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Vulnerabilità

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
A livello microscopico, la distruzione di autonomia e la riduzione degli spazi che determinano la propria vita, mediante l’introduzione di protesi sempre più tecnologiche, con le logiche conseguenti, non può che dar luogo — in proporzione al grado di lobotomizzazione e di appiattimento che ognuno subisce — ad una disperazione feroce. La ruota del progresso gira sempre più rapidamente. Se un tempo erano necessarie diverse generazioni per le vaste trasformazioni della società, oggi, nello spazio di una sola generazione, sembra quasi di non far parte dello stesso mondo. Una tale impennata di velocità richiede una inaudita capacità di adattamento dell’essere umano e non manca di produrre a sua volta un’intera gamma di «difetti» funzionali al mondo nel suo complesso, ad esempio sotto forma di nevrosi o malanni fisici. E dato che l’essere umano non vive isolato sopra una cometa, abitando sul pianeta Terra, qualsiasi assetto del suo «habitat» ne influenza le possibilità e la capacità di riflettere, ma anche di sentire ed agire. Questa non è ovviamente una peculiarità della società ipertecnologica che conosciamo: si potrebbe affermare infatti che ogni civiltà operi in questo modo. La domanda da porsi allora va un po’ più a fondo: una drastica pianificazione dell’habitat non provoca una perdita di autonomia e una soppressione di libertà, ed ogni adeguamento non è in sé antinomico alla libertà? Ma simili domande superano di gran lunga le modeste riflessioni di questo articolo.
Se ci distacchiamo un po’ dalla vita quotidiana, e proviamo a pensare a un livello più macroscopico, l’estensione del moloch tecno-industriale, la «Megamacchina» come la chiamava Lewis Mumford, sembra andare di pari passo con un aumento della sua vulnerabilità. Più i sistemi sono complessi, più sono complesse le tecniche, più risultano vulnerabili ad un semplice guasto, ad un incidente, ad un imprevisto che non incide solamente su un componente isolato, bensì sull’intero sistema. Günther Anders lo riassumeva così: «Quanto più grande è la megamacchina, tanto più seriamente sono in pericolo i suoi pezzi, che, prima di essersi riuniti in essa, avevano funzionato come pezzi singoli», prima di dedurre logicamente che «Quanto più grande il complesso, tanto più grande la catastrofe se il complesso fa cilecca». Si tratta ovviamente di una tesi — o meglio, di una constatazione — da tempo considerata dagli ingegneri del sistema. La fragilità delle reti informatiche, la dipendenza da una rete elettrica centralizzata, la produzione intensiva finalizzata a limitare le scorte, l’interconnessione dei sistemi (anche dei più «vitali», come la distribuzione dell’acqua potabile, che dipende dal buon funzionamento delle pompe elettriche): tutto ciò continua ad ispirare migliaia di studi, progetti e strategie miranti ad aumentare la «resilienza» dei sistemi — non senza osservare amaramente che, davanti al progresso tecnologico, è un po’ come cercare di bloccare una perdita aprendo il rubinetto.
La fragilità della megamacchina fa ormai parte del discorso diffuso sul «collasso», sull’ipotesi che il sistema tecnologico, per diverse ragioni che vanno dalla scarsità delle risorse energetiche ai cambiamenti climatici, si stia dirigendo verso un tracollo generalizzato. Pur senza avallare la versione «collassologa» — che, con alcune eccezioni, risulta essere utile sostenitrice del sistema attuale nel limitarsi a perorare l’organizzazione della sopravvivenza in attesa del diluvio, invece di concentrarsi sull’attacco o sull’insurrezione (anche nelle sue versioni più anti-autoritarie) — nondimeno dovrebbero essere presi in considerazione tutti i fattori. Solo pensando al mondo nel suo complesso le nostre prospettive possono diventare più pertinenti, non semplicemente elaborando progetti sulla cometa o accontentandoci delle nostre perenni fantasticherie ribelli. Pensare l’insurrezione senza considerare la questione delle metropoli, del cambiamento climatico, dell’appiattimento culturale, degli odii settari o del cannibalismo sociale che cova, eccetera eccetera, appare perlomeno ridicolo. Di fronte all’accelerazione dei rovinosi fenomeni climatici e alla frenetica corsa in avanti di un industrialismo devastante, le riflessioni dei critici anarchici del potere — di qualsiasi genere — potrebbero assumere una profondità inaspettata sulla questione dell’autonomia o della libertà, a condizione di sbarazzarsi del cadaveri che continuano ad intralciare l’anarchia: il programmatismo, la paura dell’ignoto, il vittimismo preso a prestito dalla sinistra, il determinismo preso a prestito dal materialismo marxista,… C’è ancora un lungo cammino da fare.

