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Category: Italiano

Dall’altra parte dello specchio

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Il tizio sorride ai fotografi, con gli occhiali da sole pigiati sul naso e le cime innevate sullo sfondo. Giunto la sera di giovedì in una località sciistica degli Alti Pirenei, ha previsto di trascorrervi il fine settimana. Quest’uomo è il Presidente della Repubblica. È venuto a festeggiare in tutta tranquillità la fine del Gran Dibattito, il cui obiettivo era quello di incanalare sui binari istituzionali un movimento di rivolta che ormai dura da quattro mesi. Sabato 16 marzo, a metà pomeriggio, questo stesso uomo, ora col volto contratto, è costretto ad interrompere la sua vacanza in tutta fretta. Poco prima, la sindaca del distretto più ricco della capitale, ebbra di rabbia, ha chiesto di decretare lo stato di assedio per affidare all’esercito funzioni di polizia. Poche ore dopo, un Primo Ministro quasi livido sbraiterà a più non posso, lanciando strali a casaccio contro gli atti dei «teppisti, saccheggiatori, incendiari, criminali». E pure «assassini», ci tiene ad aggiungere senza batter ciglio il suo specialista in terrorismo di Stato. È il 18° sabato consecutivo, e il potere è stato ancora una volta colto di sorpresa: impegnato a iperproteggere il suo piccolo triangolo composto da ministeri, ambasciate e Palazzo Presidenziale, ha dovuto cedere terreno al cospetto di una rabbia e di una determinazione che hanno devastato la più grande vetrina del paese. E questa volta senza alcun riguardo.
Sabato 16 marzo, a fine mattinata, ce n’era per tutti i gusti sugli Champs-Elysees. Le lussuose gioiellerie di Bulgari, Mauboussin e Swarovski saccheggiate dopo che le pesanti protezioni erano state divelte, così come la boutique Celio i cui abiti sono stati condivisi al volo, o i negozi di cosmetici Yves Rocher, la gastronomia di Macaron Ladurée, i grandi magazzini di Tara Jarmon, Zara, H&M e Lacoste, i negozi di elettronica Samsung, di smartphone Xiaomi, di calzature Weston, del PSG, di pelletteria Tumi e Longchamp, o ancora nel disordine i negozi di Hugo Boss, Eric Bompard, Nespresso, Etam, Al Jazeera Perfumes, Nike, SFR, Foot Locker, Leon de Bruxelles, Disney, Gaumont e persino il cioccolataio Jeff de Bruges. Almeno 110 negozi attaccati, 26 dei quali saccheggiati, senza contare più di un centinaio di altri che si trovavano sul percorso di manifestazioni selvagge. Ben pochi sono stati risparmiati durante questa giornata di apertura al pubblico sugli Champs, malgrado i 256 manifestanti arrestati e i feriti una giornata di sole che è riuscita a combinare altre discipline olimpiche non ufficiali, come il lancio di pavé disselciato o l’incendio volontario (in particolare quello del ristorante Le Fouquet’s, del mezzo di un cantiere e di altri veicoli, compreso uno della polizia di fronte al commissariato des Halles). Quando abiti e gioielli di lusso cominciano a svolazzare gioiosamente in aria al grido di «rivoluzione! rivoluzione!» ed altri beni finiscono in fiamme o in svariati pezzi, non si può che riflettere sul tempo strappato allo sfruttamento, sul lavoro che schiaccia carne e neuroni giorno dopo giorno in cambio di poche briciole. Ma il conseguente saccheggio di tutti questi beni che ci imprigionano tocca anche un’altra dimensione, quella della sua ultima ratio, come è stato detto a proposito delle rivolte dei Watts: colpisce la funzione stessa della polizia, una delle cui ragioni d’essere è appunto quella di ottenere che il prodotto del lavoro umano rimanga una merce la cui magica volontà è di essere pagata.
Sospinto da una folla eterogenea, questo Sabato parigino ha così espresso in modo eclatante una buona vecchia pratica di rivolta che non si può dire che manchi in molte altre città (come Tolosa, Bordeaux o Montpellier) fin dal mese di dicembre: spaccare le vetrine che quotidianamente si fanno beffe di noi, ma soprattutto cercare di passare dietro cogliendo l’occasione di prendere o distruggere ciò che proteggono. Con le dovute cautele, fracassare lo specchio della normalità e ritrovarsi dall’altra parte potrebbe persino rivelarsi ancora più sorprendente. Poiché, oltre al temporaneo rovesciamento dello spazio e del tempo del dominio, è la stessa prospettiva che potrebbe essere ribaltata. Una volta infranto il fascino della vetrina, una volta che lo sguardo è capace di proiettarsi oltre la sua facciata, perché dovrebbe fermarsi in effetti in un così positivo percorso? La libertà e la rabbia non sono altrettanto contagiose della passività e della sottomissione? L’immaginazione e la perspicacia non sono qualità per coloro che vogliono andare ancora più oltre? E in tal caso, perché lo sguardo non può continuare a vagabondare a piacimento, non solo dietro le vetrine ma anche in tutte le altre direzioni, in basso o in alto, dove proliferano i flussi di dati e di energia che le alimentano? Sotto i nostri piedi o magari sopra le nostre teste. Come un modo per continuare a eliminare il problema, questa volta direttamente alla fonte. Anche in pochi, ciascuno secondo i propri tempi.
[Avis de tempêtes, n. 15, 3/19, Tradotto da Finimondo]
Nota di Finimondo :
Alcuni dati contenuti nel testo sono stati aggiornati alla luce delle ultime notizie diffuse.
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Tagliare è possibile

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Se il silenzio fa paura, forse è perché l’assenza di suoni familiari tende a rimandarci a noi stessi. Quando si avanza nell’oscurità troppo silenziosa, non è raro parlare, fischiettare un motivetto, o riflettere ad alta voce per non farsi prendere dall’angoscia. Non è cosa semplice e può anche richiedere un po’ d’esercizio, perché la nostra mente è condizionata a identificare il silenzio col pericolo, il buio col rischio. È l’angoscia a generare il vuoto, la sensazione di trovarsi sul bordo dell’abisso e di non essere capaci di distogliere lo sguardo dal baratro che si apre davanti a noi. Ma è proprio in momenti come questi che si tende a sentirsi più vicini a se stessi, senza intermediari, con una presenza mentale ed emotiva assai più sostenuta.
Difficile ritrovare ancora silenzio od oscurità nel mondo moderno. I rumori industriali ci accompagnano incessantemente, i dispositivi emettono costantemente i loro suoni elettronici, e d’altronde c’è quasi sempre qualcuno che riempie il vuoto col suo chiacchiericcio insopportabile quanto superficiale. Oggi la paura del vuoto, l’angoscia del silenzio, è sublimata tra le altre cose da una connessione permanente. Mai da soli, mai in silenzio, mai davanti all’abisso. Quindi, mai faccia a faccia con noi stessi. I richiami e le voci “interiori”, tutto quell’universo che costituisce l’immaginazione, la coscienza, la sensibilità, la riflessione e il sogno ad occhi aperti vengono ammutoliti, ignorati, appiattiti e sostituiti dal continuo bombardamento di informazioni, voci, messaggi, appuntamenti, imposizioni a consumare, richiami all’ordine. Il mondo moderno sta così esautorando l’universo interiore dell’individuo. Una volta annientato quest’ultimo, l’essere umano si ritroverà nella condizione ideale di accettare la schiavitù, o meglio di accogliere la schiavitù senza neanche disporre delle capacità di comprendere lo stato in cui si trova. Catturato nella rete.
Sicuramente, tutto ciò non è una novità. La storia dell’oppressione non è cominciata con lo smartphone. Non molto tempo fa, il condizionamento della mente umana avveniva principalmente attraverso una galassia di campi. Il campo di lavoro costituito dalla fabbrica, il campo dell’educazione che è la scuola, il campo del controllo rappresentato dall’autorità familiare e dai luoghi di culto. Tuttavia, nonostante i fili tessuti tra tutte queste strutture di dominio, restava ancora, relativamente parlando, un sacco di vuoto. E questo vuoto, questi interstizi, hanno permesso di alimentare la rivolta in quei campi, contro quei campi, e viceversa. Il prigioniero che si ribella ha, malgrado tutto, gli occhi rivolti verso un orizzonte che va al di là di quelle mura, poco importa se l’immaginario di quell’orizzonte ci piace oppure no. Se i campi di qualsiasi tipo non sono certo spariti, la ristrutturazione capitalista e statale in corso, in particolare attraverso la creazione sempre più estesa di tecnologie, al di là di uno maggiore sfruttamento e di un controllo ancor più totalitario, mira all’eliminazione di ogni vuoto. Il bisogno di una connessione permanente è al centro di questa sinfonia mortale. Una volta connessi, siamo sempre un po’ al lavoro, un po’ in famiglia, un po’ al supermercato, un po’ al concerto. Legati da guinzagli elettronici, si è costantemente esposti alle ingiunzioni del potere, attorniati da intimazioni a consumare, nudi agli occhi del controllo. Diventiamo totalmente a disposizione del capitale, schiavi che indossano invisibili collari.
Qualcuno ha detto che se la società è una prigione a cielo aperto, le garitte moderne devono essere le antenne e i ripetitori di comunicazione che ovunque ostacolano la vista del cielo azzurro e il filo spinato è costituito da tutte quelle fibre ottiche e da quei cavi elettrici. Per chi sogna di arrestare la riproduzione del dominio, diventa allora essenziale riuscire a guardare altrove e altrimenti. Non che il commissariato dietro l’angolo non debba più attirare l’attenzione del nemico dell’autorità, o che la vetrina della banca non meriti di essere fracassata, o che il tribunale non debba ricevere visite rabbiose, ma è pur vero che il dominio ha disseminato sul territorio una grande quantità di strutture relativamente piccole e poco protette da cui dipendono sempre più cose, per non dire quasi tutto. È in quelle piccole cose che la rete invisibile che ci rinchiude e che consente la ristrutturazione del capitale e dello Stato si materializza. È là che possono essere attaccate le arterie del dominio che irrigano i campi dello sfruttamento e dell’oppressione; è là che possono essere finalmente messe a tacere le protesi tecnologiche e i loro squilli schiavizzanti.
Perché tagliare non è solo necessario, è anche possibile. L’11 febbraio 2019, a Mérey-Vieilley, vicino a Besançon (Doubs), un ripetitore telefonico è stato messo fuori servizio da un devastante incendio. Il traliccio posto in mezzo alla foresta si è improvvisamente incendiato, lambito da fiamme nient’affatto accidentali. Un operatore responsabile della gestione delle antenne di telefonia mobile nella regione ha rivelato perfino: «Questo atto ha messo fuori uso altri nove ripetitori. Per dare un’idea, ciò significa ogni giorno parecchie decine di migliaia di comunicazioni interrotte». Saranno necessari diversi mesi prima che l’antenna sia completamente ripristinata. E questo incendio ci ricorda che altri tre avevano già distrutto altre antenne nella capitale bisontina da settembre: a Chapelle-desBuis, a La Jourande, ad Amagney. «Piromani, anarchici, vendetta nei confronti di un operatore?» recitano stentatamente i commentatori in cerca di ipotesi poliziesche, quando ciò che è certo è che i nodi di questa rete sono a portata di mano di chiunque e possono essere disfatti con le stelle come complici. D’altronde è accaduto anche in altre regioni, dove le torri delle telecomunicazioni sono state prese di mira da alcuni sabotatori: nello Cher (quattro tra il 26 e il 30 novembre 2018), in Alsazia, nel Sud, in Gironda (Casseuil, il 24 dicembre), nel Gard (Bernis, il 23 dicembre), in Vendée (Saint-Julien-desLandes, l’11 dicembre), nell’Île-de-France (Villeparisis, il 12 novembre), in Isère (Grenoble, il 29 gennaio), per citare solo i più recenti… Aggiungiamo gli abili sabotaggi di ciò che collega sotterraneamente i piloni, le centrali telefoniche e i data center: le fibre ottiche. A volte tranciando semplicemente i cavi, altre volte incendiando gli armadi di distribuzione che costituiscono i ripetitori locali in un quartiere, in una zona industriale o commerciale… A cui si aggiungono anche altri differenti sabotaggi dei flussi del trasporto (ferroviario e autostradale) e di energia, come nell’Île-de-France, nel Drôme, le Hautes-Alpes, l’Hérault, l’Ain, nel Nord,… Un’identificazione di questi nodi tecnologici ormai vitali per lo Stato e il Capitale, che ovviamente si estende anche oltre i confini, poiché queste pratiche interrompono regolarmente i flussi, in particolare in Italia, in Belgio, in Germania o in Svizzera. Un compagno anarchico è stato appena incarcerato in questo paese il 29 gennaio, accusato, oltre che dell’incendio di una decina di camion dell’esercito nel settembre 2015, di quello che ha distrutto nel luglio 2016 un’antenna-radio utilizzata dai Servizi di polizia di Zurigo.
Questi pochi esempi, sicuramente ben lungi dall’essere esaustivi e tutti avvenuti solo negli ultimi mesi, mostrano comunque che un po’ dappertutto, tagliare è possibile. È possibile in modo autonomo, in tempi di relativa calma, ma anche in periodi più intensi in cui la rabbia mostra i denti, come è recentemente accaduto in Francia. In seno alla guerra sociale, tutta questa miriade di sabotaggi diffusi e continui contro le infrastrutture di telecomunicazione, dei trasporti, di energia, può aprire un panorama ancora più ampio anche per coloro che sanno di battersi in territorio ostile e che non intendono abbassare la testa.
Noi ci troviamo già dietro le linee nemiche che ci accerchiano, quindi perché non agire di conseguenza? Disorganizzare le forze avversarie piuttosto che competere con loro in uno scontro simmetrico. Colpire e sparire, per riapparire altrove e colpire ancora, piuttosto che occupare fortezze particolarmente favorevoli alla repressione. Al contrario degli autoritari che non riescono a concepire il tentativo di sconvolgere il mondo se non attraverso la presa dei templi del potere e la gestione di grandi masse, in una sorta di simmetria distorta con un nemico molto meglio attrezzato, e se noi anarchici sviluppassimo piuttosto l’agilità dei piccoli gruppi, le capacità dell’individuo, i rapporti interpersonali di reciprocità, di fiducia e di conoscenza, verso una diffusione delle ostilità piuttosto che verso una loro centralizzazione e concentrazione? Un tale modo di organizzarci ci apparirebbe molto più interessante per attaccare un nemico sempre più tentacolare ma che rimane dipendente dall’interconnessione tra tutti i suoi strumenti ed edifici. Di fronte alla diffusione nel territorio di una grande quantità di piccole strutture di trasmissione di onde, di energia o di dati, nulla è più adatto di una costellazione di piccoli gruppi, che agiscono in piena autonomia, capaci di coordinarsi tra loro quando ha senso per loro, per praticare in modo diffuso la buona vecchia arte del sabotaggio contro le arterie del potere.
Nel silenzio che questi sabotaggi impongono alle macchine, nel disturbo che infliggono al «tempo reale» del dominio, ci ritroveremo di fronte a noi stessi. E questa è una condizione essenziale per una pratica di libertà.
[Avis de tempêtes, n. 14, 15/2/19. Tradotto da Finimondo]
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La guerra contro il potere

