In ordine sparso
«Suggeriamo perciò, in Italia e fuori, a tutti coloro che vogliono molestare, fino a fiaccarlo, il nemico, la guerriglia autonoma e per ordine sparso; di piccole entità più difficilmente raggiungibili e identificabili»
“Non molliamo”, gennaio 1927
Forse è giunto il momento di provare a tornare sulle ipotesi organizzative, sul rifiuto o l’assenza delle stesse, nella piccola galassia di individui, di piccoli gruppi, di vari progetti differenti, di costellazioni conflittuali, che si riconoscono nella lotta per l’anarchia, una lotta certo dai metodi più variegati, ma che si svolge qui e ora. Una lotta che pone al centro il problema della distruzione. Distruzione di quanto ostacola la libertà e l’anarchia, anziché la sua gestione. Distruzione di ciò che opprime, sfrutta e devasta, piuttosto che un’educazione popolare di coloro che aderiscono, più o meno coscientemente, a ciò che opprime, sfrutta e devasta. Distruzione di tutto ciò che media, di tutto ciò che sopprime l’autonomia a favore della dipendenza, più che la creazione di piccoli isolotti alternativi negli interstizi del dominio. Le discussioni che ci allontanano da questa distruzione e dal nostro modesto contributo ad essa; le discussioni che non si interrogano su come incoraggiare la distruzione, su come contribuire a creare condizioni materiali e soggettive che favoriscano la distruzione, ci conducono solo al ristagno della paralisi.
Ciò detto, intendiamoci bene. La distruzione non è solo questione di fuoco, di sabotaggio, d’insurrezione o di armi. Se da un lato la distruzione comprende la soppressione materiale delle strutture e delle persone autoritarie, dall’altro implica una critica corrosiva dei rapporti sociali che sostengono, favoriscono e riproducono tali strutture, fino a toccare le nostre stesse responsabilità, i nostri compromessi, le nostre rinunce, che sono altrettanti mattoni dell’edificio sociale da demolire. La distruzione non è tanto un affare di guerra, dove sono tracciate le linee di demarcazioni tra amici e nemici; ciò di cui stiamo parlando va ben oltre un tale schema probabilmente troppo facile per spiegare l’eternità dell’oppressione e dello sfruttamento nel calvario della storia umana. Inoltre la distruzione, come fatto materiale violento, non è riducibile al semplice atto della distruzione (che essa si esprima contro le cose o contro gli uomini, da questo punto di vista non fa alcuna differenza: l’atto di distruggere comporta comunque l’uso della violenza — offensiva o difensiva, giustificata o meno, in fondo si tratta di questioni che ognuno e ognuna deve risolvere da sé, senza le stampelle che qualche ideologia, sistema filosofico o convinzione religiosa possa offrire). Occorrono non solo braccia, ma anche testa; non solo una preparazione mentale, ma anche cuore; non solo uno sforzo e una convinzione individuali, ma forse anche il sostegno di chi abbiamo vicino.
Ciò che rimette sul tavolo la questione di un’ipotesi organizzativa è per l’appunto il soffio che vogliamo dare alla distruzione. È il primo passo da fare. Per parlare di organizzazione, bisogna prima mettersi d’accordo in quale prospettiva, con quale scopo, per quale progettualità, intendiamo dotarci di strumenti organizzativi. A ben pensarci, ogni individuo è già di per sé un’organizzazione. Lo stesso dicasi per ogni nucleo di affinità. Ma ciò di cui vorremmo parlare è una dimensione supplementare, più ampia, che si interroga sui possibili legami organizzativi tra gli individui, i gruppi di affinità, le variegate e differenti costellazioni.
Ma in quale prospettiva? Sicuramente non quella di «costruire una forza» per pesare nel dibattito pubblico, né di avere una rappresentanza anarchica nelle lotte e nei movimenti sociali. L’ipotesi organizzativa di cui vorremmo discutere in reciprocità, non è né un’ambasciata che rappresenti gli interessi del piccolo mondo anarchico, né un’agenzia interinale in cerca di nuove reclute, né un centro di divertimento aperto a coloro che non sanno cosa fare della propria vita e dei propri dilemmi, né un club di discussioni filosofiche per promuovere la chiacchiera infinita, né un’assemblea in cui tutto ruota attorno a una celebrazione collettiva che eclissa l’affinità e l’autonomia individuale, né una chiesa dove si va in cerca di conforto recitando i testi sacri, e neppure una impresa di demolizione in cui discutere solo di materiali, di tecniche, di specializzazione a oltranza e di esecuzioni ripetitive.