«Non sorprende che il complesso del Potere sia messo particolarmente sotto pressione in diversi ambiti. Per quanto al riparo da attacchi frontali, a meno che non siano sferrati da un altro sistema di potere della stessa dimensione, questo gigante è piuttosto vulnerabile ad attacchi locali di guerriglia e ad incursioni ostili, contro cui le sue mastodontiche strutture risultano indifese alla stregua di un impacciato Golia con la sua pesante armatura rispetto a un agile Davide che ha ben altre armi e non attacca la stessa parte anatomica» 
Lewis Mumford, Il Pentagono del potere 1970

Che dire della fragilità della megamacchina? È reale, o è uno dei tanti fantasmi che hanno accompagnato un mucchio di rivoluzionari nel loro percorso, come lo sono state le fole della missione storica del proletariato, delle insormontabili contraddizioni create dal capitale, del risveglio sempre possibile delle masse naturalmente addormentate, della rivoluzione immaginata come l’affare di una «grande sera», della progressiva scomparsa del massacro e dell’odio in seno all’umanità o della funzione catartica delle guerre e delle catastrofi? C’è poco da elettrizzarsi. Una vasta rivolta come quella in Cile nel 2019 non è sfociata in un’insurrezione aperta. Le sommosse nel mondo arabo sono state soffocate nel sangue e hanno generato mostri altrimenti atroci. La moltiplicazione di sabotaggi di ripetitori o di fibre ottiche non ha causato un crollo istituzionale o economico. Il che non toglie che siano stati sferrati indubbiamente dei colpi. Non saranno stati mortali, tuttavia mostrano nel contempo la loro insufficienza ed il loro potenziale. Per valutare la fragilità (che non è sinonimo di «rivoluzione sociale», quanto di possibilità di libertà, di espansione del caos da cui possa emergere l’ignoto, nel «bene» come nel «male»), osserviamo un po’ più da vicino uno dei crinali nevralgici della megamacchina: la rete elettrica.
L’8 gennaio 2021 alle 13:04, i sistemi di allarme sono passati al rosso quando la rete elettrica europea ha subìto un’improvvisa caduta di frequenza della corrente alternata (50 hertz). L’incidente all’origine di questa variazione di frequenza non è stato chiarito, ma molto probabilmente è stato causato dall’avaria di un interruttore automatico (incidente, guasto, sabotaggio,… nulla è stato spiegato al riguardo) in una sotto-stazione di trasformazione in Croazia. Ora, si dà il caso che non solo la rete elettrica europea è interconnessa da Varsavia a Parigi e da Istanbul a Copenaghen, ma inoltre che, per assicurare il funzionamento della rete, la sua frequenza deve essere stabile; e per far sì che rimanga tale, occorre che l’equilibrio tra produzione e consumo energetico sia garantito in modo permanente. La rete quindi deve far fronte alle fluttuazioni o immettendo più elettricità, oppure riducendo temporaneamente il consumo globale, in particolare quello dei grossi utenti. Per stabilizzare la rete nel mese di gennaio 2021, è stato quindi necessario sconnettere con urgenza diversi siti industriali in alcuni paesi (soprattutto in Italia, Francia, Austria, Romania,…), ma anche tagliare parecchie linee d’alta tensione (14 in tutto), poiché quando queste non hanno la tensione appropriata, l’elettricità trova rapidamente un’altra via (verso altre linee) col rischio di un sovraccarico. A quel punto tutte le linee della rete elettrica si trovano esposte ad un effetto a catena.