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
Cari compagni, care compagne,
Per noi anarchici, le parole possono costituire una trappola. Possono colpirci e potremmo costruirci attorno un labirinto da cui sarebbe difficile uscire. Le parole restano sempre approssimative, nient’altro che un tentativo di cogliere la realtà ed esprimere idee. Tuttavia costituiscono uno degli strumenti a nostra disposizione per avvicinarci, per gettare un ponte verso altri compagni, verso altri ribelli. Essendo cosciente dei limiti delle parole, posso solo sperare che queste poche parole riusciranno ad attraversare l’oceano, a sorvolare i mari e le terre, a superare le frontiere e ad arrivare fino a voi in questa occasione della commemorazione della morte dell’anarchico Sebastián Oversluij, abbattuto da una guardia nel corso di un esproprio in banca a Santiago del Cile l’11 dicembre 2013 (1).
Qualche volta, magari in momenti tragici come quello della morte di Sebastián, o semplicemente quando i nostri occhi rifiutano di chiudersi, quando le nostre membra rifiutano di riposarsi, quando la notte nel nostro letto continuiamo a fissare il soffitto, una domanda, una domanda fondamentale può venirci in mente ed ossessionarci. Perché siamo anarchici? Cosa significa essere anarchici? Qualcuno potrebbe dire che si tratta solo di una domanda retorica e quindi sarebbe una perdita di tempo, ma io non sono d’accordo. Dato che le parole possono anche costruire dei labirinti invece che renderci capaci di agire — e quando parlo di agire, non intendo il semplice fare —, non dovremmo esitare a fare appello al nostro spirito critico, nutrito dalla nostra esperienza. Allora, perché siamo anarchici? Perché, e questo a differenza di altre correnti più o meno rivoluzionarie, abbiamo identificato il male eterno, la fonte di ogni sofferenza e oppressione, in quel principio che domina il mondo in cui viviamo: il potere. Contrariamente alla «forza» o alla «potenza», che potremmo intendere come la capacità di fare qualcosa, di rispondere alle sfide poste dalla lotta, è il potere che combattiamo, e lo combattiamo perché è incompatibile con la libertà. Non può esserci libertà finché esiste potere. Quindi, proseguendo col ragionamento: se vogliamo la libertà, dobbiamo distruggere il potere. Non possiamo riformarlo, non possiamo renderlo più accettabile, non possiamo migliorarlo. Possiamo fare solo una cosa: distruggerlo, distruggerlo da cima a fondo. In fondo, l’anarchismo non è solo quel sogno che possiamo avere di libertà, di una vita senza costrizioni né sfruttamento, di una vita profonda, ricca, di bellezza, di gioia, gioco, esplorazione — l’anarchismo può anche essere questo, e la fiamma di questo sogno di cui sono innamorato continua a bruciare nel mio cuore — ma l’anarchismo vuol dire anche, e persino soprattutto, distruzione.
La distruzione di tutto ciò che incarna il potere, non solo come idea, ma anche in quanto strutture fisiche e persone. Lo Stato sarebbe uno spettro se fosse solo un’idea, ma non è uno spettro, dato che si materializza in strutture e uomini. Negli edifici governativi, nei commissariati, nelle prigioni, nelle scuole, ed anche nei politici, nei poliziotti, nei secondini e nei preti. A mio avviso, la dimensione distruttiva dell’anarchismo è duplice: corrode l’idea di potere e le sue ideologie, quell’obbedienza che appare perpetua e di cui gli sfruttati sono capaci; e attacca, per distruggere, non per convincere o persuadere, le strutture fisiche e le persone che incarnano il potere. A partire da qui, non può esserci pace, non può esserci tregua nelle ostilità: l’anarchismo conduce una guerra contro il potere, una guerra difficile, incessante, a volte dolorosa, ma anche gioiosa. Contro il potere e per la libertà.
Ed io, come anarchico? Non sono certo un soldato in questa guerra dell’anarchismo contro il potere. Non c’è ordine a cui obbedire, non ci sono leader da seguire, la scelta è sempre mia, come individuo, proprio come rimane ai miei compagni, agli altri individui. Ma non sono nemmeno un semplice ribelle che reagisce, ogni tanto magari con ferocia, alla sofferenza che gli viene imposta. Sì, mi ribello, mi rivolto, ma aspiro ad essere qualcosa di più. Conosco molti compagni anarchici che sono certamente dei ribelli, ma che sono anche qualcosa di più. A volte ciò li differenzia anche da altre persone che si ribellano. E lo sto dicendo senza alcun disprezzo per i ribelli, senza alcun sentimento di superiorità. Semplicemente, l’anarchismo non è soltanto rivolta, non è solo re-agire, anche violentemente, alla violenza e alla brutalità del potere. Secondo me, l’anarchismo cerca di proiettarci in un un’altra dimensione, nella dimensione dell’agire. Di nuovo, le parole possono tradire, ma io definisco questa una dimensione rivoluzionaria. Rivoluzionaria, perché come anarchico non voglio solo ribellarmi contro ciò che mi viene imposto e viene imposto al resto del mondo: voglio andare oltre, voglio sviluppare un progetto distruttivo per cancellare, annientare, radere al suolo ciò che è alla radice della sofferenza illimitata in questo mondo, dei bagni di sangue e dei massacri su cui poggia tutto il potere (sia esso dittatoriale, democratico, socialista o religioso). Questa coscienza fa degli anarchici qualcos’altro che dei meri ribelli. Ribelli con una visione, con un progetto, con una prospettiva, con un sogno particolare.
Certo, forse obietterete che molti anarchici oggi non vogliono sentir parlare di prospettive, o forse che ne hanno una ma poi passano il tempo a chiacchierare, a commentare quanto accade. È vero, ma in fondo tutto ciò non dovrebbe riguardarci. Non siamo missionari che vogliono sedurre gli altri, nemmeno gli altri anarchici, affinché raggiungano una cappella. Non siamo ossessionati dal fascino magico del numero, di quanti siamo. Noi vogliamo agire, qui ed ora, vogliamo sviluppare
 un progetto di lotta — anche provvisorio — che ci permetta di fare incursioni nella realtà, di trasformarla (attraverso la distruzione), non solo di sopportarla in un modo o nell’altro. Cari compagni, mi pesa esprimermi con le parole, da tanto sono limitate, da tanto possono diventare rapidamente delle trappole in cui precipita ogni comprensione reciproca, ma io posso solo tentare. Lasciatemi fare un esempio. Nel 1930, a Montevideo, diversi prigionieri anarchici evasero dalla prigione di Punta Carretas attraverso un tunnel scavato sotto il muro di cinta. Un’azione meravigliosa, ma voglio spingere la riflessione oltre l’ammirazione. Quel tunnel non è venuto giù dal cielo, non era qualcosa di improvvisato, non era solo una reazione rapida ed intelligente da parte di alcuni anarchici rinchiusi in una prigione che hanno colto l’occasione per scappare. No. Diversi mesi prima dell’evasione, un compagno era andato ad affittare una casa di fronte alla prigione. Vi aveva installato una rivendita di carbone, dove vendeva e consegnava carbone. Gli affari andavano bene, tutto sembrava normale. Ma un po’ più tardi arrivarono altri compagni, di nascosto, ed iniziarono a scavare un tunnel partendo da quella rivendita di carbone. Trascorsero mesi a scavare, rischiando ogni giorno di venire scoperti. Ciò che voglio dire è che quei compagni avevano un progetto, e con molti sforzi e tanta pazienza hanno assemblato i pezzi, gli elementi del loro progetto, per riuscire finalmente a realizzare un obiettivo. Bene, è solo un esempio, ma lo do perché mostra ciò di cui si può diventare capaci quando si ha un progetto. L’organizzazione dell’evasione dei compagni imprigionati è solo un esempio. Possono essere immaginati progetti ancora più ambiziosi, ancora più vasti, che forse proprio in questo momento vengono immaginati e attuati da compagni.
Ma quello che conta è che un progetto non cade dal cielo. E ha bisogno di tutto. Ha bisogno di riflessione, di analisi della situazione, dell’acquisizione di mezzi e conoscenze tecniche; probabilmente richiede il concorso di altri compagni, compagni con cui siamo in affinità (che è qualcosa di diverso della semplice definizione di «anarchico», perché l’affinità ci consente di agire insieme, mentre il fatto che qualcuno sia anarchico non mi permette automaticamente di agire insieme, occorre qualcosa di più). Il progetto ha bisogno di una sorta di organizzazione, non dell’Organizzazione con la maiuscola, ma di un’organizzazione nel senso di riunire gli elementi per il nostro progetto, di un’organizzazione informale. Forse avere un progetto è come avere un piano, un piano rivoluzionario. A volte un progetto può anche avere obiettivi più limitati (il che non toglie nulla alla sua importanza), ad esempio la liberazione di compagni rinchiusi, o la distruzione di una struttura di potere particolarmente odiosa come una nuova miniera, una nuova prigione, una nuova fabbrica; ma può anche arrivare lontano quanto una vasta insurrezione di tutta una regione, un paese, un continente! Il progetto è uno dei modi che possono consentirci di andare oltre il fare (fare, nel senso di ciò che gli anarchici fanno comunque: diffondere le proprie idee, partecipare a manifestazioni, aprire locali, colpire il nemico) e farci entrare nell’ambito dell’agire, in una dimensione in cui l’iniziativa diventi nostra. Ovviamente, quelli che vogliono garanzie in anticipo che questo o quel progetto funzioneranno, che saremo in grado di realizzare l’obiettivo che vogliamo raggiungere, resteranno delusi: non c’è certezza, non ci sono garanzie, tutto può fallire. Ma non la considero una ragione sufficiente per rinunciare ad avere una progettualità.
Forse queste parole vi suonano vuote, è possibile, perché no? Ma forse no, e allora si aprono altri orizzonti. Il momento è adesso, cari compagni. Vi scrivo dall’Europa, e sì, posso dirvi che il momento è adesso. La società sta cambiando rapidamente, le tecnologie non stanno cambiando semplicemente le abitudini degli sfruttati e le capacità di sfruttarli da parte degli sfruttatori, ancor più, stanno anche cambiando l’essere umano. Stanno appiattendo l’essere umano, rendendolo più stupido, vuoto, superficiale, senza passione né odio: uno schiavo che non ha più la capacità di capire che è schiavo. E nel frattempo, il massacro continua, quei massacri alle porte di ciò che con supponenza si chiama «il vecchio continente», ed anche al suo interno. Un nuovo mondo è in procinto di nascere, non un mondo di anarchia, ma un mondo di sottomissione durevole, di maggior carneficina, di maggior sofferenza. Non possiamo restare semplicemente immoti ad osservare. Le previsioni sono certo contro di noi, almeno qui in Europa, ma rinunciare equivarrebbe a rinunciare alla vita stessa che molti di noi hanno scelto: una vita di guerra contro il potere, una vita di lotta per un sogno, per l’idea di cui mi sono innamorato: la libertà. Analizziamo il passato delle esperienze anarchiche per trarne ispirazione (solo per dare un breve esempio: pensate a quei compagni che proposero azioni relativamente semplici, diffuse su tutto il territorio, contro le strutture periferiche del dominio, come negli anni 80 in Italia quando centinaia di tralicci elettrici vennero segati o dinamitati — immaginate una simile ondata di sabotaggi contro le strutture energetiche che fanno funzionare quasi tutte le strutture dello Stato e del capitale!), ma gettiamo nella spazzatura anche la merda in cui il movimento anarchico si è ritrovato immischiato nel passato; contro tutti quelli che sembrano desiderare solo l’ultimo oggetto tecnologico, affermiamo il nostro amore per la libertà — e il nostro odio per il potere. La guerra degli anarchici contro il potere si muove su terreni difficili, ma non è ancora finita. Niente è impossibile, ma bisogna dedicarvisi. Riunire i mezzi e le capacità per il progetto che abbiamo in mente, prepararsi per gli sforzi che potrebbe richiedere, o meglio, che richiederà.

Per concludere, vorrei ricordare alcune frasi di un giornale nato negli Stati Uniti, Cronaca Sovversiva, il giornale degli anarchici che avevano dichiarato guerra allo Stato nel momento in cui tante persone si univano ai ranghi degli eserciti che si massacravano a vicenda nel corso della Prima Guerra mondiale, il giornale di quegli anarchici che parlavano di un «anarchismo autonomo», di un anarchismo che non è ossessionato dalle organizzazioni quantitative, il giornale di quegli anarchici che hanno colpito instancabilmente le persone più potenti degli Stati Uniti. Nel numero del 13 marzo 1915, in piena propaganda bellica, questi anarchici affermavano: «Cosa fare? Continuare la buona guerra, la guerra che non conosce paure, né scrupoli, né pietà, né tregua, anche se attraverso la quotidiana esperienza dell’agguato, dinnanzi alle legioni soverchianti del nemico, l’audacia e il coraggio debbano cingersi d’avvedutezza e di cautela; la guerra di sterminio ai vampiri del capitale, alle belve dell’ordine, in ogni covo».
Continuiamo a condurre la sola buona guerra: la guerra per la distruzione del potere.


