata o meno, in fondo si tratta di questioni che ognuno e ognuna deve risolvere da sé, senza le stampelle che qualche ideologia, sistema filosofico o convinzione religiosa possa offrire). Occorrono non solo braccia, ma anche testa; non solo una preparazione mentale, ma anche cuore; non solo uno sforzo e una convinzione individuali, ma forse anche il sostegno di chi abbiamo vicino.
Ciò che rimette sul tavolo la questione di un’ipotesi organizzativa è per l’appunto il soffio che vogliamo dare alla distruzione. È il primo passo da fare. Per parlare di organizzazione, bisogna prima mettersi d’accordo in quale prospettiva, con quale scopo, per quale progettualità, intendiamo dotarci di strumenti organizzativi. A ben pensarci, ogni individuo è già di per sé un’organizzazione. Lo stesso dicasi per ogni nucleo di affinità. Ma ciò di cui vorremmo parlare è una dimensione supplementare, più ampia, che si interroga sui possibili legami organizzativi tra gli individui, i gruppi di affinità, le variegate e differenti costellazioni.
Ma in quale prospettiva? Sicuramente non quella di «costruire una forza» per pesare nel dibattito pubblico, né di avere una rappresentanza anarchica nelle lotte e nei movimenti sociali. L’ipotesi organizzativa di cui vorremmo discutere in reciprocità, non è né un’ambasciata che rappresenti gli interessi del piccolo mondo anarchico, né un’agenzia interinale in cerca di nuove reclute, né un centro di divertimento aperto a coloro che non sanno cosa fare della propria vita e dei propri dilemmi, né un club di discussioni filosofiche per promuovere la chiacchiera infinita, né un’assemblea in cui tutto ruota attorno a una celebrazione collettiva che eclissa l’affinità e l’autonomia individuale, né una chiesa dove si va in cerca di conforto recitando i testi sacri, e neppure una impresa di demolizione in cui discutere solo di materiali, di tecniche, di specializzazione a oltranza e di esecuzioni ripetitive.
Ovviamente è sempre più facile dire ciò che non si vuole che parlare di ciò che si vuole. Tanto più che, in un dibattito come quello che proponiamo, la scelta delle parole può rivelarsi rapidamente un ostacolo alla comprensione reciproca, un certo termine rischia di colpire — più o meno inutilmente — la sensibilità di qualcuno, gli artifici della grammatica possono indurre a fantasticare di calcoli sulla cometa e castelli tra le nuvole. Ma arretrare davanti a un rischio del genere, anziché accettare i limiti di qualsiasi espressione linguistica (in qualche modo, ci si avvicinerà comunque a dire ciò che intendiamo e, paradossalmente, talvolta non dire nulla rende meglio ciò che si intende dire), significherebbe abbandonare un terreno magari rischioso, ma non sterile.
Ma perché parlare oggi di una ipotesi organizzativa? Riassumiamo velocemente, a rischio di ripetere ciò che altri hanno già detto altrove, e probabilmente meglio, alcuni tratti del tempo in cui agiamo. Innanzitutto, ci sembra che più il dominio avanza, più i sistemi si estendono e si espandono, più si (ri)affacciano dei fattori di instabilità. Una instabilità che si esprime ad ogni livello: dalla vita individuale passando per i traballanti equilibri geopolitici e i nuovi settori economici disgreganti fino al clima del pianeta che dobbiamo abitare. Il treno del progredire dell’addomesticamento del vivente avanza a tutta velocità, sempre più veloce, ma ogni sasso sulle rotaie, ogni granello di sabbia, provoca riverberi sempre più forti alla macchina lanciata a tutta velocità. Ormai da diversi decenni, e in modo sempre più determinante, i grandi pianificatori, dall’economista che prevede modelli a dieci anni fino allo scienziato che pontifica sullo stato del mondo futuro, sono costretti ad ammettere di avere notevoli problemi a fare previsioni che possano fungere da modello. Che troppi fattori, troppi cambiamenti rapidi, troppi imprevisti perfino, inducono ad una modellizzazione a medio e lungo termine. L’esempio facile e attuale è ovviamente la pandemia da Covid19, che ha portato gli Stati a confinare miliardi di persone, a frenare gli apparati produttivi, a sostituire in tutta fretta le classiche valvole di sfogo della pace sociale (dalle attività sportive alle preghiere collettive, dalla frequentazione dei bar alle attività culturali) con protesi e surrogati telematici.
Le instabilità provocano ovviamente cambiamenti significativi nei rapporti sociali. Confusione e paranoia si avvicendano con la nostalgia di uno Stato sociale o di un mondo uniforme su basi rigide o religiose; perdita di significato e sensazione di obsolescenza della vita stessa dialogano — per contrasto — con spettri della fine del mondo, la guerra civile, la catastrofe finale. Le instabilità possono trasformare un piccolo pretesto, un piccolo dettaglio, in una formidabile esplosione — in tutti i sensi, intendiamoci bene, non solo nel senso di esplosioni di libertà.
Tutto ciò cos’ha a che fare con gli anarchici? Da un lato, niente. Indipendentemente dalle condizioni e dalle epoche, gli anarchici restano i nemici di ogni autorità, indipendentemente da quale forma assuma. Si agiteranno, e forse agiranno, in tempi di democrazia come in tempi di dittatura, in tempi di emergenza climatica come in tempi di guerra civile, in tempi di pacificazione sociale come in tempi di rivoluzione. Dall’altro lato, tutto. Poiché le condizioni in cui cerchiamo di agire, e in cui, fatalmente, viviamo, influenzano fortemente ciò che facciamo, ciò che più attira la nostra attenzione, ciò che fa cristallizzare le nostre ostilità e… come possiamo concepire di organizzarci. Sarebbe stupido ritenere che organizzarsi in un regime democratico sia esattamente lo stesso che organizzarsi sotto una dittatura militare. Certo, ci sono continuità — in particolare, la continuità dell’autorità — che occorre comprendere e sottolineare, ma esistono anche differenze. Ecco perché i giochi non sono ancora fatti e i modi di organizzarsi dipendono dalle nostre progettualità, che a loro volta non si inscrivono nell’etere assoluto, ma nelle condizioni reali dello scontro.

Tempi di instabilità, sicuro, ma anche tempi di uno sviluppo terribilmente rapido nel dominio. La raffinatezza della sorveglianza che vediamo progredire giorno dopo giorno è solo la punta dell’iceberg, perché questa sorveglianza è possibile solo grazie alla riproduzione, nel suo insieme, del mondo cui partecipiamo. La sorveglianza tecnologica non sarebbe possibile senza l’onnipresenza di apparecchi tecnologici, anche nella tasca di ciascun cittadino. Di fronte a questa avanzata, che fa saltare una barriera dietro l’altra e assomiglia più ad una valanga mentre acquisisce forza che all’acqua del mare dalla lenta risalita, alcune ipotesi organizzative, così come alcuni modi di agire, rischiano davvero di diventare non solo obsoleti, ma del tutto inadeguati alle reali condizioni dello scontro. Se noi rifiutiamo, per ragioni non solo operative, ma anche di cuore, di accompagnare il dominio nel suo slancio tecnologico bloccando sempre più le nostre attività nel mondo virtuale, con ciò non vogliamo insistere davanti ad ostacoli invalicabili, ma trovare percorsi più sconosciuti, meno individuabili, più furtivi ed agili. Sapere dove si trova il nemico è una cosa, non avvicinarlo attraverso percorsi che ora può sorvegliare 24 ore su 24 giorno è un’altra cosa.
Se i nostri barometri indicano importanti instabilità meteorologiche, le nostre mappe di ieri ci servono ancora per orientarci. Non per copiarle, né per seguirle ciecamente, ma per farvi affidamento al fine di spianarci la strada. Così, le parole che abbiamo ritrovato in una pubblicazione italiana del 1927 riecheggiano in noi. «In ordine sparso», cioè colpendo il nemico nei suoi punti nevralgici e tentacolari, senza lasciarsi obnubilare dalle cittadelle di potere che lui agita davanti ai nostri occhi. Sparso, è agire senza formare colonne compatte, senza costruire accampamenti permanenti e indifendibili; è agire rompendo ogni simmetria nello scontro. Il suggerimento non è affatto nuovo, ma più la megamacchina si espande, più acquisisce senso. «Guerriglia autonoma» — evocavano nel 1927 — da intendere come una lotta offensiva di lunga durata, una lotta che non si vuole ridurre ad una bravata, ma che cerca di prolungare le ostilità. Una guerriglia, in effetti, in un territorio ormai interamente occupato dal nemico, dal mostro tecnologico. Ma non una guerriglia nel nome di un partito, o di una classe, no, una guerriglia «autonoma», cioè, che trovi le proprie ragioni di agire in se stessa, che non cerca alcuna rappresentazione (perché, cosa sarebbe la rappresentazione, se non il riconoscimento da parte dell’altro allo scopo di domarlo o inquadrarlo meglio?). Senza l’intenzione di riprendere oggi il termine di «guerriglia» per definire forzatamente l’insieme delle attività che rendono possibile l’attacco e l’offensiva, poiché ciò potrebbe portare a ridurre gli individui con le loro diversità a «guerriglieri», creando una nuova gabbia che distilla l’uso di un metodo da una identità ben riduttiva. Infine, per logica si arriva all’informalità, vale a dire al rifiuto di strutture fisse, di una rappresentanza pubblica, di sigle perenni, ecc.

Un progetto organizzativo

«I gruppi d’attacco sono autonomi e indipendenti, una garanzia affinché la creatività sovversiva non possa essere ridotta a schema unilaterale e fisso, oltre ad essere la miglior difesa dai tentacoli della repressione e la migliore situazione immaginabile per restare agili e imprevedibili. Soltanto a partire da una tale autonomia, è immaginabile ed auspicabile il coordinamento informale e agente; un coordinamento che coincida con delle prospettive e dei progetti condivisi. I piccoli gruppi di fuoco non sono separati dall’insieme delle attività rivoluzionarie, ne fanno parte. Nuotano come pesci nell’oceano della conflittualità sociale. L’arcipelago dei gruppi di lotta autonomi lancia una guerra diffusa che sfugga ad ogni controllo, rappresentazione e accerchiamento da parte del dominio»
“Salto”, agosto 2014