Se da parte austriaca il portavoce del responsabile della rete elettrica EVN ha parlato di un «quasi black-out» qualificando l’incidente di livello 3 (su 4) secondo la classificazione europea ENTSO-E («Emergenza. Situazione di avaria e divisione della rete su vasta scala. Elevato rischio per i sistemi vicini. Non applicazione dei principi di sicurezza. Allerta generale dell’intera rete»), il gestore francese RTE si è da parte sua vantato delle proprie «barriere di difesa» in grado di sconnettere grandi siti industriali e aumentare la produzione elettrica delle sue centrali a gas o delle dighe idroelettriche. Ma resta il fatto che la vulnerabilità della rete europea, un mastodonte che merita appunto la qualifica di «megamacchina», è incontestabile, soprattutto a causa delle sue dimensioni e della sua centralizzazione.
Si noti inoltre che le nuove fonti energetiche (eolica e solare), per principio intermittenti, non possono assolvere a tutte queste variazioni di frequenza o alle richieste di immissione di più energia, funzionando solo quando sono sostenute da una produzione di elettricità più «convenzionale» (come le centrali a carbone o a gas). La loro moltiplicazione sul territorio costituisce quindi un altro fattore di instabilità e di fragilità della rete elettrica. Per far fronte a tali intoppi, sono in corso di costruzione un po’ dovunque progetti di megabatterie in grado di immagazzinare elettricità da immettere nella rete qualora sia necessario, ma la cui efficacia resta un punto interrogativo. In Francia, RTE nell’estate 2020 ha avviato la costruzione di megabatterie in alcuni siti, a Vingeanne (Côte-d’or), Bellac (Haute-Vienne) e Ventavon (Hautes-Alpes), oltre al suo progetto di un sito di produzione e stoccaggio di elettricità con l’idrogeno a Fos-sur-Mer (Bouches du Rhône).
Questo «incidente» con le sue notevoli conseguenze in una semplice sotto-stazione locale di trasformazione, ricorda un altro fatto piuttosto eclatante accaduto dall’altra parte dell’Atlantico.
La notte del 17 aprile 2013, verso l’una del mattino, qualcuno si introduce in un locale tecnico proprio accanto alla sotto-stazione elettrica di Coyote (in California) e trancia alcuni cavi in ​​fibra ottica. Ci vorrà un bel po’ di tempo perché l’operatore se ne accorga. Dieci minuti dopo, un’altra serie di cavi viene tagliata in un locale tecnico nelle vicinanze. Trenta minuti dopo, la telecamera di sicurezza della sotto-stazione rileva una scia di luce lontana. Gli investigatori capiranno in seguito che si trattava di un segnale luminoso proveniente da una torcia elettrica. Subito dopo — ovvero all’1:31 — la telecamera registra in lontananza un flash di fucilate e le scintille dei proiettili che colpiscono la rete della recinzione. Tutta questa azione davanti alla telecamera attiva un allarme. È l’1:37, pochi minuti dopo l’inizio degli spari. All’1:41, il dipartimento dello sceriffo riceve una chiamata: è l’ingegnere della centrale che ha sentito gli spari. Lo sceriffo arriverà 10 minuti dopo, quando tutto è nuovamente tranquillo. È giunto un minuto dopo che un altro segnale luminoso emesso da una torcia decretava la fine dell’attacco.