(Contributo letto a Santiago del Cile durante un’iniziativa in omaggio a Sebastián Oversluij, a fine dicembre 2018).
1. La mattina dell’11 dicembre 2013, il compagno Sebastián Oversluij si preparava ad espropriare un’agenzia bancaria nel comune di Pudahuel nella capitale cilena. Entrando nell’agenzia, il compagno «Angry» tirò fuori il mitra che portava sotto i vestiti annunciando l’assalto. Una miserabile guardia ha immediatamente abbattuto il compagno. Questa spazzatura in uniforme aveva avuto un addestramento militare e una grande esperienza da mercenario ad Haiti e in Iraq. Più tardi, due anarchici trovati fuori dalla banca sono stati arrestati e condannati per complicità nella rapina.
[Avis de Tempêtes, n. 13, 15 gennaio 2019. Tradotto da Finimondo]
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Che giri il vento!

Posted on 2021/10/07 by avisbabel
«L’eolico industriale non è altro che la prosecuzione della società industriale con altri mezzi. In altre parole, una critica pertinente dell’elettricità e dell’energia in generale non può che essere la critica di una società per la quale la produzione di massa di energia è una necessità vitale. Il resto è solo un’illusione: un’approvazione mascherata della situazione attuale, che contribuisce a mantenere nei suoi aspetti essenziali»
Le vent nous porte sur le système, 2009
Una notte di tempesta. Le scariche elettriche illuminano il cielo mentre i fulmini sembrano annunciare la fine del mondo. Se non è arrivata il 1° giugno 2018 a Marsanne (Drôme), quella notte è comunque successo qualcosa, o meglio due cose, che hanno finito per incontrare un destino insperato: due turbine eoliche sono state attaccate. Una si è incendiata completamente, la seconda è rimasta danneggiata. Le pandora indispettite e il gruppo RES non hanno potuto che constatare le tracce di effrazione sulle due porte di accesso alle colonne giganti, su cui sono appollaiate la turbina e le ali di questi mostri industriali di energia rinnovabile. Due in meno, tra le migliaia impiantate in Francia nel corso dell’ultimo decennio. O meglio tre, se contiamo l’incendio di quella dell’altopiano di Aumelas, non lontano da Saint-Pargoire (Hérault), quattro giorni dopo, per una di quelle coincidenze temporali che a volte fa la cosa giusta.
Che queste turbine eoliche non abbiano nulla a che fare con i pittoreschi mulini a vento del passato – che, a proposito, erano nella maggior parte dei casi importanti fonti di accumulazione per il notabile più o meno locale che si attirava spesso l’ira della rabbia contadina – dovrebbe essere abbastanza ovvio. Ma allora, perché gli Stati di tanti paesi incoraggiano la creazione di «parchi eolici» sulle alture delle colline, delle valli e fin dentro il mare? Forse non è esclusivamente frutto di un calcolo matematico, perché neppure gli ingegneri possono modificare tutte le cifre, e devono ammettere che le turbine eoliche non girano più del 19% del tempo in un anno (un fattore di capacità ben più basso delle centrali nucleari che raggiungono il 75% o delle centrali a carbone, tra il 30 e il 60%). Né può dipendere dalla volontà di trasformare l’intero settore energetico in «rinnovabile», perché ciò sarebbe semplicemente impossibile mantenendo lo stesso tasso di elettricità che si divora (per la Francia, bisognerebbe impiantare una turbina eolica ogni 5 chilometri quadrati). Non può essere per il bene dell’«ambiente», a meno di farsi buggerare dai discorsi smart di una tecnologia pulita, dato che niente come la produzione e l’installazione di turbine eoliche (per non parlare della rete elettrica centralizzata a cui devono essere collegate) comporta l’estrazione di materie molto rare e molto tossiche, navi mangia-petrolio per trasportare i minerali, enormi fabbriche per fabbricarle, autostrade per dirottare le varie parti e via di seguito. Infine, ciò non servirebbe a mettere i bastoni tra gli ingranaggi delle grandi multinazionali dell’energia che hanno accumulato una fortuna soprattutto col petrolio e col gas, essendo queste le stesse imprese che investono notevolmente nelle energie rinnovabili. No, in questo modo non ne veniamo a capo, dobbiamo trovare un’altra spiegazione.
Eliminiamo sin dall’inizio tutte le fanfaronate ambientaliste ed ecologiste, ormai brandite non solo dai cittadinisti di servizio, ma anche da quasi ogni azienda, ogni Stato, ogni ricercatore. Non c’è alcuna «transizione energetica» in corso, non c’è mai stata nella storia. Checché ne dicano gli adorabili dipendenti delle start-up tecnologiche, lo sfruttamento della forza muscolare dell’essere umano non è mai stato abbandonato… La generalizzazione dell’utilizzo del petrolio non ha provocato l’abbandono del carbone. L’introduzione forzata del nucleare non ha portato in nessun luogo alla scomparsa di centrali «classiche» funzionanti a gas, gasolio o carbone. Non ci sono transizioni, ci sono solo addizioni. La ricerca accelerata di nuove risorse energetiche corrisponde unicamente ad interessi strategici, non certo etici. In un mondo non solo dipendente, ma iper-dipendente dall’energia elettrica, è necessario diversificare i modi per produrla. Per aumentare la resilienza dell’approvvigionamento, di fondamentale importanza in un mondo connesso che funziona per flussi Jit [Just-in-time] a tutti i livelli, la parola d’ordine è diversificare e moltiplicare le fonti, anche per far fronte ai noti «picchi di consumo» i quali, per ragioni tecniche, non possono essere affrontati con un solo tipo di produzione elettrica (come l’energia nucleare, ad esempio). Quindi, non solo lo sviluppo dell’eolico e del solare, ma anche delle centrali a biomassa, della colza geneticamente modificata usata come biocarburante (che acrobazie permette il linguaggio del tecnomondo!), di nuovi tipi di centrali nucleari, di materiali conduttori nanoprodotti che promettono di ridurre di infime micro-percentuali la perdita di calore nel corso del trasporto dell’elettricità, e l’elenco non finisce qui.
Non è perciò sorprendente che dei tre settori indicati dai programmi di ricerca europei finanziati nell’ambito di Horizon 2020, uno sia proprio quello dell’energia.
Ma allora, cos’è questa energia e in cosa consiste la questione energetica in generale? Come hanno messo in luce molte lotte del passato, specialmente quelle contro il nucleare, l’energia è un’asse-cardine della società industrializzata statale e capitalista. Se energia significa produzione, la produzione consente il profitto tramite la mercificazione. Se energia significa potenza, la potenza consente la guerra, e guerra significa potere.
Il potere concesso dal controllo della produzione di energia è immenso. Per rendersene conto, gli Stati occidentali non hanno atteso la crisi petrolifera del 1973, quando divenne evidente a tutti la loro dipendenza dai paesi produttori di petrolio intenzionati a seguire i propri piani di potere. Questo è uno dei principali motivi con cui molti Stati, tra cui la Francia, giustificarono la moltiplicazione di centrali nucleari: poter disporre di una relativa indipendenza energetica e usarla come arma per costringere altri paesi a rimanere nei ranghi. Ma una cosa è forse ancora più importante, ed è qua che la critica del nucleare e del suo mondo ci permette di cogliere in tutta la sua portata il ruolo dell’energia nel dominio: il nucleare ha confermato che solo lo Stato e il Capitale devono possedere le capacità di produrre energia, che queste capacità rappresentano un rapporto legato al grado di dipendenza delle popolazioni, che qualsiasi sussulto rivoluzionario che voglia trasformare radicalmente il mondo dovrà confrontarsi con questi mastodonti dell’energia. In breve, che energia significa dominio. Come sottolineato in un saggio critico molto documentato apparso alcuni anni fa che collegava la questione dell’energia nucleare a quella eolica: «la maggior parte dell’energia attualmente consumata serve a far funzionare un macchinario schiavizzante da cui vogliamo uscire».
Ciononostante, evocare la questione dell’energia spesso suscita ancora, anche tra i nemici di questo mondo, come minimo un certo imbarazzo. In effetti noi associamo il più delle volte l’energia alla vita, proprio come gli specialisti dell’energia i quali hanno ampiamente contribuito a diffondere una visione che spiega ogni fenomeno vitale attraverso i trasferimenti, le perdite e le trasformazioni di energia (chimica, cinetica, termodinamica…). Il corpo non sarebbe altro che un ammasso di processi energetici, proprio come una pianta sarebbe solo un insieme di trasformazioni chimiche. Un altro esempio di come una costruzione ideologica influenzi – e sia a sua volta influenzata da – le relazioni sociali, è l’associazione molto attuale tra mobilità, energia e vita. Spostarsi di continuo, non rimanere sul posto, «vedere il paese» saltando da un treno ad alta velocità ad un aereo low cost per percorrere in un baleno centinaia di chilometri, è un nuovo paradigma di «successo sociale». Viaggio, scoperta, avventura o ignoto sono parole che ormai appaiono in primo piano su tutti gli schermi pubblicitari, distruggendo attraverso un’assimilazione distorta un’intera dimensione dell’esperienza umana, ridotta a visite veloci e senza rischi di luoghi allestiti a tale scopo. Fino ad alloggiare in una stanza con sconosciuti, debitamente controllati, garantiti e gestiti dalla tracciatura e dai database di una piattaforma virtuale. Forse è per questo che le gote arrossiscono o le labbra incominciano a tremare quando qualcuno osa suggerire che si dovrebbe tagliare l’energia a questo mondo.
Superare tale imbarazzo non è facile. Tutta la propaganda di Stato ci mette in guardia continuamente, col supporto di immagini di vere guerre, su cosa significherebbe la distruzione del rifornimento energetico. Tuttavia, un piccolo sforzo per sbarazzarsi delle visioni che infestano le nostre teste sarebbe un passo necessario. E questo, senza voler sviluppare «programmi alternativi» per risolvere la questione, perché in questo mondo essa non può essere risolta. Le città moderne non possono fare a meno di un sistema energetico centralizzato, sia esso prodotto da centrali nucleari, nanomateriali o turbine eoliche. L’industria non può rinunciare a divorare quantità mostruose di energia.
Il peggio – e questo lo stanno in parte già realizzando, non solo nell’ambito delle lotte contro la gestione energetica e lo sfruttamento delle risorse, ma anche contro il patriarcato, il razzismo o il capitalismo – sarebbe che per la preoccupazione di non restare sguarniti di fronte a un futuro travagliato e incerto, la ricerca e la sperimentazione di autonomia finiscano per alimentare i progressi del potere. Le turbine eoliche sperimentali nelle comunità hippie degli anni 60 negli Stati Uniti hanno magari impiegato un po’ di tempo per entrare nella scena industriale, ma oggi sono un importante vettore per la ristrutturazione capitalista e statale. Come riassunto in un recente testo che delineava le prospettive di lotta ispirate ai conflitti in corso in diverse parti del mondo attorno alla questione energetica:
«Certo, a differenza del passato, nel terzo millennio è possibile che il desiderio di sovversione si incontri con la speranza di sopravvivenza su un medesimo terreno, quello che mira ad ostacolare e ad impedire la riproduzione tecnica dell’esistente. Ma è un incontro destinato a tramutarsi in scontro, perché è evidente che parte del problema non può essere al tempo stesso parte della soluzione. Per fare a meno di tutta questa energia necessaria solo a politici e faccendieri bisogna voler fare a meno di chi la cerca, la sfrutta, la vende, la usa. Le necessità energetiche di una intera civiltà – quella del denaro e del potere – non possono certo essere messe in discussione unicamente dal rispetto per olivi secolari e riti ancestrali, o dalla salvaguardia di foreste e spiagge già in buona parte inquinate. Solo una concezione altra della vita, del mondo, dei rapporti, può farlo. Solo ciò può e deve mettere in discussione l’energia – nel suo uso e nel suo fabbisogno, quindi anche nelle sue strutture – mettendo in discussione la stessa civiltà».
E se questa società titanica va in effetti verso il naufragio, riducendo o distruggendo lungo il suo percorso ogni possibilità di vita autonoma, ogni vita interiore, ogni esperienza singolare, devastando la terra, avvelenando l’aria, inquinando l’acqua, mutilando le cellule, pensiamo veramente che sarebbe inadeguato o troppo azzardato suggerire che per nuocere al dominio, per avere qualche speranza di aprire nuovi orizzonti, per dare un po’ di spazio ad una libertà senza limiti e freni, minare le fondamenta energetiche di questo stesso dominio costituisce una preziosa indicazione?
Consideriamo ciò che abbiamo di fronte e attorno a noi: in tutto il mondo, sono in corso conflitti inerenti lo sfruttamento delle risorse naturali o contro la costruzione di impianti energetici (parchi eolici, centrali nucleari, oleodotti e gasdotti, linee ad alta tensione e centrali a biomassa, campi di colza geneticamente modificata, miniere, ecc.). Tutti gli Stati considerano questi nuovi progetti e le infrastrutture energetiche esistenti come «infrastrutture critiche», cioè essenziali per il potere. Data la centralità della questione energetica, non c’è da stupirsi se si legge nel rapporto annuale di una delle agenzie più rinomate di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai colossi mondiali delle assicurazioni), che il 70% di tutti gli attacchi e i sabotaggi segnalati come tali sul pianeta e perpetrati da attori «non statali», e di tutte le tendenze e ideologie confuse, riguardano le infrastrutture energetiche e logistiche (tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, ripetitori, elettrodotti, depositi di carburante, miniere e ferrovie). Certamente, le motivazioni che possono animare chi lotta in questi conflitti sono le più disparate. Talvolta riformiste, a volte ecologiste, talvolta soggette a rivendicazioni indigene o religiose, a volte rivoluzionarie o semplicemente per rafforzare le basi di uno Stato – o di uno Stato futuro. Lungi da noi l’idea di trascurare lo sviluppo, l’approfondimento e la diffusione di una critica radicale di tutti gli aspetti del dominio, ma ciò che vorremmo sottolineare qui è che anche all’interno di una parte di questi conflitti asimmetrici si può diffondere un metodo di lotta autonoma, auto-organizzata e di azione diretta, introducendo di fatto le proposte anarchiche sul campo. Al di là del potenziale insurrezionale che potrebbero avere i conflitti attorno a nuovi progetti energetici, lasciando magari intravedere le possibilità di una più ampia e massiccia rivolta contro quelle nocività, è comunque chiaro che la produzione, lo stoccaggio e il trasporto di tutta l’energia di cui la società ha bisogno per sfruttare, controllare, fare la guerra, sottomettere e dominare, dipendono invariabilmente da tutta una serie di infrastrutture disseminate su tutto il territorio, cosa che favorisce di conseguenza l’azione diffusa di piccoli gruppi autonomi.
Se la storia dei conflitti rivoluzionari rigurgita di esempi molto indicativi sulle possibilità di azione contro ciò che fa funzionare la macchina statale e capitalista, dare uno sguardo alle cronologie dei sabotaggi degli ultimi anni mostra che anche il presente nelle nostre contrade non ne è privo. Liberarsi dell’imbarazzo, guardare altrove e altrimenti, sperimentare ciò che è possibile e ciò che è allettante, ecco alcuni sentieri da esplorare. Nessuno può prevedere ciò che questo può dare, ma una cosa è certa: è parte della pratica anarchica della libertà.
[Avis de tempêtes, n. 6, 15 giugno 2018. Tradotto da Finimondo]
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Immaginari

