Skip to content

  • English
  • Italiano
  • Deutsch
  • Español
  • Ελληνικά
  • Nederlands
  • Português
  • Galego

Category: Italiano

Suonare la ritirata

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Dopo mesi di trattative col potere, i sindacati all’inizio di dicembre hanno infine partorito il loro sciopero contro «la riforma delle pensioni». Benché ci si ostini a chiamarlo «generale» sia fra i dirigenti sindacali sia all’interno della «base» (senza tralasciare «i radicali», naturalmente!), ciò è palesemente fuori luogo. Nel momento in cui scriviamo, riguarda principalmente i trasporti e i funzionari statali, spalleggiati da qualche bastione più «combattivo» del sindacalismo, come è il caso delle raffinerie. Riaffiora come un mantra il solito ritornello: da un lato c’è il famoso «non molliamo» e dall’altro «non cambieremo il principio della riforma». È improbabile che questo scenario, già visto così tante volte, finisca diversamente del gioco delle tre carte: alla fine, dopo aspre trattative e pugni sbattuti sul tavolo, si fa la conta delle forze presenti. Il sipario si chiude: si molla comunque su qualcosa (creazione di un regime unico) da un lato e si modificherà in parte il principio dall’altro (mantenimento di specificità di deroga, come quelle già accettate per gli sbirri il 12 dicembre).
Ma lungi da noi rimproverare ai sindacati di fare la loro parte del lavoro di cogestione di un esistente che noi vogliamo distruggere. Costoro difendono i propri interessi di mediatori e pacificatori, usano i propri strumenti per fare pressione, inducono i più agitati nei loro ranghi ad apparire positivi e vigorosi, arrivano persino ad affiancare alcuni radicali per aggiungerli al bilancio finale decisivo (ovviamente quantitativo), abbandonando strada facendo i sognatori che hanno dato tanto per «cambiare tutto», e cercando di rafforzare il proprio ruolo di intermediari tra Stato, Capitale e mondo del lavoro, come si suol dire.
No, se qualcosa ci stupisce ancora ingenuamente, non è il rapporto di forza programmato dai sindacati tra due corsie ministeriali, ma i facili entusiasmi dei rivoluzionari che chiamano ad unirsi allo sciopero, al grrrande sciopero generale, appelli che mettono in pausa qualsiasi riflessione critica. In aggiunta all’«effetto mobilitante», il processo invariabilmente impiegato è quello dell’esagerazione e della mistificazione, lasciando parecchio indietro in qualche caso anche i professionisti della propaganda (politici e quadri sindacali). È stato persino scritto «Sciopero generale contro Macron e il suo mondo», ad esempio, mentre si tratta di uno sciopero parziale e riconducibile contro… la riforma delle pensioni (ossia, per questo mondo).
D’altronde, già che ci siamo, forse varrebbe la pena riflettere un momento, al di là della confusione, sulle fanfare sindacali e sugli striscioni «Marx o morte» dei nostri cari radicali abbigliati di nero per l’occasione (non c’è da preoccuparsi, fa solo parte del circo, domani si cambieranno di nuovo indossando i patetici abiti rossi della «dialettica di classe» o del «plusvalore», se non della «ascesa del fascismo» per i più dilettanti), su ciò che è «la pensione». Organizzata dallo Stato, cogestita dai sindacati padronali e dei lavoratori o dalle assicurazioni private, la pensione consiste in favolose somme di denaro che vengono prelevate oggi ai salariati per essere loro restituite (beh, come stiamo vedendo, con qualche fluttuazione) a piccole dosi domani, quando saranno troppo vecchi per produrre ancora a pieno regime. Il dibattito tra pensioni assistenziali e pensioni capitalizzate ha come sfondo in particolar modo la questione dei «pension funds» (per usare un termine inglese), già attivi come integrazione (soprattutto tra i dipendenti pubblici) e introdotti in maniera più ampia a partire da ottobre nella legge attraverso i Piani di risparmio previdenziale (PER), e che la riduzione programmata degli importi versati rafforzerà. Perché le somme raccolte non sono meramente «virtuali», ma alimentano importanti operatori sui mercati finanziari. Proprio come le banche, i fondi di investimento, ecc., i «fondi pensione» speculano su tutto e investono in tutti i campi. Dalla speculazione sulla fame alla speculazione immobiliare, dagli investimenti nelle «energie verdi» al sovvenzionamento delle industrie belliche, dai prestiti allo Stato per finanziare le sue prigioni e i suoi poliziotti allo sfruttamento degli agglomerati industriali. In breve: la pensione non è solo il denaro che un pensionato può ricevere alla fine della sua «carriera», ma rappresenta un’importante leva finanziaria nel mondo capitalista.
Allora, come mai il governo francese, al pari dei suoi omologhi europei, si ostina a voler riformare il sistema pensionistico? Per schiacciare ulteriormente «i precari, le donne e i più poveri» come riassume, ovviamente senza alcun dogmatismo propagandistico, un altro di questi appelli entusiasta della mobilitazione sindacale? Potrebbe certo trattarsi di un effetto della riforma, ma ciò che l’attuale governo francese cerca di fare è adeguare il territorio che amministra al mondo odierno. È la fine dello Stato-papà — che nel complesso dava denaro per comprare pace sociale, per promuovere il «progresso sociale» ed evitare rivoluzioni — un modello che ormai è obsoleto. Quindi, come è possibile non rendersi conto che quasi tutti i movimenti sociali contro questa o quella riforma sono movimenti essenzialmente difensivi e conservatori di uno status quo in via di sparizione? Non siamo più ai tempi in cui insorgevano per demolire pezzi di questo mondo andando all’assalto del cielo o per strappare brandelli della borsa del capitale, il che solleva l’antica domanda sulla possibilità di andare all’offensiva partendo da una posizione strutturalmente difensiva. Questi movimenti difendono il mondo che conoscono, in particolare quello che è riuscito a garantire a determinati strati del proletariato in Europa un livello di vita che consente l’accesso al consumo di massa, allo svago e al divertimento. Un mondo il cui prezzo è sempre stato pagato altrove, da altri proletari, che del consumo di massa hanno visto solo gli scarti e che muoiono in fondo alle miniere in Africa o nelle fabbriche tessili in Asia. Ed è questo che dovremmo difendere? È per questo che dovremmo scioperare?
In fondo la pensione è un prestito che i salariati concedono allo Stato e al capitale, sperando che costoro mantengano la loro promessa quarant’anni dopo. Quindi, in tutta franchezza, tutto questo cosa può mai avere a che fare con… gli anarchici? Se i sindacati vogliono un regime pensionistico, ciò implica di fatto l’esistenza dello Stato, e perfino il mantenimento di un maggiore intervento dello Stato nella vita sociale. Certo, noi non vogliamo portare acqua al mulino degli ultra-liberali, ma l’anarchico è ancora un nemico dello Stato, giusto? E non vuole che lo Stato conservi o accresca il ​​suo potere, giusto? Non vuole far sì che lo Stato si appropri di ulteriori leve per dominare, giusto? Ma allora…
La cosa più insopportabile in tutto ciò è in definitiva l’iperbole del noi che infesta i discorsi radicali. «Noi salariati», «la nostra collera», «è in tutte le teste». Ma cos’è questo «noi» di cui parlano? Della condizione di sfruttati che si condivide (per forza, non volontariamente)? Dell’opposizione «comune» che c’è contro «la riforma», così ampia da radunare inevitabilmente una folla e gli interessi più eterogenei? È il ritornello di sempre, della convergenza come della composizione o di alleanze oggettive, quello che ha sempre condotto alla stessa via senza uscita: la famosa condizione che creerebbe la coscienza. Eppure, sembra piuttosto che la coscienza sia il rifiuto di tale condizione… e del suo mondo. Lo sfruttato che non vuole più essere tale non implora una pensione, chiede la fine del salariato. L’oppresso che non vuole più essere comandato non segue le parole d’ordine che arrivano dall’alto, ma canta la propria canzone. Il suddito che non vuole più essere governato non rivendica più uno Stato, ma lo respinge sempre più incalzandolo e disorganizzandolo per annientarlo. Non esiste una dialettica da funamboli che possa spezzare un ragionamento così chiaro: tutto ciò che rafforza lo Stato ci allontana dalla sua distruzione.
Quindi cerchiamo, per parte nostra, di evitare i facili entusiasmi, aguzzando piuttosto il nostro sguardo critico. L’anno scorso, ondate di rabbia selvaggia hanno invaso la Francia malgrado l’iniziale scetticismo di tanti. Una rivolta che è sfuggita alle tradizionali mediazioni sindacali e politiche (non senza tuttavia produrne di nuove), che ha moltiplicato gli scontri, gli incendi, le interruzioni e le devastazioni, il sabotaggio… la distruzione. Per ragioni talvolta futili, con motivazioni spesso molto divergenti, al limite ripetendo sciocchezze lette o viste qui e là (come l’interpretazione talvolta complottista del mondo), ma una rivolta che ha comunque scatenato qualcosa, che ha aperto possibili spazi a tutte e tutti respingendo in un primo tempo partiti e sindacati. Viceversa, uno sciopero guidato dai sindacati e che non riesce a sbarazzarsene non scatena affatto, bensì incatena. Contrariamente alle speranze di sempre che «della rivolta rimanga pur qualcosa», temiamo che questo sciopero produca l’esatto contrario: portare ordine nella protesta sociale, a fronte del carattere spesso incontrollato che ha prevalso a lungo nel movimento dei gilet gialli in numerose città. D’altronde è questo il ruolo per eccellenza dei sindacati. E per lo Stato, questo risultato val bene alcune settimane di disordine nei trasporti.
Rimane una domanda: ci sono analisi, segnali o intuizioni che sembrano indicare che questo sciopero potrebbe deragliare verso qualcosa di diverso da un rapporto di forza tra Stato e sindacati, sostenuti all’occorrenza da una manodopera radicale? Per il momento, nonostante i resoconti infuocati di questo o quell’evento, nonostante la sovrabbondanza di appelli a partecipare, nonostante i pallet che bruciano all’entrata delle raffinerie (che ovviamente continuano a rifornire a profusione gli sbirri di carburante prosciugando nel contempo le pompe dove si servono i dimostranti), siamo propensi a rispondere in modo negativo.
Possiamo ancora provare a far deragliare questo sciopero in totale autonomia e contro i pastori che attualmente guidano il gregge protestatario? Certamente! Ogni interruzione del tran tran quotidiano apre possibilità a coloro che intendono afferrarle, soprattutto se ci si è sbarazzati dell’illusione del quantitativo e si sono chiarite le proprie prospettive. Comunque sia: «La gioia del risultato è già nella gioia dello sforzo. Chiunque muova i primi passi in una direzione che ha tutti i motivi di ritenere buona, arriva già all’obiettivo, vale a dire che ha la ricompensa immediata della sua fatica». Non abbiamo bisogno di miraggi per metterci in cammino.
[Avis de tempêtes, n. 24, 15 dicembre 2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Avviso di tempesta – speciale Chile

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
L’ampiezza della rivolta in Cile non è legata a questo o a quell’altro giro di vite, a questo o a quell’altro gruppo, ma a qualcosa di ben più profondo: la sete di libertà. Una libertà condivisa che potrà passare solo sul cadavere del dominio — dalle chiese ai partiti, dall’economia alla politica, passando per il patriarcato — per liberarsi delle catene dell’esistente. Una libertà contagiosa che può avanzare solo distruggendo tutto ciò che costituisce la miseria della nostra vita, attraverso un negativo da cui possa sorgere qualcosa di totalmente differente. E, certo, senza pietà e senza alcun riguardo per l’attuale ordine che ci schiaccia.
Scaricare il PDF : Avviso di tempesta. Danzare con le fiamme.
[traduzione di Avis de tempêtes n. 23bis, 28/11/19. Tradotto da Finimondo.]
Posted in Italiano