Ovviamente è sempre più facile dire ciò che non si vuole che parlare di ciò che si vuole. Tanto più che, in un dibattito come quello che proponiamo, la scelta delle parole può rivelarsi rapidamente un ostacolo alla comprensione reciproca, un certo termine rischia di colpire — più o meno inutilmente — la sensibilità di qualcuno, gli artifici della grammatica possono indurre a fantasticare di calcoli sulla cometa e castelli tra le nuvole. Ma arretrare davanti a un rischio del genere, anziché accettare i limiti di qualsiasi espressione linguistica (in qualche modo, ci si avvicinerà comunque a dire ciò che intendiamo e, paradossalmente, talvolta non dire nulla rende meglio ciò che si intende dire), significherebbe abbandonare un terreno magari rischioso, ma non sterile.
Ma perché parlare oggi di una ipotesi organizzativa? Riassumiamo velocemente, a rischio di ripetere ciò che altri hanno già detto altrove, e probabilmente meglio, alcuni tratti del tempo in cui agiamo. Innanzitutto, ci sembra che più il dominio avanza, più i sistemi si estendono e si espandono, più si (ri)affacciano dei fattori di instabilità. Una instabilità che si esprime ad ogni livello: dalla vita individuale passando per i traballanti equilibri geopolitici e i nuovi settori economici disgreganti fino al clima del pianeta che dobbiamo abitare. Il treno del progredire dell’addomesticamento del vivente avanza a tutta velocità, sempre più veloce, ma ogni sasso sulle rotaie, ogni granello di sabbia, provoca riverberi sempre più forti alla macchina lanciata a tutta velocità. Ormai da diversi decenni, e in modo sempre più determinante, i grandi pianificatori, dall’economista che prevede modelli a dieci anni fino allo scienziato che pontifica sullo stato del mondo futuro, sono costretti ad ammettere di avere notevoli problemi a fare previsioni che possano fungere da modello. Che troppi fattori, troppi cambiamenti rapidi, troppi imprevisti perfino, inducono ad una modellizzazione a medio e lungo termine. L’esempio facile e attuale è ovviamente la pandemia da Covid19, che ha portato gli Stati a confinare miliardi di persone, a frenare gli apparati produttivi, a sostituire in tutta fretta le classiche valvole di sfogo della pace sociale (dalle attività sportive alle preghiere collettive, dalla frequentazione dei bar alle attività culturali) con protesi e surrogati telematici.
Le instabilità provocano ovviamente cambiamenti significativi nei rapporti sociali. Confusione e paranoia si avvicendano con la nostalgia di uno Stato sociale o di un mondo uniforme su basi rigide o religiose; perdita di significato e sensazione di obsolescenza della vita stessa dialogano — per contrasto — con spettri della fine del mondo, la guerra civile, la catastrofe finale. Le instabilità possono trasformare un piccolo pretesto, un piccolo dettaglio, in una formidabile esplosione — in tutti i sensi, intendiamoci bene, non solo nel senso di esplosioni di libertà.
Tutto ciò cos’ha a che fare con gli anarchici? Da un lato, niente. Indipendentemente dalle condizioni e dalle epoche, gli anarchici restano i nemici di ogni autorità, indipendentemente da quale forma assuma. Si agiteranno, e forse agiranno, in tempi di democrazia come in tempi di dittatura, in tempi di emergenza climatica come in tempi di guerra civile, in tempi di pacificazione sociale come in tempi di rivoluzione. Dall’altro lato, tutto. Poiché le condizioni in cui cerchiamo di agire, e in cui, fatalmente, viviamo, influenzano fortemente ciò che facciamo, ciò che più attira la nostra attenzione, ciò che fa cristallizzare le nostre ostilità e… come possiamo concepire di organizzarci. Sarebbe stupido ritenere che organizzarsi in un regime democratico sia esattamente lo stesso che organizzarsi sotto una dittatura militare. Certo, ci sono continuità — in particolare, la continuità dell’autorità — che occorre comprendere e sottolineare, ma esistono anche differenze. Ecco perché i giochi non sono ancora fatti e i modi di organizzarsi dipendono dalle nostre progettualità, che a loro volta non si inscrivono nell’etere assoluto, ma nelle condizioni reali dello scontro.
Tempi di instabilità, sicuro, ma anche tempi di uno sviluppo terribilmente rapido nel dominio. La raffinatezza della sorveglianza che vediamo progredire giorno dopo giorno è solo la punta dell’iceberg, perché questa sorveglianza è possibile solo grazie alla riproduzione, nel suo insieme, del mondo cui partecipiamo. La sorveglianza tecnologica non sarebbe possibile senza l’onnipresenza di apparecchi tecnologici, anche nella tasca di ciascun cittadino. Di fronte a questa avanzata, che fa saltare una barriera dietro l’altra e assomiglia più ad una valanga mentre acquisisce forza che all’acqua del mare dalla lenta risalita, alcune ipotesi organizzative, così come alcuni modi di agire, rischiano davvero di diventare non solo obsoleti, ma del tutto inadeguati alle reali condizioni dello scontro. Se noi rifiutiamo, per ragioni non solo operative, ma anche di cuore, di accompagnare il dominio nel suo slancio tecnologico bloccando sempre più le nostre attività nel mondo virtuale, con ciò non vogliamo insistere davanti ad ostacoli invalicabili, ma trovare percorsi più sconosciuti, meno individuabili, più furtivi ed agili. Sapere dove si trova il nemico è una cosa, non avvicinarlo attraverso percorsi che ora può sorvegliare 24 ore su 24 giorno è un’altra cosa.