Posted on 2021/09/05 by avisbabel
Algeri, 20 giugno. Qui come in altre vecchie colonie ha luogo il sacrosanto esercizio del Bac, che ha consacrato anni di selezione e docilità. Centinaia di migliaia di studenti delle scuole superiori si affannano a trasformarsi in fedeli pappagalli che ripetono a memoria ciò che il potere ha cercato di inculcare loro. Questa volta, la novità non consiste nella formazione di schiavi-cittadini adeguati ai bisogni del dominio, ma in una innovazione poliziesca: due volte al giorno, dal 20 al 25 giugno, le autorità algerine hanno infatti deciso di scollegare internet in tutto il paese, col pretesto di impedire di «imbrogliare» agli esami. Ciò ricorda quanto avvenuto nel 2011: il vicino Egitto era già stato il primo grande paese a tagliare quasi completamente l’accesso a Internet sul suo territorio in maniera intenzionale, nel bel mezzo del sollevamento che ha portato alla caduta della dittatura di Mubarak.
Qualche anno fa, in seguito a dei testi che spiegavano come i dispositivi di informazione e di telecomunicazione (internet, telefonia mobile) esistessero solo in funzione delle necessità della merce e del controllo, e che a questo titolo costituivano un obiettivo interessante della città-prigione, alcuni compagni si erano indignati.
Stasera penso a voi: niente di ciò che è telematico è fatto per noi — sovversivi ed altri raccoglitori di stelle. Tutto, dai telefoni cellulari ai social network, è stato pensato e costruito — e può quindi in qualsiasi momento ritorcersi — contro di noi, come altrettante dipendenze che ci allontanano da possibilità reali di auto-organizzazione e di comunicazione diretta.

Parigi, 15 luglio. Con la festa nazionale della vigilia e la finale dei mondiali di calcio, il potere ne approfitta per fare della città un gigantesco laboratorio di controllo. Lontano, molto lontano dagli Champs-Elysées dove si esprime in pompa magna tutto l’orrore patriottardo, i trasporti urbani ad esempio sono stati soppressi preventivamente dalla prefettura di polizia: niente autobus nella capitale né in tutti e tre i dipartimenti limitrofi (che contano ben 4,5 milioni di abitanti). Niente tram per fare il giro di Parigi, molte stazioni della metropolitana chiuse. Qualche anno fa, in seguito a dei testi che spiegavano come il trasporto pubblico esistesse solo in funzione dei bisogni della merce e del controllo, e che a questo titolo costituivano un obiettivo interessante della città-prigione, alcuni compagni si erano indignati.
Stasera penso a voi: niente di ciò che è pubblico, cioè dello Stato, è fatto per noi — improduttivi ed altri guastafeste. Tutto, dalla pianificazione dei quartieri fino alla circolazione al loro interno, è stato pensato e costruito — e può quindi in qualsiasi momento ritorcersi — contro di noi, come altrettanti confini invisibili che filtrano gli indesiderabili.


In un mondo in ristrutturazione permanente, dove le guerre ritornano a bussare alle porte dell’Europa mentre le maglie della rete dello sfruttamento e del controllo si stringono all’interno delle frontiere; dove le tecnologie avanzate penetrano i nostri geni e mappano il nostro cervello mentre le devastazioni dell’ambiente lo rendono una catastrofe permanente; dove emozioni e sentimenti, sogni e linguaggio sono sempre più mediati da protesi algoritmiche, nulla è più certo. Il nostro grado di spossessamento è diventato tale che in ogni momento il potere dispone di enormi possibilità in tutti gli ambiti della vita, per rimandarci alla nostra miseria di nudi soggetti. Tagliare tutto è allora il minimo che possiamo fare, se vogliamo strappare tempo e spazio al dominio per sperimentare la libertà.

In questo mondo senza più sicurezze, facendo un passo indietro, ci resta tuttavia una piccola certezza, assoluta e contingente: cioè che abbiamo una sola vita, e che un giorno moriremo tutti. Un’unica certezza quindi, che in questo turbinio non dà speranze né consolazione, ma una strana indicazione. Quella che, malgrado tutti gli ostacoli eretti davanti a noi, se conosciamo la fine del cammino, è solo quest’ultima ad essere ineluttabile. Né le sinuosità, né le occasioni, e tanto meno le fonti che lo costeggiano sono tracciate in anticipo. Contro la rassegnazione ed il fatalismo del tempo, per riprendere la propria vita in mano coniugando idea e azione, coltivare alcune qualità supplementari come l’immaginazione e la determinazione potrebbe essere un buon inizio.
Di fronte alla schiavitù delle piantagioni americane, l’immaginazione non ha forse costruito la ferrovia sotterranea — rete di fuga su larga scala verso il Messico e il Canada —, l’azione diretta non ha tentato di forzare il destino attraverso l’insurrezione di Harpers Ferry, l’auto-organizzazione e la determinazione non hanno fatto nascere dei quilombo nel cuore della giungla brasiliana? Più vicino a noi, nelle condizioni di sfruttamento e di miseria che costituivano già la sorte comune di ogni immigrato, non è una miscela di audacia e di fantasia ad aver indotto un anarchico italiano a progettare di sopprimere in un sol colpo la classe dirigente di un intero Stato americano (avvelenando il loro pasto), o ad aver permesso ad un giovane disoccupato mezzo cieco di cercare di provocare un salutare scossone davanti all’ascesa del nazismo incendiando il Reichstag tedesco?
Ancor più di recente, rinchiusi in una immensa prigione a cielo aperto chiamata striscia di Gaza, di fronte ad uno degli eserciti più temibili del mondo, in possesso di armi da guerra tra le più moderne e sofisticate, cosa potevano immaginare individui privi di speranza, di mezzi e di un futuro? Dopo il massacro del 14 maggio, giorno dell’installazione dell’Ambasciata americana a Gerusalemme, quando sessanta manifestanti sono stati uccisi ed oltre duemila feriti dai proiettili dei cecchini israeliani per essersi avvicinati troppo al filo spinato del confine, centinaia di aquiloni e palloncini artigianali con un piccolo congegno incendiario legato alla fine del filo hanno preso il volo. Il vento soffiava verso il territorio israeliano ed è lì che da un mese cadono questi aquiloni, è lì che si sprigionano le fiamme malgrado droni e bombardamenti (in media 24 incendi con aquiloni, tutti i giorni nelle ultime settimane). Diverse centinaia di ettari di campi e case di coloni sono andati in fumo, causando centinaia di migliaia di euro di danni.
E noi, quali sono gli aquiloni che vogliamo far volare? Quale immaginario infuocato e singolare vogliamo esplorare di fronte alla ragione del più forte, senza altra certezza se non quella di seguire fino in fondo il nostro percorso contro ogni autorità?
Avis de Tempêtes, n. 7, 15 luglio 2018.
Tradotto da Finimondo.
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Un suggerimento

Posted on 2021/09/05 by avisbabel

Le chiacchiere rendono ciechi. Fanno saltare gli ultimi ponti che ancora rimangono tra il pensiero e l’azione. A forza di essere sommersi da fiumi di parole, a forza di girare in tondo, tutto sommato per non dire nulla, a forza di partecipare con entusiasmo al crescendo di parole vuote, anche le cose più semplici finiscono col diventare grandi enigmi come l’origine del mondo o il senso della vita.
Prendiamo ad esempio una miniera nell’Ariège, nel sud della Francia, che lo Stato ed uno sfruttatore vogliono riaprire. Non una miniera qualsiasi, sarebbe troppo semplice: no, una miniera di tungsteno, quel metallo tanto ambito dall’industria d’armi ed aeronautica. Un metallo i cui giacimenti sono piuttosto rari ed il cui prezzo sul mercato non smette di salire. Un metallo molto più duro del piombo, e che perciò figura in alto nella lista dei componenti di munizioni e di bombe perforanti. Che lo sfruttamento di una miniera di tungsteno, come del resto di qualsiasi altra miniera, comporti la devastazione del territorio, un inquinamento che favorisce terribili malattie e perfino il logorio calcolato della salute dei minori, questo è ovvio, malgrado le forti dosi di neolingua a base di «tecnologia verde», di «nucleare pulito», di «sviluppo sostenibile» ed altri «oggetti intelligenti» che possono illustrarci tutti i suoi promotori.
Dopo l’annuncio del progetto di riapertura di questa miniera chiusa nel 1986 dopo trent’anni di sfruttamento, una miniera che costituisce un interesse strategico assodato per la Francia e la sua industria di difesa, il debordare di chiacchiere, di opposizione cittadinista, di ricorsi giuridici e di «dibattiti pubblici» avrebbero potuto costituire una autentica inondazione in grado di spegnere e contenere ogni velleità di rivolta o di reazione diretta e senza compromessi. Fortunatamente non è stato così, e nella notte fra il 25 ed il 26 aprile 2018, alcuni anonimi hanno preso in mano la situazione appiccando il fuoco agli edifici ristrutturati della miniera di tungsteno di Salau, situata a Couflens nell’Ariège. Due distinti focolai hanno distrutto un locale tecnico/laboratorio e danneggiato un secondo edificio. Con mezzi semplici: dopo aver sfondato con una mazza un muro sul retro del laboratorio, questi anonimi vi hanno introdotto alcuni copertoni posizionandoli sotto un serbatoio di 1000 litri di olio combustibile. Senza bisogno di altro: il serbatoio è esploso, devastando l’intero edificio tecnico. Nel secondo edificio, le fiamme sembrano aver avuto maggiore difficoltà a propagarsi, pur danneggiandone la struttura. Ecco un atto chiaro, diretto, senza ambiguità: distruggere ciò che ci distrugge. Attaccare laddove la devastazione, la guerra e l’oppressione vengono prodotte.
Forse qualcuno dirà che bisognerebbe parlare anche dell’opposizione in corso nella regione, generata da questa possibile riapertura. Ci sono stati cortei, blocchi, oltre ad interpellanze politiche o ricorsi legali. Ma diciamolo francamente, basta con le chiacchiere: la proposta anarchica non può consistere in manifestazioni per «marcare il nostro disaccordo», né in blocchi simbolici «per attirare l’attenzione», o in qualsiasi altra cosa non legata ad una tensione verso l’azione diretta e l’auto-organizzazione. Per questo, esiste già tutto un ventaglio di colori politici, dal rosso al verde al giallo, non c’è bisogno che gli anarchici ci si mettano a loro volta. Ciò che proponiamo è diverso, e non ha a che fare con una logica democratica o basata sul consenso: l’attacco diretto, con i mezzi che ciascuno considera opportuni. Non per dimostrare qualcosa a qualcuno, né per aggiungere una voce più radicale ad una protesta troppo gregaria, ma perché riteniamo che la sola maniera reale di opporsi a questo mondo di oppressione e di sfruttamento, sia cercare di distruggerlo. Sia attraverso l’azione, colpendo le sue strutture ed i suoi uomini, che attraverso il pensiero, corrodendo le ideologie che legittimano il potere e la mentalità di obbedienza e sottomissione che lo sostengono.
Forse altri ancora diranno che bisogna parlare, cifre alla mano, delle devastazioni provocate da una miniera di tungsteno, di quanti chili ne servano per costruire un missile, o perché no, della manifestazione successiva a questo sabotaggio, sfilata per le strade di Saint-Girons, «capitale» di Couserans, la regione in cui si trova il giacimento. Una manifestazione di 500 persone, che hanno risposto all’appello della CGT e della Federazione dei cacciatori (il cui presidente locale è d’altronde il proprietario del terreno) a favore dello sfruttamento del tungsteno e per l’occupazione nella regione, malgrado sia per l’industria bellica e a prezzo dell’inquinamento del territorio. Che fare di fronte a simili manifestanti, a simili servitori del potere? Non tutti erano rappresentanti politici, grandi o piccoli borghesi del posto. C’erano anche proletari, poveri, contadini. Come un riflesso delle fabbriche di morte, che non funzionano solo con gli ingegneri ma anche grazie ai bravi sfruttati come si deve, magari perfino piuttosto orgogliosi del proprio lavoro e della propria perizia. La responsabilità individuale non può fermarsi ai confini «della classe». Chi produce la guerra, può aspettarsi che gli venga dichiarata guerra.