Biglietti da visita

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Si sa che uno dei biglietti da visita lasciati dalle insurrezioni nella storia è la possibilità di partire da un pretesto banale, facendo esplodere in modo inaspettato le contraddizioni sociali che fremono da troppo tempo. Non è forse stata nel dicembre 2010 l’autoimmolazione di un giovane venditore ambulante tunisino, stanco delle vessazioni poliziesche in una vita di miseria, ad aver dato fuoco alle polveri della cosiddetta primavera araba, per poi incendiare la Tunisia e l’Egitto, passando per la Libia e la Siria? E non è stata una disputa a proposito di cannoni pagati tramite sottoscrizione popolare durante una guerra persa la scintilla che ha provocato l’insurrezione della Comune di Parigi nel marzo 1871, spalancando un ardente immaginario fino ai giorni nostri?
A fine gennaio 2019, quando il prezzo del biglietto a Santiago del Cile è stato aumentato fino a raggiungere la quota simbolica di 800 pesos per la metropolitana e 700 pesos per gli autobus… non è successo nulla. Ma appena è stato annunciato un ennesimo aumento dieci mesi dopo di 30 pesos per l’una e 10 pesos per gli altri, alcuni liceali hanno iniziato a frodare la metropolitana della capitale per protesta. Le prime frodi il 7 ottobre fino alla loro moltiplicazione la settimana seguente hanno causato la chiusura delle stazioni da parte delle autorità, lo sfondamento dei cancelli della metropolitana fino agli scontri con i carabinieri da entrambi i lati delle obliteratrici il 17 ottobre, e in men che non si dica la rivolta in Cile è esplosa il giorno successivo, dopo di che il 19 ottobre è stato decretato lo stato di emergenza col coprifuoco militare. I primi contestatori hanno forse messo in discussione quella infrastruttura costruita per spostare flussi di schiavi verso il loro luogo di sfruttamento e di consumo? No, chiedevano solo di poterla usare senza che ciò gravasse troppo sulle loro tasche. Era un movimento di disobbedienza senza concessioni (per non pagare di più e incitare gli altri a farlo), di protesta contro il carovita. Una vita che molti immaginavano allora di continuare a condurre nella stessa triste galera, tra vari lavori per far quadrare i conti, arrangiandosi economicamente, un debito a lungo termine per coloro che hanno studiato, una pensione miserabile affidata ai fondi privati ​​e una salute in cui si crepa per il dolore quando non ci si può permettere le medicine, il tutto in un territorio in cui i più ricchi che costituiscono l’1% possiedono più del 25% del Pil nazionale essendosi arricchiti durante gli sfarzi della dittatura militare del generale Pinochet.
Affinché la rivolta esplodesse, è stato necessario certamente che una piccola minoranza gioiosa quanto arrabbiata lanciasse una scintilla, oltre ad un piccolo ingrediente supplementare: l’azione diretta diffusa che rovescia il tavolo al momento giusto. Ed ecco che migliaia di giovani si scontrano giorno dopo giorno con la polizia per frodare rendendo la metropolitana gratuita di fatto, e poi degli sconosciuti cominciano a rimuovere la questione stessa saccheggiando e distruggendo le stazioni, con la loro parte di negozi, gli erogatori di biglietti, i bancomat, i loro sistemi elettrici e persino i loro convogli! Nel giro di un fine settimana, dal 18 al 20 ottobre, metà delle stazioni del sistema di trasporto sotterraneo cileno sono state messe fuori servizio (25 incendiate e 93 danneggiate) e più di 2800 autobus sono stati attaccati. Questo segnale è stato ben compreso malgrado il coprifuoco militare, poiché l’intera Grande Santiago si è immediatamente incendiata, così come tutte le principali città da nord a sud, e questo già da quattro settimane. Centinaia di supermercati sono stati saccheggiati e devastati di giorno come di notte o dati alle fiamme, così come quasi 300 farmacie, 68 tribunali, sedi di partito di destra e di sinistra (dall’UDI di Santiago al RN di Melipilla e al PS di Valvidia), chiese, municipi e prefetture, banche e centri commerciali, fondi pensione e agenzie ministeriali, scuole e imprese agroforestali, uffici dell’anagrafe e università, caselli autostradali e antenne di telecomunicazione.
Se ciò che conta è beninteso di natura qualitativa, ovvero le capacità di attacco e distruzione contro strutture del nemico chiaramente identificate, considerate ostili e responsabili della miseria e dell’oppressione, la presenza di piccoli gruppi mobili che si conoscono e sanno muoversi (per quartieri, licei, squadre di calcio o per affinità), la simultaneità di sommosse e blocchi diffusi, il sabotaggio di infrastrutture e la spontaneità nella rivolta, proprio come il rifiuto immediato dei politicanti di tutte le sponde e la presenza di un movimento anarchico informale e basato sull’azione diretta… possiamo notare che, anche da un punto di vista quantitativo, la Camera cilena dell’edilizia (CChC) ha valutato al 15 Novembre danni per 4500 milioni di dollari, 380 dei quali per la sola metropolitana, 2330 milioni per le infrastrutture pubbliche e 2250 milioni per i locali non residenziali.
Ovviamente hanno avuto la loro importanza alcuni grandi momenti collettivi, come quello del 25 ottobre coi suoi 1,2 milioni di manifestanti prima della revoca dello stato di emergenza militare, o la giornata dello sciopero generale indetto il 12 novembre, che non ha riguardato solo Il 90% del settore pubblico e il 60% del privato, ma è stato anche segnato da innumerevoli saccheggi e distruzioni col fuoco, che hanno lasciato i centri urbani come quelli di Antofagasta, Osorno, Concepción o Punta Arenas piuttosto devastati. Ma ciò non deve d’altro canto ricreare fantasie sui protagonisti di questa rivolta autonoma senza leader o partiti, che non sono né il fantomatico «popolo spettrale che si è svegliato» caro ai nazional-populisti, né la famosa «classe operaia organizzata» così cara ai dinosauri marxisti: sono tutti individui che per ragioni diverse non si aspettano nulla dal potere, né briciole né riforme costituzionali, e che hanno deciso di usare direttamente ciò che serve loro distruggendo tutto il resto. Sono coloro che hanno capito sulla propria pelle che non c’è nulla da negoziare in questo esistente, ma tante cose da demolire, perché solo partendo da questo negativo potrà nascere una vita completamente diversa. Sono coloro che sono usciti nelle strade nonostante il coprifuoco dell’esercito, e che continuano ad attaccare malgrado gli appelli alla calma e alla pace e a dispetto della repressione (2400 feriti in ospedale, colpiti soprattutto da proiettili, 26000 arrestati, tra cui diverse centinaia di torturati e 1400 incarcerati).
Ad Atene e Città del Messico si sono già svolte manifestazioni di solidarietà, a Buenos Aires e a Marsiglia è stato colpito il consolato cileno, a Salonicco è stata bruciata l’auto del console, a Montreuil una stazione della metropolitana è stata ridecorata mentre a Monaco i bancomat di diverse stazioni si sono infiammati di gioia negli ultimi giorni. È possibile che venga stampato un altro biglietto da visita delle insurrezioni passate, una solidarietà internazionale finalmente al livello della posta in gioco dell’attuale rivolta in Cile? Tanto più che non mancano certo gli ambiti dell’esistente da salutare calorosamente, magari seguendo le indicazioni che giungono da oltre la Cordigliera delle Ande…
[Avis de tempêtes, n. 23, 15/11/2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Far saltare lo scacchiere

Posted on 2021/10/07 - 2021/10/07 by avisbabel
Il terribile rombo che annuncia l’avvicinarsi degli aerei da combattimento; il lungo sibilo dei missili prima della loro esplosione; il crepitio incessante delle mitragliatrici montate sulle jeep; i muri delle case che crollano in un respiro; le fiamme che divorano tutto; le colonne di fumo nero che oscurano il cielo. Ecco la guerra appena scatenata dal presidente turco Erdogan sui villaggi e le città della Siria settentrionale, territori sotto il controllo delle milizie YPG (Unità di Protezione del Popolo), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica, e delle altre componenti delle FDS (Forze Democratiche Siriane). Più che una guerra di conquista, una guerra di sterminio delle popolazioni curde e dei loro vicini alleati. A livello strategico, Erdogan non nasconde di preferire vedere una Siria in fiamme, con la sua accozzaglia di macellai jihadisti e governativi, piuttosto che una qualsiasi stabilità in grado di portare alla costituzione di un proto-Stato curdo ai confini con la Turchia. A livello tattico, questo obiettivo si traduce con massicci bombardamenti di tutte le strutture, sia civili che militari, da parte delle forze armate composte non solo da soldati turchi, ma anche da mercenari e islamisti addestrati ed armati da quello Stato, pronti a seminare lo stesso terrore sanguinario in atto durante l’invasione di Afrin all’inizio del 2018. E quando sarà fatta terra bruciata e gli abitanti saranno massacrati o cacciati, lo Stato turco invierà i milioni di rifugiati siriani che oggi sopravvivono nei campi ad insediarsi in questi territori svuotati, piantando i semi di future guerre civili.
Le YPG e le FDS si ritrovano oggi sole di fronte all’operazione militare turca. Il loro alleato di ieri, gli Stati Uniti, ha preliminarmente ritirato le sue truppe per consentire la guerra di sterminio voluta da Erdogan. Si può immaginare che l’altro loro alleato, la Francia, abbia fatto lo stesso — sebbene in maniera più discreta, ritirando le proprie unità speciali in missione nel Rojava. Probabilmente, e malauguratamente, la perdita di un alleato di ieri non può che portare alla ricerca di nuovi alleati. Se gli Stati europei si limitano a denunciare la «catastrofe umanitaria» annunciata, o decidono di sospendere temporaneamente le loro consegne d’armi e materiale bellico alla Turchia (ora, dopo che le scorte del loro alleato all’interno della NATO sono state riempite ed i profitti realizzati*), altre potenze si profilano, calcolando pazientemente il proprio tornaconto a spese di migliaia di morti. La Russia ammonisce, ma non intende mettere a repentaglio i suoi nuovi e redditizi contratti d’armi con la Turchia (in particolare i sistemi missilistici terra-aria). C’è anche il carnefice Assad che, contro ogni previsione, è riuscito non solo a scamparla dopo otto anni di guerra civile, ma anche a rendersi indispensabile sullo scacchiere geo-strategico della regione ed a ricostruire il suo Stato. Una simile «alleanza» purtroppo non sarebbe una novità: le milizie curde avevano già concluso degli accordi con il regime di Assad all’inizio della guerra, permettendogli di concentrare la maggior parte delle sue truppe contro gli insorti siriani; e accadde lo stesso durante l’invasione turca di Afrin, quando i dirigenti curdi hanno invitato le truppe del governo siriano a riprendere le loro posizioni nella speranza di frenare quell’offensiva.
Certo, oggi qualsiasi riflessione giunge troppo tardi. L’urgenza militare di agire non può che avere la priorità di fronte al massacro programmato del Rojava. Ma se non è il tempo di trarre delle lezioni, è arrivato il momento di scegliere un percorso da seguire, piuttosto che continuare a ritrovarsi al rimorchio delle scelte altrui. Fare affidamento sull’ennesima alleanza provvisoria per cercare di limitare i danni non fa che confermare il ruolo da pedine riservato alle milizie curde. Nello stesso Rojava, la resistenza dà alcuni segni indicativi: piuttosto che opporsi simmetricamente a forze superiori agli ordini dello Stato turco, condurre una guerriglia per impedire qualsiasi occupazione definitiva del territorio. Rinunciare all’esistenza di un «esercito professionale», come i compagni di Lotta Anarchica (Tekoşîna Anarşîst, TA) che là si battono definiscono le forze curde e le FDS, rinunciare alla «guerra convenzionale» (offensiva di terra con un supporto aereo decisivo) così come era stata condotta contro l’Isis, rinunciare persino a una «difesa di territorio». E poi: fondersi nella popolazione «civile» e lanciare, di fronte all’avanzata delle truppe turche e di altri, l’insurrezione. L’insurrezione, non la guerra convenzionale, è l’unica via che potrebbe far fallire il programma dello Stato turco, il quale, oltre alla distruzione delle YPG, mira alla pulizia etnica della regione. Perché in Rojava non ci sono montagne su cui ritirarsi. Da parte irachena, i Peshmerga si impegneranno probabilmente ad evitare qualsiasi ritirata e cercheranno di sbarrare la strada ai rifugiati curdi. E nei territori sotto il controllo di Assad i rifugiati non possono che aspettarsi ostilità, ovvero la morte. Non c’è via d’uscita se il conflitto continua a svolgersi secondo lo stesso paradigma seguito fino ad ora.
L’offensiva turca si basa, come dimostrato chiaramente da Trump, sull’acquiescenza internazionale. I lacrimevoli discorsi dei leader europei nascondono un sostegno continuo al regime di Erdogan, dettato da ragioni economiche (il mercato turco è saturo di prodotti provenienti dall’Unione Europea e funge da valvola per la sovrapproduzione che può indurre il crollo dei prezzi), da ragioni politiche (in particolare la questione della gestione dei rifugiati) e da ragioni strategiche (Erdogan minaccia regolarmente di allearsi piuttosto con la parte russa ed aspira a svolgere un ruolo importante nel controllo del Medio Oriente, in particolare con discorsi sull’unità dei sunniti). È questo sostegno che oggi può essere attaccato, per cambiare un paradigma che conduce solo alla catastrofe. Non mediante appelli umanitari, ma attraverso un’intensificazione delle ostilità, attraverso attacchi contro la collaborazione con il regime di Erdogan, attraverso azioni diffuse contro l’industria militare (che, di fronte alla sospensione di forniture di materiale allo Stato turco, non farà che immagazzinare per qualche mese prima di riprenderli non appena girerà il vento).
È essenziale ora, in questa tragica ora in cui le truppe si scatenano sul Rojava mentre missili e bombe piovono su villaggi e città, smettere di seguire lo stesso percorso che porta solo alla disfatta. È la collaborazione con qualsiasi potenza esistente (regime siriano, russo, nordamericano, francese, iraniano o dei paesi del Golfo) a minare ogni prospettiva rivoluzionaria sul posto, e non solo: credere che una tale strategia politica possa fare da scudo alle aspirazioni sanguinarie non fa che perpetuare il circolo vizioso del massacro. Gli esempi storici sono innumerevoli, disgraziatamente la scelta non manca. Dalle brigate comuniste di Lister, quei «fratelli in armi contro il fascismo» che massacrano e devastano le collettività libertarie in Aragona durante la rivoluzione spagnola, agli aiuti militari dei paesi del Golfo, quei «fratelli della comunità musulmana» che hanno contribuito in modo decisivo all’egemonia delle unità islamiste e jihadiste e alla sepoltura della rivoluzione siriana. Se non possiamo vincere, rifiutiamo di essere sconfitti dalle pugnalate alle spalle degli alleati di ieri! Lo scacchiere geo-politico è per la prospettiva rivoluzionaria ciò che il petrolio è per il mare. Non è il «massimalismo rivoluzionario» a parlare, sono le nostre aspirazioni… e soprattutto l’esperienza, che dovrebbe farci comprendere che quello scacchiere come tutti gli altri deve essere mandato all’aria, se si vuole cambiare, come diceva qualcuno, non le regole truccate del gioco, ma il gioco stesso.
È tardi, molto tardi, per lanciare in aria lo scacchiere su cui non si fa che correre di massacro in massacro. Ma forse non è troppo tardi. La resistenza, anche disperata, può ancora sbarazzarsi delle catene geo-politiche che la condannano all’impotenza. L’internazionalismo, anche tardivamente e nonostante la mancanza di riflessione critica da cui è stato afflitto negli ultimi anni, può ancora mettere dei bastoni tra le ruote delle potenze. Le braccia possono ancora essere tese verso altri insorti, piuttosto che verso altri Stati. Se le fiamme che potrebbero innescare un incendio in tutto il Medio Oriente si alimentano dell’ossigeno fornito da tanti Stati del mondo intero, è ancora possibile accendere altri focolai, qui dove viviamo, scintille con cui non è il massacro a brillare, ma un vecchio sogno di libertà e di solidarietà.
13 ottobre 2019
(*) A titolo di esempio, l’industria militare francese ha consegnato ufficialmente armi per 460 milioni di euro alla Turchia da 10 anni, pur sapendo che i principali fornitori di quest’ultima in tale campo sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia. Inoltre, la Turchia produce direttamente molti armamenti da sé, e sotto licenza (europea o nord-americana).
[Avis de tempêtes, n. 22, 15 ottobre 2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Fate il vostro gioco