Può darsi che questo sentimento sia condiviso da altri, o forse no. Abbiamo l’impressione che da qualche tempo, nel contesto francese da dove parliamo, ci sia un riemergere, o piuttosto una comparsa, di pratiche d’attacco diffuse e continue, sparse ed agili. È chiaro che non tutti i sabotaggi e gli attacchi saranno stati realizzati in una prospettiva di anarchia, né da anarchici. Gli anarchici non sono gli unici ribelli. Ma che un certo agire anarchico, multiforme ma tenace, abbia cominciato a colpire in modo più specifico le infrastrutture del potere, ci sembra sia più una constatazione che un mero auspicio. E questo agire si sta sviluppando in modo informale, senza centralità, sotterraneamente, sul filo di desideri e scelte individuali e di incontri di affinità. Ma tutto questo può anche scontrarsi con una mancanza di costanza, di approfondimento, di progettualità più ampie, di progetti più incisivi. Allora la domanda da porsi, a nostro avviso, non è tanto «come diventare più forti», e neppure «come diventare più efficaci», ma sapere se vogliamo, e possiamo, allargare il nostro sguardo, guardare più lontano e magari anticipare le condizioni di uno scontro forse ancor meno favorevoli. Diciamo «ancor meno», nel senso che dopo gli anni 70 si ha più la tendenza a dire che le tensioni sovversive si sono ritrovate piuttosto a giocare in difesa (spesso con coraggio e tenacia, questo è certo), con pochi echi negli strati sociali più ampi e con una generale mancanza di progettualità a medio termine. C’è da dire che, negli ultimi anni, la stagnazione è stata interrotta a più riprese. Le ipotesi relative all’insurrezione e alla rivolta più o meno delineatesi negli ultimi anni sono state talvolta persino confermate, come all’emergere di alcuni movimenti eterogenei, che si raccoglievano attorno a un certo rifiuto, superando le divisioni delle categorie sociali, con una carica piuttosto esplosiva (vedi i Gilet gialli). Ma anche l’ipotesi che non escludeva che un «imprevisto» potesse sparigliare le carte e far saltare le dighe del pacificazione sociale, come è accaduto in Cile, dove le proteste contro l’aumento delle tariffe del trasporto urbano (una lotta tutto sommato abbastanza «banale») sono sfociate in una vasta rivolta, grazie anche alle mani calorose che hanno cambiato la situazione dando alle fiamme le stazioni della metropolitana — facendo piombare la capitale cilena in un caos che ha dato vita ad un’esplosione di rabbia forse senza precedenti in quel paese.
Ed è qui che entriamo nel campo dell’ipotesi organizzativa. Non ci si organizza per piacere, ci si organizza con un determinato obiettivo, al fine di realizzare una certa cosa. In tal senso, un’ipotesi organizzativa attuale non dovrebbe corrispondere a una volontà di crescita infinita, ma ad una più o meno precisa progettualità di attacco. Per questo pensiamo che ogni sperimentazione, sempre sul terreno dell’informalità (sotterraneamente), con dei coordinamenti tra individui e gruppi autonomi, possa contribuire ad approfondire i sentieri che decideremo di percorrere in un prossimo futuro. Un coordinamento non è un modello prefissato che funziona sempre secondo le stesse «regole». Si adatta e prende forma in base al motivo per cui si decide di dargli vita. Ciò detto, un coordinamento sarebbe possibile solo in presenza di determinate condizioni materiali. Si tratti di precise conoscenze, di discussioni di fondo, di affinità, nulla è da trascurare. E se le condizioni materiali dovessero mutare improvvisamente (e durevolmente)? Da qui la necessità di riflettere e discutere di un’ipotesi organizzativa.
Cosa fare se la volontà, lo sforzo, l’entusiasmo incontrano sempre più difficoltà nel superamento degli ostacoli che ci separano dal nemico che vogliamo colpire? Come fare a sviluppare una progettualità che guardi oltre la pubblicazione di un giornale, la realizzazione di un’azione, o l’apertura di uno spazio? Un’ipotesi è appunto l’organizzazione informale, così da mettere insieme parti che, prese separatamente, non hanno lo stesso peso o le stesse possibilità. Sarebbe una sorta di amplificatore dei nostri raggi d’azione — qualsiasi essi siano. In una simile ipotesi organizzativa, pur esistendo una divisione di compiti (non tutti possono fare tutto allo stesso tempo), non deve comunque esserci alcuna gerarchia. Ciascuno contribuisce alla realizzazione del progetto, che si articola in tutti i settori (logistica, azioni, approfondimento, diffusione delle idee, cure, autodifesa contro la repressione, ecc.). Potremmo argomentare che le cose siano già così. Siamo d’accordo, ma c’è pochissimo collegamento organizzativo — sempre informale — tra ciascuno di essi. Questa potrebbe essere la prima cosa su cui riflettere oggi, pur mantenendo rigorosamente la necessaria compartimentazione. L’affinità su cui si basa un tale progetto organizzativo non è l’affinità che caratterizza i rapporti individuali. È più legata alla condivisione del progetto che alla reciproca conoscenza di ciascun individuo. Questo è anche il motivo per cui i percorsi possono separarsi quando il progetto è realizzato, o addirittura non più condiviso da tale compagno o tale gruppo.
Pensare, quindi, un tessuto organizzativo che rafforzi l’autonomia di ciascuna delle sue parti, e che si basi, fondamentalmente, sui gruppi di affinità. Poi pensare a come questo tessuto, agile per natura, possa fornire un sostegno in tempi meno favorevoli, più difficili. Se un tale tessuto è destinato a favorire «le condizioni materiali e soggettive della distruzione», deve effettivamente esserlo nel senso più ampio. Se c’è bisogno di imparare, di esercitare lo sguardo e il braccio, di saper camuffare i propri passi — senza questo, qualsiasi progetto di attacco cadrebbe nell’improvvisazione più assoluta — e che tutto ciò dipende, in primo e in ultimo luogo, dalle scelte, dai desideri e dagli sforzi individuali, c’è anche un’altra dimensione da esplorare e da costruire. Raccogliere informazioni, mantenere i contatti, avere agganci locali, comunicare discussioni e dubbi fra le diverse costellazioni, organizzare una logistica, condividere conoscenze, provvedere a rifugi e a punti di riposo… fa tutto parte di ciò che ci sarebbe «da guadagnare» costruendo, o approfondendo, i tessuti organizzativi esistenti e potenziali. La sfida è avanzare in questa direzione senza creare centri, senza costruire punti fissi, senza instaurare una divisione prestabilita di compiti (che altrimenti diventerebbero «ruoli», riducendo la ricchezza degli individui e rendendo più complicata la reciproca fecondazione così importante se si parte dalla prospettiva di stimolare, rafforzare ed arricchire l’autonomia di ciascuna e ciascuno).
Infine, un tessuto organizzativo informale è un tessuto vivo, non un «involucro ermeticamente chiuso». Si estende attraverso e sulla base delle affinità, in tutti i sensi. Se ha le caratteristiche implicite di qualsiasi percorso di lotta (discrezione, compartimentazione, autonomia), non sigilla le porte, lasciando che tutto si basi sulla miriade di affinità individuali. Qualcuno potrebbe argomentare che questo non sia «efficace», che i risultati non si vedranno, che un tale modo di concepire l’auto-organizzazione non offra garanzie — ma a nostro avviso, anche se un tale metodo organizzativo è più lento, va anche più a fondo, oltre ad essere il miglior baluardo contro ogni tendenza verso la gerarchia.

Sentieri da esplorare

«Sparare prima degli altri, e più velocemente,
è una virtù da Far West, buona per un giorno,
dopo bisogna sapere usare la testa,
ed usare la testa significa avere un progetto.
E l’anarchico non può essere soltanto un ribelle,
ma deve essere un ribelle munito di un progetto.
Deve cioè unire il cuore e il coraggio
con la conoscenza e l’avvedutezza dell’azione»
Alfredo M. Bonanno

Nel cuore dei nemici dell’ordine esistente è radicata una forte credenza. Essa ha assunto molteplici sembianze nel corso degli ultimi secoli, caratterizzati dal frenetico sviluppo del capitalismo industriale, ma la sua sostanza è sempre la stessa. La crescita del capitalismo, l’estensione, il radicamento e l’approfondimento del dominio avrebbe un limite, scontrandosi con un ostacolo finale, soccombendo alle sue contraddizioni. Per alcuni, la concentrazione del capitale finirà col soffocare la concorrenza e farà quindi collassare il capitalismo sotto le proprie contraddizioni. Per altri, sarà il prosciugamento delle risorse energetiche come la benzina a segnare la fine del tecnomondo. Altri ancora sostengono che gli equilibri degli ecosistemi siano stati così turbati, che il crollo della vita sulla terra così come pensiamo di conoscerla sia inevitabile. Queste credenze, che contengono una speranza — anche cupa — che tutto questo merdaio conoscerà inevitabilmente una fine, fanno venire in mente una credenza assai diffusa dopo la Seconda guerra mondiale: mai più genocidi. Cinquant’anni dopo, sullo stesso suolo europeo, le epurazioni etniche hanno ritmato una guerra civile nell’ex-Jugoslavia. Altrove nel mondo, neanche mezzo secolo dopo è emerso il volto oscuro dell’umanità. Mai più genocidi, mentre gli Stati si dotavano di un armamentario nucleare capace di perpetrare mille volte il genocidio attuato dai nazisti. La storia non segue una traiettoria rettilinea, non ci sono superamenti definitivi. La possibilità del genocidio marcerà sempre al fianco dell’essere umano. Troppi compagni e compagne percepiscono la stessa rivoluzione — anche quando è intesa come un lungo processo di trasformazione — come un superamento definitivo, l’avvento del regno della libertà, come se, in nuce e in potenza, non fosse tutto costantemente possibile e presente.
Detto questo, anche se le instabilità che il dominio sta attraversando non sono affatto «mortali» per il sistema, ciò non significa che sarebbe inutile riflettervi e anticipare, per quanto è possibile, i possibili scenari, molto diversi, che si profilano all’orizzonte del tecnomondo lanciato a tutta velocità. Tutti questi scenari hanno caratteristiche di continuità e di rottura, e nessuno esclude definitivamente l’altro. Ad esempio, il deterioramento climatico a cascata può dare luogo sia ad una felice rottura della società concentrazionaria, che ad un’accelerazione dell’artificializzazione del vivente e perfino a guerre civili. Una rivolta confusa ma massiccia può aggiornare una dittatura militare, ma anche far vacillare le basi del vivere-insieme (inclusa l’ideologia del cittadino) per dare luogo a conflitti etnici, religiosi, clanici,… o ad ampi esperimenti di autogestione e di mutuo soccorso.
Se in superficie, è soprattutto la calma piatta che sembra regnare in un’Europa pacifica in molle decadenza davanti alle altre potenze mondiali, non possiamo permetterci di escludere tali scenari dal nostro immaginario. Tuttavia, in alcune parti del mondo, alcune aree si stanno desertificando a causa dell’aumento delle acque. Altrove, milioni di persone sono costrette ad abbandonare i luoghi in cui sono nate a causa di contaminazioni diventate mortali. Alcuni moti sono scaturiti — anche se non è il loro solo «risultato», e per fortuna — da atroci guerre civili. E anche sul continente europeo, mentre stiamo scrivendo — è in corso in Ucraina una guerra di trincea. Nello stesso tempo, in Irlanda del Nord, le tensioni montano ancora e fanno aleggiare lo spettro di una ripresa delle ostilità tra le diverse parti coinvolte. In Germania, non passa settimana senza sentire che è stato smantellato l’ennesimo gruppo di neonazisti che si prepara, si arma, si addestra, si coordina e pianifica, o che interi paesi si apprestano a dare la caccia ai rifugiati. In Grecia, in piena crisi economica, si è palesato il vecchio spettro della guerra civile che contrappone «la destra» e «la sinistra», prima d’essere messo in condizione di non nuocere dalle abili strategie distensive condotte da un governo detto di estrema sinistra. Tutto ciò cova costantemente sotto la placida superficie dei paesi europei.

Lo scatenamento della libertà

«Rivoluzionari anarchici, diciamolo a voce alta: non abbiamo speranze che nel diluvio umano; non abbiamo avvenire che nel caos… il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Cosa temete dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dallo scontro di tutte le dottrine?… Esiste, in verità, disordine più spaventoso di quello che vi riduce, voi e le vostre famiglie, a un pauperismo senza rimedio, a una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa esservi più funesta della morale, della scienza, delle leggi e delle gerarchie di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui avanzate senza armi? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?»
Ernest Cœurderoy