Per finire, e guardare un po’ più in là, da dove proviene il tungsteno dell’industria bellica, dato che la miniera di Salau era chiusa fin dal 1986? Se i più grandi produttori a livello mondiale sono la Cina e la Russia, esistono comunque importanti giacimenti nella stessa Europa. Il Portogallo produce circa 700 tonnellate di tungsteno all’anno, proveniente dalle miniere di Panasqueira nel comune di Covilhã (nel centro del paese), l’Austria mette sul mercato più o meno la stessa quantità, sfruttando i giacimenti di Mittersill nella regione di Salisburgo. La Spagna produce 500 tonnellate all’anno nella miniera a cielo aperto di Barruecopardo, nella provincia di Salamanca. La produzione degli altri paesi è più modesta, come in Norvegia, dove si trova la miniera a cielo aperto di Målviken nel Nordland, e come in Inghilterra, dove sono in corso dei lavori dal 2014 per riaprire la vecchia miniera a cielo aperto di tungsteno Drakelands Mines nella regione del Devon.
Ricordiamo inoltre che il tungsteno fa parte della famiglia dei «metalli rari» come la grafite, il cobalto, l’indinium, i platinoidi o le terre rare. Il loro sfruttamento è in genere estremamente inquinante (la Cina è il più grande produttore di questi «metalli rari», sacrificando la salute di decine di milioni di esseri umani a questa attività industriale che ha trasformato vasti territori in zone completamente tossiche). Nessun oggetto tecnologico odierno potrebbe venire fabbricato senza questi metalli, si tratti di telefoni cellulari, transistor, pale eoliche o missili. Per contrastare la dipendenza del rifornimento di metalli preziosi (oltre il 90% dell’importazione nell’Unione Europea è d’origine cinese), molte aziende europee si sono lanciate nel «riciclaggio» dei metalli rari, estraendoli dai rifiuti attraverso altri procedimenti chimici estremamente tossici. E da qualche anno si stanno alzando diverse voci a favore di uno sfruttamento conseguente delle riserve di metalli rari sul suolo europeo. Nel 2013 il progetto EURARE, finanziato nell’ambito del programma di ricerca europeo Orizzonte 2020, ha rilanciato le esplorazioni e ha presentato lo scorso anno il suo rapporto pubblico. È il preludio di possibili nuovi sfruttamenti minerari localizzati soprattutto in Svezia, Grecia, Finlandia e Spagna, e in misura minore in Germania, Norvegia, Italia, Austria, Ungheria e Portogallo.
È allora difficile sottovalutare l’importanza del sabotaggio incendiario dello scorso aprile a Couflens: non solo offre un perfetto suggerimento ai nemici di questo mondo e alle lotte che potrebbero svilupparsi contro nuovi sfruttamenti minerari, ma è anche un attacco effettivo contro un pilastro importante della produzione del dominio tecnologico che ha un bisogno cruciale di tutti questi metalli rari.

Lo scorso mese, almeno altri due attacchi contro lo sfruttamento delle risorse naturali sono avvenuti altrove. A Kouaoua (Nuova Caledonia), la serpentina del centro minerario della SLN è stata ancora una volta bruciata anonimamente (è la terza volta in meno di un anno), paralizzando l’industria del nichel, di cui un terzo delle riserve mondiali si trovano su questa isola del Pacifico colonizzata dallo Stato francese. La serpentina — un nastro trasportatore lungo una decina di chilometri — è fondamentale per spostare il minerale dalla montagna fino al porto. Nei Bauges (Savoia), sono stati degli «umani come falene» a rivendicare l’attacco incendiario contro una cava di Vicat, il terzo produttore di cemento francese. Una stazione di trasformazione elettrica, l’edificio, la cabina dei comandi, i computer di una macchina estrattrice così come vari macchinari edili sono andati in fumo. «Il cemento che trasuda da tutti i pori di questa società ci priva di vita, di sensazioni, di sostanza. Le foreste gestite in modo ecosostenibile assomigliano a fosse comuni» si legge nel loro testo, che conclude dicendo: «Questo è solo un bagliore d’incendio nelle profondità del bosco, è solo un barlume ma ci aiuta a muoverci nell’oscurità, a costo in qualche caso di bruciarci le ali». Un’azione che ha posto fine, anche qui in maniera diretta, ad una delle attività nocive su cui si fondano lo Stato ed il Capitale. Semplicemente.
Il controllo si fa più serrato, le lotte possono apparire disperate, le proteste di strada più o meno radicali sembrano aprire ben pochi orizzonti sovversivi, ma una cosa resta sicura e certa: agire è sempre possibile. Un po’ di creatività, di determinazione, qualche sforzo per guardare oltre l’apparenza, qualche conoscenza di base. In piccoli gruppi e attraverso l’azione diretta. Per colpire e distruggere tutto ciò che perpetua questo mondo di autorità.
Basta con le chiacchiere legalitarie e i tentennamenti politicanti. Avanti, per l’anarchia con la libertà nel cuore!

Avis de Tempêtes, n. 5, 15 maggio 2018.
Tradotto da Finimondo.