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Fate il vostro gioco: 3, 5 o 10 metri? E se siete radicali: 50, 100, 150 metri? Il governo francese si appresta ad inserire una di queste cifre nella legge. Esse indicano la distanza da rispettare tra le abitazioni e i campi durante lo spargimento e l’irrorazione di pesticidi. La presidentessa del sindacato agricolo FNSEA, Christiane Lambert, si è affrettata a intervenire nel «dibattito pubblico» in cui alcune voci si erano levate per parlare invece della cifra maggiore di 150 metri. «La smettano di delirare!» Ha sbraitato davanti ai giornalisti, perché questo ridurrebbe la superficie agricola francese del 15%. Piuttosto che farsi coinvolgere in questo dibattito assurdo e francamente vergognoso, vediamo più da vicino cosa sono i pesticidi e cosa rappresentano nel mondo odierno.
Un pesticida è una sostanza utilizzata per combattere organismi considerati nocivi, direbbe l’enciclopedia. Tranne che la lingua può rapidamente giocare dei brutti scherzi. Perché in quasi tutte le forme di agricoltura, le piante devono essere protette da altri organismi. Esistono già piante che hanno proprietà «pesticide», se lo si vuole, che proteggono i campi e le colture dalle devastazioni di parassiti, insetti e malattie. Per chiarire le cose: quando si parla di pesticidi, si sta parlando di sostanze, spesso prodotte sinteticamente, che contengono tossicità comprovate. Tali tossicità agiranno quindi contro gli «elementi nocivi». E fin qui, potremmo citare il nostro ingegno, va bene. Ma non è tutto qui. Le tossicità «residue», difficili o semplicemente non degradabili, si accumuleranno nel suolo, nell’acqua, nell’aria, negli animali, nei corpi umani, nel cibo… ovunque.
Il trattamento chimico delle colture vegetali esiste da millenni. Nell’antica Grecia, lo zolfo veniva usato come pesticida. Nell’impero romano, si diffuse l’uso dell’arsenico come insetticida. Ma è nel XIX secolo che la chimica minerale decollò. In Europa, l’uso di pesticidi a base di sali e solfato di rame è in aumento, il che porterà a un primo inquinamento duraturo del suolo (il rame non si degrada). Per tutto il XX secolo, fino ad oggi in molti paesi che non l’hanno vietato, i semi vengono trattati con sali di mercurio, un metallo altamente tossico. Poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, con una popolazione di quasi 2 miliardi, il chimico tedesco Fritz Haber, impiegato alla Bayer, scoprì un metodo economico per produrre grandi quantità di fertilizzante, realizzando la sintesi dell’ammoniaca dall’azoto atmosferico. Ciò avrebbe consentito l’estensione dei campi agricoli e l’aumento della produzione alimentare in un momento in cui molti scienziati erano allarmati dal raggiungimento del «tetto» della popolazione mondiale sostenibile.
Ma Fritz Haber e la sua squadra non si fermarono là. La guerra avrebbe riorientato la loro ricerca grazie alla creazione del terribile gas mostarda [iprite] impiegato in un altro campo, quello della battaglia nelle trincee europee. La loro ricerca avrebbe portato anche alla creazione di un altro noto pesticida: lo Zyklon B, utilizzato negli anni 30 nell’agricoltura cerealicola e poi nelle camere a gas naziste. I pesticidi di sintesi provengono dalla ricerca in ambito militare. Dopo la seconda guerra mondiale, i vasti complessi chimici dedicati alla produzione militare rischiavano di essere fuori servizio… ed è così che furono trasformati in fabbriche per produrre in serie pesticidi di sintesi. Il più noto è senz’altro il DDT, scoperto già nel 1874, ma le cui proprietà insetticide furono stabilite solo alla fine degli anni 30. Negli anni del dopoguerra, il DDT prodotto dalle stesse fabbriche chimiche prima dedicate alla produzione di gas tossici e prodotti chimici per uso militare, sarebbe diventato rapidamente il pesticida più utilizzato al mondo.
Un altro pesticida derivante dalla produzione di gas da combattimento è il malathion, ancora oggi utilizzato. A partire dal 1945, il consumo mondiale di pesticidi è raddoppiato ogni decennio (ovvero una moltiplicazione per 60 fino ad oggi, arrivando a 2,5 milioni di tonnellate all’anno sui terreni agricoli). Il numero di pesticidi è esploso: sono stati aggiunti sempre più additivi per aumentare questo o quell’effetto, per rispondere a nuove resistenze, per evitare tossicità residue… Malgrado ciò che si potrebbe pensare, più del 75% dei pesticidi utilizzati in tutto il mondo vengono sparsi sulle terre arabili dei cosiddetti paesi sviluppati… e la resistenza di piante e insetti cresce quasi allo stesso ritmo dello sviluppo dei pesticidi.
Nel 1997, 600 specie di insetti sono diventate resistenti a uno o più insetticidi; per le erbe, si parla di 120 specie e per i funghi parassiti la cifra è di 115. Proseguendo nello sviluppo e la produzione di pesticidi, le aziende agroalimentari e chimiche hanno allora rovesciato il problema, investendo massivamente nella creazione di organismi geneticamente modificati (OGM) in grado di resistere ai loro pesticidi sempre più potenti deputati a sradicare tutti i «parassiti». Negli Stati Uniti, ad esempio, il 94% delle coltivazioni di cotone, il 92% di quelle di mais e il 94% di quelle di soia sono transgeniche. In Sudafrica, le percentuali per le stesse piante sono di 85, 95 e 100%. In Pakistan e India, il 97% di tutto il cotone coltivato è transgenico. Nelle Filippine, il 65% del mais è transgenico. In Argentina, quasi tutte le colture di soia sono transgeniche.
Per la salute umana, i pesticidi (considerando che esistono differenze di tossicità tra l’uno e l’altro e che alcuni vengono ritirati dal mercato quando la narrazione non è più sostenibile, come il famoso DDT, vietato dal 1973, o il prodotto made in Francia, l’Atrazine, il cui utilizzo è vietato in patria ma è ancora legale… per l’esportazione) aumentano i rischi, sono all’origine stessa o, combinati con altri fattori di inquinamento, causano: tumori di ogni tipo (tumori cerebrali, leucemie, tumori a reni, prostata, testicoli, sistema linfatico); infertilità, morte fetale, prematurità, ipotrofia, malformazioni congenite, alterazioni endocrine; disturbi dermatologici come arrossamenti, prurito, ulcerazioni; compromissioni neurologiche come ridotta sensibilità tattile, affaticamento muscolare, cefalea, ansia, irritabilità, depressione, insonnia, paralisi; disturbi del sistema ematopoietico con una diminuzione dei globuli rossi e bianchi e il rischio di leucemia; danni al sistema cardiovascolare con disturbi del ritmo cardiaco e arresto cardiaco; disturbi del sistema respiratorio come superinfezioni, bronchiti, riniti e faringiti; squilibri delle funzioni sessuali come l’infertilità maschile con la crescente soppressione della spermatogenesi e femminile con disturbi endocrini; malattie neurodegenerative come il Parkinson. «La smettano di delirare!», come dicono alla FNSEA…
Tra il 1981 e il 1982, l’organofosfati Nemacur 10 della Bayer, utilizzato nella lavorazione del pomodoro, ha causato la morte di oltre un migliaio di persone e la malattia o la disabilità di altre decine di migliaia in Spagna. L’azienda, lo Stato e gli esperti l’hanno coperta sotto il nome di «olio tossico».
Dieci anni dopo, Jacques Philipponneau ha pubblicato Relazione su l’avvelenamento perpetuato in Spagna e camuffato sotto il nome di sindrome dell’olio tossico dove si può leggere ciò che segue: «Per molto tempo la malattia è stata una fatalità individuale o un male sociale il cui eventuale alleviamento dipendeva dalla conoscenza medica e da una carità privata sostituita progressivamente dall’autorità pubblica. Attualmente la salute pubblica è un affare economico, e doppiamente del resto. Da una parte perché l’economia mercantile, avendo trionfato sulle antiche condizioni naturali ovunque scomparse, producendo stricto sensu la vita e la morte dell’uomo moderno, si rivela essere in qualche modo un problema di salute, e anche un problema per la salute. Dal momento che alle nostre latitudini nessuno ignora che ciò che mangia, beve, respira, in poche parole le condizioni generali della sua vita quotidiana sulle quali di consueto non può niente, costituiscono una minaccia per il suo “capitale-salute”, secondo la poetica espressione del tempo; e in ogni momento ci viene raccomandato di migliorarne la gestione rinunciando a questa o a quella antica abitudine diventata nefasta e di cui possiamo valutare la nocività nei conti pubblici della nazione». Queste parole ricordano le frasi pubblicate sull’Encyclopédie des Nuisances n. 5, nel 1985: «L’estremo deterioramento del cibo è un’evidenza che, al pari di altre, è in genere sopportata con rassegnazione: come fosse una fatalità, il prezzo da pagare per un progresso inarrestabile, come sanno tutti coloro che ne sono schiacciati ogni giorno. Tutti tacciono in proposito. In alto perché non se ne vuole parlare, in basso perché non si può farlo. La stragrande maggioranza della popolazione, che sopporta tale degrado, pur avendo forti sospetti, non riesce a far fronte a una realtà così spiacevole».
Oggi l’ignoranza non può più essere invocata. Il diluvio di studi e libri che denunciano gli effetti dannosi sulla salute e sull’ambiente dei pesticidi utilizzati così pesantemente nell’agro-industria (che converrebbe chiamare sempre così, perché è ciò che l’agricoltura è diventata nella quasi totalità) ha forse generato una presa di coscienza, lotte e opposizioni anche radicali come durante la resistenza agli OGM in Francia, esperimenti per «fare diversamente» (ora recuperati e inseriti nel mercato come qualsiasi altra merce, debitamente etichettati «bio», «organico», «100% naturale», «prodotto dall’agricoltura sostenibile» ecc.), ma alla fine è la rassegnazione a prevalere. Essa si manifesta principalmente sotto forma di totale negatività, mancanza di interesse o persino incapacità di cogliere l’entità del problema, unite a un’impotenza ad agire direttamente per sopprimere, diciamo, almeno la nocivité che si trova direttamente accanto a casa, nel campo del vicino.
Può anche assumere la forma dell’integrazione all’interno del grande greenwashing del capitalismo industriale a colpi di nuove tecnologie, vaste menzogne ed energie rinnovabili, oppure dell’inserimento sotto forma di «aziende bio» nel mercato convenzionale. Allo stesso tempo, vediamo anche che «la minoranza delle minoranze» tende ad affinare le sue lotte, sapendosi ormai in fin dei conti poco numerosa nella lotta contro il mostro che si basa essenzialmente sul consenso che riesce a produrre o ad ottenere. Alcune lotte «locali» generano a volte attacchi importanti contro ciò che devasta il mondo ed i suoi abitanti, proprio come un pugno di individui attacca direttamente, qua e là, i laboratori, i fabbricanti di OGM o gli amministratori della devastazione del pianeta. Con l’avanzata sempre più veloce dell’artificializzazione dell’agricoltura e l’innegabile degradazione dell’habitat, queste lotte rischiano di diventare sempre più radicali in termini di prospettive e di metodi, cosa che non ci dispiace affatto.
In Francia, lo Stato intende imporre all’agro-industria una netta riduzione dell’uso di pesticidi, secondo i suoi piani Ecophyto (un primo lanciato nel 2007 voleva ridurre del 50% lo spargimento di pesticidi intorno al 2018, seguito da un secondo piano nel 2015 che ha rimandato questa scadenza al 2025). Se da un lato proibisce certi pesticidi (come il famoso glifosato, vietato alla vendita ai privati ​​e all’utilizzo negli spazi pubblici come i parchi dal gennaio 2019, il che non impedisce che un terzo degli erbicidi utilizzati in Francia siano costituiti ancora proprio dello stesso glifosato), d’altro concede permessi a nuovi veleni, come l’autorizzazione nel 2019 di undici fungicidi supplementari contenenti sostanze attive SDHI (Succinate DeHydrogenase Inhibitor). Eppure nel 2018 sono stati diffusi dei rapporti allarmistici: «anomalie nel funzionamento dell’SDH possono portare alla morte delle cellule causando gravi encefalopatie o, al contrario, ad una proliferazione incontrollata di cellule, che sono all’origine di tumori. Anomalie della SDH si osservano anche in altre malattie umane». I fungicidi SDHI sono già sparsi ovunque nelle campagne francesi: su quasi l’80% delle superfici di grano, quasi altrettanto su quelle di orzo, sugli alberi da frutta, su pomodori e patate. Ed oggi lo Stato vorrebbe decidere in merito a questi 3, 5 o 10 metri di distanza dalle case da rispettare quando si applicano i pesticidi!
Ciò che conta è che tutto possa continuare come prima. Che la produzione aumenti, che i profitti si realizzino. D’altronde, a costo del naufragio di questa società, non è semplicemente possibile fare a meno dei pesticidi per mantenere l’esistente; l’agricoltura industriale ha già talmente trasformato, inquinato e impoverito la terra che nulla cresce su grande scala senza fertilizzanti sintetici e senza chimica per proteggere le piante da mille malattie e parassiti… che sono a loro volta, in gran parte, creati dalla resistenza che gli organismi tendono naturalmente a sviluppare contro ciò che li uccide. È un circolo vizioso o, meglio, è il famoso treno che avanza a tutta velocità verso l’abisso. Discutere a proposito di 3, 5 o 10 metri è veramente il dettaglio ipocrita del mare di veleni industriali che fanno scorrere nelle nostre vene e nei bronchi.
I legami tra capitalismo, produzione industriale e malattie si manifestano dappertutto, non solo in agricoltura e nel cibo che essa produce. Quanti minatori, quanti metalmeccanici, quanti operai tessili, quanti imbianchini, quanti muratori, quanti operai e operaie sono morti in modo spaventoso a causa delle tossicità a cui erano stati esposti sul lavoro? Quante altre persone sono morte nella stessa maniera atroce a causa dei prodotti che hanno contribuito a diffondere sul mondo? Quanti tumori crescono nei nostri corpi esposti in modo permanente e consapevole alle radiazioni elettromagnetiche della felice società connessa? Significherebbe ingannarsi se ci si concentrasse soltanto sulle nocività più palesi, come l’energia nucleare o le emissioni di CO2: ogni prodotto che esce da una fabbrica, ogni merce che viene assemblata, ogni cibo che viene fabbricato in questo mondo contiene, porta in sé o provoca una dose di morte.
È tragico, ma l’aumento vertiginoso dei casi di cancro è solo la punta dell’iceberg avvelenato su cui sopravviviamo. Sì, bisogna dire che non facciamo altro che sopravvivere, tanto più che la nostra «sopravvivenza» sembra sempre più irreale ed artificiale. Senza le impressionanti dosi di farmaci e trattamenti (che, per intenderci, contengono molte tossine di cui non si conoscono affatto gli effetti a lungo termine o che generano a loro volta nuove malattie o, nel caso degli antibiotici, batteri più resistenti e nocivi), quanti di noi sopravvivrebbero oltre i cinquant’anni?
Per tornare ai pesticidi, benché sembri ormai molto tardi, potendo la disperazione armare le nostre mani e le nostre menti, il minimo che si possa fare è nominare alcuni responsabili. Costoro non sono presi a caso da un «rapporto» o un «meccanismo», secondo gli eterni cavilli balbettati per giustificare la servitù volontaria: fanno scelte in piena consapevolezza e ne traggono enorme profitto a scapito di tutti. Migliaia di documenti e studi a disposizione di tutti testimoniano la natura cancerogena e tossica dei pesticidi da cui dipende quasi tutta la produzione alimentare, per non parlare delle migliaia di altri documenti conservati «for your eyes only» nei sotterranei dei laboratori farmaceutici, negli uffici degli agro-industriali, nelle torri di vetro amministrative. Diamo un nome quindi a questi avvelenatori di massa.
I maggiori produttori che si occupano del 75% della produzione mondiale di pesticidi sono ovviamente multinazionali: Bayer-Monsanto, Syngenta, BASF, Dow Chemical. In Francia, ci sono due federazioni padronali specializzate nel settore: l’Unione dell’industria della Protezione delle Piante (UIPP) e la Federazione Commercio Agricolo. La maggior parte dei seguenti produttori di pesticidi ne sono membri: Action PIN, Adama, Ascenza (SAPEC Agro), Belchim Crop Protection, Certis, Corteva Agriscience, De Sangosse, FMC, GOWAN, Lifescientific, Nufarm, Philagro, Phytoeurop, SBM Company, SUMI Agro, UPL, STE XEDA, Anios, Phytorus, Group 5 S, Dipter, Sesol, Indal, Helarion Industries, Emdex, Al’tech, Hygia, Cedre, Eurotonic.
Vengono poi le autorità statali di pianificazione, emittenti di norme e di ricerche come l’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica (INRA), le cui decine di strutture di ricerca, produzione, sperimentazione, studio e formazione sono della partita, o ancora il Centro Nazionale di Ricerca Scientifica (CNRS), l’Istituto Nazionale di Salute e Ricerca (INSERM) e l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza sanitaria degli alimenti, dell’ambiente e del lavoro (ANSES).
Rimane infine da porsi un’ultima domanda, non più quella relativa ai produttori di pesticidi, ma a coloro che li usano per coltivare i propri raccolti. Se non tutti gli agricoltori usano pesticidi e molti di loro vorrebbero farne a meno, alcuni continuano ad avvelenare non solo se stessi, ma anche chi consumerà i loro prodotti o chi vive nelle vicinanze… Piuttosto che farne un elenco, cosa che sarebbe assurda come redigere un elenco di chi lavora nel nucleare, pensiamo che in seno alla stessa conflittualità vadano considerate le responsabilità degli uni e degli altri, che le possibilità di scelta consapevole possono allargarsi… e che lo storico «faccio solo il mio lavoro» sarà sempre meno accettato.
[Avis de tempêtes, n. 21, 15 settembre 2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Contributo barbaro