Se i nostri barometri indicano importanti instabilità meteorologiche, le nostre mappe di ieri ci servono ancora per orientarci. Non per copiarle, né per seguirle ciecamente, ma per farvi affidamento al fine di spianarci la strada. Così, le parole che abbiamo ritrovato in una pubblicazione italiana del 1927 riecheggiano in noi. «In ordine sparso», cioè colpendo il nemico nei suoi punti nevralgici e tentacolari, senza lasciarsi obnubilare dalle cittadelle di potere che lui agita davanti ai nostri occhi. Sparso, è agire senza formare colonne compatte, senza costruire accampamenti permanenti e indifendibili; è agire rompendo ogni simmetria nello scontro. Il suggerimento non è affatto nuovo, ma più la megamacchina si espande, più acquisisce senso. «Guerriglia autonoma» — evocavano nel 1927 — da intendere come una lotta offensiva di lunga durata, una lotta che non si vuole ridurre ad una bravata, ma che cerca di prolungare le ostilità. Una guerriglia, in effetti, in un territorio ormai interamente occupato dal nemico, dal mostro tecnologico. Ma non una guerriglia nel nome di un partito, o di una classe, no, una guerriglia «autonoma», cioè, che trovi le proprie ragioni di agire in se stessa, che non cerca alcuna rappresentazione (perché, cosa sarebbe la rappresentazione, se non il riconoscimento da parte dell’altro allo scopo di domarlo o inquadrarlo meglio?). Senza l’intenzione di riprendere oggi il termine di «guerriglia» per definire forzatamente l’insieme delle attività che rendono possibile l’attacco e l’offensiva, poiché ciò potrebbe portare a ridurre gli individui con le loro diversità a «guerriglieri», creando una nuova gabbia che distilla l’uso di un metodo da una identità ben riduttiva. Infine, per logica si arriva all’informalità, vale a dire al rifiuto di strutture fisse, di una rappresentanza pubblica, di sigle perenni, ecc.
Un progetto organizzativo
«I gruppi d’attacco sono autonomi e indipendenti, una garanzia affinché la creatività sovversiva non possa essere ridotta a schema unilaterale e fisso, oltre ad essere la miglior difesa dai tentacoli della repressione e la migliore situazione immaginabile per restare agili e imprevedibili. Soltanto a partire da una tale autonomia, è immaginabile ed auspicabile il coordinamento informale e agente; un coordinamento che coincida con delle prospettive e dei progetti condivisi. I piccoli gruppi di fuoco non sono separati dall’insieme delle attività rivoluzionarie, ne fanno parte. Nuotano come pesci nell’oceano della conflittualità sociale. L’arcipelago dei gruppi di lotta autonomi lancia una guerra diffusa che sfugga ad ogni controllo, rappresentazione e accerchiamento da parte del dominio»
“Salto”, agosto 2014
Può darsi che questo sentimento sia condiviso da altri, o forse no. Abbiamo l’impressione che da qualche tempo, nel contesto francese da dove parliamo, ci sia un riemergere, o piuttosto una comparsa, di pratiche d’attacco diffuse e continue, sparse ed agili. È chiaro che non tutti i sabotaggi e gli attacchi saranno stati realizzati in una prospettiva di anarchia, né da anarchici. Gli anarchici non sono gli unici ribelli. Ma che un certo agire anarchico, multiforme ma tenace, abbia cominciato a colpire in modo più specifico le infrastrutture del potere, ci sembra sia più una constatazione che un mero auspicio. E questo agire si sta sviluppando in modo informale, senza centralità, sotterraneamente, sul filo di desideri e scelte individuali e di incontri di affinità. Ma tutto questo può anche scontrarsi con una mancanza di costanza, di approfondimento, di progettualità più ampie, di progetti più incisivi. Allora la domanda da porsi, a nostro avviso, non è tanto «come diventare più forti», e neppure «come diventare più efficaci», ma sapere se vogliamo, e possiamo, allargare il nostro sguardo, guardare più lontano e magari anticipare le condizioni di uno scontro forse ancor meno favorevoli. Diciamo «ancor meno», nel senso che dopo gli anni 70 si ha più la tendenza a dire che le tensioni sovversive si sono ritrovate piuttosto a giocare in difesa (spesso con coraggio e tenacia, questo è certo), con pochi echi negli strati sociali più ampi e con una generale mancanza di progettualità a medio termine. C’è da dire che, negli ultimi anni, la stagnazione è stata interrotta a più riprese. Le ipotesi relative all’insurrezione e alla rivolta più o meno delineatesi negli ultimi anni sono state talvolta persino confermate, come all’emergere di alcuni movimenti eterogenei, che si raccoglievano attorno a un certo rifiuto, superando le divisioni delle categorie sociali, con una carica piuttosto esplosiva (vedi i Gilet gialli). Ma anche l’ipotesi che non escludeva che un «imprevisto» potesse sparigliare le carte e far saltare le dighe del pacificazione sociale, come è accaduto in Cile, dove le proteste contro l’aumento delle tariffe del trasporto urbano (una lotta tutto sommato abbastanza «banale») sono sfociate in una vasta rivolta, grazie anche alle mani calorose che hanno cambiato la situazione dando alle fiamme le stazioni della metropolitana — facendo piombare la capitale cilena in un caos che ha dato vita ad un’esplosione di rabbia forse senza precedenti in quel paese.