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Afferrare l’occasione

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Più di centomila persone arrabbiate che occupano da quasi quattro settimane rotatorie e caselli autostradali, che cercano di bloccare e rallentare il funzionamento delle piattaforme logistiche di supermercati, depositi petroliferi o anche di fabbriche, che si riuniscono ogni sabato nelle città di medie dimensioni come nelle metropoli per assaltare prefetture e municipi, o semplicemente per distruggere e saccheggiare ciò che li circonda; ecco che l’autunno dà vita inaspettatamente all’ennesimo movimento sociale. Di che far accorrere tutti coloro a cui piace l’odore delle mandrie, per tentare di cavalcarle o semplicemente per essere là dove accade seguendo il vento dei lacrimogeni. Come durante il movimento sindacale contro la Loi Travail del 2016 (marzo-settembre) e le sue conseguenze contro le ordinanze nel 2017 (settembre-novembre), o quello contro la riforma della SNCF quest’anno (aprile-giugno). Solo che questa volta non è andata così.
Per una volta, un movimento è scoppiato in modo auto-organizzato al di fuori di partiti e sindacati, per una volta si è immediatamente fissato le proprie scadenze sia a livello locale che nazionale — scadenze spesso quotidiane e non al ritmo settimanale o mensile delle grandi giornate orchestrate dai leaderini e concordate in anticipo con la polizia —, definendo anche i propri luoghi e percorsi di scontri e blocchi rifiutando ostinatamente di implorare un’autorizzazione prefettizia preventiva. Insomma, un po’ di aria fresca per tutti i militanti in attesa di un grande movimento collettivo per uscire di casa. E tuttavia! Mentre le briciole reclamate da qualsiasi collettivo cittadinista, sindacalista o vittimista con il sostegno di un rapporto di forza nelle strade per aiutare i suoi rappresentanti a meglio negoziare col potere non ha mai impedito ai più di partecipare, ecco che i coraggiosi militanti antiautoritari cominciano a sezionare quelle che hanno fatto traboccare il vaso dei gilet gialli. Ah, ma è troppo reazionario arrabbiarsi per il prezzo del gas o delle tasse. Ah, ma nella loro consultazione virtuale vorrebbero contemporaneamente sia un aumento del 40% dello SMIC [salario minimo] e delle pensioni che una diminuzione degli oneri per i padroni, vorrebbero meno eletti ma anche essere consultati dal potere tramite referendum, aumentare il numero di sbirri e giudici e rimettere ospedali, treni e uffici postali nei paesi, vietare il glifosato e riaprire fabbriche ovunque, integrare gli immigrati docili e cacciare via i numerosi rifugiati a cui è stata respinta la domanda di asilo, ripristinare l’ISF [imposta sul patrimonio] ma pure che le banche smettano di vessare i commercianti. In breve, più le persone si uniscono a questo movimento e più le rivendicazioni si allungano, in un guazzabuglio eterogeneo di luoghi comuni e piccole riforme di destra e di sinistra che sono il segno distintivo degli schiavi che cercano di riverniciare la propria gabbia. Nulla di sorprendente nel chiedere un cambiamento purché nulla cambi, dopo molti decenni di spossessamento, di ristrutturazioni produttive e di addomesticamento tecnologico a partire dall’ultimo tentativo di assalto al cielo degli anni 70. Nulla di sorprendente, ma un gioco più aperto di quanto non sia stato nel corso dell’ultimo decennio, rivolto solo ai meteorologi impauriti più propensi allo status quo democratico e ben oliato che alle possibilità di uno sconvolgimento a tutti i livelli, a meno che, naturalmente, la famosa rottura non avvenga di colpo, magica e pura, gentile e senza processi o superamenti.
Ma ora, il militante antiautoritario pur abituato ad ingoiare tutto in materia di rivendicazioni riformiste per mescolarsi ai movimenti di lotta, questa volta non vi rileva sufficienti luoghi comuni conosciuti. Passi per il rifiuto dei licenziamenti o la chiusura di una fabbrica che macina vite ed avvelena — sapete, è la lotta di claaasse. Passi per le case popolari e le altre gabbie amministrate in centri specifici (per i senzatetto, i richiedenti asilo, ecc.), sapete, è urgente togliere i poveri della strada. Passi per un processo e delle perizie eque con l’aggiunta di qualche sbirro in carcere, sempre che venga detto in altro modo e portato avanti da famiglie. Passi per il rifiuto dell’ingresso selettivo nel meccanismo che formerà i futuri dirigenti, è l’opportunità di interrompere dei corsi senza intaccare la gerarchia sociale. Passi per il rifiuto di una nocività perché troppo così o non abbastanza colà, purché il e il suo mondo non arrivi ad infrangere la bella composizione cittadinista coi pianificatori dell’esistente.
In tutte queste occasioni e in molte altre, dal militante che traina il suo programma a quello che rompe vetrine mirate, in genere stanno attenti a difendere la propria attività facendo una distinzione fra il vertice e la base del movimento, fra le tristi richieste degli organizzatori e la collera dei presenti, si cerca di bilanciare il pretesto iniziale per rialzare la testa con le possibilità di rompere la routine dello sfruttamento, si soppesano gli ingredienti del casino per far crescere la propria parrocchia. Insomma, si fa politica in dialettica con la sinistra: si sensibilizza, si radicalizza, si socializza, si dilaga, si recluta e si fa il brutto anatroccolo della grande famiglia progressista. Qualche volta si sogna persino di destituire il Presidente per poter fare a meno di una rottura rivoluzionaria violenta. Ma che fare quando non c’è una base o un vertice e nemmeno rivendicazioni educate ed unitarie, ma una proliferazione di rabbia diffusa (dai pensionati ai liceali, dai blocchi diurni alle sommosse serali)? Quando non c’è un soggetto politico da sostenere o su cui contare? Quando Facebook diventa un sostituto dell’assemblea ed il corteo di testa non ha più il monopolio dello scontro in manifestazione? Quando le parole che vengono fuori sono più volgari, gli argomenti più confusi ed i simboli più rozzi?
Perché all’improvviso, col movimento dei gilet gialli, il militante antiautoritario riscopre il mondo che lo circonda! Lui che ieri andava in estasi davanti alla cosiddetta Primavera araba, senza che l’abuso «interclassista» della parola «popolo» («il popolo vuole la caduta del regime» era uno degli slogan più presenti) e la profusione di bandiere nazionali costituissero un ostacolo irrimediabile, oggi è disgustato dagli stessi limiti dalla sua parte del Mediterraneo. Lui che ieri si era mobilitato contro la Loi Travail o durante lo scorso Primo Maggio senza ritenere la propria presenza incompatibile con quella di bandiere infiorettate di falci e martelli, o con quella di striscioni di testa parigini a volte ambigui (con punchline di rapper, reazionari da ogni punto di vista) rimane oggi stordito dallo stupore per i tricolori e gli slogan populisti.
Volontariamente cieco, non aveva mai notato i numerosi tricolori nelle iniziative di France Insoumise nel corso delle ultime elezioni (a Place de la Bastille a Parigi il 18 marzo 2017 o nel Vieux Port di Marsiglia il 9 aprile 2017), né quelli srotolati da centinaia di migliaia di persone nelle strade durante la vittoriosa epopea dello spettacolo calcistico del luglio 2018 (sventolati all’unisono da giovani poveri delle città e da vecchi ricchi razzisti). No, il militante è una persona semplice come la sua ideologia da supermercato bio. Un emblema immondo = un fascio, punto. Sì al vandalismo militante nel corso di manifestazioni inquadrate, gomito a gomito all’interno di black bloc con stalinisti, maoisti o neo-blanquisti organizzati, ma non nel corso di raduni sparsi senza organizzatori né percorsi definiti, dove logicamente potrebbero essere presenti dei fascisti organizzati. Per i militanti più allergici ai fascisti organizzati che agli stalinisti organizzati, più ai partiti che ai sindacati, il prurito sembra essere piuttosto a corrente alternata, a meno di rivedere il concetto delle prospettive antiautoritarie, beninteso.
A corto di argomenti per tenere a distanza questo movimento incontrollato, non è nemmeno sorprendente che alcuni limitanti siano venuti a balbettare, come banderuole disorientate, il classico ritornello del potere: quando per riflesso condizionato capita loro di mescolarsi al casino di un movimento sindacale o di sinistra, imprecano contro chi li accusa di «recuperare il movimento» o di essere «elementi esterni». Diamine, no, loro portano semplicemente il proprio contributo alla sommossa. Ma allorché dei liceali, degli anarchici o dei teppisti si azzardano a farsi vedere nell’attuale baraonda iniziata dai gilet gialli per agire a modo loro e a proprio piacimento, riprendono a propria volta l’antifona sugli pseudo-recuperatori di un «movimento intrinsecamente proto-fascista». Nella corsa alle categorie del potere, i cacciatori-raccoglitori (ops, i «vandali-saccheggiatori») sono per forza qualcos’altro! E noi che credevamo ingenuamente che un movimento fosse innanzitutto ciò che ognuno fa e ciò che realmente vi accade, al di là delle sue rappresentazioni e dei soggetti politici fantasticati.
Alla fine, per una settimana o due, è sembrato più prudente restare su un terreno familiare a diversi antiautoritari, mosche cocchiere del famigerato campo del progresso sociale, foss’anche sindacalista della CGT-guardie carcerarie o SUD-Interni, tendenza patriottarda della Repubblica o politicante degli Indigeni, piuttosto che affrontare l’imprevisto di una contestazione aperta senza dirigenti né schemi prefissati. Prima ovviamente di gettarsi dentro, ma nel modo in cui erano usi fare prima, aggiungendo pietra su pietra, tag su tag, e così via. E poi, molto rapidamente è comparsa quella magica locuzione, «situazione pre-insurrezionale», che da sola giustifica il salto operato, anche tappandosi un po’ il naso. Immergersi con gaudio nel gregge rosso o tuffarsi a malincuore nel gregge giallo, partecipare per influenzare o restare spettatori per mantenere le mani pulite, ecco un buon esempio di false dicotomie, perché i termini stessi della questione sono falsati. A nostro avviso, la questione in effetti non è mai se partecipare o meno ad un movimento, se esserne attori o spettatori, ma unicamente agire per distruggere l’esistente in ogni circostanza, con o senza un contesto particolare di lotta, sia che gli altri si muovano per questa o quella briciola iniziale più o meno (in)interessante, purché lo si faccia con le nostre idee, pratiche e prospettive. Dentro, fuori o vicino a un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o con molti altri. Di giorno come di notte.
Quanto alla questione insurrezionale, è vero che se si vuole abbattere lo Stato e distruggere ogni autorità, appare una premessa indispensabile, che non sarà comunque opera dei soli anarchici e dei rivoluzionari (d’altronde è per questo motivo che gli autoritari neo-blanquisti trascorrono il loro tempo a cercare di cavalcare lotte e movimenti, per trovare una massa da manovrare, o che altri tentano costantemente di reclutare seguaci). Le rivolte e le insurrezioni scoppiano già senza di noi, e quando non si ha né desiderio di dirigere tali movimenti né disprezzo per gli schiavi che si ribellano per le proprie ragioni, la domanda interessante da porsi diventa: cosa vogliamo fare noi? Agire già senza aspettare nessuno, qui ed ora, non esclude infatti la possibilità di farlo a maggior ragione quando esplode una situazione di casino caotico. In ogni caso non quando abbiamo già riflettuto un minimo sulle nostre prospettive. Quando si è quindi in grado in piena autonomia di cogliere le occasioni che si presentano per cercare di realizzare i nostri progetti sovversivi.
Quanto alla rivoluzione, ci uniamo a ciò che alcuni anarchici italiani hanno appena scritto in un testo relativo a quanto sta accadendo in Francia (Di che colore è la tua Mesa?), di cui riprendiamo uno dei passaggi:
Chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? […]
Il guaio di tutti i militanti — disfattisti o entusiasti che siano — è che nelle situazioni di effervescenza sociale il loro cervello è tarato per porsi un unico quesito, ovvero quali rapporti diretti e produttivi instaurare coi movimenti di protesta. Sono ossessionati dalla ricerca del soggetto rivoluzionario al cui servizio mettersi, o di cui fare semplicemente l’apologia. È così che si può mettere in luce il minimo scontro in periferia con la polizia o le autorità senza curarsi della questione delle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera locale, ad una battaglia mafiosa di territorio, ad un addestramento religioso, o a molte altre cose ancora?), rifiutandosi ostinatamente di prendere in considerazione il minimo scontro di gilet gialli nelle piazze e nelle rotatorie con la polizia o con le autorità perché si danno fin troppi giudizi a priori sulle motivazioni individuali (è legata allo spaccio, ad un problema di assunzione di manodopera, ad un malcontento sociale per le tasse, ad un addestramento nazionalista, o a molte altre cose ancora?).
È come se ogni volta si riscoprisse la stessa acqua calda: no, gli altri rivoltosi non sono anarchici ed entrano in ballo per ragioni proprie, sia che appaiano appassionanti o futili, sia che le si conosca esplicitamente o meno. Ma ciò che a noi interessa è che la rivolta apra qui degli spazi per altri là, in una possibilità diffusa di andare dal centro alla periferia, che permetta di sperimentare forme di complicità dirette o indirette, ed infranga una normalità che è durata fin troppo. Spetta agli anarchici stessi, e non ad altri, far vibrare le proprie prospettive contro ogni autorità alimentando i vasi comunicanti tra idea ed azione. Nei momenti di calma come di tempesta. E allora, forse, i nostri sogni o le nostre collere incontreranno un’eco in altri cuori insubordinati.
Per fortuna non tutti sono militanti, e possono quindi interessarsi di più a cosa apra ogni conflitto e disordine, non tanto per gli altri, ma per se stessi. In mezzo al caos che rallenta l’intervento repressivo e facilita il mordi-e-fuggi, esistono possibilità altrimenti molto più ardue, ossia impossibili? Lontano da quel caos su cui si concentra il controllo, si può puntare ad obiettivi altrimenti invulnerabili? Esaminando più da vicino il movimento dei gilet gialli in corso, ci si accorgerà che molti hanno già iniziato a rispondere a questi interrogativi, consentendoci di affrontare qui alcune tracce sulle possibilità di afferrare l’occasione. Lungi dal costituire un inventario esaustivo, si tratta solo di esempi, tracce banali se si vuole, più o meno condivisibili, ma che dicono qualcosa per alimentare l’immaginazione.
Il 24 novembre sugli Champs-Élysées, mentre non era ancora evidente che i sabati successivi avrebbero assunto forme tumultuose al di là dei dispositivi polizieschi, alcuni ignoti hanno iniziato ad allontanare la morsa del salariato organizzandosi per saccheggiare la boutique Dior. Quasi 500.000 euro in gioielli e altri gingilli sono così passati di mano in pochi minuti, accanto gli scontri. Oltre all’esproprio di una vasta gamma di beni di consumo comune, dai negozi sportivi o di abbigliamento ai supermercati, dai telefoni cellulari ai computer portatili (Parigi, Marsiglia, La Réunion, Tolosa, Saint-Etienne, Le Havre, Bordeaux, Charleville-Mézières, Saint-Avold, Le Mans, Bourg-en-Bresse), diverse altre gioiellerie e negozi di lusso sono stati ugualmente spogliati qua e là. In generale, solo nella capitale, la Camera di Commercio e Industria ha recensito durante la sommossa di Parigi dell’1 dicembre 142 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 95 con la vetrina appena danneggiata), oltre a 144 negozi vandalizzati o saccheggiati (più 102 con la vetrina appena danneggiata) in quella dell’8 dicembre.
Nello stesso ordine di idee, ci si potrebbe chiedere quali altre possibilità offra il fatto di tenere una rotatoria, oltre a bloccare e frenare la circolazione di merci e creare delle complicità nell’azione. A questo titolo, l’esempio di quanto accaduto in Belgio può essere piuttosto eloquente. Non contenti di aver dato fuoco a un camion-cisterna a Feluy (20 novembre) e di essersi là scontrati duramente con la polizia per diversi giorni, sono stati bloccati ed alleggeriti del loro carico anche cinque Tir nei giorni seguenti (21-22 novembre). Dopo che il movimento dei gilet gialli è stato raggiunto da centinaia di altre persone spostando il punto del conflitto dall’autostrada verso la città di Charleroi, superando la questione dell’origine sociale o geografica, la pratica del saccheggio è continuata. Oltre al tradizionale supermercato, è un bancomat della BNP ad essere stato non semplicemente distrutto, ma prima sradicato dalla sua base e poi svuotato (23 novembre).
In un analogo rapporto all’inizio del movimento, un camion carico di 900 pneumatici è stato rapidamente immobilizzato a Le Havre in una rotatoria tenuta dai gilet gialli (20 novembre). Una volta disattivato il suo sistema di sicurezza, alcuni individui hanno iniziato a svuotarlo e non meno di 250 pneumatici nuovi si sono volatilizzati, nonostante l’opposizione dei più legalitari. Un’ora dopo, incoraggiati da nuove possibilità, è un negozio di informatica situato vicino alla rotatoria a venire completamente saccheggiato (così come il ristorante della zona commerciale).
Saccheggi di gioiellerie, di Tir, di bancomat — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Il primo dicembre ad Avignone, mentre come in molte altre città i manifestanti si concentravano davanti al municipio o alla prefettura per tentare di invaderli (quello di Puy-en-Velay è stato parzialmente bruciato l’1 dicembre al grido di «Arrostirete come polli»), un piccolo gruppo ha nel frattempo deciso di occuparsi del Palazzo di Giustizia: quasi 30 metri delle sue spesse vetrate sono andati in frantumi. Anche a Charleroi, durante le sommosse il tribunale è stato colpito da molotov. A Tolosa l’8 dicembre durante la devastante sommossa durata per ore, un gruppo allo stesso modo ha deciso di visitare il centro di gestione della videosorveglianza della città, situato nel quartiere di Saint-Cyprien. Mentre i ficcanaso comunali erano all’interno, le sue vetrate hanno cominciato ad essere infrante e la sua telecamera presa a sassate. Sebbene l’assalto sia stato troppo breve, i sindacati hanno comunque richiesto il trasferimento del computer della videosorveglianza di Tolosa, che era scampato al pericolo. A Blagnac il 4 dicembre, invece di bloccare semplicemente il liceo Saint-Exupéry, alcuni studenti hanno dato fuoco alla montagna di immondizia accatastata con cura all’ingresso: l’incendio ha distrutto la portineria e l’atrio, mentre le sale dei professori, il CDI [Centro di Documentazione e Informazione], i locali dell’amministrazione e le aule di scienze sono state gravemente danneggiate (1 milione di euro di danni) e il collegio chiuso per una buona settimana. Il casello autostradale di Narbonne-Sud, bloccato dai gilet gialli la notte del 2 dicembre, non solo è stato saccheggiato (come a Virsac, Perpignan, Bollène, La Ciotat, Sète, Muy, Carcassonne), ma soprattutto sono state bruciate sia le infrastrutture di Vinci che quelle della gendarmeria: oltre ai suoi 800 mq di locali e al computer della sicurezza, Vinci ha perso una trentina di veicoli, mentre l’esercito ha perso due camionette oltre ai locali e a vario materiale (computer, strumenti radiofonici, uniformi).
Attacco del tribunale, del centro di videosorveglianza, della gendarmeria o della scuola — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Infine, più lontano dalle folle, sia approfittando del fatto che le forze repressive erano troppo occupate altrove, sia per alimentare il conflitto in corso con i propri obiettivi, alcuni nottambuli sono andati a fare una passeggiata al chiaro di luna. Da un lato, diversi centri delle imposte o dell’URSSAF [Inps francese] sono stati attaccati in vari modi (con pneumatici incendiati a Venissieux il 2 dicembre, a Riom il 4 dicembre ed a Semur-en-Auxois il 14 dicembre, con taniche di carburante e molotov a Privas l’8 dicembre, con idranti per allagarli a Nyons l’8 dicembre, con molotov a Saint-Andiol il 4 dicembre ed a Saint-Avold il 14 dicembre, con cassonetti dell’immondizia in fiamme a Chalon-sur-Saône il 27 novembre). D’altro canto, colpendo il traffico ferroviario in un periodo in cui per bloccare i flussi non c’è motivo di limitarsi alle strade: una centrale elettrica di segnalazione della SNCF è stata incendiata a Castellas il 30 novembre, mentre quattro giovani gilet gialli che si erano incontrati in una rotatoria in Lorena si sono lanciati in un giro notturno il 28 novembre. Hanno sabotato 9 passaggi a livello tra Saint-Dié e Nancy, rompendo col piede di porco le scatole di comando per costringere il meccanismo ad abbassare le barriere, bloccando così tutta la circolazione stradale. Altrove ancora, una sede elettorale della deputata LREM [En marche] ha perso le sue vetrate a Vernon (Eure) il 29 novembre e idem a Nantes il 6 dicembre, dove le abitazioni di altri due sono state direttamente prese di mira: a Vézac (Dordogne) il 10 dicembre, l’auto della deputata e quella del marito sono andate in fumo; a Bourgtheroulde (Eure), il 15 dicembre, i gilet gialli hanno indicato con 20 cartelli la strada che conduce alla casa del deputato, la cui porta è stata colpita con sei fucilate.
Distruzione dei luoghi dl potere, sabotaggio degli assi di trasporto ferroviario, visite di sedi e case di deputati — quante altre possibilità ancora quando un movimento come quello dei gilet gialli apre spazi a tutti ed a ciascuno senza leader né servizio d’ordine né percorsi concordati con gli sbirri?
Quando un’antenna di telefonia Orange viene sabotata, come il 12 novembre a Villeparisis, noi non pensiamo immediatamente che ciò vada nel senso di una lotta impantanata nelle gabbie tecnologiche. E quindi? Quando tre siti di Enedis vengono dati alle fiamme, come a Foix il 6 dicembre, noi non pensiamo che ciò vada immediatamente nel senso di una lotta che chiede più Stato e servizi pubblici nelle vicinanze. E quindi?
Esistono tante possibilità di alimentare la guerra sociale quanto individui. Dentro, fuori o vicino ad un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o in molti. Di giorno come di notte. Finché lo si fa con le nostre idee, pratiche e prospettive, lontano dalla politica, dal gregarismo e dalla composizione. Con questo movimento dei gilet gialli oppure in modo più generale, uno dei nodi della questione è senz’altro questo: di fatto, qual è la nostra prospettiva? E quali mezzi ci diamo per raggiungerla, a freddo come a caldo? Un po’ di immaginazione, che diavolo!

 

[Avis de Tempêtes, n. 12, 15 dicembre 2018]
Tradotto da Finimondo.
Posted in Italiano

La “sua” vita quotidiana

Posted on 2021/08/02 - 2021/08/02 by avisbabel
Recenzione
Raoul Vaneigem
Sull’autogestione della vita quotidiana
Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile 
DeriveApprodi, Roma 2019

Se un luogo comune sostiene che si possono avere molte vite, un essere umano può allora morire diverse volte senza essere soltanto un cadavere ambulante, ossia letteralmente uno zombi? Prendiamo ad esempio il caso del situazionista Raoul Vaneigem, il quale si è reso celebre per avere, il 15 maggio 1968, lasciato una Parigi già in piena agitazione rivoluzionaria per raggiungere sulla costa mediterranea il luogo delle sue vacanze programmate, non senza aver apposto la sua firma in calce ad un proclama che invocava l’azione immediata. È stato certamente in quel giorno che per la prima volta egli ha iniziato a trasformarsi in un morto vivente, preso nella lotta implacabile tra un negativo all’opera, un negativo creatore di mondi il quale non potrebbe avere paura delle rovine per affermare la propria poesia sovversiva, ed un positivo che si aggrappa disperatamente alla noia e alla schiavitù dei tempi presenti.
Dopo aver fatto in un ultimo sussulto l’apologia di Ravachol, Durruti e Cœurderoy, scrivendo per esempio nella prefazione ad una raccolta di quest’ultimo pubblicata nel 1972 che «l’organizzazione spettacolare incita più imperativamente alla violenza che i terroristi del passato», proponendo poi nel 1974 importanti tesi sul sabotaggio e sull’autogestione generalizzata, poco alla volta egli ha risolto a favore di queste ferie dal negativo che lo avevano portato a lasciare la capitale durante il joli mese di Maggio. La sua mutazione è diventata sempre più irreversibile a partire dagli anni 80, assai lontano da un sabotaggio dell’esistente che «incoraggia ovunque la libertà e il rafforzamento delle passioni, l’armonizzazione dei desideri e delle volontà individuali», lontano da quel gioco sovversivo che «abitua all’autonomia e alla creatività, e serve da base reale ai rapporti che i rivoluzionari desiderano stabilire tra di loro». Per non aver saputo cogliere in tutta la sua portata che il positivo (dalla sopravvivenza alla vita, nelle sue stesse parole) può nascere solo dal negativo in un medesimo slancio — ossia che ogni ipotesi di liberazione è legata ad una rottura violenta con la società attuale — il nostro zombi ha finito col prendersela con la maggior parte delle manifestazioni di disordine che lo circondano. Mutazione dopo mutazione, è arrivato persino ad equiparare il negativo proveniente dal basso (rabbia, rivolta, sommossa o sabotaggio) all’oppressione devastante che ci sovrasta, nel nome di una secessione magica dentro e accanto al mondo del dominio. Come un Chiapas Zapatista che avesse preso le armi per rinunciare immediatamente ad usarle, finendo per presentare il proprio candidato alle elezioni presidenziali messicane del 2018. Come una ZAD di Notre-Dame-des-Landes i cui piccoli imprenditori della lotta finissero con l’appropriarsi delle terre occupate reintegrandole nel giogo dello Stato. Ma procediamo con ordine, con alcuni esempi che illustrano ognuno un episodio della guerra sociale degli ultimi decenni.