Va detto che alcune condizioni, alcuni pretesti o anche alcune azioni potrebbero far precipitare le cose. Ma precipitare verso cosa? Verso la rivoluzione sociale e la trasformazione libertaria dei rapporti sociali? Se nulla è impossibile, non per questo è più probabile. Un imprevisto cambiamento nell’ordine europeo provocherebbe anzitutto disordine, e il disordine — ciò non dispiaccia ai cuori troppo ottimisti — non è di per sé sinonimo di trasformazione libertaria. Si può affermare che la libertà è un fattore di disordine. Che essa distrugge ciò che la ostacola, scuotendo così l’ordine stabilito. «Non ci sarà più rivoluzione finché non scenderanno i cosacchi», diceva Ernest Cœurderoy, amareggiato per la sconfitta delle insurrezioni proletarie a Parigi a metà del XIX secolo. Aveva ragione: la libertà porta il disordine, ed è nel disordine che tutto può essere sperimentato. Dalle cose più turpi alle cose più belle. Tutto qui.
Se siamo disposti ad accettare l’ignoto, se siamo pronti a scatenare la libertà, possiamo finalmente allontanarci dal gauchisme che malgrado tutto abbiamo ereditato. Possiamo allora dire addio alle entità fantasmatiche che dovrebbero perseguire gli stessi scopi di emancipazione (la classe, gli oppressi, i poveri, ecc.) per rivolgerci completamente agli individui, con le loro contraddizioni, le loro scelte, le loro responsabilità. Possiamo dire addio agli schemi che ci informano che occorre elevare le coscienze prima di scatenare le ostilità. Possiamo dire addio ai determinismi che ci hanno illuso, circa il fatto che il fratello proletario non sparerebbe mai sul suo simile, ma prima contro il padrone (nonostante tutte le flagranti negazioni al riguardo che la storia ci ha sbattuto in faccia). Possiamo dire addio al ruolo dei messia, che porterebbero la luce in un mondo di tenebre, che alcune teorie rivoluzionarie vorrebbero farci giocare — fino al punto di farci trucidare da una popolazione reazionaria come è successo a Pisacane e ai suoi compagni nel 1857.
Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere — come è successo a molte insurrezioni imbrigliate, oltre alla reazione, dagli stessi rivoluzionari, magari per umanesimo, allo scopo di frenare ogni «eccesso» e di mantenere la rotta sul paradiso promesso dell’autogestione.
Oggi, per coloro che non temono il disordine più della continuità della marcia radiosa e mortifera del progresso tecnologico, non si tratta più tanto di pesare nella bilancia dei rapporti sociali e degli equilibri politici, si tratta di far deragliare il treno. Di far saltare le dighe che trattengono le acque stagnanti in pieno marciume. E a nostro avviso, un modo adatto per tentare di contribuirvi (ben sapendo che non siamo i soli a giocare e che contano pure altri fattori), è rivolgere lo sguardo verso ciò che sostiene e mantiene il sistema — le sue arterie: le infrastrutture di energia, telecomunicazioni e trasporti, su cui si basa ormai buona parte della vita economica, politica e sociale. Ma senza garanzie, senza prima assicurarsi che ci sia una massa critica sufficiente per affrontare una rottura nelle telecomunicazioni o nell’energia, perché sarebbe come riciclare l’a-poco-a-poco d’altri tempi (presa di coscienza – scaramucce – sommosse – insurrezione – rivoluzione, con la freccia del determinismo storico puntata da sinistra a destra), un’ipotesi che si può ora scartare definitivamente dal cuore delle metropoli europee. Ma rifiutando anche di seguire una logica che ci trasformerebbe in esperti tecnici capaci di far piombare il mondo nell’oscurità, per poi stare ad osservare, a distanza di sicurezza, quello che succede; scartando l’ipotesi del «colpo fatale» che provochi un blackout generalizzato (un po’ troppo simile per i nostri gusti all’illusione della «Grande Sera» da XX secolo o al «colpire il cuore dello Stato» degli anni 70).
Se è giusto affermare che agiamo prima di tutto — e di fatto, anche dopo — per noi stessi, per praticare la libertà invece di sognarla, tuttavia non è tutto qui. La libertà è totale, non sopporta ostacoli, vuole dispiegare le sue ali: ecco perché può andare alla ricerca, o anche scontrarsi, con l’insurrezione, lo scatenamento di massa di libertà. Un’ipotesi organizzativa attuale ha interesse a camminare con le proprie gambe. Da un lato, favorendo le condizioni per l’attacco — che comprenda davvero tutto, perché le sue condizioni coincidono con la vita stessa — e dall’altra, anticipando, preparandosi, organizzandosi per essere in grado di prolungare le ostilità (contro ogni potere, vecchio o emergente), anche in un momento di maggiore instabilità, di disordine generalizzato (che può assumere sia la fisionomia di un declino dello Stato e di conseguenza una autorganizzazione spontanea della sopravvivenza; sia quello di un conflitto generalizzato tra mille frazioni diverse, sconvolgendo le carte geografiche e politiche degli Stati in decomposizione o in ricostruzione).
Nel disordine, le regole tacitamente in vigore stanno sempre meno in piedi, soprattutto quando la situazione si prolunga. Chiedersi cosa poter fare in una simile situazione non è peregrino, una domanda che è stata posta anche molto recentemente, per esempio ai rivoluzionari in Siria che vedevano la rivolta sprofondare verso la guerra civile. Tuttavia, se un tale scenario fa paura, siamo certi che questi timori siano davvero i nostri, e non siano instillati dallo Stato? Abbiamo forse paura della libertà, ovvero, dell’assenza di regole fisse? Agire al di fuori della legge quando è la legge statale a regnare è una cosa, ritrovarsi in una situazione di assenza di qualsiasi legge (tranne quella della libertà intesa come libertà di agire — e della forza bruta) è un’altra. Ma il nostro vero posto, come anarchici, come nemici di qualsiasi ordine stabilito, non è proprio in una situazione del genere? Non dovremmo sentirci più a nostro agio da «Banditen», come le autorità naziste definivano i resistenti italiani che attaccavano?
Senza ottimismi fuori posto, né timori inculcati dal traboccare di pace sociale, possiamo già, nelle battaglie di oggi, organizzarci per le possibili battaglie di domani. Perché, se proseguiamo sulla via dell’attacco alle arterie del dominio, e senza alcuna garanzia, possiamo tuttavia essere sicuri di due cose. Innanzitutto, che lo Stato non lo apprezza affatto ed è consapevole (sempre più) della propria vulnerabilità da questo lato. Prima o poi reagirà di conseguenza, e sarebbe un peccato dover fermarsi per una mancanza di previsione, di preparazione e, sì, di organizzazione (intesa come supporto e sostegno, e non come entità rappresentativa o politica) su un percorso così buono. In secondo luogo, se per una ragione o per l’altra (una coincidenza di fattori, una moltiplicazione di fuochi di rivolta, un caso imprevisto), funzionasse, che le braccia delle macchine-robot si blocchino, che i computer si spengano in certi spazi / tempi, che il controllo capillare del territorio non sia più assicurato; quindi, se funzionasse, sarebbe un peccato limitarsi a sdraiarsi per guardare le stelle, così come sarebbe decisamente sciocco credere che le masse di sfruttati, abituate e intossicate dalla dipendenza da un’autorità e dalle macchine e non desiderose di autonomia, farebbero lo stesso. Quindi, se ciò funzionasse, potremmo già immaginare, progettare e prepararci per essere fra quelli che portano la libertà, nel proprio cuore e nelle proprie pratiche, in seno al disordine. Per affrontare non solo lo Stato, ma anche altre entità di autorità che non tarderanno a formarsi per ripristinare il controllo di una zona, per instaurare l’ordine (anche nelle vesti di un ordine cosiddetto rivoluzionario), per soffiare sulle braci dell’odio religioso, settario e «razziale».
Ecco alcune immense sfide per coloro che oggi si pongono la questione organizzativa, e che si ritrovano orfani dei modelli del passato resi obsoleti dallo sviluppo del dominio e dalle credenze ereditate da lotte eclissatesi sotto l’avanzata delle tecnologie. Ma il nostro tempo buio in cui nessun colpo, neppure un’insurrezione di massa, sembra fondamentalmente riuscire ad turbare la marcia forzata della messa-in-gabbia tecnologica del mondo e della devastazione del pianeta e della vita, è quello in cui viviamo. Se possiamo pur sempre sbattere la porta dietro di noi, possiamo anche vivere a fondo, intensamente, risolutamente: toccare la libertà con le nostre lotte, far vibrare l’amore contro la metallica freddezza del mondo, sentire sulla pelle la vicinanza complice di altri con cui si condividono alcuni percorsi, cantare con tutto il cuore la gioia di una vita di ribellione contro i salmi della rassegnazione e della sub-vita.

La foresta dell’agire

«Ascoltatemi dunque!
Fate che il vostro passo sia cadenzato
e leggero come quello d’un danzatore,
ed entrate con me nella foresta»
Renzo Novatore

A passi leggeri, entriamo a nostra volta nella foresta. La foresta in cui poterci incontrare al riparo da spie tecnologiche, dove poter, al prezzo di un piccolo sforzo, attraversare ancora ampi spazi senza che la nostra immagine sia ripresa da obiettivi e dove poter, cosa niente affatto trascurabile, ascoltare il nostro respiro, bagnare i nostri piedi, sentire i nostri corpi vibrare all’unisono con la nostra mente.
Se la foresta di oggi non è tanto un’entità geografica, ma forse prima di tutto uno spazio mentale creato e ricreato costantemente, alcuni ambienti potrebbero essere più propizi di altri — tutta la questione risiede, alla fin fine, in ciò che vogliamo fare, e con quale prospettiva facciamo quel che facciamo. Anche il richiamo della foresta è quindi un’esortazione a non aver paura di abbandonare i luoghi troppo esposti, a fuggire dal chiuso dei vicoli in cui ci ritroviamo bloccati, a prendere il largo quando le dighe erette fanno ristagnare le acque. A ciascuna e ciascuno le proprie valutazioni (restare nelle metropoli oppure no, esplorare le zone più periferiche della società industriale oppure no), ma osiamo scegliere, per quanto è possibile, il nostro terreno di lotta con tutto ciò che comporta (perché «la vita» e «la lotta» sono tutt’uno), senza rimanere agganciati, più per forza d’inerzia che per scelta, a quanto è diventato impraticabile, desolante, soffocante. Non c’è un al di fuori, ma ci sono terreni più favorevoli di altri per lottare e respirare.
Le nostre foreste sono sogni di piccoli gruppi di sabotatori con bottiglie piene nel proprio zaino, luoghi di scambio dove poter dormire tranquillamente, scrupolosi passeggiatori notturni muniti di seghe e tenaglie, con notti trascorse a guardare le stelle per chiarirsi le idee, fonti di ispirazione cui abbeverare i nostri cuori lacerati da tanto disgusto e tanta oppressione, briganti che depredano carovane mercantili, accampamenti invisibili da dove partire all’assalto. La foresta, è il mondo sotterraneo in cui tocchiamo la libertà nel nostro agire. Per trovarla, non c’è nessuna freccia che indichi il percorso. I suoi alberi e i suoi ruscelli si stagliano davanti ai nostri occhi mentre camminiamo, camminando. Andando in avanti. Verso l’azione.
Ma le nostre foreste sono sotto attacco. Alcune forze ostili le occupano sempre di più per setacciarne ogni metro quadrato. Dal momento che non sono territoriali, che non sono entità da difendere, non ci facciamo intrappolare in una battaglia di difesa. Noi le portiamo con noi, queste foreste, in tutto ciò che facciamo. I nostri scontri saranno sempre furtivi — compagni, il tempo dell’ultima battaglia, in fondo a una radura circondata da scogliere, senza vie di fuga, non è ancora arrivato. Ma per non ritrovarci in una simile situazione — o almeno non troppo presto, sarebbe una disdetta — è necessario camminare, adesso, trovare i rifugi solidali, condividere le carte, scambiare le nostre bussole.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 40, 15/4/21]
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Vulnerabilità