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Se proviamo a leggere la realtà che ci circonda ci accorgiamo che stiamo assistendo allo sviluppo di profonde trasformazioni dal punto di vista della gestione del potere politico ed economico. Tali cambiamenti si riflettono anche a livello sociale. È necessario confrontarsi con le trasformazioni in atto e tenerne conto in quelle che sono le nostre analisi e prospettive di attacco.
Il capitale non è in crisi, ma più “semplicemente” le scelte finanziarie degli Stati hanno creato delle difficoltà nella tradizionale gestione del mercato e hanno prodotto, in generale, un peggioramento delle condizioni di vita dei consumatori-cittadini. Le contraddizioni che il capitale ha sviluppato hanno contribuito a determinare in alcune zone delle occasioni di scontro, più o meno cruente e di lunga durata, fra i guardiani del potere e le sue strutture e quelle sacche di popolazione stanche di essere escluse dagli agi che il fasullo benessere delle società del consumo promettono.
Di fronte a ciò è naturale chiedersi che fare. Essere «qui ed ora» è infatti alla base del nostro desiderio di rottura violenta con ogni sistema di valori, con il capitale e le sue sfumature.
Nell’ambito di tali riflessioni e nella definizione di prospettive che possano orientarci nelle strade incerte ed inesplorate della rivolta crediamo sia necessario evitare di confrontarsi con la realtà con gli occhi insabbiati da quei facili entusiasmi che rischiano di far vedere insurrezioni ad ogni angolo, complici in ogni indignato, soggetti rivoluzionari in ogni sfruttato. Al tempo stesso crediamo sia altrettanto pericoloso rimanere ancorati ad una sorta di pessimismo realista che rischia di renderci immobili di fronte allo scorrere del tempo, di trasformarci in attendisti imprigionati in una logica di tipo determinista.
Ciò che riteniamo fondamentale è porsi in un’ottica di lucida osservazione che può consentirci di cogliere le trasformazioni in atto, individuare gli aspetti vulnerabili del nemico, per poter meglio valutare cosa e come attaccare.
In una condizione mentale e materiale in cui domina l’urgenza di esserci (e non di essere), cioè di definizione di un proprio ruolo all’interno di una possibile conflittualità diffusa, si rischia di perdere di vista la centralità della questione: la necessità di partire da sé, dalle proprie idee e prospettive anarchiche. Ecco dunque che in occasione di una rivolta spontanea il problema degli anarchici non è quello di cercare un ruolo tra altri ruoli, di trovare il modo per farsi accettare dagli altri, di risultare gradevoli o nascondere i propri veri desideri per catturare alleanze. Sarebbe semmai utile scegliere delle condizioni di attacco che impediscano un ritorno alla normalità, sperimentare l’agire che ci appartiene, trovare degli obiettivi che la spontaneità da sola può non essere in grado di trovare. Qualsiasi ipotesi insurrezionale è imprevedibile e indipendente da noi, ma come anarchici, in un’ottica di conflittualità permanente e di definizione di progetti insurrezionali possiamo certo dare un contributo fondamentale a quando accade.
Il problema che bisognerebbe porsi, secondo noi, non è tanto come relazionarsi alle possibilità di rivolta per strada, di lotte territoriali e/o specifiche che potrebbero radicalizzarsi e diffondersi, quanto come continuare ad agire e ad attaccare, in una dimensione pratica e teorica, alla luce delle trasformazioni in atto all’interno della società e dei meccanismi di dominio.
Analizzare le pratiche e i percorsi di lotta in relazione agli obiettivi è tappa fondamentale di un discorso volto ad individuare i limiti e le prospettive nella teoria e nella pratica della sovversione sociale. Per poter meglio toccare i diversi quesiti e proposte che intendiamo portare avanti in questa sede individuiamo in alcuni punti alcune delle argomentazioni che vorremmo portare all’attenzione dei compagni.
Crediamo sia urgente affrontare la questione delle modalità di comunicazione fra compagni. Il problema può essere affrontato distinguendo due aspetti, quello delle modalità con cui decidiamo di comunicare e quello del valore che riconosciamo agli strumenti che di volta in volta scegliamo di utilizzare. Nello specifico ci riferiamo all’uso della rete telematica e il modo con cui ci relazioniamo alla stessa. L’utilizzo da parte nostra degli strumenti, seppur in piccola parte, è un dato di fatto, ma questo non è di certo un elemento per il quale possiamo considerarli utili in caso di insurrezioni o strumento fondamentale nella definizione delle nostre prospettive o, addirittura, qualcosa di cui possiamo liberamente disporre.
I sistemi di comunicazione di tipo virtuale hanno avuto uno sviluppo incredibile all’interno delle società in cui viviamo negli ultimi vent’anni e permeano ogni giorno di più la realtà e il sistema di relazioni fra le persone. Non possiamo ignorare che tali sistemi siano lentamente entrati nelle nostre vite, condizionando inevitabilmente anche il nostro modo di rapportarci con gli altri, con ciò che ci circonda e con gli strumenti telematici stessi. Tutto ciò è accaduto nonostante ognuno di noi sia consapevole che l’irrealtà virtuale è funzionale al potere e ne è la forza.
Nell’ultimo decennio i metodi tradizionali con cui facevamo circolare le idee, come ad esempio giornali, volantini, manifesti, libri, si sono ridotti sensibilmente e la diffusione delle idee stesse è stata quasi totalmente delegata all’universo virtuale. È più che mai indispensabile tornare a rispolverare le vecchie forme di incontro e comunicazione fra compagni e sperimentarne di nuove, ma che siano soltanto nostre e non del nemico. Tornare ad incontrarsi e prendersi il tempo per farlo, cosa resa sempre più difficile dai ritmi imposti dalla vita moderna, ritmi che più o meno consapevolmente abbiamo fatto nostri.
Capita spesso di sentire qualcuno fare considerazioni sulla possibilità di sfruttare gli strumenti telematici in situazioni specifiche, ma trovarsi faccia a faccia con un uso pressoché quotidiano di internet, in particolare per lo scambio di informazioni e idee, ci ha mostrato quanto la realtà virtuale giunge a condizionare in modo negativo il modo di relazionarsi stesso. L’idea di un {\em buon uso} della realtà virtuale in una prospettiva rivoluzionaria non ci convince, crediamo infatti che prendere in considerazione una tale possibilità comporterebbe scegliere delle vie che non danno alcuna garanzia perché funzionali al capitale e gestite dal potere. La telematica e lo sviluppo tecnologico devono semmai essere potenziali obiettivi d’attacco.
Sabotare la produzione
La macchina del capitale si alimenta grazie alle strutture di potere (burocrazie e istituzioni), meccanismi di repressione e di controllo (carceri, tribunali, forze militari e di polizia, sistemi di sorveglianza), al lavoro, al consenso, alla produzione. La critica radicale e le prospettive di attacco devono quindi svilupparsi su più livelli, da un punto di vista sia teorico che pratico. Nello specifico il sistema di produzione e consumo è ciò che lega ed incatena direttamente gli individui al capitale e alle sue sfumature. La creazione di falsi bisogni determina la sottomissione, più o meno consapevole, allo sfruttamento nel lavoro, alle logiche di colonialismo economico. La produzione di energia, i complessi industriali e di fabbrica più o meno delocalizzati, la diffusione della merce sono alla base del funzionamento di questo mondo.
Ed è proprio in questa direzione che bisogna agire, senza aspettare che quel muro di mercificazione, che si sta infiltrando in ogni aspetto dell’esistenza, ci crolli inesorabilmente addosso, mentre proviamo a scalfirlo mirando alla superficie e non alle fondamenta, seppellendo ogni possibilità di tentativo futuro di attacco. Acquisire, scambiare e diffondere informazioni, pratiche e teoriche, in merito al reperimento e all’utilizzo di strumenti e conoscenze è uno degli aspetti che crediamo sia indispensabile discutere e sviluppare.
Possiamo porci degli interrogativi su come agire e come attaccare, ma è altrettanto importante chiedersi contro cosa agire e quali gli obiettivi da individuare, puntando sull’iniziativa piuttosto che rinchiudersi in una logica di risposta. Ciò che ci circonda pullula di luoghi attraverso i quali il capitale prolifera. Luoghi che sono nati o mutati radicalmente negli ultimi decenni. Facciamo, brevemente, un esempio, col quale mettere facilmente in evidenza alcuni dei cambiamenti ai quali facciamo riferimento. Si pensi alla differenza che c’è fra degli archivi cartacei e i database. In passato il rogo di documentazione all’interno di un ufficio anagrafe, del lavoro, di un grosso complesso industriale poteva essere un’azione distruttiva concreta. Oggi no, le informazioni, i dati d’archivio vengono conservate nei database, in piccoli strumenti elettronici, scorrono lungo chilometri di cavi. Non è forse necessario tenerne conto? E non è forse palese che i cambiamenti che il nemico sono stati radicali e non si posso ignorare, ma è necessario approfondirli e conoscerli?
Non vogliamo in questa sede fare un elenco di quelli che possono essere possibili obiettivi di attacco, preferiamo lasciare ad ognuno la fantasia nella ricerca e la creatività nel definire le proprie prospettive di rivolta.
Un altro punto sul quale ci interessa puntare brevemente l’attenzione è la dimensione internazionale che credo debba assumere o tornare ad avere la prospettiva insurrezionale. Occasioni come questa consentono di vedersi, di discutere, di confrontarsi fra compagni provenienti da diversi posti, e devono costituire un punto di partenza per l’approfondimento di relazioni future, laddove nascano e si desideri approfondirle. Ma la possibilità di stringere rapporti individuali o fra diverse realtà non è l’obiettivo finale, ma un presupposto e un aspetto della dimensione internazionalista alla quale aspiriamo. Avere dei rapporti con i compagni che vivono all’estero o scambiarsi materiale e conoscenze da solo non basta, occorre anche che ognuno di noi sappia proiettarsi in un ottica di osservazione ed azione che superi i confini territoriali.
Per spiegarci meglio. Pensiamo a ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi anni, l’insurrezione di dicembre, mille attacchi disseminati su tutto il territorio, conflittualità ripetuta con le forze dell’ordine e vari simboli e luoghi di potere, saccheggi nei supermercati e tante altre azioni che ci hanno scaldato il cuore e infuocato gli animi. Fuochi che però raramente sono traboccati dai nostri animi e hanno assunto una dimensione di concretezza.
Le ragioni sono diverse e differenti l’una dall’altra. Mancanza di contatti? Una realtà troppo lontana dalla nostra? Condizioni interne difficilmente decifrabili? Notizie sporadiche e spesso esclusivamente legate alle fonti di regime? Di certo sì, sono ragioni che probabilmente hanno pesato. Ma prima fra tutte, ad essere determinante, è stato il fatto che non eravamo, e non siamo, preparati e quindi incapaci di cogliere delle occasioni. Riuscire a portare fuori dai confini greci una conflittualità permanente e degli attacchi mirati, essere capaci di comprendere le contraddizioni che il capitale sta sviluppando un po’ ovunque, essere in grado di contrattaccare avendo a disposizione informazioni e strumenti sviluppati in precedenza, avrebbe potuto fare la differenza. È anche riflettendo su questa occasione mancata, ma se ne potrebbero citare molte altre, che si può comprendere quanto sia necessario avere la capacità di volgere lo sguardo al di là delle cose che stanno nel breve raggio attorno ad ognuno di noi ed essere pronti, essere preparati.
Nell’urgenza di voler «esserci», nella smania di partecipare alla possibilità del dilagare dell’indignazione si rischia di smarrirsi fra le provocazioni del capitale e le traiettorie di strade che non ci appartengono. Non abbiamo un mondo da salvare, né coscienze da conquistare, né verbi da diffondere. Seppur sia fondamentale una creatività che determini anche l’imprevedibilità, le prospettive e gli obiettivi non devono essere tirate fuori da un qualche magico cilindro, non ci si può svilire in una ossessiva ricerca di ruoli, numeri e presenze. È tuttavia importante l’esplorazione di nuovi sentieri di attacco, l’esplorazione di nuovi mezzi, strumenti e tecniche in relazione non solo agli obiettivi, ma ai contesti e alle forze disponibili.
Esistono infinite possibilità di intervento in senso critico e distruttivo rispetto alla realtà che ci circonda, e in tal senso riteniamo importante estendere e diversificare le pratiche di conflitto tentando di renderle, di volta in volta, riproducibili.
Palermo, 31 ottobre
[un contributo dell’Incontro anarchico internazionale a Zurigo, 10/13 novembre 2012,
su Avis de tempêtes n.19-20 del 15/8/19]
Posted in Italiano