Ma su cosa sparavano i misteriosi assalitori? Sugli enormi trasformatori della sotto-stazione. Questi ultimi sono infatti oggetti fisicamente semplici, trattandosi di grossi gomitoli di fili di rame in grandi gabbie metalliche. Siccome i trasformatori si scaldano enormemente, dispongono di serbatoi contenenti il ​​loro indispensabile liquido refrigerante. Ed è proprio contro i serbatoi che sono stati sparati i colpi, crivellandoli con centinaia di fori attraverso i quali è fuoriuscito il prezioso liquido. La polizia giunta sul posto non si era accorta di nulla, mentre più di 200.000 litri di olio scorrevano fuori lentamente. In poco tempo, i trasformatori si sono surriscaldati e sono esplosi: 17 su 21 della sotto-stazione fuori servizio. Ne sarebbero bastati un altro paio per far piombare immediatamente la California nel buio. Nell’occasione, la compagnia elettrica è stata in grado di aggirare rapidamente quella sotto-stazione. La Silicon Valley ha continuato a ricevere elettricità, benché sia stata costretta per quel giorno a ridurre il consumo di energia. Il danno è stato riparato in 27 giorni. Per stessa ammissione dell’FBI, che ha precisato che «non occorre un alto grado di formazione o di accesso alla tecnologia per condurre un attacco del genere», se nello stesso lasso di tempo fossero state colpite altre sotto-stazioni, impedendone in tal modo il riassetto, sarebbe stata tutta un’altra storia.
In materia di «black-out», in un recente dossier speciale della Rivista militare svizzera (n. 5, 2018), alcuni ingegneri e graduati hanno lanciato un avvertimento in relazione alla fragilità della rete, con lo sviluppo di vari ipotetici scenari al riguardo. Le loro conclusioni? A prescindere dalle cause di un tracollo della rete elettrica, la situazione potrebbe essere grosso modo questa: se il black-out durasse solo un giorno, il recupero sarebbe rapido. Oltre le 48 ore, il recupero della rete sarebbe più difficoltoso, se non addirittura impossibile, dal momento che gli stessi strumenti che gestiscono le reti hanno bisogno d’essere alimentati elettricamente, disponendo dai 2 ai 5 giorni di autonomia. Esaurita la batteria, qualcuno si deve materialmente recare sul posto a riavviarli sincronizzandoli col resto della rete. Se non si riuscisse a ripristinare entro 5 giorni, quest’ultima non sarebbe in grado di funzionare senza un intervento esterno. Quando il black-out è regionale, ci sono servizi di emergenza e di riparazione che possono essere inviati sul posto. Qualora fosse nazionale o continentale, la situazione potrebbe perdurare e infine rivelarsi fatale per tutta la rete.
Un altro esempio, questa volta tratto dal mondo digitale. Il 10 marzo 2021, un incendio si è sviluppato nel data-center di Strasburgo della OVH, il più grosso provider in Francia. L’incendio sarebbe cominciato nella parte inferiore dell’edificio, che ospitava gli impianti di alimentazione elettrica. Questo è ciò che la stessa azienda ha indicato come causa: un inverter (un regolatore della frequenza elettrica) avrebbe preso fuoco. Se questa spiegazione è plausibile, lo diventa meno quando si apprende dai rapporti dei dipendenti e dei vigili del fuoco che il fuoco si è propagato in maniera estremamente rapida, facendo ovviamente pensare a più focolai. In breve, tutti possono speculare sull’origine di questo incendio, le autorità possono dichiarare ciò che preferiscono (è pur sempre il principale provider di Francia, la punta di diamante nel settore dei data-center), ma un’origine assai meno «accidentale» resta altrettanto plausibile. Tanto più che in tutto il mondo è oltremodo raro vedere dei data-center consumarsi interamente tra le fiamme a seguito di un guasto tecnico. Ciò detto, che si sia trattato di un guasto o di qualcosa d’altro, il risultato è stato molto «palpabile» (ci perdonerete un termine così obsoleto per il mondo virtuale). Centinaia di migliaia di siti fuori linea, enormi perdite di dati per imprese e istituzioni. Come una mini-apocalisse tra le nuvole dei server. Non c’è neppure bisogno di elencare tutti i dettagli per cogliere la vulnerabilità, per l’appunto, della megamacchina informatica; con una parte non trascurabile dipendente infatti da una singola struttura fisica, a sua volta dipendente da impeccabili collegamenti in fibra ottica e da un costante approvvigionamento di elettricità (dato che i gruppi elettrogeni di emergenza non possono sostituire completamente la rete).