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
A livello microscopico, la distruzione di autonomia e la riduzione degli spazi che determinano la propria vita, mediante l’introduzione di protesi sempre più tecnologiche, con le logiche conseguenti, non può che dar luogo — in proporzione al grado di lobotomizzazione e di appiattimento che ognuno subisce — ad una disperazione feroce. La ruota del progresso gira sempre più rapidamente. Se un tempo erano necessarie diverse generazioni per le vaste trasformazioni della società, oggi, nello spazio di una sola generazione, sembra quasi di non far parte dello stesso mondo. Una tale impennata di velocità richiede una inaudita capacità di adattamento dell’essere umano e non manca di produrre a sua volta un’intera gamma di «difetti» funzionali al mondo nel suo complesso, ad esempio sotto forma di nevrosi o malanni fisici. E dato che l’essere umano non vive isolato sopra una cometa, abitando sul pianeta Terra, qualsiasi assetto del suo «habitat» ne influenza le possibilità e la capacità di riflettere, ma anche di sentire ed agire. Questa non è ovviamente una peculiarità della società ipertecnologica che conosciamo: si potrebbe affermare infatti che ogni civiltà operi in questo modo. La domanda da porsi allora va un po’ più a fondo: una drastica pianificazione dell’habitat non provoca una perdita di autonomia e una soppressione di libertà, ed ogni adeguamento non è in sé antinomico alla libertà? Ma simili domande superano di gran lunga le modeste riflessioni di questo articolo.
Se ci distacchiamo un po’ dalla vita quotidiana, e proviamo a pensare a un livello più macroscopico, l’estensione del moloch tecno-industriale, la «Megamacchina» come la chiamava Lewis Mumford, sembra andare di pari passo con un aumento della sua vulnerabilità. Più i sistemi sono complessi, più sono complesse le tecniche, più risultano vulnerabili ad un semplice guasto, ad un incidente, ad un imprevisto che non incide solamente su un componente isolato, bensì sull’intero sistema. Günther Anders lo riassumeva così: «Quanto più grande è la megamacchina, tanto più seriamente sono in pericolo i suoi pezzi, che, prima di essersi riuniti in essa, avevano funzionato come pezzi singoli», prima di dedurre logicamente che «Quanto più grande il complesso, tanto più grande la catastrofe se il complesso fa cilecca». Si tratta ovviamente di una tesi — o meglio, di una constatazione — da tempo considerata dagli ingegneri del sistema. La fragilità delle reti informatiche, la dipendenza da una rete elettrica centralizzata, la produzione intensiva finalizzata a limitare le scorte, l’interconnessione dei sistemi (anche dei più «vitali», come la distribuzione dell’acqua potabile, che dipende dal buon funzionamento delle pompe elettriche): tutto ciò continua ad ispirare migliaia di studi, progetti e strategie miranti ad aumentare la «resilienza» dei sistemi — non senza osservare amaramente che, davanti al progresso tecnologico, è un po’ come cercare di bloccare una perdita aprendo il rubinetto.
La fragilità della megamacchina fa ormai parte del discorso diffuso sul «collasso», sull’ipotesi che il sistema tecnologico, per diverse ragioni che vanno dalla scarsità delle risorse energetiche ai cambiamenti climatici, si stia dirigendo verso un tracollo generalizzato. Pur senza avallare la versione «collassologa» — che, con alcune eccezioni, risulta essere utile sostenitrice del sistema attuale nel limitarsi a perorare l’organizzazione della sopravvivenza in attesa del diluvio, invece di concentrarsi sull’attacco o sull’insurrezione (anche nelle sue versioni più anti-autoritarie) — nondimeno dovrebbero essere presi in considerazione tutti i fattori. Solo pensando al mondo nel suo complesso le nostre prospettive possono diventare più pertinenti, non semplicemente elaborando progetti sulla cometa o accontentandoci delle nostre perenni fantasticherie ribelli. Pensare l’insurrezione senza considerare la questione delle metropoli, del cambiamento climatico, dell’appiattimento culturale, degli odii settari o del cannibalismo sociale che cova, eccetera eccetera, appare perlomeno ridicolo. Di fronte all’accelerazione dei rovinosi fenomeni climatici e alla frenetica corsa in avanti di un industrialismo devastante, le riflessioni dei critici anarchici del potere — di qualsiasi genere — potrebbero assumere una profondità inaspettata sulla questione dell’autonomia o della libertà, a condizione di sbarazzarsi del cadaveri che continuano ad intralciare l’anarchia: il programmatismo, la paura dell’ignoto, il vittimismo preso a prestito dalla sinistra, il determinismo preso a prestito dal materialismo marxista,… C’è ancora un lungo cammino da fare.

«Non sorprende che il complesso del Potere sia messo particolarmente sotto pressione in diversi ambiti. Per quanto al riparo da attacchi frontali, a meno che non siano sferrati da un altro sistema di potere della stessa dimensione, questo gigante è piuttosto vulnerabile ad attacchi locali di guerriglia e ad incursioni ostili, contro cui le sue mastodontiche strutture risultano indifese alla stregua di un impacciato Golia con la sua pesante armatura rispetto a un agile Davide che ha ben altre armi e non attacca la stessa parte anatomica» 
Lewis Mumford, Il Pentagono del potere 1970

Che dire della fragilità della megamacchina? È reale, o è uno dei tanti fantasmi che hanno accompagnato un mucchio di rivoluzionari nel loro percorso, come lo sono state le fole della missione storica del proletariato, delle insormontabili contraddizioni create dal capitale, del risveglio sempre possibile delle masse naturalmente addormentate, della rivoluzione immaginata come l’affare di una «grande sera», della progressiva scomparsa del massacro e dell’odio in seno all’umanità o della funzione catartica delle guerre e delle catastrofi? C’è poco da elettrizzarsi. Una vasta rivolta come quella in Cile nel 2019 non è sfociata in un’insurrezione aperta. Le sommosse nel mondo arabo sono state soffocate nel sangue e hanno generato mostri altrimenti atroci. La moltiplicazione di sabotaggi di ripetitori o di fibre ottiche non ha causato un crollo istituzionale o economico. Il che non toglie che siano stati sferrati indubbiamente dei colpi. Non saranno stati mortali, tuttavia mostrano nel contempo la loro insufficienza ed il loro potenziale. Per valutare la fragilità (che non è sinonimo di «rivoluzione sociale», quanto di possibilità di libertà, di espansione del caos da cui possa emergere l’ignoto, nel «bene» come nel «male»), osserviamo un po’ più da vicino uno dei crinali nevralgici della megamacchina: la rete elettrica.
L’8 gennaio 2021 alle 13:04, i sistemi di allarme sono passati al rosso quando la rete elettrica europea ha subìto un’improvvisa caduta di frequenza della corrente alternata (50 hertz). L’incidente all’origine di questa variazione di frequenza non è stato chiarito, ma molto probabilmente è stato causato dall’avaria di un interruttore automatico (incidente, guasto, sabotaggio,… nulla è stato spiegato al riguardo) in una sotto-stazione di trasformazione in Croazia. Ora, si dà il caso che non solo la rete elettrica europea è interconnessa da Varsavia a Parigi e da Istanbul a Copenaghen, ma inoltre che, per assicurare il funzionamento della rete, la sua frequenza deve essere stabile; e per far sì che rimanga tale, occorre che l’equilibrio tra produzione e consumo energetico sia garantito in modo permanente. La rete quindi deve far fronte alle fluttuazioni o immettendo più elettricità, oppure riducendo temporaneamente il consumo globale, in particolare quello dei grossi utenti. Per stabilizzare la rete nel mese di gennaio 2021, è stato quindi necessario sconnettere con urgenza diversi siti industriali in alcuni paesi (soprattutto in Italia, Francia, Austria, Romania,…), ma anche tagliare parecchie linee d’alta tensione (14 in tutto), poiché quando queste non hanno la tensione appropriata, l’elettricità trova rapidamente un’altra via (verso altre linee) col rischio di un sovraccarico. A quel punto tutte le linee della rete elettrica si trovano esposte ad un effetto a catena.
Se da parte austriaca il portavoce del responsabile della rete elettrica EVN ha parlato di un «quasi black-out» qualificando l’incidente di livello 3 (su 4) secondo la classificazione europea ENTSO-E («Emergenza. Situazione di avaria e divisione della rete su vasta scala. Elevato rischio per i sistemi vicini. Non applicazione dei principi di sicurezza. Allerta generale dell’intera rete»), il gestore francese RTE si è da parte sua vantato delle proprie «barriere di difesa» in grado di sconnettere grandi siti industriali e aumentare la produzione elettrica delle sue centrali a gas o delle dighe idroelettriche. Ma resta il fatto che la vulnerabilità della rete europea, un mastodonte che merita appunto la qualifica di «megamacchina», è incontestabile, soprattutto a causa delle sue dimensioni e della sua centralizzazione.
Si noti inoltre che le nuove fonti energetiche (eolica e solare), per principio intermittenti, non possono assolvere a tutte queste variazioni di frequenza o alle richieste di immissione di più energia, funzionando solo quando sono sostenute da una produzione di elettricità più «convenzionale» (come le centrali a carbone o a gas). La loro moltiplicazione sul territorio costituisce quindi un altro fattore di instabilità e di fragilità della rete elettrica. Per far fronte a tali intoppi, sono in corso di costruzione un po’ dovunque progetti di megabatterie in grado di immagazzinare elettricità da immettere nella rete qualora sia necessario, ma la cui efficacia resta un punto interrogativo. In Francia, RTE nell’estate 2020 ha avviato la costruzione di megabatterie in alcuni siti, a Vingeanne (Côte-d’or), Bellac (Haute-Vienne) e Ventavon (Hautes-Alpes), oltre al suo progetto di un sito di produzione e stoccaggio di elettricità con l’idrogeno a Fos-sur-Mer (Bouches du Rhône).
Questo «incidente» con le sue notevoli conseguenze in una semplice sotto-stazione locale di trasformazione, ricorda un altro fatto piuttosto eclatante accaduto dall’altra parte dell’Atlantico.
La notte del 17 aprile 2013, verso l’una del mattino, qualcuno si introduce in un locale tecnico proprio accanto alla sotto-stazione elettrica di Coyote (in California) e trancia alcuni cavi in ​​fibra ottica. Ci vorrà un bel po’ di tempo perché l’operatore se ne accorga. Dieci minuti dopo, un’altra serie di cavi viene tagliata in un locale tecnico nelle vicinanze. Trenta minuti dopo, la telecamera di sicurezza della sotto-stazione rileva una scia di luce lontana. Gli investigatori capiranno in seguito che si trattava di un segnale luminoso proveniente da una torcia elettrica. Subito dopo — ovvero all’1:31 — la telecamera registra in lontananza un flash di fucilate e le scintille dei proiettili che colpiscono la rete della recinzione. Tutta questa azione davanti alla telecamera attiva un allarme. È l’1:37, pochi minuti dopo l’inizio degli spari. All’1:41, il dipartimento dello sceriffo riceve una chiamata: è l’ingegnere della centrale che ha sentito gli spari. Lo sceriffo arriverà 10 minuti dopo, quando tutto è nuovamente tranquillo. È giunto un minuto dopo che un altro segnale luminoso emesso da una torcia decretava la fine dell’attacco.
Ma su cosa sparavano i misteriosi assalitori? Sugli enormi trasformatori della sotto-stazione. Questi ultimi sono infatti oggetti fisicamente semplici, trattandosi di grossi gomitoli di fili di rame in grandi gabbie metalliche. Siccome i trasformatori si scaldano enormemente, dispongono di serbatoi contenenti il ​​loro indispensabile liquido refrigerante. Ed è proprio contro i serbatoi che sono stati sparati i colpi, crivellandoli con centinaia di fori attraverso i quali è fuoriuscito il prezioso liquido. La polizia giunta sul posto non si era accorta di nulla, mentre più di 200.000 litri di olio scorrevano fuori lentamente. In poco tempo, i trasformatori si sono surriscaldati e sono esplosi: 17 su 21 della sotto-stazione fuori servizio. Ne sarebbero bastati un altro paio per far piombare immediatamente la California nel buio. Nell’occasione, la compagnia elettrica è stata in grado di aggirare rapidamente quella sotto-stazione. La Silicon Valley ha continuato a ricevere elettricità, benché sia stata costretta per quel giorno a ridurre il consumo di energia. Il danno è stato riparato in 27 giorni. Per stessa ammissione dell’FBI, che ha precisato che «non occorre un alto grado di formazione o di accesso alla tecnologia per condurre un attacco del genere», se nello stesso lasso di tempo fossero state colpite altre sotto-stazioni, impedendone in tal modo il riassetto, sarebbe stata tutta un’altra storia.
In materia di «black-out», in un recente dossier speciale della Rivista militare svizzera (n. 5, 2018), alcuni ingegneri e graduati hanno lanciato un avvertimento in relazione alla fragilità della rete, con lo sviluppo di vari ipotetici scenari al riguardo. Le loro conclusioni? A prescindere dalle cause di un tracollo della rete elettrica, la situazione potrebbe essere grosso modo questa: se il black-out durasse solo un giorno, il recupero sarebbe rapido. Oltre le 48 ore, il recupero della rete sarebbe più difficoltoso, se non addirittura impossibile, dal momento che gli stessi strumenti che gestiscono le reti hanno bisogno d’essere alimentati elettricamente, disponendo dai 2 ai 5 giorni di autonomia. Esaurita la batteria, qualcuno si deve materialmente recare sul posto a riavviarli sincronizzandoli col resto della rete. Se non si riuscisse a ripristinare entro 5 giorni, quest’ultima non sarebbe in grado di funzionare senza un intervento esterno. Quando il black-out è regionale, ci sono servizi di emergenza e di riparazione che possono essere inviati sul posto. Qualora fosse nazionale o continentale, la situazione potrebbe perdurare e infine rivelarsi fatale per tutta la rete.
Un altro esempio, questa volta tratto dal mondo digitale. Il 10 marzo 2021, un incendio si è sviluppato nel data-center di Strasburgo della OVH, il più grosso provider in Francia. L’incendio sarebbe cominciato nella parte inferiore dell’edificio, che ospitava gli impianti di alimentazione elettrica. Questo è ciò che la stessa azienda ha indicato come causa: un inverter (un regolatore della frequenza elettrica) avrebbe preso fuoco. Se questa spiegazione è plausibile, lo diventa meno quando si apprende dai rapporti dei dipendenti e dei vigili del fuoco che il fuoco si è propagato in maniera estremamente rapida, facendo ovviamente pensare a più focolai. In breve, tutti possono speculare sull’origine di questo incendio, le autorità possono dichiarare ciò che preferiscono (è pur sempre il principale provider di Francia, la punta di diamante nel settore dei data-center), ma un’origine assai meno «accidentale» resta altrettanto plausibile. Tanto più che in tutto il mondo è oltremodo raro vedere dei data-center consumarsi interamente tra le fiamme a seguito di un guasto tecnico. Ciò detto, che si sia trattato di un guasto o di qualcosa d’altro, il risultato è stato molto «palpabile» (ci perdonerete un termine così obsoleto per il mondo virtuale). Centinaia di migliaia di siti fuori linea, enormi perdite di dati per imprese e istituzioni. Come una mini-apocalisse tra le nuvole dei server. Non c’è neppure bisogno di elencare tutti i dettagli per cogliere la vulnerabilità, per l’appunto, della megamacchina informatica; con una parte non trascurabile dipendente infatti da una singola struttura fisica, a sua volta dipendente da impeccabili collegamenti in fibra ottica e da un costante approvvigionamento di elettricità (dato che i gruppi elettrogeni di emergenza non possono sostituire completamente la rete).