Una questione energica

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Affrontare la questione dell’energia, o meglio delle risorse energetiche da cui dipende il buon funzionamento dello sfruttamento capitalista ed il potere statale, non è facile. Soprattutto, precisiamolo fin da subito, se non si tratta di fare un elenco di dati tecnici su questa o quella fonte di energia, di enumerare le nocività provocate dalla voracità energetica del sistema industriale, le devastazioni che comporta a livello ambientale. Ciò che vogliamo qui tentare è un’analisi più ampia, più profonda, di cosa significhi l’energia in questo mondo. È difficile evitare che rimanga in parte incompleta, ma l’obiettivo è arrivare ad una comprensione generale dell’importanza della questione energetica.
Partiamo da una semplice constatazione: da diversi decenni, con la massiccia imposizione del nucleare da parte dello Stato e la crescita esponenziale dei bisogni energetici della produzione industriale, della guerra e del modello societario di consumo di massa, numerosi conflitti sono legati alle risorse energetiche, alla produzione ed al trasporto di energia. Da un lato, vediamo come gli Stati abbiano scatenato guerre sanguinose per conquistare determinate risorse, come il petrolio o le miniere di uranio, per fare un esempio ovvio, o per assicurarsene il rifornimento continuo. Dall’altro lato, ci sono stati anche molti conflitti diciamo sociali, a volte più ecologici, a volte radicalmente anticapitalistici, a volte di rifiuto di un’ulteriore devastazione del territorio o di rifiuto dell’imposizione di certi rapporti sociali conseguenti a questi progetti: opposizione allo sfruttamento di una miniera, alla costruzione di una centrale nucleare, alle nocività causate da una centrale elettrica a carbone. Il lungo elenco di lotte e di guerre ci dà già un’idea dell’importanza che riveste l’energia, la sua produzione e il suo controllo.
Oggi, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria di trasformazione totale dei rapporti esistenti, di distruzione del dominio, sembra essere quasi scomparsa, almeno nei paesi europei, esistono tuttavia non pochi conflitti e lotte di opposizione alle infrastrutture energetiche. Pensiamo alla gigantesca miniera di lignite a cielo aperto ad Hambach, in Germania, dove la lotta contro la sua estensione è scandita da molti e vari sabotaggi che inceppano il funzionamento della miniera esistente; alla lotta contro la costruzione del gasdotto TAP, che si scontra con un’opposizione nel sud dell’Italia; alle lotte qui in Francia che hanno avuto luogo contro la costruzione di nuove linee ad alta tensione nella Durance (per aumentare la capacità di esportazione dell’elettricità nucleare francese) o in Normandia (per collegare la nuova centrale nucleare di Flamanville alla rete); senza dimenticare quelle contro l’installazione di nuove turbine eoliche o contro i permessi di esplorazione e sfruttamento del gas di scisto… Certo, tutti questi conflitti non denotano sempre aspirazioni rivoluzionarie, e spesso al loro interno si rileva non solo il cittadinismo, l’ecologismo cogestionario, la ricerca di dialogo (e quindi di riconoscimento) con le istituzioni, ma anche una fastidiosa confusione — nel migliore dei casi — oppure un opportunismo politico — nel peggiore — da parte degli autoproclamati radicali. Sul modello, ad esempio, di quanto i comitati invisibili e gli strateghi populisti di servizio teorizzano sotto forma di strategie della composizione, ovvero riunire tutto ciò che è incompatibile sotto la direzione di un alto comando politico che essi cercano di imporre con maggiore o minor successo. Ma non entriamo nel vivo di questo argomento che è già stato qui affrontato.
Ciò che tutte queste lotte potrebbero permettere, a noi anarchici e anti-autoritari che stiamo sempre a scrutare l’orizzonte per scoprire i segni del malcontento e di possibili superamenti insurrezionali — dimenticando troppo spesso che si tratta soprattutto e innanzitutto di agire in prima persona, sulla base delle proprie idee e delle proprie tensioni — è sviluppare un progetto di lotta, non necessariamente nuovo ma in ogni caso relativamente assente da qualche tempo, che proponga di tagliare l’energia a questo mondo, sia essa nucleare, termica, solare o eolica.
«Il diavolo si è installato in un nuovo domicilio. E anche se fossimo incapaci di farlo uscire dal suo rifugio da un giorno all’altro, dobbiamo per lo meno sapere dove si nasconde e dove possiamo stanarlo, per non combatterlo in un angolo in cui non trova più rifugio da molto tempo — e affinché non si prenda gioco di noi nella stanza accanto»

Günther Anders
E quindi, che cos’è l’energia di cui si parla? Già, si tratta di un termine che proviene dal lessico delle scienze fisiche, per misurare e quantificare determinati processi, come ad esempio il calore (che può essere misurato in temperatura ma, prendendo l’approccio energetico, anche in energia che il calore sprigiona per far girare, ad esempio, una turbina). In generale, tuttavia, tendiamo ad associare l’energia alla vita. Senza energia, niente vita. Senza energia, niente movimento. Che si tratti di una visione storica, maturata nel corso di secoli di scienza e capitalismo, è fin troppo ovvio. Oggi il discorso sull’energia è penetrato dappertutto, anche dove in passato veniva ancora e giustamente distinto dai processi vitali. Per determinare la vita, per misurarla e cartografarla, si misura ad esempio l’energia chimica delle cellule — base della vita biologica — ed è così che la stessa consapevolezza che la vita è molto più di una serie di dati chimici o di un filamento di DNA, tende rapidamente a svanire. Non dimentichiamo che ciò che non è quantificabile non rappresenta possibilità di accumulazione. Quindi la qualità, come l’esperienza singolare, le passioni, le sensazioni, insomma tutto ciò che costituisce la poesia della vita, non possono essere misurate e quindi facilmente trasformate in merce. L’energia è quindi un termine derivante dalle scienze fisiche, non un semplice sinonimo di vita. La distinzione potrebbe sembrare un po’ ridicola, un po’ superflua, ma non lo è: se proponiamo di tagliare l’energia a questo mondo, questa distinzione che suggeriamo come preliminare assumerà tutta la sua importanza.
Quando parliamo di energia, di risorse energetiche, bisogna quindi intendersi. Non si tratta, come solitamente si dice nella lingua parlata, che «l’umano libera energia» contenuta nell’atomo, nel petrolio, nell’olio di colza, nel gas o nel vento. No, è attraverso strumenti, strutture, processi e macchine che l’energia viene misurata, prodotta, generata, convertita, accumulata, immagazzinata e trasportata. Il soffio del vento non è semplicemente «energia cinetica». In sé, è inutilizzabile per il capitale e lo Stato: occorrono pale eoliche, turbine, cavi per trasformarla in energia elettrica al fine di far funzionare altre macchine. Ci sarebbe quindi molto da dire su questa stessa idea di conversione delle risorse in energia elettrica ad uso industriale o domestico, per esempio sul rendimento di queste conversioni. Basti pensare a quanti litri di petrolio sono necessari per produrre un chilo di grano, che si potrebbe a sua volta quantificare in termini di energia (calorie), per constatare fino a che punto il rendimento dell’agricoltura industriale a petrolio non sia affatto così razionale come si pensa normalmente. Ma ciò ci allontanerebbe dal nostro soggetto e rischieremmo di impantanarci in penosi dibattiti tecnici.
Riprendiamo il filo: quando parliamo di energia, parliamo qui di tutti i procedimenti, oggi quasi tutti industrializzati, per convertire qualcosa in forza motrice, in energia elettrica… Checché se ne dica, questi diversi procedimenti messi a punto nel corso della storia non derivano da una semplice volontà di razionalizzazione, ed ovviamente ancor meno da una preoccupazione etica o ambientale come si vanta oggi il dominio, che investe massivamente nello sfruttamento di altre risorse come le cosiddette energie rinnovabili. Dato che energia equivale a potere, tali processi derivano da strategie. La generalizzazione dell’uso del petrolio come carburante è istruttiva a questo proposito. Il pericolo rappresentato da una forte dipendenza dallo sfruttamento del carbone è stato colto da alcune grandi potenze, in particolare dagli Stati Uniti. Richiedendo strutture che concentrano migliaia di proletari in uno stesso luogo per estrarre il carbone, dando vita a potenti movimenti operai talvolta sovversivi, il carbone costituisce un grosso rischio, inaccettabile per lo Stato, di vedere la sua produzione paralizzata da vasti movimenti di sciopero. La petrolizzazione del mondo è stata in gran parte una risposta, e non solo a titolo preventivo, ai movimenti operai rivoluzionari che si sviluppavano massicciamente proprio alla fonte della riproduzione del capitalismo. Poiché sebbene lo sfruttamento del petrolio necessiti ovviamente anch’esso di manodopera, i pozzi non ne richiedono tanto quanto una miniera di carbone. Pensiamo ai vasti giacimenti petroliferi del Texas, dove migliaia di macchine estraggono a perdita d’occhio senza alcun intervento umano oltre alla manutenzione tecnica, ciò che fa funzionare questo mondo. Finite le pericolose concentrazioni di proletari laddove un numero molto più ridotto di tecnici, operai specializzati e addetti alla sicurezza sono sufficienti per garantire il flusso continuo. A sua volta, la nuclearizzazione del mondo deriva molto meno da una ricerca della famosa «indipendenza energetica» degli Stati, in particolare dopo la crisi petrolifera del 1973, quanto dall’assoggettamento e dal maggiore incasellamento delle popolazioni. Con il nucleare, l’organizzazione gerarchica è diventata tecnicamente inevitabile, ponendo grossi ostacoli ad ogni orizzonte rivoluzionario di distruzione dell’esistente. Insomma, lo sfruttamento di una tale fonte energetica segue i disegni del dominio.

Ma allora, le energie rinnovabili odierne, in nome delle quali le colline ed i mari sono coperti di pale eoliche, i campi ed i deserti di pannelli fotovoltaici, le valli inondate e il corso e il flusso dei fiumi modificati e regolamentati? Una preoccupazione ambientale? Certo che no, oppure sì, se intendiamo l’estensione di queste energie rinnovabili come il proseguimento dello stesso mondo industriale e produttivista con altri mezzi. Le irreversibili devastazioni e le contaminazioni lasciate in eredità da due secoli di industrialismo capitalista e statale spingono oggi il dominio a cercare superamenti tecnici e soluzioni tecniche per ridurre l’inquinamento e l’avvelenamento. Si tratti di fantasmi o di possibilità reali, in fondo non cambia nulla: è comunque la perpetuazione di quello stesso dominio che intendiamo abbattere.
«La sincope è una momentanea sospensione dell’attività cardiocircolatoria e cerebrale che provoca una perdita improvvisa e transitoria della coscienza. Gli effetti possono essere irrilevanti, un momentaneo scombussolamento, ma talvolta possono anche essere più gravi. In alcuni casi se l’interruzione del flusso di sangue nell’organismo umano si prolunga oltre certi limiti sopraggiunge la morte. Fra tutte, la “sincope oscura” — quella cioè priva di cause identificate, logiche — è considerata la più pericolosa. Perché non consente ai medici, tecnici del corpo, di intervenire.
Anche il funzionamento dell’organismo sociale è garantito da un insieme di flussi. Flussi di merci, di persone, di dati, di energie. Flussi che possono sospendersi per i motivi più svariati. Un guasto tecnico, ad esempio. Oppure un furto di materiali. Magari un sabotaggio».
Sincopi (2013)


Le energie rinnovabili tentano oggi di mitigare un rischio importante. Cioè, per far fronte a bisogni energetici esponenziali e ad una dipendenza sempre maggiore da un rifornimento elettrico stabile di interi settori dell’economia, dell’amministrazione statale o dell’orizzonte cibernetico che si afferma ad una velocità e con una potenza impossibile da sopravvalutare, il dominio deve non solo moltiplicare, ma anche diversificare i processi per generare energia elettrica. Anche il vasto parco nucleare francese non sa fare fronte ai «picchi di consumo», per ragioni tecniche, ragion per cui le centrali elettriche convenzionali non sono mai state abbandonate. Visto che i progressi tecnici permettono oggi un rendimento più elevato (sebbene, dato che il vento non soffia sempre e non così forte, le pale eoliche hanno ad esempio un fattore di capacità molto basso, attorno al 20%), il sistema si è lanciato in questa diversificazione energetica permessa dalle energie dette rinnovabili. Non si tratta di una transizione energetica, come del resto non è mai avvenuta nella storia, bensì di una addizione, come dimostra non solo il fatto che le centrali nucleari o convenzionali non siano chiuse (la loro produzione non potrebbe in ogni caso venire sostituita dalle sole energie rinnovabili), ma anche il fatto che nuove centrali vengano costruite o sviluppate (EPR o altro), che altre fonti di energia vengano esplorate, testate ed utilizzate, come gli impianti a biomassa (difficili tuttavia definirli «rinnovabili», anche nella neolingua del potere, dal momento che la loro prospettiva è principalmente quella di bruciare piante geneticamente modificate), o che uno dei tre principali programmi di ricerca finanziati dall’Unione Europea è quello del trasporto di elettricità per cercare, soprattutto attraverso l’uso di nano-materiali, di ridurre in minima percentuale la perdita di calore sulle linee.