Ed è qui che entriamo nel campo dell’ipotesi organizzativa. Non ci si organizza per piacere, ci si organizza con un determinato obiettivo, al fine di realizzare una certa cosa. In tal senso, un’ipotesi organizzativa attuale non dovrebbe corrispondere a una volontà di crescita infinita, ma ad una più o meno precisa progettualità di attacco. Per questo pensiamo che ogni sperimentazione, sempre sul terreno dell’informalità (sotterraneamente), con dei coordinamenti tra individui e gruppi autonomi, possa contribuire ad approfondire i sentieri che decideremo di percorrere in un prossimo futuro. Un coordinamento non è un modello prefissato che funziona sempre secondo le stesse «regole». Si adatta e prende forma in base al motivo per cui si decide di dargli vita. Ciò detto, un coordinamento sarebbe possibile solo in presenza di determinate condizioni materiali. Si tratti di precise conoscenze, di discussioni di fondo, di affinità, nulla è da trascurare. E se le condizioni materiali dovessero mutare improvvisamente (e durevolmente)? Da qui la necessità di riflettere e discutere di un’ipotesi organizzativa.
Cosa fare se la volontà, lo sforzo, l’entusiasmo incontrano sempre più difficoltà nel superamento degli ostacoli che ci separano dal nemico che vogliamo colpire? Come fare a sviluppare una progettualità che guardi oltre la pubblicazione di un giornale, la realizzazione di un’azione, o l’apertura di uno spazio? Un’ipotesi è appunto l’organizzazione informale, così da mettere insieme parti che, prese separatamente, non hanno lo stesso peso o le stesse possibilità. Sarebbe una sorta di amplificatore dei nostri raggi d’azione — qualsiasi essi siano. In una simile ipotesi organizzativa, pur esistendo una divisione di compiti (non tutti possono fare tutto allo stesso tempo), non deve comunque esserci alcuna gerarchia. Ciascuno contribuisce alla realizzazione del progetto, che si articola in tutti i settori (logistica, azioni, approfondimento, diffusione delle idee, cure, autodifesa contro la repressione, ecc.). Potremmo argomentare che le cose siano già così. Siamo d’accordo, ma c’è pochissimo collegamento organizzativo — sempre informale — tra ciascuno di essi. Questa potrebbe essere la prima cosa su cui riflettere oggi, pur mantenendo rigorosamente la necessaria compartimentazione. L’affinità su cui si basa un tale progetto organizzativo non è l’affinità che caratterizza i rapporti individuali. È più legata alla condivisione del progetto che alla reciproca conoscenza di ciascun individuo. Questo è anche il motivo per cui i percorsi possono separarsi quando il progetto è realizzato, o addirittura non più condiviso da tale compagno o tale gruppo.
Pensare, quindi, un tessuto organizzativo che rafforzi l’autonomia di ciascuna delle sue parti, e che si basi, fondamentalmente, sui gruppi di affinità. Poi pensare a come questo tessuto, agile per natura, possa fornire un sostegno in tempi meno favorevoli, più difficili. Se un tale tessuto è destinato a favorire «le condizioni materiali e soggettive della distruzione», deve effettivamente esserlo nel senso più ampio. Se c’è bisogno di imparare, di esercitare lo sguardo e il braccio, di saper camuffare i propri passi — senza questo, qualsiasi progetto di attacco cadrebbe nell’improvvisazione più assoluta — e che tutto ciò dipende, in primo e in ultimo luogo, dalle scelte, dai desideri e dagli sforzi individuali, c’è anche un’altra dimensione da esplorare e da costruire. Raccogliere informazioni, mantenere i contatti, avere agganci locali, comunicare discussioni e dubbi fra le diverse costellazioni, organizzare una logistica, condividere conoscenze, provvedere a rifugi e a punti di riposo… fa tutto parte di ciò che ci sarebbe «da guadagnare» costruendo, o approfondendo, i tessuti organizzativi esistenti e potenziali. La sfida è avanzare in questa direzione senza creare centri, senza costruire punti fissi, senza instaurare una divisione prestabilita di compiti (che altrimenti diventerebbero «ruoli», riducendo la ricchezza degli individui e rendendo più complicata la reciproca fecondazione così importante se si parte dalla prospettiva di stimolare, rafforzare ed arricchire l’autonomia di ciascuna e ciascuno).