Nel 1995, Vaneigem fece apparire tra due articoli alimentari per l’Encyclopædia Universalis un libretto a buon mercato destinato ai giovani ribelli. Nel suo Avviso agli studenti, che fu un successo nei supermercati del libro, ammoniva il suo giovane pubblico soprattutto a non disertare i banchi di scuola, men che meno a distruggerla, bensì a trasformarla dall’interno con i suoi insegnanti e i genitori! Da un lato «perché l’istinto di annientamento si iscrive nella logica di morte di una società mercantile la cui necessità lucrativa esaurisce la parte viva degli esseri e delle cose», e dall’altro perché prendersela materialmente con la scuola non farebbe che giovare «agli avvoltoi dell’immobiliare, agli ideologi della paura e della sicurezza, ai partiti dell’odio, dell’esclusione, dell’ignoranza». E poiché distruggere sarebbe comunque partecipare alla società, secondo il ben noto ritornello stalinista sui vetrai e sulle assicurazioni qui ripreso spudoratamente dal nostro zombi, perché non difendere all’improvviso anche i giudici buoni, questi «magistrati coraggiosi» capaci di «spezzare l’impunità che garantiva l’arroganza finanziaria», o ancora la convergenza di tutte le gabbie dato che «sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla comunità familiare»? Vale la pena precisare che questo Avviso uscì appena un anno dopo un vasto movimento di rivolta iniziato nei licei tecnici contro una riforma della loro precarietà (l’introduzione del Contratto di inserimento professionale, CIP), che dovette essere ritirato dal governo sotto la pressione della strada, in seguito a numerosi saccheggi, scontri ed incendi?

Dieci anni dopo, nel 2008, per il quarantesimo anniversario del suo soggiorno sul Mediterraneo, Vaneigem appose una nuova pietra all’avvenuta sepoltura delle barricate e del sabotaggio, diffondendo un volantino intitolato Mise au point, in cui non mancava di incaponirsi sulla protezione delle caserme dell’addomesticamento generalizzato. E fu così che castigò quella da lui definita «comunione di spirito» tra «l’abbrutito» che «brucia una scuola» ed «il bruto affarista che incrementa i propri profitti distruggendo il bene pubblico». In questo breve testo dalla sintesi degna di un ministro dell’interno di sinistra, si percepisce bene che le tre settimane di notti infuocate dell’ottobre-novembre 2005 partite da diverse periferie parigine avrebbero disturbato il sonno dell’amico di un bene pubblico che altro non è se non quello dello Stato, da molto tempo un cadavere ridotto a vagare tra i vivi. Uno di quelli che parlano di rivoluzione essendo totalmente incapace di comprendere «ciò che vi è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni».

Ma, senza tema di errore, per Vaneigem la questione si estende ben oltre la scuola. Nel settembre 2010, mentre nel suo paese natale era in corso da anni una lotta contro la costruzione del nuovo centro di detenzione di Steenokkerzeel (Bruxelles), pubblicò un suo piccolo contributo dal titolo Ni frontières ni papiers. Iniziando con una citazione di Albert Libertad per chiarire a chi si rivolgeva, lo zombi non esitò a denunciare la «difesa disperata, ovvero suicida» della «lotta per i senza-documenti», e già che c’era a criticare una «risposta aggressiva dello stesso tipo dell’intervento della polizia», una «medesima violenza» di quella dello Stato, che presumibilmente sarebbe stata presente in questa lotta specifica contro una struttura del potere! Ancora una volta, metteva sullo stesso piano gli attacchi auto-organizzati dal basso contro il dominio e la violenza istituzionale dall’alto contro gli indesiderabili. I sabotaggi incendiari di diversi ingranaggi della macchina delle espulsioni sullo stesso piano delle retate, dei pestaggi, della reclusione, delle deportazioni e talvolta dell’assassinio (come quello di Sémira Adamu) dei senza-documenti. Non contento di tentare di disinnescare la lotta in corso e cercare di dissuadere i ribelli dal parteciparvi, ha pure presentato una controproposta: «diffondere la disobbedienza civile». Dietro questa parola d’ordine che mira a «compensare le carenze di uno Stato sempre più lontano dalle rivendicazioni dei cittadini», Vaneigem proponeva nientemeno che l’instaurazione di «territori liberati dalla morsa della merce e del profitto» che permettesse ad esempio agli «Zingari» perseguitati di «sviluppare le loro risorse artistiche e musicali»! Sì, sì, basta con questa offensiva creativa contro le strutture e gli uomini del potere, viva le isole alternative di felicità per sfruttare le risorse ingiustamente disprezzate da uno Stato carente. A proposito, quale «anonimo belga» ha composto quella strofa di poesia pratica a cui molti non intendevano rinunciare, anche contro un piatto di lenticchie bio arricchito di violini: «Bruciate, tane di preti, / Nidi di mercanti, di poliziotti / Al vento che semina la tempesta / Si mietono i giorni di festa»?

Nel 2018, per il cinquantesimo anniversario del suo soggiorno mediterraneo, il cadavere continua palesemente a muoversi, e il rientro letterario porta sul tavolino queste riflessioni Sull’autogestione della vita quotidiana, intitolate Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile. Ma cos’altro ci si può aspettare da un intellettuale che i vermi della pacificazione non finiscono di rodere? Da uno zombi che aspira solo a neutralizzare le fiamme di una guerra sociale in atto, proponendoci di soffocarle nei parchi a tema più o meno esotici della politica?
Nelle sue ultime riflessioni, Vaneigem non trova parole abbastanza dure contro un capitalismo naturalmente «finanziario» e incancrenito dalla «speculazione in borsa», o contro uno Stato che ovviamente si oppone al suo «popolo» e non destina più abbastanza denaro «a favore del bene pubblico», mentre il «proletariato» è stato ridotto alla condizione di «sottoproletariato» e di plebe dopo aver perso la sua favolosa coscienza di classe. Se queste banalità, frutto dell’incrocio tra il peggior marxismo del passato e il miglior cittadinismo populista odierno, possono far sorridere, è — indovinate un po’ — al «movimento detto dei casseur» degli ultimi anni che lo zombi riserva ovviamente le sue parole più tenere. «Urlare il proprio disprezzo e odio per il poliziotto» diventa così «un sollievo malsano», esprimere violenza nelle manifestazioni significa «liberarsi delle [proprie] frustrazioni come di una colica», la «rivolta appassionata» è solo una «aggressione mortifera» da superare, mentre «spaccare una vetrina, appiccare il fuoco ad una banca o ad un commissariato» diventa «uno sfogo in cui si arena e si dissipa un’energia di cui avrebbe bisogno l’occupazione di zone dove possa nascere e sperimentarsi una nuova società».

Avete letto bene: non dare fuoco a banche e commissariati mentre si occupano zone in cui…; non bruciare banche e commissariati per meglio strappare tempo e spazio al dominio al fine di aprire possibilità senza perimetro né misura; ma non distruggere proprio ciò che comunque è il minimo, al fine di dedicare tutte le energie… alla costruzione delle ZAD, poiché è a queste che Vaneigem si riferisce in tutto il suo libro (oltre agli idilliaci Chiapas e Rojava). Ma non è tutto, dato che questo capolavoro di confusione riesce perfino nell’impresa di proporre che dalle future assemblee autogestite esca «un rappresentante» che funga da poliziotto-investigatore, visto che «tra le motivazioni del poliziotto, non possiamo escludere (…) una passione chiave e benvenuta: la curiosità, il desiderio di svelare il mistero degli esseri viventi e delle cose». Molti decenni di pensiero critico per arrivare alla ZAD e alla curiosità poliziesca, valeva la pena venire espulsi dall’Internazionale Situazionista!

Per parte nostra, ci fermeremo qui. Come altri individui, abbiamo troppe cose reali da demolire con passione per non dissipare più energia su un testamento politico. Foss’anche quello di un morto vivente dallo sguardo vitreo.
[Avis de tempêtes, n. 11, novembre 2018]
Tradotto da Finimondo.
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Una miniera mortale

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Dal 1971 al 1986, la miniera di Salau [sul versante francese dei Pirenei] va a pieno regime. Nonostante una forte presenza di amianto nel terreno, vi viene estratto tungsteno. Le scorie della miniera generano due discariche che rilasciano nell’ambiente particelle di amianto ed altri agenti cancerogeni. A distanza di trentatré anni, un cocktail di sostanze chimiche, tra cui arsenico e antimonio, continua a diffondersi nel terreno circostante.

Ma non sarà né l’inquinamento né il decesso per cancro di 15 minatori a far chiudere questa miniera. La causa è semplicemente legata ai rischi di concorrenza nel mondo capitalista. Non potendo più la miniera di Salau fronteggiare la produzione cinese, gli imprenditori andranno ad investire altrove lasciandosi alle spalle due cumuli di merda tossica ed altre sorprese inquinanti all’interno delle gallerie.

 

Il tungsteno, «un minerale prezioso»

Quando si combina il tungsteno con l’acciaio, si ottiene una lega molto dura resistente al calore. Queste leghe sono utilizzate in particolare dall’industria bellica per progettare ogni genere di abominio: munizioni, blindature per carri armati, teste di granate e altri ordigni metallici omicidi.

 

Ricercatori di tungsteno e di imbroglioni

Michel Bonnemaison, patron della Varsican Mines SAS vorrebbe riaprire questa miniera per riempirsi le tasche. Nel 2014 deposita presso le autorità un permesso esclusivo di ricerca (PER) e trova un investitore: Juniper Capital Partners, una società comodamente nascosta in un paradiso fiscale delle isole Vergini britanniche. Due anni dopo, lo Stato si sbarazza bene o male dell’ennesimo scandalo, il caso «Panama Papers». Bonnemaison deve scovare allora altre porcherie un po’ più presentabili: come Apollo Minerals, azienda sedicente specializzata nell’estrazione del tungsteno.
Per quanto i fondi iniziali rimangano gli stessi: A. Kejriwal di Juniper Capital Partners foraggia Apollo Minerals per diventarne direttore non esecutivo. Attualmente, Varsican Mines ha appena ultimato i suoi intrallazzi per far parte del gruppo dei suoi «nuovi investitori» e progetta di scavare un tunnel d’esplorazione lungo 2 chilometri.

Con un po’ di pazienza, dei buoni contatti e muovendo i fili giusti, Michel Bonnemaison ha capito che era facile accordarsi con lo Stato, che avanza ciecamente a fianco del capitale devastando quotidianamente il pianeta. Davanti all’aumento del prezzo dei metalli, tutti si agitano per rilanciare lo sfruttamento del sottosuolo cercando di farci ingoiare la pillola col pretesto di miniere «pulite e responsabili».

La società industriale se ne infischia del futuro di questo mondo, dato che trae profitto mercificando tutto ciò che incontra sul suo passaggio.
A Salau come altrove, non c’è nulla da aspettarsi dallo Stato. Il suo ruolo non è quello di servire chi sta in alto mantenendo avvedutamente al proprio posto coloro che stanno in basso?
Lo «sviluppo economico» promesso con questa miniera come con le altre non recherà benefici a tutti allo stesso modo: mentre alcuni lavoreranno in mezzo ad agenti cancerogeni per salari miserabili, altri rimarranno al riparo ad accumulare profitti.

 

Ma, per fortuna, non tutto va come previsto…

Nella notte tra il 25 e il 26 aprile 2018, probabilmente col cuore carico di lucidità, alcuni anonimi hanno deciso di attaccare questo progetto di morte. Un muro è caduto a mazzate, le fiamme sono salite al cielo, devastando completamente uno degli edifici tecnici della miniera. Sulla scia, il pavimento di un altro locale è stato divorato da un incendio e decine di migliaia di euro sono andate in fumo…
In seguito a ciò, non sorprende che l’associazione per promuovere lo sfruttamento responsabile della miniera di Salau (PPERMS), la CGT e la federazione dei cacciatori dell’Ariège abbiano lanciato un appello cittadino per manifestare il 9 maggio a St-Girons. Circa 500 persone erano presenti, per chiedere l’apertura della miniera e condannare «l’incendio terroristico».
Ci si potrebbe chiedere che diavolo c’entri la federazione dei cacciatori dell’Ariège. Essendo proprietaria del terreno su cui è avvenuto l’incendio, appare chiaro che la federazione voglia speculare sulla carneficina ecologica in preparazione.
Per quanto riguarda la CGT (e altri sindacati), non è più necessario dimostrare come sia al servizio del potere e partecipi attivamente a debilitare la rabbia degli sfruttati, distribuendo le briciole che lo Stato è disposto a lasciar loro, aromatizzate all’amianto o meno…

 

«Perché l’estrazione mineraria è mortifera per la natura, gli animali e gli esseri umani!