In generale, le energie rinnovabili consentono di accrescere ciò che ormai viene definita la resilienza di approvvigionamento elettrico, ovvero la sua capacità di continuare a funzionare in caso di intoppi, si tratti di una tempesta, di un accidente o di un sabotaggio. Questa volontà di resilienza spinge anche verso una diminuzione della centralizzazione della rete elettrica, nella misura in cui è possibile. Ma non confondiamo le loro parole con le nostre valutazioni, perché l’attuale centralizzazione della rete elettrica significa già che siamo di fronte ad una rete con strutture attaccabili disseminate in tutto il territorio, dappertutto. L’utilizzo dell’elettricità secondo l’uso attuale della società industriale, rimarrà infatti ancora a lungo dipendente da una vasta rete di trasporto e distribuzione.
Non sorprenderà nessun nemico dell’autorità che le infrastrutture energetiche siano quindi classificate dall’Unione Europea (così come da quasi tutti gli Stati del mondo) con il leggiadro eufemismo di «infrastrutture critiche», si tratti ovviamente di una centrale, ma anche di un gasdotto, di una linea d’alta tensione, di trasformatori elettrici, di una pala eolica o di un campo di pannelli fotovoltaici. Nella relazione annuale 2017 dell’Agenzia di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai giganti mondiali delle assicurazioni), si poteva così leggere che sull’insieme di attentati e sabotaggi contati come tali nel mondo e compiuti da attori «non statali», messe insieme tutte le tendenze ed ispirazioni, niente meno che il 70% prendevano di mira le infrastrutture energetiche e logistiche (ossia: tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, antenne di trasmissione, linee elettriche, depositi di carburante, miniere e ferrovie). Che le motivazioni dietro tutti questi sabotaggi ci soddisfino o meno, non è questo il punto. Ciò su cui si potrebbe riflettere è sapere — essendo l’energia un perno del dominio nel senso che è necessaria alla sua riproduzione tanto quanto sottomette e rende dipendenti i dominati — se sia possibile sviluppare una progettualità anarchica su questo terreno. In altre parole, disponiamo di analisi sufficienti per comprendere il ruolo svolto dall’energia, per cogliere l’importanza dei nuovi progetti energetici, ed è immaginabile sviluppare e proporre un metodo di lotta basato sull’azione diretta, la conflittualità permanente e l’auto-organizzazione che miri alle infrastrutture che permettono a questo mondo di alimentarsi di energia? Riusciamo a scorgere, immaginare ed elaborare una progettualità che riesca a portarci di là delle occasioni presentate dal calendario dell’attualità, determinando noi stessi i tempi ed angoli?
Quasi in conclusione di questo articolo, diventa necessario un piccolo ulteriore sforzo di attenzione. Faccio ora una piccola digressione, perché tutta questa storia sull’energia in definitiva è solo una possibilità, una potenzialità, niente di più. Ciò che mi interessa alla fine, ciò che merita a mio avviso l’attenzione dei vari compagne e compagni, è ciò che si evoca spesso in mancanza di meglio — e talvolta a casaccio, come è in generale abitudine tra gli anarchici, amanti incalliti del caos e del disordine, anche a proposito di termini più o meno precisi — con il termine di «progettualità». Non scappate subito, o non ancora.
La questione non è necessariamente così barbosa come sembra. Secondo me, gli anarchici non dovrebbero correre dietro agli avvenimenti (neanche quando ci presentano situazioni simpatiche come scontri con la polizia e distruzioni), ma dovrebbero cercare loro stessi di creare gli avvenimenti. Non subire l’iniziativa altrui, ma prendere l’iniziativa. Non seguire il corso delle cose, ma andare contro corrente, vivificare la nostra corrente nel fiume della guerra sociale. È da lì che si potrebbe, che si dovrebbe — se me lo consentite — partire: con un progetto autonomo che sia nostro, che intervenga in una realtà che ci circonda e ci ingloba, un progetto che renda possibile l’agire. Non può essere la realtà a intervenire in noi, per suggerirci o sconsigliarci le cose da fare. È proprio per andare in questa direzione che penso ci sia bisogno di una tale progettualità anarchica: proiettarsi nella realtà della guerra sociale con degli obiettivi in testa, con metodi e proposte in tasca, con analisi per cercare di cogliere i movimenti del nemico. Non è questo il cuore dell’anarchismo autonomo e informale, quello del nostro anarchismo? Basta correre dietro agli altri solo perché è la situazione del momento o il soggetto politico del giorno (cioè senza alcuna altra idea in testa se non quella di partecipare). Se parliamo agli altri, è perché abbiamo qualcosa da dire, da proporre e da suggerire. Se analizziamo i conflitti che avvengono intorno a noi, non è per perdere la nostra bussola nell’ammirazione o nel disgusto di quanto fanno o non fanno gli altri. Se disertiamo le scene della contestazione concertata e della composizione, è per aprire terreni di lotta su ben altre basi. Certo, so che non è troppo difficile essere d’accordo con le frasi dette sopra. Ma ciò che lo è di più, è andare oltre ed afferrare il toro per le corna: elaborare una progettualità che permetta di agire in prospettiva, qualcosa che abbiamo creato, che ci appartiene, che amiamo, che approfondiamo, senza farci limitare da ciò che succede vicino a noi, da ciò che si dice sui social network o sui siti di movimento, attraverso cui l’attualità viene bombardata come soggetto da commentare all’infinito, tutte cose che alla fine noi subiamo. Senza progettualità, è difficile arrivare da qualche parte, si finisce con l’agitarsi e lasciarsi agitare senza orizzonte.
«La distruzione necessita — oltre che di conoscenze elementari del nemico, di proprie realizzazioni e propri progetti — di una conoscenza e una disponibilità dei mezzi di distruzione. È l’aspetto costruttivo menzionato; ricercare, sperimentare e poi condividere le maniere di attaccare la bestia tecnologica, le sue unità produttive e i suoi laboratori, le sue antenne di telecomunicazione e le sue infrastrutture energetiche, i suoi strumenti di propaganda e le sue fibre ottiche. Ciò di cui avremmo bisogno è una nuova cartografia, una cartografia del nemico che non menzioni solo i posti di polizia, le banche, gli uffici di partiti e sindacati, le istituzioni, ma sulla quale si possa leggere anche tutto ciò che alimenta lo sfruttamento e il dominio, tutto ciò che ci incatena a questo mondo. Una simile cartografia può armarci in qualsiasi situazione. Che sia in presenza di una calma piatta o di un movimento di rivolta, che si sia coinvolti in una lotta specifica o si intervenga per sabotare una nuova fase nelle guerre condotte dagli Stati, essa servirà per guardare meglio, per meglio scorgere le nostre possibilità di azione. Non è detto che nel corso di un movimento contro una ristrutturazione dello sfruttamento sia impossibile indicare i ripetitori di telefonia mobile come infrastrutture necessarie alla flessibilità del lavoro; così come non è detto che lo scontro fra arrabbiati e poliziotti in un quartiere non possa estendersi al sabotaggio delle infrastrutture energetiche. “Abbandonare ogni modello per studiare le possibilità” diceva il poeta inglese, abbandonare i modelli obsoleti di un confronto simmetrico, abbandonare ogni mediazione politica o sindacale, per studiare le possibilità di portare il conflitto soprattutto laddove il potere non vuole che avvenga».

Les chaînes technologiques d’aujourd’hui et de demain (2016)
Torniamo ora a questa famosa questione energetica: elaborare una progettualità su questo terreno potrebbe rivelarsi molto interessante. Perché, se questa società-titanic sta effettivamente andando verso il naufragio, distruggendo al suo passaggio ogni vita autonoma, ogni vita interiore, ogni esperienza singolare, devastando le terre, avvelenando l’aria, inquinando le acque, mutilando le cellule, pensiamo davvero che sarebbe spiazzante o troppo azzardato suggerire che per nuocere al dominio, per avere qualche speranza di aprire orizzonti sconosciuti, per dare qualche spazio ad una libertà senza misura e senza freni, il suggerimento di scalzare le sua fondamenta energetiche non sarebbe prezioso?
Una tale progettualità dovrebbe chiaramente prendere di mira un asse fondamentale della riproduzione del dominio, l’energia, anche se è vero che fino quando non si prova non si sa cosa potrebbe generare in termini di trasformazione sociale il suo disturbo o la sua paralisi, il che non toglie che in ogni caso sappiamo che è necessario perlomeno che la macchina si fermi perché possa emergere qualcos’altro. Inoltre, esistono già molti conflitti in atto o emergenti, che possono consentire superamenti insurrezionali nel contesto di lotte specifiche contro un obiettivo preciso, come potrebbe esserlo ad esempio una nuova centrale nucleare, una miniera, un parco eolico o una linea ad alta tensione. Ma ancora più profondamente, e qui tocchiamo ciò che dovrebbe stare a mio avviso alla base di una tale progettualità, è che il modo in cui il sistema energetico è costruito (dalle centrali elettriche ed eoliche ai trasformatori, dalle linee ad alta tensione alle scatole elettriche di media tensione, che corre sotto i marciapiedi e lungo le strade) non richiede una concezione centralista o autoritaria dello scontro, al contrario. Una tale progettualità fa appello a piccoli gruppi autonomi, che agiscano ognuno secondo la propria analisi, la propria abilità, la propria creatività e le proprie prospettive, praticando  l’azione diretta contro le decine di migliaia di obiettivi, spesso senza particolari difese e raggiungibili in molti modi differenti. Se la storia delle lotte rivoluzionarie è piena di esempi significativi sulle possibilità d’azione contro ciò che fa girare la macchina statale e capitalista, basta gettare uno sguardo alle recenti cronologie di sabotaggi per accorgersi che in diversi contesti europei nemmeno il presente ne è sprovvisto.
Disfarsi degli imbarazzi che accompagnano molto spesso i dibattiti tra rivoluzionari quando si tratta di tagliare la corrente di questo mondo. Osare affrontare la questione della progettualità per emanciparsi dal triste destino di anarchici troppo spesso a rimorchio d’altri. Ciò che può aprirsi è la possibilità di migliaia di sabotaggi diffusi, che colpiscano l’approvvigionamento energetico del mostro che bisogna abbattere. Nessuno può prevedere a cosa ciò possa portare, ma una cosa è certa: è una pratica della libertà.
[Avis de Tempêtes, n. 18, 15 giugno 2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

E se?

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Dopo l’incendio parziale della cattedrale di Notre-Dame de Paris, oggetto di un gran profluvio di lacrime lo scorso aprile, lo Stato non ha mancato di appellarsi ad una rinnovata unità nazionale approfittando del 75° anniversario dello sbarco in Normandia. Alla presenza di un bel mondo composto da assassini gallonati ed altri capi di Stato, si è svolta in particolare una cerimonia di consegna di berretti verdi ai giovani ammessi nelle truppe d’elite dell’esercito francese (i commando della Marina). In questa occasione, sarebbe probabilmente sembrato sconveniente collegare i due avvenimenti di aprile e giugno, sottolineando che ovviamente nella storia c’è cattedrale e cattedrale. Come quella di Parigi, il cui incendio accidentale può essere trasformato in dramma esagonale destinato a far serrare i ranghi, o come quella sempre gotica di Rouen, il cui incendio doloso di settantacinque anni prima è da dimenticare, in quanto causato da un esercito alleato. Sventrata per la prima volta da sette missili durante i bombardamenti anglo-americani del 19 aprile 1944, quando 6.000 bombe piombarono sulla città, anche la sua guglia di Saint-Romain venne bruciata il primo giugno di quell’anno dagli stessi aerei militari.
Radere al suolo per tre quarti delle città in pochi giorni, giustificati dal diritto e dalla libertà come nel caso degli Alleati in Normandia contro Caen o Le Havre, poi in Germania contro Dresda, e fino all’apice dell’orrore atomico in Giappone contro Nagasaki e Hiroshima, è diventata da allora una tecnica quasi banale di terrorismo di Stato. Tra i massacri aerei praticati regolarmente in varie occasioni (se quelli di Assad, della Russia e della NATO in Siria significano qualcosa per voi, o quelli dei clienti dalla Francia nello Yemen), inutile precisare che i «capolavori d’arte e cultura» distrutti incidentalmente sembrano essere ben poca cosa. La famosa frase di Durruti sulle rovine che non ci spaventano si basava già sulla medesima constatazione, poiché non concerneva le azioni dei rivoluzionari, ma quelle di un nemico disposto a tutto pur di preservare il suo potere, compreso il precipitare nel fascismo: «Siamo noi gli operai, quelli che fanno funzionare le macchine nelle industrie, che estraggono il carbone e i minerali dalle miniere, che costruiscono le città… perché allora non ricostruiamo ciò che è stato distrutto in condizioni migliori? Noi non abbiamo paura delle rovine. Sappiamo che erediteremo solo macerie, perché la borghesia cerca di demolire il proprio mondo prima di abbandonare la scena della storia. Ma ripeto che non abbiamo paura delle rovine, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori». 
Al di là delle guerre, lo Stato e la Chiesa non hanno comunque mai prestato molta attenzione alla demolizione di vecchi edifici storici, di qualunque tipo fossero (i loro — secondo la moda del momento o per esibire un potere maggiore — o quelli dei loro predecessori e dei loro concorrenti, per non parlare di quelli dei poveri), pur di erigerne di nuovi. Il loro problema era piuttosto che non fosse direttamente la popolazione insorta a radere al suolo i loro palazzi. Per rimanere nell’ambito della superstizione, diverse cattedrali gotiche non hanno forse sostituito un precedente edificio romanico, il quale a sua volta ha rimpiazzato un luogo di culto pagano di cui si volevano cancellare le tracce? La cattedrale di Saint-Etienne del 1085 non era stata distrutta a Besançon nel 1675 dall’architetto di Luigi XIV per costruire al suo posto una fortezza?
Passi da parte del dominio, ma come spiegare, d’altra parte, che accanto a rari individui che manifestano la loro gioia dopo l’incendio della cattedrale di Parigi (ad esempio con quegli adesivi debitamente illustrati che proclamano «la sola chiesa che illumina è quella che brucia»), molti sudditi dello Stato si siano indignati per la sua parziale distruzione? A causa del selfie turistico dell’anno precedente che era stato appena rovinato in quanto non più corrispondente alla realtà? Può darsi. In ogni caso, sono soprattutto dei sermoni sul «patrimonio perduto della nazione» a venire diffusi a destra e a manca, dal lavoro al supermercato, per giustificare questa comunione laica.
Non per niente i concetti di patrimonio e di monumento storico hanno cominciato a diffondersi largamente solo nel 1790: con la confisca dei beni della Chiesa, poi di quelli dei nobili emigrati e della monarchia, i nuovi padroni repubblicani a capo dello Stato si sono ritrovati schiacciati tra devastanti tumulti popolari e continuità dell’autorità. Con la Commissione dei Monumenti e poi con la Commissione delle Arti, lo Stato si è poi arrogato il monopolio della decisione e della selezione di ciò che andava distrutto dell’Antico Regime e ciò che i suoi dirigenti intendevano conservare. Riferendosi ad una tribù germanica che saccheggiò Roma nel 455, un deputato forgiò addirittura il neologismo di «vandalismo» nel 1794 per stigmatizzare quei rivoluzionari che continuarono la distruzione del vecchio mondo (comprese le cattedrali di Liegi e di Bruges). Dalla Grande Rivoluzione alle insurrezioni che hanno attraversato il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la Repubblica ha impiegato molto tempo ad imporre la sua nozione di monumenti sacri di fronte ai furori iconoclasti e al vandalismo di masse insorte che tornavano incessantemente a saccheggiare ciò di cui era diventata garante.
Tornando a Parigi e alla sua cattedrale, la cui demolizione era stata addirittura considerata dalla città intorno al 1830 in quanto fatiscente e ormai di ben poco interesse per moltissime persone (un’altra decina erano state vendute o demolite dopo la rivoluzione), essa divenne «patrimonio nazionale», «eterno simbolo della nazione» e altre stronzate del genere solo in seguito alla contemporanea decisione dello Stato di ricrearla (inventando la sua guglia che si è consumata lo scorso aprile, aggiungendo una sagrestia e un sagrato sei volte più grande dell’originale, oltre alle sue famose chimere) e di radere al suolo tutti gli altri edifici storici dell’île de la Cité in cui si trova. E questo su ordine di un famoso barone [Georges-Eugène Haussmann] che Benjamin Péret descriveva come colui che aveva «pettinato Parigi con le mitragliatrici». Se questa cattedrale è ancora in piedi, è soprattutto un riflesso dell’alleanza forgiata tra il 1830 e il 1880 dai cattolici che volevano riconciliare il paese con una pietà perduta, i monarchici che cercavano di ricongiungersi con un passato vicino e una borghesia liberale che stava ricostruendo la vecchia capitale secondo le sue esigenze militari e commerciali, conservando qua e là alcune vestigia che ancora la interessavano.
Perché, in fondo, che cos’è una cattedrale, e perché lo Stato l’ha preservata attraverso le epoche, mentre man mano demoliva spudoratamente la maggior parte degli altri edifici? Come una prigione, una cattedrale non è un simbolo, è prima di tutto un edificio del potere con una funzione ben precisa (tortura fisica punitiva in un caso, tortura morale e psicologica preventiva nell’altro). Una cattedrale è una struttura progettata e utilizzata da e per i potenti per celebrarli, e contro gli individui che vorrebbero dominare, dirigere, controllare, punire e formare nella carne e nello spirito. Una cattedrale in funzione è materia vivente, non solo un mucchio di pietre e vetri, è la difesa di un rapporto sociale che perpetua sofferenze e miserie infinite, è un intero mondo di oppressione, è una continuità dell’autorità attraverso il tempo.
In quel di Parigi, per tornare all’inizio, è là che il presidente della Repubblica Reynaud si recò nel maggio 1940 per ottenere la salvezza della nazione, è dove Pétain partecipò, nell’aprile 1944 accompagnato dal cardinale arcivescovo della capitale, ad una messa solenne in memoria delle vittime dei bombardamenti anglo-americani, è dove De Gaulle fece celebrare una messa della vittoria quattro mesi dopo, in agosto, e dove nel febbraio 1951 il nuovo arcivescovo di Parigi fece applaudire il maresciallo Pétain da tutti i fedeli in ricordo della battaglia di Verdun. È in questa cattedrale che furono celebrate prima le esequie nazionali del ministro della Propaganda di Vichy ucciso dalla Resistenza il primo luglio 1944 (P. Henriot), e poi quelle di De Gaulle nel dicembre 1970 o di Mitterrand nel gennaio 1996, davanti a un parterre di capi di Stato.
Una prigione o una cattedrale che restano in piedi durante un’insurrezione sono un insulto permanente alla libertà in azione e un’offesa a qualsiasi altro avvenire. Che questi edifici siano dotati di vili torrette di guardia o da incantevoli guglie non fa differenza, raderle al suolo è il minimo che meritano. Non sono luoghi neutri o riutilizzabili per altri scopi, in quanto ogni muro della loro architettura trasuda sia il potere degli uni che le catene di tutti gli altri. Accanto agli incendi del Municipio, del Palazzo delle Tuileries, del Tribunale, della Prefettura, del Ministero delle Finanze, del Palazzo d’Orsay, del Palazzo Reale e di una parte del Louvre, i comunardi non si erano sbagliati durante la settimana sanguinosa dal 21 al 28 maggio 1871, prendendo di mira anche la cattedrale.
Notre-Dame de Paris è stata oggetto di un incendio pianificato in concomitanza con quelli di altri luoghi di potere situati poco lontani, dopo che carri di polvere nera, di catrame, di essenza di trementina e di petrolio vi erano stati depositati preventivamente. Quel mercoledì 24 maggio 1871, sotto la pressione delle truppe di Versailles che tre giorni prima erano entrate nella capitale a prezzo di feroci combattimenti, alcuni comunardi avevano ammucchiato le centinaia di panche e sedie presenti in ogni angolo di Notre-Dame per accendere fuochi costituiti a forza di barili di petrolio. Quando le fiamme cominciarono a svolgere il loro compito nel tempio del rospo di Nazareth, lo sfortunato intervento di alcuni internisti farmacisti accorsi dal vicino ospedale riuscì a far spegnere quel memorabile tentativo.
E se? E se l’incendio di Notre-Dame il 15 aprile 2019 non fosse stato accidentale? Se fosse stato, come nel passato, opera di anti-autoritari, con tutte le conseguenze in termini di esecrazione popolare e di repressione? Quanti di noi difenderebbero il fatto che si trattava di un patrimonio nazionale da demolire, di un monumento storico da eliminare? Abbastanza in ogni caso da affermare che non abbiamo paura delle rovine da noi stessi generate contro le strutture del potere. A volte basta una semplice scintilla.
[Avis de tempêtes, n. 18, 15 giugno 2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Arriva!