Infine, un tessuto organizzativo informale è un tessuto vivo, non un «involucro ermeticamente chiuso». Si estende attraverso e sulla base delle affinità, in tutti i sensi. Se ha le caratteristiche implicite di qualsiasi percorso di lotta (discrezione, compartimentazione, autonomia), non sigilla le porte, lasciando che tutto si basi sulla miriade di affinità individuali. Qualcuno potrebbe argomentare che questo non sia «efficace», che i risultati non si vedranno, che un tale modo di concepire l’auto-organizzazione non offra garanzie — ma a nostro avviso, anche se un tale metodo organizzativo è più lento, va anche più a fondo, oltre ad essere il miglior baluardo contro ogni tendenza verso la gerarchia.
Sentieri da esplorare
«Sparare prima degli altri, e più velocemente,
è una virtù da Far West, buona per un giorno,
dopo bisogna sapere usare la testa,
ed usare la testa significa avere un progetto.
E l’anarchico non può essere soltanto un ribelle,
ma deve essere un ribelle munito di un progetto.
Deve cioè unire il cuore e il coraggio
con la conoscenza e l’avvedutezza dell’azione»
Alfredo M. Bonanno
Nel cuore dei nemici dell’ordine esistente è radicata una forte credenza. Essa ha assunto molteplici sembianze nel corso degli ultimi secoli, caratterizzati dal frenetico sviluppo del capitalismo industriale, ma la sua sostanza è sempre la stessa. La crescita del capitalismo, l’estensione, il radicamento e l’approfondimento del dominio avrebbe un limite, scontrandosi con un ostacolo finale, soccombendo alle sue contraddizioni. Per alcuni, la concentrazione del capitale finirà col soffocare la concorrenza e farà quindi collassare il capitalismo sotto le proprie contraddizioni. Per altri, sarà il prosciugamento delle risorse energetiche come la benzina a segnare la fine del tecnomondo. Altri ancora sostengono che gli equilibri degli ecosistemi siano stati così turbati, che il crollo della vita sulla terra così come pensiamo di conoscerla sia inevitabile. Queste credenze, che contengono una speranza — anche cupa — che tutto questo merdaio conoscerà inevitabilmente una fine, fanno venire in mente una credenza assai diffusa dopo la Seconda guerra mondiale: mai più genocidi. Cinquant’anni dopo, sullo stesso suolo europeo, le epurazioni etniche hanno ritmato una guerra civile nell’ex-Jugoslavia. Altrove nel mondo, neanche mezzo secolo dopo è emerso il volto oscuro dell’umanità. Mai più genocidi, mentre gli Stati si dotavano di un armamentario nucleare capace di perpetrare mille volte il genocidio attuato dai nazisti. La storia non segue una traiettoria rettilinea, non ci sono superamenti definitivi. La possibilità del genocidio marcerà sempre al fianco dell’essere umano. Troppi compagni e compagne percepiscono la stessa rivoluzione — anche quando è intesa come un lungo processo di trasformazione — come un superamento definitivo, l’avvento del regno della libertà, come se, in nuce e in potenza, non fosse tutto costantemente possibile e presente.
Detto questo, anche se le instabilità che il dominio sta attraversando non sono affatto «mortali» per il sistema, ciò non significa che sarebbe inutile riflettervi e anticipare, per quanto è possibile, i possibili scenari, molto diversi, che si profilano all’orizzonte del tecnomondo lanciato a tutta velocità. Tutti questi scenari hanno caratteristiche di continuità e di rottura, e nessuno esclude definitivamente l’altro. Ad esempio, il deterioramento climatico a cascata può dare luogo sia ad una felice rottura della società concentrazionaria, che ad un’accelerazione dell’artificializzazione del vivente e perfino a guerre civili. Una rivolta confusa ma massiccia può aggiornare una dittatura militare, ma anche far vacillare le basi del vivere-insieme (inclusa l’ideologia del cittadino) per dare luogo a conflitti etnici, religiosi, clanici,… o ad ampi esperimenti di autogestione e di mutuo soccorso.