Gli ultimi mesi offrono tra l’altro ripetuti esempi supplementari della vulnerabilità delle reti digitali. Sia che si pensi all’interruzione di ripetitori o dii trasmettitori che tagliano le comunicazioni di milioni di persone (come è stato il caso dell’incendio del trasformatore a Marsiglia nel dicembre del 2020 o quello di Limoges nel gennaio del 2021), ai sabotaggi degli snodi di raccordo in fibra (come l’attacco a Crest di febbraio), oppure ai tagli manuali o incendiari di fibre ottiche (come a Pierrelatte in questo mese), diciamo che la stessa fragilità può riguardare tutte le reti, compresa quella elettrica che alimenta tutto ciò che sfrutta, devasta e controlla. Ma affinché la comprensione si trasformi in azione incisiva, dovremo sbarazzarci di quei fantasmi che ancora infestano le nostre menti e capire, con tutto ciò che questo implica, che ci troviamo in territorio ostile e dovremmo perciò agire di conseguenza. Con la gioia in corpo e la libertà nel cuore.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 39, 15/3/21]
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Foresta Nera

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Sono passati poco meno di due anni dal bell’incendio della cattedrale di Notre-Dame-de-Paris, e molti conservano forse un commosso ricordo delle fiamme iconoclaste danzanti sul suo telaio, fino a provocare il crollo della sua guglia che per una volta illuminava qualcosa. L’immondo edificio religioso che incarnava così bene la continuità dell’oppressione attraverso i secoli era sfuggito per poco alla collera dei comunardi armati di barili di petrolio, ma nulla ha potuto contro l’insidiosa modernità dell’elettricità.
In questo fangoso mese di febbraio, da qualche parte sul massiccio del Conches-Breteuil (Eure), al confine dei comuni di La Vieille-Lyre e Baux-de-Breteuil, una manciata di esperti forestali e di architetti con gli stivali percorrono i sentieri in cerca di particolari alberi. Scrutano, misurano, ispezionano, selezionano, punzonano  contrassegnando con un punto rosso una ventina di giganti. Questi alberi, la cui circonferenza arriva fino a 90 centimetri di diametro, sono magnifiche querce la cui età va dai cento ai duecento anni. Dovranno essere abbattute entro fine marzo con un altro migliaio di loro simili in tutto il territorio (dall’Orne al Giura), allo scopo di ricostruire la struttura della navata e del coro dell’odiosa cattedrale in modo identico, secondo la promessa del monarca di turno ai bigotti in lutto. Ah, il fatto è che la nozione di patrimonio — quell’invenzione statale destinata a selezionare ciò che può essere demolito da tutto il resto — è sacra. E che importa se quella guglia era solo un surrogato aggiunto nel XIX secolo o se la famosa struttura medievale era stata modellata con i mezzi a disposizione, ossia con giovani e comuni portatori di ghiande. Oggi la Repubblica esige materiale fino, senza asperità, ben liscio, magari pluricentenario, nel tentativo di restaurare lo stemma carbonizzato del rospo di Nazareth.
Le foreste, che un primo sguardo urbano potrebbe vedere solo come una piacevole serie di alberi intervallati da sentieri, sono da decenni oggetto di un’accelerata trasformazione. E non è affatto casuale che le prime querce di 180 anni segnate in rosso siano in realtà una caritatevole donazione allo Stato della loro legittima proprietaria, l’assicurazione Groupama. Terza maggiore proprietaria privata di foreste con 22.000 ettari «di portafoglio», come si usa dire fra gli squali, è in concorrenza con la sua consorella Axa che ne possiede 41.000 ettari (incluso in Finlandia e in Irlanda). Ma perché le grandi assicurazioni dovrebbero acquistare freneticamente milioni di alberi, se non, come dubitarne, per qualcosa di più di un’improvvisa attrazione per la fotosintesi? Oltre ad offrire vantaggi fiscali ai clienti e ai loro eredi, le foreste rappresentano per loro un modello di investimento a lungo termine, tanto stabile quanto redditizio. Un buon piazzamento di base, insomma, dove una simulazione algoritmica a partire dal seme selezionato in vivaio fino al taglio netto trent’anni dopo, su specie robuste di conifere che crescono in modo rapido ed uniforme, permette di calcolare l’evoluzione del diametro di tutti gli alberi della stessa età e con la stessa altezza, stimandone la resa finale durante il «raccolto». Il tutto, ovviamente, tempestato da erbicidi e pesticidi. Pertanto, non è sorprendente che il 3% dei proprietari privati ​​possieda oggi il 50% della superficie forestale del paese e che tra loro ci siano tre banche (Société Générale, Crédit Agricole, Caisse d’Épargne), le due suddette assicurazioni, e il gruppo Louis-Dreyfus specializzato nel commercio e nella speculazione di materie prime agricole.
A favorire i loro affari è stata innanzitutto la politica statale condotta dal 1946 al 1999 dal Fondo Forestale Nazionale (FFN), incaricato del «rimboschimento» e dell’«apertura» delle foreste, cioè concretamente di ripiantarle e poi organizzarle per favorire l’accesso dei camion per il carico. In questi cinquant’anni, lo Stato ha trasformato drasticamente i massicci, piantandovi l’83% di conifere su due milioni di ettari: pini marittimi a sud, pini Douglas e abeti rossi Sitka del Nord America dappertutto. È così che gli amministratori hanno pressato affinché quasi la metà delle foreste francesi siano costituite non solo da insediamenti monospecifici (e un ulteriore terzo solo da due specie), ma che oltre l’80% delle nuove piantagioni continui ad essere composto da una monocoltura di conifere.
In seguito, a partire dagli anni 90, c’è stato il tempestivo arrivo di nuove grosse macchine forestali, che consentivano di tranciare la base del tronco, di afferrarlo, di sramarlo, di tagliarlo in parti standardizzate di sei metri poi ammassate su un vettore, il tutto in meno di un minuto ad albero. Provenienti ​​da paesi nordici, erano ovviamente già utilizzate per conifere e betulle con un lungo tronco cilindrico eretto senza intoppi verso il cielo, a differenza delle maledette latifoglie (querce, faggi, olmi, frassini, carpini, ciliegi o castagni) i cui rami e il fogliame iniziano troppo in basso e che crescono comunque troppo lentamente per raggiungere il livello voluto.
Aggiungiamo infine a questo quadro che i cambiamenti climatici provocati dalla stessa industrializzazione causano da diversi anni tempeste sempre più devastanti per le foreste nonché una successione di periodi di siccità che decimano i massicci, favorendo l’accelerazione del disboscamento di interi appezzamenti, poi sostituiti con piantagioni intensive. Per non parlare dell’energia da legno, con la trasformazione di vecchie centrali a carbone in impianti a biomassa per produrre elettricità a flusso continuo: nel 2018, ad esempio, sono state bruciate 13 milioni di tonnellate di legna (di cui l’80% importato da Nord America, Stati baltici e Portogallo) per rifornire l’ex centrale elettrica a carbone più grande d’Europa, quella di Drax in Inghilterra. E a proposito, qual è il nome dell’azienda che presto sorgerà a Fessenheim, la città alsaziana dove è stata chiusa definitivamente la prima centrale nucleare? Biomassa d’Europa, in linea con l’aumento del 34% tra il 2005 e il 2018 dell’utilizzo di biomassa forestale per la produzione della cosiddetta energia verde.
Certo, l’industrializzazione delle foreste non è nuova, come testimonia ad esempio quella delle Ardenne, dove dopo essere stata decimata da una metallurgia estremamente avida di carbone da legno per i suoi altiforni, è stata poi in gran parte ripiantata dal 1850 con abeti rossi dei Carpazi. La loro rapida crescita in primo piano nella produzione di tronchi rettilinei era infatti perfetta per puntellare le gallerie delle nuove miniere di carbone o per rinnovare le palificazioni che sostenevano le grandi città dei Paesi Bassi, oltre alle linee elettriche e telefoniche. Di fronte a un progresso che riduce le foreste e tutto il vivente a mera materia sfruttabile, possiamo andare con la mente a quell’aprile del 2015, quando ignoti hanno sabotato sette anni di lavoro ad Avallon (Yonne) — la stessa città il cui sindaco era presidente dell’ONF —, sezionando a metà la cima delle pianticelle dei pini Douglas in quasi 5 ettari, il che ha avuto l’effetto di renderli inutilizzabili dai boscaioli… perché sarebbero cresciuti con due teste.
E dato che si parla di accette, torniamo indietro nel tempo a quei piccoli gruppi di contadini del Giura, che a partire dal febbraio 1765 e per quasi un anno condussero una guerriglia la cui posta era la foresta reale di Chaux, rimasta a tutt’oggi la seconda più vasta di querce e faggi. I nemici di allora erano già stati ben individuati: lo Stato che se n’era accaparrato l’uso, le Guardie Idriche e Forestali incaricate di far rispettare l’ordine, e gli industriali (di vetrerie, di fucine per la marina da guerra, di saline) che divoravano quantità astronomiche di legna per alimentare fabbriche in espansione. Truccati da donna, col volto mascherato o imbrattato di fuliggine, duecento contadini subito soprannominati Signorine occuparono improvvisamente l’immensa foresta per restituirla a tutti, fermarono la devastante fornitura delle industrie, scacciarono le guardie sequestrandone le armi, non senza saccheggiare e distruggere le loro case. In seguito all’impotenza di un primo reggimento di cavalleria arrivato da Besançon, che aveva poca familiarità con la foresta oscura, mandato in confusione dalle inafferrabili Signorine che viceversa la conoscevano a fondo, beneficiando per di più di una rete di complicità, furono le compagnie di granatieri a mettere temporaneamente fine alla rivolta occupando due villaggi ed esercitando tutto il terrore di cui erano capaci. E malgrado il re sia stato poi costretto a concedere ai contadini un ripristino del precedente utilizzo della foresta di Chaux, ciò non impedì ad alcuni individui determinati di continuare a praticare l’antica arte dell’incendio fino al 1789. Parecchi lotti di tronchi massicci acquistati dai padroni delle fucine ai monarchi furono così regolarmente e senza pietà dati alle fiamme negli anni seguenti, piuttosto di lasciarli ad alimentare fabbriche devastanti.
Conoscendo l’utilizzo delle grandi querce fatto alcuni secoli prima da un leggendario fuorilegge dalle parti di Sherwood, diciamo a noi stessi che potrebbe esserci un filo ben diverso di quello che va dalle strutture delle cattedrali alle pinete di Douglas: quello tessuto con alberi contorti, stelle ridenti e passi fermi, che corre lentamente nella notte per portare il fuoco in territorio nemico…
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 38, 15 febbraio 2021]
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Pecore nere