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Arriva, la rivoluzione arriva!
Toh, ecco un’altra trovata dei pubblicitari che cercano di piazzarci il loro ultimo prodotto, come suol dirsi. Ma non questa volta. Oggi, sono smanettoni falsamente rilassati e pappagalli di Stato a suonare le loro trombe: una nuova «rivoluzione digitale» sarebbe in marcia con l’imminente arrivo del 5G. La Corea del Sud è stata la prima a inaugurare la sua commercializzazione a livello nazionale nel mese di aprile, mentre Stati Uniti, Cina e Giappone dovrebbero seguire il suo esempio nei prossimi mesi (in tale città o in tale regione), seguiti dal vecchio continente l’anno che viene.
Se la questione riguardasse il galoppante spossessamento generalizzato, la crescente derealizzazione che colpisce la sensibilità umana in profondità, il rafforzamento partecipativo delle reti di alienazione e controllo o l’inasprimento delle condizioni di sfruttamento – in breve le conseguenze sulla nostra vita di qualsiasi evoluzione tecnologica –, non ci sarebbe nulla di nuovo in questa copertura supplementare che subiremo! Pur facendo attenzione a non prendere per oro colato il discorso del potere su ogni suo «progresso», e a non scambiare la parte (tale innovazione) per il tutto (il dominio), come talvolta hanno cercato di fare alcuni oppositori della manipolazione genetica della vita o delle nanotecnologie, non possiamo tuttavia limitarci ad osservare che il 5G sarà lo stesso in peggio. Né a restare con le mani in mano di fronte all’accelerazione del disastro ambientale, col pretesto che tutto si equivale e che c’è già tanto da distruggere. Perché, in fondo, è anche una questione di prospettiva.
Questa quinta generazione di standard considerati una «tecnologia chiave» è essenzialmente un salto di potenza che permetterà al dominio di aumentare significativamente il suo controllo, aprendo una serie di possibilità da far sbavare battaglioni di ricercatori, industriali e creatori di startup. In termini concreti, mettendo nello stesso paniere la rete Internet e gli smartphone da un lato, la moltiplicazione di sensori (in città come al lavoro) abbinati a dispositivi e macchine di ogni genere dall’altro, abbiamo sotto gli occhi enormi raccolte e scambi di dati. In questo quadro, il 5G consente dei flussi nominali fino a mille volte più rapidi di quelli delle reti mobili nel 2010, e fino a cento volte più rapidi del 4G. Moltiplicando la velocità, la reattività e la capacità quantitativa di questi scambi di dati, si profila lo sviluppo, finora lento e limitato (perché troppo avido di dati), di un mondo totalmente interconnesso, ma stavolta su scala molto ampia: un mondo zeppo di telecamere a riconoscimento facciale, di veicoli autonomi e di congegni telecomandati a distanza, di droni polizieschi e militari pilotati da un’intelligenza artificiale, della famosa smart city, di un’amministrazione digitale di soggetti statali o di nuovi processi di automazione della produzione… senza contare la trasformazione dei rapporti sociali. Nella neolingua, con 5G si parla di «realtà e umano accresciuti», di «gestione dei flussi di persone, veicoli, derrate, beni e servizi in tempo reale» o di «facilitare il controllo delle catene produttive nei siti industriali». Infine, come sottolineava un recente opuscolo contro l’organizzazione nella capitale tedesca, a maggio, della più grande mostra europea sull’Intelligenza Artificiale (IA), lo sviluppo di quest’ultima è legato anche a quello del 5G: «L’IA, insieme ad altri fattori, sta cambiando l’economia e la società, grazie a potenti processi di automazione. Sia nell’assemblaggio, nell’istruzione, nella medicina, in servizi come i call center o nella guida, ma anche nel perfezionamento della tecnologia militare, come la navigazione di droni autodistruttivi – l’IA è prioritaria. Le IA sono utilizzate da quasi tutti i principali fornitori di servizi su Internet, come Google, Facebook e Amazon. In futuro, dovremo contare sul fatto che la maggior parte di dispositivi e oggetti saranno dotati di sensori connessi via Internet ai «server» delle multinazionali («l’Internet degli oggetti», «Internet of Things – IoT»). Per poter elaborare una tale massa di dati, l’Intelligenza Artificiale ha bisogno di questi Big Data, che a loro volta richiedono infrastrutture come la rete 5G o i cavi in fibra ottica».
Dal 2018, le bande di frequenza assegnate per il 5G (all’incirca 700 MHz; 3,5-3,8 GHz e 26-28 GHz) sono state vendute all’asta per 20 anni, con grossi ricavi per gli Stati: 380 milioni di franchi alla Svizzera (sborsati da Swisscom, Sunrise e Salt), 437 milioni di euro alla Spagna (da Telefónica, Vodafone e Orange), 1,36 miliardi di sterline nel Regno Unito (da Telefónica, Vodafone, British Telecom e Hutchison Whampoa), 6,5 miliardi di euro all’Italia (da Telecom Italia, Vodafone, Iliad e Wind) e almeno 5,8 miliardi di euro alla Germania (da Deutsche Telekom, Vodafone, Telefónica e United Internet). In Francia (con Bouygues, Iliad, Orange e SFR) cominceranno in autunno e in Belgio l’anno prossimo. La maggior parte dei tralicci che sostengono il 4G verranno gradualmente adattati tecnicamente per il 5G (generalmente prodotto da Huawei, Ericsson o Nokia), ma nuovi ripetitori specifici giganti o in miniatura saranno installati dappertutto*, con una potenza ancora più nefasta per la salute, creando un aumento generale e massiccio di esposizione alle onde.
Certo, in Francia la commercializzazione del 5G inizierà solo nel 2020 e la massificazione del suo utilizzo è prevista per il 2022, ma fin d’ora si stanno effettuando test sul campo necessari per il suo impiego, trasformando gli abitanti di diverse città in topi da laboratorio: Nantes, Tolosa e Francazal (SFR); Lille-Douai (dieci ripetitori 5G), Parigi (quartiere dell’Opéra), Marsiglia (place de la Joliette) e Nantes (Orange); Lione, Bordeaux (antenna 5G accanto al museo d’arte contemporanea), Linas-Montlhéry (sull’autodromo) e Saint-Maurice-de-Rémens (a Transpolis) (Bouygues). E per non essere da meno, anche l’ente francese per l’energia nucleare e alternativa (CEA) è autorizzata a testare il 5G a Grenoble e sulla costa normanna tra Ouistreham e Portsmouth servendosi di due traghetti della Brittany Ferries. Al 27 dicembre 2018, erano 25 i test effettuati in 18 città cui fare riferimento ufficialmente, classificati secondo nove usi: mobilità connessa, IoT, smart city, telemedicina, video UHD, videogiochi, esperimenti tecnici, industria del futuro e realtà virtuale, con questi ultimi due settori che da soli raggruppavano 20 dei 25 test in vivo. Un esempio applicato all’«industria del futuro» è un’azienda-pilota automatizzata con robot che gestisce 50 vacche da latte a Shepton Mallet, nel sud dell’Inghilterra. I collari connessi al loro collo comunicano direttamente in 5G con i molteplici sensori e robot installati nell’azienda per automatizzare la mungitura, la spazzolatura, l’alimentazione e l’apertura delle porte in base alle condizioni atmosferiche. Questo progetto è finanziato dal governo inglese (Agri-EPI Centre) e sviluppato da Cisco.
Fortunatamente, come ci ricordano periodicamente i fiammeggianti barbecue in Francia, in Germania e in Italia, tutto questo si basa principalmente su una circolazione di dati tra data center/server e trasmettitori-spioni, le cui informazioni viaggiano fisicamente attraverso reti di cavi in fibra ottica e ripetitori telefonici, il tutto dipendente da un’alimentazione elettrica (a sua volta composta da cavi, trasformatori e tralicci). Oltre ad altrettante strutture sparse nel territorio, alla portata di tutti coloro che dispongono di un pizzico di fantasia e di una sensibilità ancora palpitante. Essendo d’altronde la G l’unità corrispondente all’accelerazione della gravità sulla superficie terrestre, è giunto il momento di alleggerire la nostra esistenza dal peso di queste protesi, sia fisiche che mentali. Che per di più, sono in 5G!
* Una grande antenna-ripetitore 4G con MIMO («entrate multiple, uscite multiple») regge attualmente fino a una dozzina di connettori – i grandi parallelepipedi bianchi verticali fissati sopra – (otto per la trasmissione e quattro per la ricezione). Un’antenna 5G con MIMO può portare fino ad un centinaio di questi connettori e in beamforming (cioè che non emette il segnale in tutte le direzioni sotto forma di ombrello ma solo nella direzione richiesta). In città densamente popolate, le mini antenne 4G (piccole celle) offrono una copertura di 20 metri per otto utenti, mentre il 5G permette di collocare queste antenne in miniatura su lampioni, pensiline per autobus, cartelloni pubblicitari ogni 300 metri per centinaia di utenti contemporaneamente. JC Decaux è ovviamente già in lizza.
[Avis de tempêtes, n. 17, 15/5/2019. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Giù la maschera