Se in superficie, è soprattutto la calma piatta che sembra regnare in un’Europa pacifica in molle decadenza davanti alle altre potenze mondiali, non possiamo permetterci di escludere tali scenari dal nostro immaginario. Tuttavia, in alcune parti del mondo, alcune aree si stanno desertificando a causa dell’aumento delle acque. Altrove, milioni di persone sono costrette ad abbandonare i luoghi in cui sono nate a causa di contaminazioni diventate mortali. Alcuni moti sono scaturiti — anche se non è il loro solo «risultato», e per fortuna — da atroci guerre civili. E anche sul continente europeo, mentre stiamo scrivendo — è in corso in Ucraina una guerra di trincea. Nello stesso tempo, in Irlanda del Nord, le tensioni montano ancora e fanno aleggiare lo spettro di una ripresa delle ostilità tra le diverse parti coinvolte. In Germania, non passa settimana senza sentire che è stato smantellato l’ennesimo gruppo di neonazisti che si prepara, si arma, si addestra, si coordina e pianifica, o che interi paesi si apprestano a dare la caccia ai rifugiati. In Grecia, in piena crisi economica, si è palesato il vecchio spettro della guerra civile che contrappone «la destra» e «la sinistra», prima d’essere messo in condizione di non nuocere dalle abili strategie distensive condotte da un governo detto di estrema sinistra. Tutto ciò cova costantemente sotto la placida superficie dei paesi europei.
Lo scatenamento della libertà
«Rivoluzionari anarchici, diciamolo a voce alta: non abbiamo speranze che nel diluvio umano; non abbiamo avvenire che nel caos… il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Cosa temete dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dallo scontro di tutte le dottrine?… Esiste, in verità, disordine più spaventoso di quello che vi riduce, voi e le vostre famiglie, a un pauperismo senza rimedio, a una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa esservi più funesta della morale, della scienza, delle leggi e delle gerarchie di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui avanzate senza armi? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?»
Ernest Cœurderoy
Va detto che alcune condizioni, alcuni pretesti o anche alcune azioni potrebbero far precipitare le cose. Ma precipitare verso cosa? Verso la rivoluzione sociale e la trasformazione libertaria dei rapporti sociali? Se nulla è impossibile, non per questo è più probabile. Un imprevisto cambiamento nell’ordine europeo provocherebbe anzitutto disordine, e il disordine — ciò non dispiaccia ai cuori troppo ottimisti — non è di per sé sinonimo di trasformazione libertaria. Si può affermare che la libertà è un fattore di disordine. Che essa distrugge ciò che la ostacola, scuotendo così l’ordine stabilito. «Non ci sarà più rivoluzione finché non scenderanno i cosacchi», diceva Ernest Cœurderoy, amareggiato per la sconfitta delle insurrezioni proletarie a Parigi a metà del XIX secolo. Aveva ragione: la libertà porta il disordine, ed è nel disordine che tutto può essere sperimentato. Dalle cose più turpi alle cose più belle. Tutto qui.
Se siamo disposti ad accettare l’ignoto, se siamo pronti a scatenare la libertà, possiamo finalmente allontanarci dal gauchisme che malgrado tutto abbiamo ereditato. Possiamo allora dire addio alle entità fantasmatiche che dovrebbero perseguire gli stessi scopi di emancipazione (la classe, gli oppressi, i poveri, ecc.) per rivolgerci completamente agli individui, con le loro contraddizioni, le loro scelte, le loro responsabilità. Possiamo dire addio agli schemi che ci informano che occorre elevare le coscienze prima di scatenare le ostilità. Possiamo dire addio ai determinismi che ci hanno illuso, circa il fatto che il fratello proletario non sparerebbe mai sul suo simile, ma prima contro il padrone (nonostante tutte le flagranti negazioni al riguardo che la storia ci ha sbattuto in faccia). Possiamo dire addio al ruolo dei messia, che porterebbero la luce in un mondo di tenebre, che alcune teorie rivoluzionarie vorrebbero farci giocare — fino al punto di farci trucidare da una popolazione reazionaria come è successo a Pisacane e ai suoi compagni nel 1857.
Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere — come è successo a molte insurrezioni imbrigliate, oltre alla reazione, dagli stessi rivoluzionari, magari per umanesimo, allo scopo di frenare ogni «eccesso» e di mantenere la rotta sul paradiso promesso dell’autogestione.