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Braccialetti. Una delle peculiarità dell’attuale situazione pandemica — che ripropone ad ognuno la vecchia domanda su quale possa essere il senso di una vita degna che vada oltre la semplice sopravvivenza — è quella di mettere un po’ più a nudo certe sbarre della prigione sociale.
Non si ingannava quel filosofo di Stato quando qualche decennio fa affermava che si poteva prevedere l’abolizione del carcere grazie alla sua diffusione capillare a tutta la società, piuttosto che la sua distruzione col mondo che ne necessita. Nel frattempo, come sempre, non stiamo assistendo ad un processo di sostituzione ma di accumulo. In materia energetica abbiamo il petrolio, il carbone, l’energia nucleare e giganteschi campi eolici o impianti fotovoltaici che continuano ad alimentare un mortifero produttivismo. Allo stesso modo, in materia carceraria siamo di fronte non solo a massicci accampamenti di indesiderabili attorno alle frontiere, alla costruzione di nuove galere (15.000 posti di detenzione supplementari entro cinque anni), ma anche ad una moltiplicazione delle forme di reclusione all’esterno delle quattro mura. Se si dovesse fare un solo esempio, senza nemmeno menzionare i tradizionali arresti domiciliari e altre costrizioni, il più indicativo sarebbe forse l’estensione del braccialetto elettronico. A fine dicembre, oltre ai 63.000 prigionieri stipati in carceri passate a modalità covid (con sistemi di videoconferenza, restrizioni delle attività e dei permessi d’uscita), ad altri 11.000 è stata allacciata alla caviglia una spia allarmata. Un aumento di guinzagli giudiziari elettronici che accresce le capacità carcerarie dello Stato e ormai va di pari passo con la volontà di imporli sotto forma di misure di sicurezza post-carcerazione nei confronti di quei detenuti che perseverano nelle loro idee (a cominciare da chi ha appena scontato una condanna per “terrorismo”). Eppure, a pensarci bene, essendo la prigione null’altro che lo specchio esacerbato di questa società tecnologica autoritaria, come sorprendersi quando la maggior parte dei sudditi dello Stato — ribelli compresi — vanno già a spasso fuori, volontariamente e permanentemente, con un microfono e un Gps in tasca, anche quando non stanno aspettando la fastidiosa chiamata di un padrone? Così, con il pretesto del covid-19, i portuali di Anversa o di Gien (Loiret), i liceali di Pechino, i malati o i viaggiatori in quarantena provenienti dalla Corea del Sud e dalla Polonia possono essere costretti a portare un braccialetto della salute che rileva a scelta la loro temperatura corporea, calcola la distanza che li divide dagli altri esseri umani o ne verifica la posizione, amplificando un medesimo movimento dove ciascuno diventa il secondino di se stesso. Quando il confine fra reclusione forzata e auto-reclusione da confinamento, fra trasformazione totalitaria dello spazio urbano e architettura carceraria contemporanea, tra guinzagli e braccialetti elettronici, si fa sempre più labile, la vita stessa — questo cuore a serramanico, come diceva il poeta — tende a diventare una pena in sé nella vasta prigione sociale.
È ovvio che esiste una differenza fra aprire una porta da soli e subire l’arbitrio di un boia in divisa, fra un isolamento dove la luce del giorno penetra a malapena e le strade deserte per decreto, fra privazione del significato e sostituzione del contatto umano con quello delle macchine, ma occorre constatare che la vecchia metafora secondo cui il carcere non è un’estensione della società essendo piuttosto quest’ultima a costituirne l’estensione, non ha perso la sua pertinenza. Anzi, tutt’altro. Quindi, se non possiamo evadere da una prigione sociale che ha ormai colonizzato tutto lo spazio, se le sue gabbie da bamboline russe si incastrano e si fondono l’un l’altra, quale possibilità ci resta, se non quella di distruggerla dall’interno? Coltivando con cura un mondo tutto nostro, respingendo gli assalti di un dominio che mutila ogni giorno la nostra sensibilità, devastando senza pietà le sbarre e i muri che ci tengono prigionieri. Tanti ostacoli alla libertà, che non s’incarnano più solamente nella pietra e nell’acciaio, ma anche nelle reti diffuse in fibra di vetro e rame che corrono sotto i nostri piedi e volano sopra le nostre teste. Se quasi un centinaio di antenne-ripetitori sono state sabotate nel 2020 malgrado i vari confinamenti, il fatto che queste strutture costituiscano un anello supplementare delle nostre catene ha forse una qualche attinenza.
Passaporto sanitario. Nel corso dell’ultima grande epidemia di peste conosciuta in Francia, avvenuta nel 1720 quando alcuni mercanti e notabili fecero sbarcare comunque il loro carico di stoffe e di cotone da una nave in quarantena nel porto di Marsiglia, furono impiegati due particolari tipi di dispositivi. Da un lato, usare gli schiavi delle galere, cioè i condannati ai lavori forzati, per far raccogliere i cadaveri dalle strade con le baionette, e poi gettarli in antichi bastioni e ricoprirli di calce viva. Dall’altro, costruire un po’ più a distanza un Muro della peste, sorvegliato giorno e notte dalle truppe francesi e papaline, allo scopo di isolare le regioni colpite e impedire che il bacillo si diffondesse sul resto del territorio. Beninteso, i ricchi avevano già lasciato Marsiglia per rifugiarsi nelle loro bastie, ed essendo l’economia un imperativo irrinunciabile al di là di ogni altra considerazione, i viticoltori facevano consegnare dagli uffici sanitari ai propri vendemmiatori un cartellino contrassegnato con lo stemma della città come lasciapassare. Fino alla fine dell’epidemia nel 1722, le autorità emanarono così migliaia di salvacondotti attestanti che il loro vettore era in buona salute, mentre comunicavano le istruzioni reali qualora i residenti fossero stati sorpresi a varcare il muro: «Farli arrestare con ogni precauzione per non trasmettere [il Male], riportarli nel loro territorio e spaccar loro la testa davanti ai propri compatrioti, esempio assolutamente necessario per contenerli».
Quasi trecento anni più tardi, né le priorità di un sistema mortifero e neanche le ingiunzioni del potere sono in fondo cambiate, sebbene il covid-19 sia senz’altro meno contagioso e mortale (prima di nuove mutazioni?) della peste nera. Certo, le tessere sanitarie si sono trasformate in certificati vaccinali prima dell’istituzione più o meno esplicita di un passaporto sanitario, gli antichi lasciapassare comunali sono diventati attestazioni ministeriali su smartphone, l’autorità religiosa delle multicolori guardie pontificie si è tramutata in un potere scientifico in camice bianco, il Codex nazionale che regola la produzione di farmaci non raccomanda più di ingurgitare pozioni a base di aceto, ma piuttosto di farsi iniezioni a base di RNA messaggero, e i refrattari al confinamento si fanno un po’ meno spaccare la testa e un po’ più tassare (o entrambe le cose), mentre i forzati devono ancora trasportare cadaveri di contagiati in tutto il pianeta e scavarne le fosse. No, ciò che è cambiato radicalmente alle nostre latitudini sono altri tre secoli di addomesticamento statale: non c’è bisogno di un Muro della peste quando una servitù volontaria unita alla tecnologia sembra essere sufficiente a limitare i movimenti collettivi del gregge. Quanto alle pecore nere mai attratte veramente dal loro odore, ci scommettiamo che sapranno ancora una volta esplorare strade secondarie per rifiutare l’aria dei pastori e attaccarli di sorpresa.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 37, 15/1/21]
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Nictalopi

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Se c’è un segreto stantio che da decenni fa il giro del mondo infantile è sicuramente quello confidato dalla volpe al Piccolo Principe: «Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». È forse un mero caso se il cuore che ha pronunciato questa sentenza verso metà del secolo scorso, quando non indossava la livrea militare, si insinuava tranquillamente negli stracci del giornalista, ad esempio per denunciare i «crimini repubblicani» della Spagna del 1936-37 sui principali giornali nazionalisti? O che un fervente ammiratore di un Maresciallo che ha riconciliato il popolo frrrancese sotto il suo giogo dopo la disfatta sia stato ricompensato con una nomina al comitato provvisorio del Rassemblement pour la Révolution nationale (1941)? Come alcuni hanno fatto notare successivamente in un’altra occasione, l’importante in materia di sonagli ufficiali non è tanto essere capaci di rifiutarli, quanto non meritarli. Il 31 ottobre scorso, i suoi scadenti eredi del Master 2 Sicurezza e Difesa dell’Università di Assas non si sono quindi sbagliati nell’adottare il nome di Saint-Exupéry per la loro sedicesima promozione, riconoscendo in lui l’alleanza tra «genio letterario e spirito militare: onore, rispetto, coraggio e amor di Patria». A quanto pare, sembra che l’essenziale possa talvolta saltare comunque agli occhi! Ma passiamo oltre.
In un periodo come questo decisamente particolare, cosa potrebbe invece discernere un organo che disprezza sia lo spirito da caserma che il terrorismo di Stato? A prima vista, tra una pandemia mortale che giustifica misure autoritarie di ogni genere, il rafforzamento di protesi tecnologiche dal lavoro alla scuola fino ad ogni relazione, un ambiente sempre più devastato e artificiale sotto i continui attacchi violenti dell’industria, o anche l’assenza di orizzonti utopici — questo «sogno non realizzato, ma non irrealizzabile» come lo definiva un celebre «proiettile autoricida lanciato sul selciato dei civilizzati» — è vero che i tempi sembrano più propizi ai nuvoloni del dominio che alla tempesta sociale. E che si potrebbe quasi perdere il ricordo dei tempi andati, spazzato via in un lampo dal covid-19.
Dimenticato il breve inizio d’insurrezione in Grecia di poco più di dieci anni fa, che aveva al tempo stesso segnato un possibile in seno alla vecchia Europa e mostrato i limiti dell’assenza di prospettive rivoluzionarie che andassero oltre una semplice estensione di sommosse? Dimenticate le possibilità aperte tre anni dopo dai vari moti dall’altra parte del Mediterraneo, annegati nel sangue delle guerre civili, schiacciati sotto lo stivale militare o soffocati dalle sirene religiose e democratiche? Dimenticato il sollevamento in Cile di appena un anno fa, così potente nei suoi atti mescolanti espropri e distruzioni massicce davanti ai militari, ma arretrando all’ultimo minuto per non varcare la soglia dell’irreparabile ignoto, in un territorio ancora traumatizzato da un passato feroce? Dimenticate le recenti sommosse nordamericane contro la polizia, capaci per una volta di superare puntualmente le antiche divisioni iniziando a mettere in discussione uno dei pilastri del dominio, senza riuscire tuttavia a intaccare tutti gli altri, se non dall’azione rabbiosa di poche minoranze? Dimenticato anche il famoso movimento dei gilet gialli, di certo profondamente legato alla richiesta di uno Stato migliore, pur essendo in grado in nome stesso del suo postulato riformista di trovare il gusto spontaneo della rivolta di fronte a quello in carica, o quello dei sabotaggi contro varie strutture del potere mediante l’auto-organizzazione in piccoli gruppi diffusi? Un esempio tuttavia promettente di identificazione delle strutture del nemico, che non si accontentava di caselli autostradali, di centri d’imposte o di radar, ma aveva ad esempio spinto l’esplorazione fino alle antenne, alle case di rappresentanti eletti o agli impianti elettrici di aree industriali e commerciali.
I cuori gonfi di rabbia sarebbero stati quindi colpiti all’improvviso da amnesia durante i ripetuti confinamenti a furia di analizzare l’orrore del mondo da dietro gli schermi, e soprattutto non riuscendo a uscire in strada per attaccarlo? O viceversa è possibile che, sebbene straziati dal prezzo da pagare per tutti questi entusiasmanti processi non conclusi, essi non si siano tuttavia rassegnati di fronte a quanto tali momenti di rottura comportano sia di gioia distruttiva collettiva che di riappropriazioni individuali della propria esistenza? Quando un demone della rivolta diceva che le rivoluzioni sono fatte per tre quarti di fantasia e per un quarto di realtà, non era certo per accontentarsi di sezionare all’infinito quest’ultima a ritroso allo scopo di affinare il nostro agire, ma perché sapeva che questa preziosa fantasia vissuta può arrivare a sconvolgere una vita intera dandole ben altra ragione che quella di ritardare la morte il più a lungo possibile. Allora, se fosse vero che si vede bene solo con il cuore, il nostro sempre ardente potrebbe solo constatare che la gestione autoritaria di questa pandemia e le sue conseguenze in termini di ristrutturazione economica come di accelerazione tecnologica non giunge in un momento qualsiasi, ma pure per contrastare questi ultimi dieci anni di sollevamenti, insurrezioni e rivolte nel tentativo di chiudere pagina.
Di fronte alla miseria dell’esistente si può ripetere a iosa che l’ordine non agisce mai da solo, che le sole battaglie perse in anticipo sono quelle mai combattute, che non sono i rivoluzionari a fare le rivoluzioni, o che quando si accumulano insoddisfazione e malcontento a volte basta una scintilla per far esplodere la polveriera dei rapporti sociali (che sia una guerra persa dallo Stato, l’aumento del prezzo dei trasporti, la gestione contestata di un’epidemia, l’immolazione di un venditore ambulante, un nuovo drastico piano economico di bilancio, un ennesimo omicidio della polizia…). Tutto ciò è giusto, ma al di là delle manifestazioni di rabbia che il potere intende ora seppellire sotto il peso dell’emergenza sanitaria si sta sviluppando anche un altro movimento, sempre meno invisibile eppure essenziale, nonostante ciò che potrebbe dire la volpe del racconto.
Si tratta di quello composto da individui e piccoli gruppi che hanno preso atto che di fronte alla catastrofe climatica, il disastro è il sistema industriale stesso e che è meglio occuparsene alla fonte (energetica). Che di fronte all’alienazione o al controllo tecnologico, il problema deve essere risolto alla radice tagliandogli le vene. Che di fronte al moloch statale e alla sua crescente militarizzazione contro i rivoltosi, è tempo di prendere l’iniziativa secondo i propri tempi in maniera asimmetrica, senza più attendere movimenti sociali che debordino dai contesti istituiti prima di estinguersi.
È il caso, ad esempio, dei sabotaggi incendiari che attaccano incessantemente gli impianti elettrici che alimentano le pompe della miniera di lignite a cielo aperto che sta distruggendo la foresta di Hambach (Germania), dei recenti sabotaggi e blocchi contro la costruzione del gasdotto costiero Coastal GasLink nella Columbia Britannica (Canada), del sabotaggio dello scorso ottobre in Toscana (Italia) contro l’impianto di perforazione previsto per l’installazione di un nuovo parco eolico, o dell’incendio negli uffici dello sfruttatore statale forestale ONF ad Aubenas (Ardèche) all’inizio di ottobre. Per non parlare di tutti gli attacchi che da anni ritardano l’avanzamento del progetto di interramento di scorie nucleari a Bure, in particolare con l’ausilio di sabotaggi contro le perforazioni sulla vecchia linea ferroviaria destinata al cantiere di Cigéo e al trasporto dei rifiuti radioattivi. Tante belle energie sprigionate per danneggiare coloro che alimentano questo mondo mortifero.
Dall’arrivo del covid-19 all’inizio dell’anno e malgrado le conseguenti restrizioni ai movimenti che sono seguite, le voci degli agili sabotatori non sono rimaste zitte, ma la loro autonomia progettuale le ha fatte addirittura risuonare con maggiore clamore durante le varie fasi di autoreclusione. Se ad esempio consideriamo i tagli dolosi di fibre ottiche o dei ripetitori-antenne durante il confinamento in primavera, il potere non può che deplorare che questi siano stati messi in condizione di non nuocere un po’ dappertutto ogni due giorni. Di recente, un tirapiedi dello Stato incaricato di gestire queste piccole preoccupazioni, ha ammesso che oltre un centinaio hanno subìto la stessa sorte dall’inizio dell’anno. Se si dovesse dare un solo esempio delle molteplici possibilità offerte a mani audaci nonostante il riconfinamento in vigore dall’autunno, potrebbe essere il sabotaggio a nord di Marsiglia del secondo sito televisivo più importante del Paese in materia di TV, radio e telefonia mobile, avvenuto il primo dicembre: 3 milioni e mezzo di persone si sono trovate improvvisamente disconnesse in qualche caso per più di dieci giorni!
Di che ispirare indubbiamente gli individui nictalopici che, ciascuno a modo proprio, continuano ad illuminare la notte per far deragliare i treni del dominio. 