Posted on 2021/10/07 - 2021/10/07 by avisbabel
Non faceva molto caldo quel giorno. Eppure il sole aveva brillato per tutto il giorno sulla capitale francese. Il 4 aprile 2019, alcuni uomini sono atterrati sull’asfalto di un qualsiasi aeroporto parigino. Venivano dalla Libia e avevano una missione: chiedere l’accordo di quello Stato per scatenare una vasta offensiva militare. Quegli uomini arrivati in tutta fretta erano emissari del maresciallo Haftar, capo dell’esercito nazionale libico (ANL). Parigi aveva dato il via libera. Qualche ora dopo, migliaia di soldati dell’ANL si sarebbero messi in marcia per conquistare Tripoli, la capitale libica nelle mani del governo di unità nazionale (GNA), riconosciuto dagli organismi internazionali come il «governo legittimo» di un territorio lacerato tra milizie, parlamenti, gruppi paramilitari, mercenari e jihadisti.
Dal 4 aprile, le battaglie hanno causato centinaia di morti e feriti fra i combattenti e la popolazione. Mentre le truppe dell’ANL avanzavano, decine di migliaia di persone erano in fuga, 13000 delle quali solo per sfuggire alla battaglia di Tripoli che era iniziata. Migliaia di altre si apprestarono a salire a bordo di barche improvvisate nel tentativo di raggiungere un’Europa che aveva trasformato il Mediterraneo in un gigantesco cimitero.
ANL e GNA, una guerra tra due blocchi di potere, uno detestabile come l’altro. Ma non è tutto, non è mai «solo» questo. Altre forze operavano all’ombra dei ministeri e dei palazzi dorati, come in tutti gli altri conflitti che insanguinano il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Africa centrale: interessi geopolitici, interessi commerciali, equilibri di potere e di potenze, conquiste di mercato, accesso alle risorse, basi militari,… tutto intrecciato. Ma prima, facciamo un veloce ritratto del maresciallo Haftar – ci aiuterà a capire il resto.
Nel 1969, Khalifa Belqasim Haftar partecipa al colpo di Stato che porta al potere il colonnello Gheddafi. Nel 1987, forte del suo addestramento in prestigiose scuole sovietiche, guida il corpo di spedizione dell’esercito libico contro il Ciad, il cui sanguinario dittatore Hissène Habré è sostenuto da Francia e Stati Uniti. Sconfitto e catturato, Haftar viene imprigionato a N’Djamena, la capitale del Ciad, dove cambia bandiera e riceve l’incarico dagli Stati Uniti di comandare una «forza Haftar» in Ciad per rovesciare Gheddafi. Altro fallimento: nel 1990, dopo l’elezione del presidente del Ciad Idriss Déby, vicino al leader libico, viene spedito d’urgenza negli Stati Uniti. Ormai soprannominato «l’uomo degli americani», Haftar si installa vicino a Langley – sede della CIA – e continua a lavorare senza successo per il rovesciamento di Gheddafi. Nel 2011, Haftar ritorna in Libia durante la rivolta che porterà alla caduta del colonnello Gheddafi. All’inizio del periodo di transizione, elevato al grado di tenente generale, comanda per un breve periodo la componente terrestre delle forze armate libiche. Ma gli islamisti, maggioritari nella ribellione vittoriosa, non gli perdonano d’essere un «uomo degli americani». Ancora un fallimento: Haftar ritorna negli Stati Uniti nella sua casa in Virginia alla fine del 2011. Rientrato in Libia all’inizio del 2014, in un paese spaccato in due (area di Tripoli e area di Tobruk) e con un discreto sostegno internazionale (tra cui Francia, Arabia Saudita ed Egitto), il maresciallo decide di creare una propria forza armata, alla quale si uniscono milizie locali ed elementi dell’ex-esercito libico. Nel frattempo, «l’uomo degli americani» che voleva affermarsi come l’uomo forte del paese, diventa discretamente anche «l’uomo dei francesi». Mentre l’Eni, la compagnia petrolifera italiana, si aggiudica importanti contratti per i pozzi di petrolio sotto il controllo del governo di Tripoli, la Total si rifà coi depositi sotto il controllo dell’ANL di Haftar. È infatti nel castello di La Celle Saint-Cloud, negli Yvelines, e alla presenza dello stesso Macron, che nel luglio 2017 viene firmato un primo cessate il fuoco tra il governo di Tobruk, di cui Haftar è il braccio armato, e quello del suo rivale di Tripoli.
Sebbene gli aiuti francesi inizialmente siano volutamente discreti, ciò non sfugge certo all’attenzione di molti libici che hanno visto operare le forze speciali francesi, naturalmente nel nome della «lotta al terrorismo», accanto ai soldati di Haftar. D’altronde, neanche il fatto che quei soldati dispongano di materiale bellico prodotto in Francia impedisce alle aziende belliche francesi di vendere il loro arsenale anche al governo avversario di Tripoli. Il gioco sanguinario è ben noto: le armi sono vendute come dosi, dosi di morte, in funzione degli obiettivi che lo Stato conta di realizzare. Niente di più semplice, visto che si vendono alcune centinaia di blindati a un campo, e all’altro, volendo favorirne la superiorità, si vendono i lanciarazzi appropriati. Il primo campo è soddisfatto del proprio acquisto, il secondo lo è ancor più nel vedere i nuovissimi blindati esplodere in fondo ai mirini dei loro congegni telecomandati. Ma i più felici di tutti sono le aziende e lo Stato francesi, che hanno realizzato profitti da entrambe le parti perseguendo nel frattempo il proprio programma strategico. La ragione di Stato non ha nulla, assolutamente nulla a che vedere con le chiacchiere sul rispetto per la vita umana, la libertà, il diritto o la giustizia.
Questa Repubblica francese di libertà, uguaglianza e fratellanza è putrida quanto i cumuli di cadaveri rivoltosi su cui è costruita e che continua ad accumulare in tutto il mondo. Se decenni di guerre sporche e di operazioni «antiterroristiche» condotte dagli Stati Uniti e da Israele hanno associato questi due Stati nell’immaginario della stragrande maggioranza della popolazione mondiale a porcherie di ogni sorta nel nome dei loro interessi particolari, la Francia è in generale riuscita a preservare la propria immagine di «paese dei diritti umani». Nonostante le numerose schegge sul suo stemma durante la guerra d’Algeria e la feroce repressione delle lotte di liberazione nazionale nelle sue colonie, continua a pavoneggiarsi come se non fosse successo nulla. Ci sbaglieremo, ma è anche usando questo capitale culturale come scudo che la Francia è sempre riuscita (soprattutto nell’ultimo decennio) a fare guerre senza subire troppi danni o a vendere le proprie competenze guerrafondaie a tutte le latitudini. Facciamo l’esempio dei regimi oggetto di certe critiche e sostenuti militarmente dalla Francia, come l’Arabia Saudita nella sua guerra allo Yemen, il Congo in preda ad eterne «guerre civili» spesso in un contesto di competizione nello sfruttamento di risorse e di metalli preziosi, l’Egitto tra le ribellioni e la loro sanguinosa repressione, il Marocco durante la rivolta del Rif, eccetera eccetera. E questo, naturalmente, quando non spaccia le sue tecnologie nucleari e non dispiega le sue forze speciali per «combattere i terroristi» nel Ciad, nel Mali o in Siria sul versante YPG.
Ma la maschera non cade. Non è caduta ieri, non cade oggi di fronte al classico esempio di «guerra per procura» che sta conducendo il maresciallo Haftar. Lo Stato francese può tranquillamente continuare a far risplendere il suo stemma di valori repubblicani. Per altro, gode anche di un ampio consenso tra i suoi sudditi – ma sì, diciamolo, di un ampio consenso. Magari di un consenso passivo, tacito, ovvero generato, o come si voglia dire, però c’è, e di fatto sostiene la politica del proprio Stato. Con l’eccezione delle ondate emotive legate alla situazione internazionale nel corso delle due guerre del Golfo o di quella nell’ex-Jugoslavia – ma tutto ciò risale a molto tempo fa – e mentre scendere in piazza per esprimere la propria opposizione all’orribile affare tricolore di morte è il minimo in un territorio dove non si è persa l’abitudine di dimostrare, la maschera rifiuta ostinatamente di cadere. Eppure le cose sono ormai chiare: dall’inizio delle rivolte e della loro conseguente repressione in Nord Africa e Medio Oriente, le vendite di armi made in France sono passate da 4,8 miliardi di euro nel 2012 a 6,8 miliardi di euro nel 2013, poi a 8,2 miliardi nel 2014, a 16,9 miliardi nel 2015 e a circa 20 miliardi di euro nel 2016. Le esportazioni di armi rappresentano quindi più del 25 per cento di tutte le esportazioni dalla Repubblica mortifera.
Lungi da noi l’idea di voler svalutare la rabbia che è scesa in strada negli ultimi mesi, dobbiamo notare che alla rabbia di fine mese manca qualcosa, se non parecchio. Manca, ad esempio, una certa profondità per guardare oltre le proprie cipolle, oltre una mera, insipida e sempre più costosa sopravvivenza. Quando giustamente protestiamo contro i poliziotti che mutilano dei manifestanti, quando denunciamo le aziende che forniscono armi alle divise locali, come non fare il legame tra queste stesse aziende e il fatto che fabbricano le armi che mutilano e uccidono in molti altri paesi generosamente riforniti dall’industria francese, e su ben altra scala? Quando protestiamo contro il prezzo del carburante e l’aumento della sua tassazione da parte dello Stato, come non fare il legame con le guerre e i massacri per il petrolio in cui lo Stato francese è quanto meno corresponsabile, se non mandante (come pare sia il caso oggi del maresciallo Haftar, dittatore militare in divenire)?
Non si tratta di puntare il dito contro qualche schiavo in particolare, ma del meccanismo di servitù volontaria che mira a renderci tutti vittime e carnefici, a meno che la catena di sottomissione non venga spezzata. Si tratta di capire che lo Stato di questo paese è uno Stato nel senso più ampio del termine. Uno Stato che si occupa di tutto: organizzare elezioni e mutilare i suoi manifestanti, insegnare ad altri regimi i diritti umani e assumere mercenari, predicare la pace ai paesi belligeranti e simultaneamente condurre operazioni militari a destra e a manca, schiacciare e torturare (cos’altro è il carcere?) coloro che disturbano o sono superflui e mettere a disposizione del buon cittadino un apparato amministrativo onnipresente. Lo Stato francese non è diverso dai suoi omologhi, ma ciò che li contraddistingue sono in particolare i margini di cui ciascuno di loro dispone per difendere e imporre gli interessi intrecciati che i potenti hanno loro affidato nel quadro nazionale. Margini di manovra che creano responsabilità da pagare in un modo o nell’altro…
E allora, lo stemma umanitario dello Stato francese deve essere fracassato una volta per tutte. Nel corso del XIX secolo, quando questo Stato si è consolidato sui cadaveri dei rivoltosi nelle colonie e sui cadaveri degli insorti di tante rivoluzioni affogate nel sangue (giugno 1848 e la Comune), un rivoluzionario anarchico, Ernest Cœurderoy, ha espresso un desiderio molto speciale. Constatando amaramente che i rrrivoluzionari liberali e socialisti trascorrevano il loro tempo ad immaginare uno Stato migliore, uno Stato più giusto… ma fondamentalmente uno Stato pur sempre totalitario per natura, per quanto adornato coi valori della Grande Rivoluzione, si è rivolto ai cosacchi. Hurrah! Auspicava la discesa dei cosacchi, di quelle energie vitali ostili alle chiacchiere e alla cultura politica, di quei terribili barbari che lasciano dietro di sé solo le rovine di ipocrite civiltà. Egli credeva che una vasta opera di distruzione di questo mondo fosse necessaria prima dell’inizio di una vasta opera di costruzione di un nuovo mondo.
Oggi, di fronte alle guerre che lo Stato sta conducendo in tutto il mondo, di fronte alla repressione che scatena nelle strade e alle frontiere, di fronte al cannibalismo sociale che fomenta tra la popolazione e di cui approfitta per riaffermare la sua supremazia, le chiacchiere sono inutili. Le denunce sono inutili. Gli appelli alla coscienza sono inutili. È prima di tutto attraverso il fuoco che dobbiamo passare. Con audacia, per strappare la maschera che copre un bellicismo di cui ci vorrebbe tutti complici. Né la loro pace, né la loro guerra, Hurrah! 
[Avis de tempêtes, n. 16, 15/4/19. Tradotto da Finimondo]
Posted in Italiano

Posts navigation

Older posts
Newer posts

Contact :

avis_babel [[a]] riseup.net

Pour lire les numéros complets en français :

avisdetempetes.noblogs.org



  • Storm Warnings, issue 59-60 (December 2022)
      The final issue of Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 59-60(December 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Storm warnings, issue 59-60 (December 15, 2022) : For reading For printing (A4) For printing (Letter) “To conclude, if it has always… Read more: Storm Warnings, issue 59-60 (December 2022)
  • Storm Warnings # 57-58 (October 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 57-58 (October 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Storm warnings, issue 57-58 (October 15, 2022) : For reading For printing (A4) For printing (Letter)   “Europe is overflowing with hundreds of billions of dollars… Read more: Storm Warnings # 57-58 (October 2022)
  • E se tornassimo indietro…
    Le nubi che si profilavano nell’autunno del 2017 non erano le più favorevoli per intraprendere lunghe passeggiate. Eppure è stato nel corso di quei mesi piovosi, durante scambi e discussioni animati, esitazioni e fantasticherie, che l’idea di un bollettino anarchico periodico su carta è infine maturata. Più che una rivista… Read more: E se tornassimo indietro…
  • Romper el círculo
    En este verano, que ha superado viejos récords de temperatura, muchos habitantes que exportan su oro azul por todo el mundo han conocido un problema que creían reservado a territorios lejanos mas pobres : el racionamiento de agua. De Alta Saboya a Aveyron decenas de pueblos han recibido aprovisionamiento de… Read more: Romper el círculo
  • Herencias mortíferas
    En 221 a.c., el señor de la guerra Ying Zheng concluye la unificación de China y funda la dinastía Qin, de la que se proclama emperador. Después de enviar sus tropas a repeler las tribus demasiado salvajes del norte, ordenó la construcción de una serie de fortificaciones militares mas allá… Read more: Herencias mortíferas
  • Storm Warnings #55-56 (August 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 55-56 (August 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 55-56 (August 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #55-56 (August 2022)
  • El corte es posible
    Si el silencio da miedo, puede ser porque la ausencia de ruidos familiares tiene tendencia a devolvernos a nosotrxs mismxs. Avanzando en la oscuridad silenciosa, es común hablarse a unx mismx, chiflar un estribillo, pensar en voz alta para no encontrarse presa de la ansiedad. Esto no es tan fácil,… Read more: El corte es posible
  • Storm Warnings #54 (June 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 54 (June 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 54 (June 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #54 (June 2022)
  • Hijos de Eichmann?
    Hemos de abandonar definitivamente la esperanza ingenuamente optimista del siglo XIX de que las «luces» de los seres humanos se desarrollarían a la par que la técnica. Quien aún hoy se complace en tal esperanza no es sólo un supersticioso, no es sólo una reliquia de antaño. […] Cuanto más… Read more: Hijos de Eichmann?
  • Economía de guerra
    En Bihar, uno de los estados más pobres y poblados de la India, la gota que colmó el vaso fue el miércoles 15 de junio, antes de extenderse a otras regiones, cuando miles de manifestantes comenzaron a atacar los intereses del Estado en una docena de ciudades. En Nawada, se… Read more: Economía de guerra
  • Figli di Eichmann?
    «L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è… Read more: Figli di Eichmann?
  • Storm Warnings #53 (May 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 53 (May 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 53 (May 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #53 (May 2022)
  • Storm Warnings #52 (April 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 52 (April 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 52 (April 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #52 (April 2022)
  • Todas e todos implicados
    Na primeira luz do amanhecer, um caminhão de 40 toneladas começa a se mover sob uma ligeira chuva. Mas não é um dos milhares de caminhões que transportam mercadorias por estrada, e sua missão é muito menos trivial. Com seus faróis acesos, o caminhão passa pelos subúrbios da capital bávara,… Read more: Todas e todos implicados
  • Todxs los implicadxs
    Con las primeras luces del alba, un camión de 40 toneladas se pone en marcha bajo una ligera lluvia. Sin embargo, no es uno de los miles de camiones que transportan mercancías por carretera, y su misión es mucho menos trivial. Con los faros encendidos, el camión atraviesa los suburbios… Read more: Todxs los implicadxs

Proudly powered by WordPress | Theme: micro, developed by DevriX.