Oggi, per coloro che non temono il disordine più della continuità della marcia radiosa e mortifera del progresso tecnologico, non si tratta più tanto di pesare nella bilancia dei rapporti sociali e degli equilibri politici, si tratta di far deragliare il treno. Di far saltare le dighe che trattengono le acque stagnanti in pieno marciume. E a nostro avviso, un modo adatto per tentare di contribuirvi (ben sapendo che non siamo i soli a giocare e che contano pure altri fattori), è rivolgere lo sguardo verso ciò che sostiene e mantiene il sistema — le sue arterie: le infrastrutture di energia, telecomunicazioni e trasporti, su cui si basa ormai buona parte della vita economica, politica e sociale. Ma senza garanzie, senza prima assicurarsi che ci sia una massa critica sufficiente per affrontare una rottura nelle telecomunicazioni o nell’energia, perché sarebbe come riciclare l’a-poco-a-poco d’altri tempi (presa di coscienza – scaramucce – sommosse – insurrezione – rivoluzione, con la freccia del determinismo storico puntata da sinistra a destra), un’ipotesi che si può ora scartare definitivamente dal cuore delle metropoli europee. Ma rifiutando anche di seguire una logica che ci trasformerebbe in esperti tecnici capaci di far piombare il mondo nell’oscurità, per poi stare ad osservare, a distanza di sicurezza, quello che succede; scartando l’ipotesi del «colpo fatale» che provochi un blackout generalizzato (un po’ troppo simile per i nostri gusti all’illusione della «Grande Sera» da XX secolo o al «colpire il cuore dello Stato» degli anni 70).
Se è giusto affermare che agiamo prima di tutto — e di fatto, anche dopo — per noi stessi, per praticare la libertà invece di sognarla, tuttavia non è tutto qui. La libertà è totale, non sopporta ostacoli, vuole dispiegare le sue ali: ecco perché può andare alla ricerca, o anche scontrarsi, con l’insurrezione, lo scatenamento di massa di libertà. Un’ipotesi organizzativa attuale ha interesse a camminare con le proprie gambe. Da un lato, favorendo le condizioni per l’attacco — che comprenda davvero tutto, perché le sue condizioni coincidono con la vita stessa — e dall’altra, anticipando, preparandosi, organizzandosi per essere in grado di prolungare le ostilità (contro ogni potere, vecchio o emergente), anche in un momento di maggiore instabilità, di disordine generalizzato (che può assumere sia la fisionomia di un declino dello Stato e di conseguenza una autorganizzazione spontanea della sopravvivenza; sia quello di un conflitto generalizzato tra mille frazioni diverse, sconvolgendo le carte geografiche e politiche degli Stati in decomposizione o in ricostruzione).
Nel disordine, le regole tacitamente in vigore stanno sempre meno in piedi, soprattutto quando la situazione si prolunga. Chiedersi cosa poter fare in una simile situazione non è peregrino, una domanda che è stata posta anche molto recentemente, per esempio ai rivoluzionari in Siria che vedevano la rivolta sprofondare verso la guerra civile. Tuttavia, se un tale scenario fa paura, siamo certi che questi timori siano davvero i nostri, e non siano instillati dallo Stato? Abbiamo forse paura della libertà, ovvero, dell’assenza di regole fisse? Agire al di fuori della legge quando è la legge statale a regnare è una cosa, ritrovarsi in una situazione di assenza di qualsiasi legge (tranne quella della libertà intesa come libertà di agire — e della forza bruta) è un’altra. Ma il nostro vero posto, come anarchici, come nemici di qualsiasi ordine stabilito, non è proprio in una situazione del genere? Non dovremmo sentirci più a nostro agio da «Banditen», come le autorità naziste definivano i resistenti italiani che attaccavano?
Senza ottimismi fuori posto, né timori inculcati dal traboccare di pace sociale, possiamo già, nelle battaglie di oggi, organizzarci per le possibili battaglie di domani. Perché, se proseguiamo sulla via dell’attacco alle arterie del dominio, e senza alcuna garanzia, possiamo tuttavia essere sicuri di due cose. Innanzitutto, che lo Stato non lo apprezza affatto ed è consapevole (sempre più) della propria vulnerabilità da questo lato. Prima o poi reagirà di conseguenza, e sarebbe un peccato dover fermarsi per una mancanza di previsione, di preparazione e, sì, di organizzazione (intesa come supporto e sostegno, e non come entità rappresentativa o politica) su un percorso così buono. In secondo luogo, se per una ragione o per l’altra (una coincidenza di fattori, una moltiplicazione di fuochi di rivolta, un caso imprevisto), funzionasse, che le braccia delle macchine-robot si blocchino, che i computer si spengano in certi spazi / tempi, che il controllo capillare del territorio non sia più assicurato; quindi, se funzionasse, sarebbe un peccato limitarsi a sdraiarsi per guardare le stelle, così come sarebbe decisamente sciocco credere che le masse di sfruttati, abituate e intossicate dalla dipendenza da un’autorità e dalle macchine e non desiderose di autonomia, farebbero lo stesso. Quindi, se ciò funzionasse, potremmo già immaginare, progettare e prepararci per essere fra quelli che portano la libertà, nel proprio cuore e nelle proprie pratiche, in seno al disordine. Per affrontare non solo lo Stato, ma anche altre entità di autorità che non tarderanno a formarsi per ripristinare il controllo di una zona, per instaurare l’ordine (anche nelle vesti di un ordine cosiddetto rivoluzionario), per soffiare sulle braci dell’odio religioso, settario e «razziale».