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 36, 15 dicembre 2020]

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All’alba di una nuova era

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«Uno degli aspetti di questa quarta rivoluzione industriale
è che essa non cambierà ciò che stiamo facendo, ma cambierà noi»
Klaus Schwabb, fondatore e presidente del World Economic Forum (WEF), che ha appena pubblicato
The Fourth Industrial Revolution, seguito da un’altra opera — in piena pandemia di Covid19, The Great Reset —
in cui esorta ad approfittare della crisi sanitaria per accelerare la nascita dell’«economia 4.0»
Se si accetta la definizione di «rivoluzione» per indicare le trasformazioni dell’economia capitalista nel corso della sua storia, è ovviamente nel senso che certe trasformazioni hanno comportato un importante sconvolgimento nei rapporti di produzione, nelle relazioni sociali, nelle gerarchie della società, negli usi e costumi. Ma il termine sarebbe fuorviante se si intendesse con esso anche un «cambio di rotta» radicale e profondo. Infatti, dalla messa in funzione del vapore e dell’acqua per meccanizzare la produzione sostituendo parte del lavoro manuale con la macchina a vapore e fino all’estrazione dell’uranio e al suo utilizzo all’interno delle centrali nucleari per alimentare il complesso produttivo, l’orientamento e la logica sottostante non hanno subito alcuna «rivoluzione». Si tratta pur sempre di accumulare profitti e per accumulare è necessario che l’economia cresca incessantemente. Senza crescita, i margini per reinvestire e rendere redditizi i profitti sono troppo bassi. Ciò che viene chiamato progresso moderno soddisfa quindi due esigenze fondamentali: accrescere il dominio e aumentare l’accumulazione. I due aspetti — che spesso sono stati falsamente contrapposti nelle figure dello «Stato regolatore» e del «libero mercato» — sono sempre andati avanti insieme. L’apertura di nuovi mercati, la mercificazione di alcuni settori, l’estrazione delle risorse, la costruzione e la manutenzione di infrastrutture necessarie alla produzione, tutto questo non sarebbe stato possibile senza la crescita del potere statale, e viceversa tale crescita non sarebbe stata possibile senza l’apporto di crediti, prodotti, armi e tecnologie da parte dei complessi industriali capitalisti. I noiosi dibattiti sulle aliquote d’imposta delle imprese, sui costi salariali, sulla competitività, che sembrano contrapporre lo Stato al mercato in sostanza non sono che chiacchiere: il «libero mercato» non è mai esistito e lo Stato ha avuto un ruolo preponderante, se non indispensabile, nella crescita di grandi apparati economici. Per fare solo un esempio: i mercati finanziari globali, base del sistema monetario mondiale e sovente presentati come il regno del capitalismo più autentico, il meno frenato dalle normative, semplicemente non possono esistere senza gli Stati. Il «salvataggio» effettuato dopo il crollo finanziario del 2008 la dice lunga al riguardo, e può sorprendere solo chi crede nella favola assai interessata che contrappone lo Stato al capitale.Dopo un primo periodo di meccanizzazione della produzione, che subisce un’accelerazione con l’estrazione massiccia del carbone per alimentare i forni industriali, tra il 1760 e il 1870 arriva una seconda «rivoluzione industriale» che generalizza la produzione di massa e l’espansione del complesso metallurgico ed energetico. È l’era del petrolio e dell’elettricità, delle acciaierie e del motore a combustione. La «liberazione» di forze energetiche mai viste prima, attraverso l’estrazione del petrolio, renderà possibile un vertiginoso aumento della produzione, e il primo grande massacro mondiale di una vastità senza precedenti. Più le fonti energetiche vengono iniettate nella macchina, più essa si estende in tutto il pianeta. La costruzione di centinaia di centrali nucleari, promessa di fonte inesauribile di energia elettrica (ma comunque meno gestibile e flessibile del petrolio), ha suggellato l’avvento della megamacchina: un «complesso di civilizzazione» da cui tutti i settori e gli aspetti sono ormai interdipendenti. Quando quasi tutti i territori del pianeta hanno finito per essere integrati nella megamacchina e la produzione di massa ha finito con l’abbassare i tassi di profitto mediante sovrapproduzioni cicliche e saturazioni del mercato, è iniziata una nuova era. Da un lato occorreva superare il problema del calo dei tassi di profitto, dall’altro bisognava rispondere alle sfide e alle minacce poste dai movimenti rivoluzionari degli anni 60 e 70. All’inizio degli anni 80, l’elettronica e le tecnologie digitali sviluppate nella struttura militar-industriale sono state integrate all’interno di sempre più processi produttivi. La disponibilità di un gigantesco apparato in grado di fornire sempre più energia a basso costo era fondamentale per consentire l’automazione di alcuni processi produttivi da un lato e la delocalizzazione delle fabbriche in regioni più periferiche dall’altro. Per liberare e stimolare l’accumulazione necessaria a tali massicci investimenti, sono stati superati alcuni divari tradizionali (tra la città e la campagna, ad esempio) e «liberalizzati» settori fino ad allora rimasti ai margini, un processo che attualmente sta volgendo al termine nella maggior parte dei paesi. Abbinata all’endemico indebitamento dei cosiddetti paesi «periferici» sottomessi a massicci programmi di sviluppo delle infrastrutture (al servizio dell’estrazione di materie prime), la forza finanziaria così liberata ha permesso un’ulteriore crescita della capacità produttiva.

Oggi si può vedere molto chiaramente, col grosso balzo in avanti sperimentale legato alla pandemia del Covid19, a qual punto siano stati generalizzati i processi di automazione, anche nella maggior parte di regioni una volta considerate più secondarie all’interno dell’economia mondiale. Grazie alle tecnologie disponibili, è possibile ormai fare sempre più a meno del «lavoro manuale». La stragrande maggioranza dei processi produttivi sono oggi guidati e gestiti digitalmente. L’attuale esperienza di assegnare parti importanti dell’attività economica al «lavoro a distanza» permette di coglierne lo spaventoso potenziale. Siamo alla vigilia di ciò che il fondatore del WEF definisce, assieme ad altri «visionari», la «quarta rivoluzione industriale». Si tratta dell’integrazione e della convergenza delle tecnologie digitali, fisiche e biologiche in una nuova visione del pianeta e dell’umanità. L’industria 4.0 implica una connettività di massa (in particolare attraverso il 5G), l’intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione della logistica e del trasporto, le nano- e le bio-tecnologie, l’Internet delle Cose, le blockchain, l’ingegneria genetica e dei materiali, le reti energetiche intelligenti, ecc. Tutte tecnologie che sono «dirompenti», avendo cioè il potenziale di sconvolgere radicalmente i precedenti processi produttivi e le tecniche di accumulazione «tradizionali». Se da un lato il loro impatto sul clima si preannuncia disastroso, dall’altro perfino i grandi capitani dell’industria tecnologica da parecchi anni mettono in guardia dall’automazione che grazie alla tecnologia digitale e alla nuova tappa robotica provocherà una disoccupazione di massa mai vista.

Se buona parte dei processi produttivi nelle fabbriche sono già ampiamente automatizzati, anche altri settori stanno per subire analoghi cambiamenti. Secondo alcune stime, verso il 2035 potrebbero essere automatizzati l’86% di tutti gli impieghi nel settore della ristorazione, il 75% in quello del commercio e il 59% in quello dell’intrattenimento. Nel Regno Unito, nel periodo che va dal 2011 al 2017, con l’introduzione del pagamento tramite macchine è stato perso il 25% dei posti di lavoro alle casse dei supermercati. Il settore degli acquisti a distanza e delle consegne a domicilio è un altro settore in piena automazione, il cui grande modello è l’organizzazione del lavoro come avviene nei magazzini di Amazon o di Alibaba. Notevoli sperimentazioni sono in corso in diverse città in tutto il mondo per sostituire con robot e droni gli addetti umani alle consegne. Ulteriori stime più generali paventano una perdita del 54% degli posti di lavoro nei prossimi due decenni all’interno dell’Unione Europea, qualora l’espansione e lo sviluppo dell’automazione mantengano l’attuale ritmo. Pensiamo anche alla prevedibile generalizzazione delle stampanti 3D, che consentirebbero di sostituire gli operai che fabbricano oggetti con macchine che li stampano. Oppure alle possibilità aperte dagli algoritmi e dai Big Data per rimpiazzare gli impiegati agli sportelli e negli uffici, nella stipula di un contratto d’assicurazione o addirittura in una diagnosi medica effettuate in base a decisioni automatiche. È chiaro che la natura del lavoro cambierà negli anni a venire.