Perché è meglio lasciare il tungsteno in fondo ad una miniera piuttosto che estrarlo per farlo finire in fondo a un cranio!

Mettiamo i bastoni fra le loro ruote! 
La miniera di Salau non deve riaprire!»

(Testo di un manifesto visto sui muri di Ariège, estate 2018)

 

[Avis de Tempêtes, n. 11, 15 novembre 2018
Tradotto da Finimondo.
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In ogni azimut

Posted on 2021/08/02 by avisbabel
Cosa c’è di più conturbante del riflesso di un cielo carico di uragani su un mare mosso? Gli occhi spalancati. Di una foresta autunnale con mille sfumature illuminate dalle fiamme che danzano sulla pala eolica industriale? Imperturbabili. Della cura impiegata nel far germogliare una collera implacabile contro la macabra normalità di un mattatoio industriale? Con determinazione. Delle ombre che si aprono un varco nella notte dei corpi addormentati, lasciandosi alle spalle le ceneri della reclusione? Senza esitazione. Di una montagna lacerata che si tinge coi colori di ostinati sabotaggi piuttosto che del minerale che le viene estratto? Avanzando. Di un campo sportivo per cravatte ed uniformi rivoltato e trasformato nell’area di un altro gioco per contrastare le frontiere? Con immaginazione. Del sordo grido del vetro che si crepa senza il mormorio del minimo rimpianto per le famiglie delle vetrine? Furtivamente. Del covo troppo banale da cui si dipanano i lacci tecnologici che finisce per essere scovato e carbonizzato? Con attenzione. Della diffusione di attacchi distruttivi contro mille ingranaggi che abbiamo proprio sotto il naso? In ogni azimut.
È successo sul passo di Salettes e sul passo del Monginevro, a Hotonnes, a Parigi ed a Nantes, a Besançon ed a Kouaoua, a Saint-Martin-d’Hères ed a Fresnes, a Lione ed a Limoges, da ovest ad est di un territorio considerato esagono d’orgoglio pur essendo, come tutti gli altri, ricettacolo della nostra oppressione quotidiana. È successo contro un impianto eolico e un campo da golf, contro un mattatoio e diversi veicoli di costruttori di galere, contro vari veicoli di imprese del nucleare o della propaganda di Stato, contro il nastro trasportatore di una miniera di nickel, contro l’intero magazzino di un gestore della reclusione e contro automobili di secondini, contro una multinazionale dell’avvelenamento e contro gli uffici di un gestore di fibre ottiche. Ecco alcune tracce, rivendicate o meno, di un mese ordinario trascorso sotto gli auspici di una conflittualità permanente, tanto varia nei suoi obiettivi quanto possono esserlo i tentacoli del dominio.
Tracce di una dimensione qualitativa sempre presente nella guerra sociale, senza linee comuni, calcoli politici e composizione cittadinista, come altrettanti punti di riferimento che illuminano con la loro tonalità particolare un presente grigio come la pacificazione. Attraverso un’autorganizzazione portata verso l’attacco, su basi e con temporalità proprie, dove ogni individuo con le sue singole associazioni sia al tempo stesso centro e periferia, in costellazioni senza inizio né fine. Ecco quindi alcune tracce di atti che sono scritte nel presente, in tutto ciò che abbiamo attorno, dove il domani non assomiglia affatto a ieri quando si agisce direttamente in prima persona contro ciò che ci distrugge. Quando, almeno per un momento, quello in cui si riprende la propria vita in mano realizzando l’azione progettata, si spezza il tran tran di una riproduzione sociale che ci vorrebbe tutti sottomessi o rassegnati. Ad ogni modo, è così che un vento leggero è giunto a portare questi molteplici echi di rabbia e rivolta, gonfiando magari qua e là con la sua aria tonificante i polmoni di altri individui. Alimentando forse col suo respiro altri cuori che battono per la distruzione di questo mondo d’autorità e d’oppressione, attraverso un negativo che chiede solo d’essere nutrito, sviluppato ed approfondito da ciascuno.
È una vera fortuna che una parte dei sovversivi ed il potere non parlino la stessa lingua, che quest’ultimo non sia sempre in grado di comprendere il significato degli atti di antagonismo, né di afferrarne la logica o decifrarne la modalità. Almeno non finché ci saranno individui capaci di far crescere il proprio mondo da protagonisti, qualunque cosa si possa pensare di questo. Spingendo il ragionamento un poco oltre, è facile rendersi conto che il potere e i suoi difensori non cercano in ogni modo di capire realmente l’altra parte della barricata, ma soltanto di circoscriverla per meglio isolarla, di reprimerla e, se possibile, annientarla. Naturalmente qualora esca dagli ambiti del dialogo e della politica, quando non c’è più una possibile via di comunicazione comune, ma solo la stessa irriducibile alterità che c’è tra autorità e libertà. Certo, è vero che si guarda pur sempre coi propri occhi, con la propria prospettiva, una prospettiva per parte nostra continuamente da elaborare, progettare e sperimentare, e che il modo in cui lo facciamo condiziona già in parte il nostro agire. Da qui l’importanza di coltivare quella piccola cosa così preziosa che si chiama singolarità, proprio allo scopo di poter guardare altrove e altrimenti, una singolarità che non ha nulla a che vedere con la congerie di cervelli e cuori diversamente identici che questo mondo ci impone. Se da parte nostra è uno sforzo incessante per tentare di scrollarci di dosso ciò che ci condiziona giorno dopo giorno (pensiamo ad esempio al lavoro o alla  tecnologia), dato che tutto è stato costruito e pensato contro di noi (pensiamo al nostro ambiente o alla nostra sensibilità), dall’altra parte c’è chi incontra una difficoltà di tutt’altro genere: cercare di cogliere una dimensione ostile che gli sfugge. Un lavoro condotto in particolare da eserciti di specialisti, accademici, psichiatri, giornalisti e criminologi, al fine di perfezionare le tecniche del potere per smistare e far rientrare nei ranghi coloro che appaiono recuperabili e reintegrabili. Quanto agli altri, sono da eliminare a freddo o a caldo.
Per ciò che concerne le azioni, le cose non vanno diversamente, come si è potuto osservare di recente. E la presenza di un comunicato di rivendicazione non cambia nulla. Lasciamo perdere per un attimo il dibattito tra chi la considera indispensabile per chiarire la prospettiva, pur correndo il rischio di spingere gli altri o all’approvazione o al silenzio per non aiutare la repressione, e chi ritiene che un’azione possa continuare ad esistere al di là delle intenzioni specifiche dei suoi autori — appartenendo anche direttamente a tutti coloro che la condividono — che semplicemente non hanno nulla da aggiungere ad essa oltre ai danni provocati al nemico. Giacché, quando lo Stato e i suoi tirapiedi vogliono vedere il lupo, lo trovano a colpo sicuro, a costo di inforcare i loro grandi occhiali. In seguito all’attacco contro il mattatoio di Hotonnes (Ain), la proprietaria — indispettita per essere stata alleggerita del peso del suo lucrativo compito — si è dilungata da grrrande esperta sulla stampa giudicando il comunicato non credibile, tacciando persino gli anonimi Lune Blanche/Meute noire (Luna bianca/Branco nero) d’essere dei recuperatori opportunisti, in quanto il loro testo era troppo così e non abbastanza colà. Se qualcuno non vuole accordare credibilità a un comunicato non lo farà comunque (e viceversa), un po’ come il giustiziere di Black Bloc dopo il contro-vertice di Genova nel 2001 e sfortunato candidato alle elezioni comunali, Serge Quadruppani, che in un recente libro sul «mondo delle Grandi Opere» non fa che ripetere a pappagallo che i primi attacchi del 1996-97 contro il TAV in Val Susa (alcuni dei quali rivendicati) erano sicuramente frutto di una collaborazione tra l’estrema destra ed i servizi segreti! Miseria del complottismo e della dietrologia. Invece, in seguito all’attacco contro Eiffage a Saint-Martin-d’Hères (Isère), si sono distinti soprattutto alcuni «anticapitalisti», «anarco-libertari» ed altre figure colorite, e ciò malgrado un comunicato diffuso il giorno dopo. In questa occasione, il potere si è adoperato soprattutto a collegare questo attacco ad altri, rivendicati o anche no, recenti o passati, vicini o lontani, in funzione di criteri tutti suoi (geografici, tematici), cosa che ha fatto cancellandone o distorcendone il contenuto. Nello stesso modo in cui può deliberatamente passare sotto silenzio diversi attacchi di ogni tipo, che siano o meno seguiti da scritti, a seconda dei suoi imperativi di gestione dell’ordine sociale e della pace dei mercati.

Beninteso, il riflesso rimandatoci dal potere non è la cosa più interessante al mondo per chi non è intenzionato né a rimirarsi al suo interno né a dialogare con esso, ma a distruggerlo senza mediazioni. Anche perché gli specchi deformanti del potere sono solo una prigione in più per cercare di costringerci a guardare con i suoi occhi, a pensare con le sue categorie, a sognare con il suo progetto. Ciò non fa che sottolineare ancor più la necessità di far vivere fin d’ora, nelle lotte come negli attacchi, nelle discussioni come nelle solidarietà, attraverso la nostra etica ed il nostro rifiuto, un mondo che sia nostro, che ci sia proprio. Di fronte agli specchi deformanti del potere come di fronte alla loro simmetria riflessa dagli autoritari (contro-cultura di lunedì mattina [corsivo dei traduttori] o contro-potere dell’efficienza politica), imbevuta di dialogo conflittuale e di compromessi tattici con lo Stato, questo «nostro» non può essere che «altro». Un altro che non si basi né su una composizione con l’esistente né sulla massa. Un nostro che non sia unico come un partito o triste come un sindacato, ma al contrario libero e selvaggio come una molteplicità di individualità in guerra col potere.
In questo senso, la sperimentazione e lo sviluppo di un metodo di lotta che propone una diffusione degli attacchi piuttosto che la loro concentrazione, a partire da piccoli gruppi mobili e autonomi che compiono atti più distruttivi che simbolici, non sono le gioie meno importanti portate da questo venticello autunnale. All’interno di questa eterogeneità, la questione della progettualità — dei progetti — rimane ovviamente aperta per molti, ma non si può evitare che emerga ancora una volta. In un mondo in guerra con il vivente, dove lo spossessamento generalizzato avanza ogni giorno a suon di tecnologia e di strisciante abbrutimento, dove i diversi aspetti del dominio attraversano un periodo di ristrutturazione che li rende anche meno stabili, gli attacchi diffusi costituiscono in effetti un elemento indispensabile per ogni progettualità sovversiva, ma non bastano a soddisfarla.
Quindi, salvo a considerare che questi atti bastino a se stessi come scintille o segnali nella notte, si potrebbe forse interrogarsi su come andare ancora più lontano. Nel contesto di un’ipotesi insurrezionale che ricorre ad atti diffusi, come possono questi ultimi contribuire ad una rottura che sia in grado di cominciare veramente a sconvolgere l’esistente? O ancora, più in generale, offensive il cui obiettivo sia di essere più incisive come possono esigere di andare oltre le ristrette possibilità di un gruppo autonomo? A  partire da tutti questi spazi informali e queste costellazioni la cui materialità degli attacchi non è che un aspetto, come immaginare delle progettualità che si basano solo sulla mera moltiplicazione di gruppi o di sforzi, ad esempio attraverso proposte, informazioni, coordinamenti o rifrazioni dirette e indirette? Ecco alcune vecchie questioni di attualità che sono già state poste diverse volte dagli anni 70 (per non risalire alla fine del XIX secolo) sia dai gruppi autonomi e di affinità dell’epoca che dalle diverse costellazioni anarchiche, e che continuano ancora ad agitare i cuori e le braccia di tanti compagni nel mondo. Questioni che troveranno sicuramente delle risposte, continuando ad alimentare i vasi comunicanti tra idee ed azioni.

 


«Astr.: Azimut ha origine dalla parola (as-)samt (“la via dritta”) in lingua araba, divenuta acimut in spagnolo (fine del XIII secolo), poi azimuth in francese (1544, 1751). Da allora è diventata sinonimo di “direzione”. Una “arma a tous azimut” è un’arma che spara in tutte le direzioni e una “difesa a tous azimut” può intervenire contro gli attacchi provenienti da tutte le parti»
Un qualsiasi dizionario


 

Di fronte a noi non abbiamo solo il potere ed i suoi sbirri, che operano attraverso un doppio meccanismo di partecipazione/integrazione e di repressione/esclusione, accompagnati dai falsi critici che intendono sostituirlo (dal basso o dall’alto). Abbiamo anche un’intera corte di cittadinisti indignati che intendono modificare alcuni aspetti del potere mantenendone la sostanza, di democratici radicali che intendono criticarlo purché la violenza rimanga collettiva e strategica, e di preti che sostengono la rivoluzione indietreggiando ogni volta davanti agli atti di rottura che essa richiede, soprattutto quando avvengono qui ed ora piuttosto che in un passato lontano e in un esotico altrove. E poi altrettanti avversari che non esiteranno a condannare, soffocare o recuperare tali atti, quando già non lo fanno.

Affinché gli attacchi senza mediazione continuino a diffondersi per non esaurirsi in un fuoco di paglia soffocato troppo in fretta, oltre a «moltiplicarsi cosicché le nostre paludi restino impenetrabili ad ogni cartografia giornalistica, inestricabili per qualsiasi ipotesi poliziesca», come proponeva un testo recente, ci pare altrettanto indispensabile dar loro più ossigeno. Da un lato, difendendo ciascuno a modo proprio quelli che condividiamo di fronte ai silenzi imbarazzati del potere e di alcuni suoi oppositori. Dall’altro, affinando continuamente i metodi per renderli sempre più taglienti, aprendo spazi di dibattito che possano arricchire le prospettive di ciascuno senza schiacciare le diversità.

Insomma, di fronte a tutti i becchini dell’azione diretta anti-autoritaria, minoritaria o individuale, è più che mai il momento di prolungare gli atti in ogni azimut contemporaneamente, ma anche di approfondirne le potenzialità.

 

[Avis de tempêtes, n. 10, 15 ottobre 2018]
Tradotto da Finimondo.
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