Ecco alcune immense sfide per coloro che oggi si pongono la questione organizzativa, e che si ritrovano orfani dei modelli del passato resi obsoleti dallo sviluppo del dominio e dalle credenze ereditate da lotte eclissatesi sotto l’avanzata delle tecnologie. Ma il nostro tempo buio in cui nessun colpo, neppure un’insurrezione di massa, sembra fondamentalmente riuscire ad turbare la marcia forzata della messa-in-gabbia tecnologica del mondo e della devastazione del pianeta e della vita, è quello in cui viviamo. Se possiamo pur sempre sbattere la porta dietro di noi, possiamo anche vivere a fondo, intensamente, risolutamente: toccare la libertà con le nostre lotte, far vibrare l’amore contro la metallica freddezza del mondo, sentire sulla pelle la vicinanza complice di altri con cui si condividono alcuni percorsi, cantare con tutto il cuore la gioia di una vita di ribellione contro i salmi della rassegnazione e della sub-vita.
La foresta dell’agire
«Ascoltatemi dunque!
Fate che il vostro passo sia cadenzato
e leggero come quello d’un danzatore,
ed entrate con me nella foresta»
Renzo Novatore
A passi leggeri, entriamo a nostra volta nella foresta. La foresta in cui poterci incontrare al riparo da spie tecnologiche, dove poter, al prezzo di un piccolo sforzo, attraversare ancora ampi spazi senza che la nostra immagine sia ripresa da obiettivi e dove poter, cosa niente affatto trascurabile, ascoltare il nostro respiro, bagnare i nostri piedi, sentire i nostri corpi vibrare all’unisono con la nostra mente.
Se la foresta di oggi non è tanto un’entità geografica, ma forse prima di tutto uno spazio mentale creato e ricreato costantemente, alcuni ambienti potrebbero essere più propizi di altri — tutta la questione risiede, alla fin fine, in ciò che vogliamo fare, e con quale prospettiva facciamo quel che facciamo. Anche il richiamo della foresta è quindi un’esortazione a non aver paura di abbandonare i luoghi troppo esposti, a fuggire dal chiuso dei vicoli in cui ci ritroviamo bloccati, a prendere il largo quando le dighe erette fanno ristagnare le acque. A ciascuna e ciascuno le proprie valutazioni (restare nelle metropoli oppure no, esplorare le zone più periferiche della società industriale oppure no), ma osiamo scegliere, per quanto è possibile, il nostro terreno di lotta con tutto ciò che comporta (perché «la vita» e «la lotta» sono tutt’uno), senza rimanere agganciati, più per forza d’inerzia che per scelta, a quanto è diventato impraticabile, desolante, soffocante. Non c’è un al di fuori, ma ci sono terreni più favorevoli di altri per lottare e respirare.
Le nostre foreste sono sogni di piccoli gruppi di sabotatori con bottiglie piene nel proprio zaino, luoghi di scambio dove poter dormire tranquillamente, scrupolosi passeggiatori notturni muniti di seghe e tenaglie, con notti trascorse a guardare le stelle per chiarirsi le idee, fonti di ispirazione cui abbeverare i nostri cuori lacerati da tanto disgusto e tanta oppressione, briganti che depredano carovane mercantili, accampamenti invisibili da dove partire all’assalto. La foresta, è il mondo sotterraneo in cui tocchiamo la libertà nel nostro agire. Per trovarla, non c’è nessuna freccia che indichi il percorso. I suoi alberi e i suoi ruscelli si stagliano davanti ai nostri occhi mentre camminiamo, camminando. Andando in avanti. Verso l’azione.
Ma le nostre foreste sono sotto attacco. Alcune forze ostili le occupano sempre di più per setacciarne ogni metro quadrato. Dal momento che non sono territoriali, che non sono entità da difendere, non ci facciamo intrappolare in una battaglia di difesa. Noi le portiamo con noi, queste foreste, in tutto ciò che facciamo. I nostri scontri saranno sempre furtivi — compagni, il tempo dell’ultima battaglia, in fondo a una radura circondata da scogliere, senza vie di fuga, non è ancora arrivato. Ma per non ritrovarci in una simile situazione — o almeno non troppo presto, sarebbe una disdetta — è necessario camminare, adesso, trovare i rifugi solidali, condividere le carte, scambiare le nostre bussole.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 40, 15/4/21]