La questione del lavoro e dell’occupazione continuerà perciò ad essere prioritaria. L’indebitamento degli Stati che consente in particolare di concedere incentivi di sopravvivenza sotto forma di assistenza sociale o d’indennità agli espulsi dal mercato del lavoro può apparire una soluzione, ma la volatilità e l’instabilità permanente sui mercati finanziari non consentiranno di proseguire a lungo sulla strada intrapresa nel corso di tutto il secolo passato dai grandi Stati capitalisti. Le lotte a difesa dell’impiego non possono, ora più che mai, portare da nessuna parte. Del resto, assai raramente, per non dire mai, affrontano la vera domanda da porsi: vogliamo la perpetuità del sistema industriale che sta devastando il pianeta e i suoi abitanti? A cosa prestiamo la nostra «forza lavoro»? In tal senso, tutto il garbuglio di lotte «contro il capitale» spesso difese dalla sinistra è da criticare, ovvero da disertare radicalmente. Cosa è successo in questi ultimi tempi in Francia? L’annunciata delocalizzazione o la chiusura definitiva di fabbriche di automobili, di pneumatici, di aeronautica (civile e militare)? Di certo, la chiusura o la delocalizzazione di una nocività non impedisce la continuità della crescita mortifera, grazie soprattutto all’automazione, e in effetti ciò determina un potenziale impoverimento dei vecchi lavoratori. Ma «la difesa del posto di lavoro», l’accettazione sempre più massiccia delle nuove forme di (tele) lavoro da parte di sindacati e sfruttati, gli annunci grotteschi di un governo che vuole «rilanciare l’industria nazionale»… tutto ciò fa inesorabilmente parte di quanto bisogna combattere. Certo, una ristrutturazione della produzione comporta sempre la sua parte di instabilità e d’incertezza (questa instabilità è peraltro diventata il «sistema» nervoso centrale dell’economia contemporanea): da qui la necessità di passare all’offensiva e di non restare più a rimorchio dei conflitti di «retroguardia». Altrimenti finiremo per portare l’acqua a un mulino non solo decrepito, ma eticamente inaccettabile e praticamente obsoleto. Non dovremmo prestarci a difendere l’occupazione in una industria di aerei da caccia (come Airbus, tanto per fare un esempio), in un porto da sempre punto nevralgico per il commercio internazionale e in corso d’automazione totale, in una casa automobilistica, in una centrale nucleare, in una raffineria … Né dovremmo prestare le nostre (magre) forze a ciò che contribuisce al rinnovamento capitalista del mondo, come gli innumerevoli progetti definiti «sostenibili» su immagine dell’eolico industriale. Ciò che bisogna fare è cercare di attaccare la produzione stessa, con la prospettiva della sua distruzione (e non della sua riqualificazione o per strappare qualche concessione salariale). Prendendo di mira i nuovi progetti in corso, colpendo direttamente fabbriche e centri di produzione o sabotando ciò che ne permette il funzionamento (infrastrutture energetiche e di comunicazione, reti logistiche, interdipendenze varie e variegate). Quando i lavoratori, sfacchinando per preservare il proprio salario e soffrendo inoltre una panoplia di malattie causate dall’attività che svolgono, iniziano a distruggere gli strumenti di produzione (più o meno mortiferi), allora possono trovare in noi complici e individui solidali; se invece «lottano» per preservare quegli strumenti concedendo loro per di più la mistificazione di una certa «utilità sociale», non smetteremo di indicare e di attaccare le loro responsabilità nel mantenimento e nella difesa di un apparato produttivo che distrugge noi ed il pianeta. Men che meno la prospettiva di un’autogestione degli strumenti di produzione esistenti denota una prospettiva veramente rivoluzionaria: la sola prospettiva rivoluzionaria, sì, l’unica, è la distruzione della produzione, quindi del lavoro.

La «quarta rivoluzione industriale» non è una semplice evoluzione logica e lineare che seguirà la «terza». Spunta fuori in un momento in cui gli imprevisti e le incertezze si accumulano sulla testa. La disoccupazione di massa è solo uno di questi aspetti, e non necessariamente il più importante (il dominio non si è mai privato di sacrificare milioni di persone). Viceversa, il problema del clima si preannuncia sempre più pressante attraverso l’accelerazione di fenomeni inauditi (come incendi boschivi, tempeste devastanti, pandemie, estinzione esponenziale delle specie, ecc.); i limiti della disponibilità di un’energia a basso costo (soprattutto sotto forma di petrolio) fanno prevedere un collasso economico nel giro di pochi decenni (da qui d’altronde l’accelerazione delle «energie rinnovabili», benché alquanto insufficienti a fornire il combustibile necessario al mantenimento della crescita della megamacchina); la «perdita dell’anima», di ogni bussola, la crescente difficoltà di gestire le popolazioni (sempre più paesi del mondo si trovano in una sorta di stato permanente di guerra civile), la nascita di fondamentalismi di ogni tipo, le esplosioni di rabbia e disperazione che non corrispondono più ai contesti «tradizionali» della protesta —  tutto ciò implica a diversi livelli delle soglie da superare incerte e potenzialmente pericolose per gli Stati, che si drogano a furia di sorveglianza di massa, di crescente militarizzazione, di strategie e forze anti-insurrezionali, di prigioni «intelligenti»…
Il terribile auspicio del fondatore del WEF che la «quarta rivoluzione industriale» finisca per «cambiarci» ci fa capire inoltre dove si situano i nuovi terreni dell’accumulazione e della depredazione capitalista. Perché non intende più soltanto indurre un consumismo frenetico, distruggere i resti di una certa autonomia o guidare i comportamenti mediante un’incessante propaganda. Le nuove tecnologie e industrie mireranno sempre più a «separarci dai nostri corpi e dalla nostra comprensione di noi stessi come facenti parte di una biosfera e di un bioritmo, in modo che ciò sia percepito sempre di più come qualcosa che si può acquistare, aggiornare e “riparare”, una serie di parti meccaniche sempre adattabili e intercambiabili» (The Fourth and Fifth Industrial Revolutions, nella pubblicazione 325, n. 12, estate 2020). In sostanza, la creazione di un essere dipendente dalla chirurgia, dai farmaci, dalla tecno-psichiatria e dai dispositivi, permanentemente connesso a grandi banche-dati, pur sottoposto ad influenze, suggestioni e imposizioni calcolate da algoritmi.

Dieci anni dopo le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, un erudito dava libero sfogo ai suoi peggiori timori riguardo le trasformazioni in corso dell’essere umano: «Creando la macchina pensante, l’uomo ha compiuto l’ultimo passo verso la sottomissione alla meccanizzazione, e la sua abdicazione finale davanti a questo prodotto del suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto di culto: un dio cibernetico. È vero che la nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca del Dio dell’uomo assiale: la certezza che questo demiurgo meccanico, i cui calcoli non potranno essere verificati umanamente, darà solo risposte corrette…». Cos’è questo «dio cibernetico», se non l’avvento dell’Intelligenza Artificiale? La corsa è decisamente iniziata, il moloch digitale si nutre giorno dopo giorno dei dati di cui ha bisogno per crescere in potenza, le macchine imparano giorno dopo giorno e aumentano la loro «capacità di autonomia» (vale a dire la possibilità di eseguire compiti complessi senza intervento umano), la potenza di calcolo necessaria aumenta sempre più spettacolarmente, i tentacoli di fibre ottiche e onde che collegano esseri umani, macchine, piante, terreni e oggetti si espandono rapidamente. Inoltre, gli scienziati all’opera nella creazione di questo demiurgo possono basarsi solidamente, in assenza di legittimità, su oltre un secolo di razionalità scientifica come unica fonte di verità (e, in ultima analisi, di valore), spazzando via tutto ciò che le si oppone come se fosse oscurantismo, fondamentalismo, pessimismo paralizzante.
L’ora dell’apparizione di questo «dio cibernetico» è forse molto più vicina di quanto si pensi, o forse è già qui, e cerca, passo dopo passo, di stabilirsi nel mondo piuttosto che di annunciare il suo definitivo avvento a suon di trombe. Quel che è certo è che la velocità con cui convergono i diversi settori della ricerca, della produzione e della gestione della popolazione è in forte aumento. Le fantasie tecnologiche di ieri stanno rapidamente diventando realtà. Chi avrebbe mai creduto che il sistema produttivo potesse davvero permettersi di far passare in un battibaleno un gran numero di impieghi al telelavoro senza mettere in pericolo i processi produttivi?

È difficile comprendere tutti gli aspetti che determineranno questa nuova era. Anche i visionari moderni vanno alla cieca. Ma certi processi stanno emergendo in maniera sempre più chiara nella nebulosa che darà vita a un nuovo mondo. L’installazione della rete 5G è sicuramente uno di questi, e c’è una battaglia che va intrapresa subito. Il 5G costituisce uno dei pilastri della trasformazione dell’economia e offrirà allo Stato uno strumento particolarmente potente di controllo della popolazione. È forse la «prima» battaglia di rilievo alla vigilia della «quarta rivoluzione industriale», una battaglia che vale la pena di combattere con tutta la creatività e l’audacia che abbiamo dentro di noi.
Un primo passo, insomma, per entrare in pieno nella danza e ritrovarsi in mezzo alle ostilità, faccia a faccia con un nemico che non smetterà di anestetizzare le coscienze ed il pensiero a furia di promesse terribilmente favolose.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 35, 15 novembre 2020]
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    En 221 a.c., el señor de la guerra Ying Zheng concluye la unificación de China y funda la dinastía Qin, de la que se proclama emperador. Después de enviar sus tropas a repeler las tribus demasiado salvajes del norte, ordenó la construcción de una serie de fortificaciones militares mas allá… Read more: Herencias mortíferas
  • Storm Warnings #55-56 (August 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 55-56 (August 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 55-56 (August 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #55-56 (August 2022)
  • El corte es posible
    Si el silencio da miedo, puede ser porque la ausencia de ruidos familiares tiene tendencia a devolvernos a nosotrxs mismxs. Avanzando en la oscuridad silenciosa, es común hablarse a unx mismx, chiflar un estribillo, pensar en voz alta para no encontrarse presa de la ansiedad. Esto no es tan fácil,… Read more: El corte es posible
  • Storm Warnings #54 (June 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 54 (June 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 54 (June 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #54 (June 2022)
  • Hijos de Eichmann?
    Hemos de abandonar definitivamente la esperanza ingenuamente optimista del siglo XIX de que las «luces» de los seres humanos se desarrollarían a la par que la técnica. Quien aún hoy se complace en tal esperanza no es sólo un supersticioso, no es sólo una reliquia de antaño. […] Cuanto más… Read more: Hijos de Eichmann?
  • Economía de guerra
    En Bihar, uno de los estados más pobres y poblados de la India, la gota que colmó el vaso fue el miércoles 15 de junio, antes de extenderse a otras regiones, cuando miles de manifestantes comenzaron a atacar los intereses del Estado en una docena de ciudades. En Nawada, se… Read more: Economía de guerra
  • Figli di Eichmann?
    «L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è… Read more: Figli di Eichmann?
  • Storm Warnings #53 (May 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 53 (May 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 53 (May 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #53 (May 2022)
  • Storm Warnings #52 (April 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 52 (April 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 52 (April 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #52 (April 2022)
  • Todas e todos implicados
    Na primeira luz do amanhecer, um caminhão de 40 toneladas começa a se mover sob uma ligeira chuva. Mas não é um dos milhares de caminhões que transportam mercadorias por estrada, e sua missão é muito menos trivial. Com seus faróis acesos, o caminhão passa pelos subúrbios da capital bávara,… Read more: Todas e todos implicados
  • Todxs los implicadxs
    Con las primeras luces del alba, un camión de 40 toneladas se pone en marcha bajo una ligera lluvia. Sin embargo, no es uno de los miles de camiones que transportan mercancías por carretera, y su misión es mucho menos trivial. Con los faros encendidos, el camión atraviesa los suburbios… Read more: Todxs los implicadxs

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