Gli ultimi mesi offrono tra l’altro ripetuti esempi supplementari della vulnerabilità delle reti digitali. Sia che si pensi all’interruzione di ripetitori o dii trasmettitori che tagliano le comunicazioni di milioni di persone (come è stato il caso dell’incendio del trasformatore a Marsiglia nel dicembre del 2020 o quello di Limoges nel gennaio del 2021), ai sabotaggi degli snodi di raccordo in fibra (come l’attacco a Crest di febbraio), oppure ai tagli manuali o incendiari di fibre ottiche (come a Pierrelatte in questo mese), diciamo che la stessa fragilità può riguardare tutte le reti, compresa quella elettrica che alimenta tutto ciò che sfrutta, devasta e controlla. Ma affinché la comprensione si trasformi in azione incisiva, dovremo sbarazzarci di quei fantasmi che ancora infestano le nostre menti e capire, con tutto ciò che questo implica, che ci troviamo in territorio ostile e dovremmo perciò agire di conseguenza. Con la gioia in corpo e la libertà nel cuore.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 39, 15/3/21]
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Foresta Nera

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Sono passati poco meno di due anni dal bell’incendio della cattedrale di Notre-Dame-de-Paris, e molti conservano forse un commosso ricordo delle fiamme iconoclaste danzanti sul suo telaio, fino a provocare il crollo della sua guglia che per una volta illuminava qualcosa. L’immondo edificio religioso che incarnava così bene la continuità dell’oppressione attraverso i secoli era sfuggito per poco alla collera dei comunardi armati di barili di petrolio, ma nulla ha potuto contro l’insidiosa modernità dell’elettricità.
In questo fangoso mese di febbraio, da qualche parte sul massiccio del Conches-Breteuil (Eure), al confine dei comuni di La Vieille-Lyre e Baux-de-Breteuil, una manciata di esperti forestali e di architetti con gli stivali percorrono i sentieri in cerca di particolari alberi. Scrutano, misurano, ispezionano, selezionano, punzonano  contrassegnando con un punto rosso una ventina di giganti. Questi alberi, la cui circonferenza arriva fino a 90 centimetri di diametro, sono magnifiche querce la cui età va dai cento ai duecento anni. Dovranno essere abbattute entro fine marzo con un altro migliaio di loro simili in tutto il territorio (dall’Orne al Giura), allo scopo di ricostruire la struttura della navata e del coro dell’odiosa cattedrale in modo identico, secondo la promessa del monarca di turno ai bigotti in lutto. Ah, il fatto è che la nozione di patrimonio — quell’invenzione statale destinata a selezionare ciò che può essere demolito da tutto il resto — è sacra. E che importa se quella guglia era solo un surrogato aggiunto nel XIX secolo o se la famosa struttura medievale era stata modellata con i mezzi a disposizione, ossia con giovani e comuni portatori di ghiande. Oggi la Repubblica esige materiale fino, senza asperità, ben liscio, magari pluricentenario, nel tentativo di restaurare lo stemma carbonizzato del rospo di Nazareth.
Le foreste, che un primo sguardo urbano potrebbe vedere solo come una piacevole serie di alberi intervallati da sentieri, sono da decenni oggetto di un’accelerata trasformazione. E non è affatto casuale che le prime querce di 180 anni segnate in rosso siano in realtà una caritatevole donazione allo Stato della loro legittima proprietaria, l’assicurazione Groupama. Terza maggiore proprietaria privata di foreste con 22.000 ettari «di portafoglio», come si usa dire fra gli squali, è in concorrenza con la sua consorella Axa che ne possiede 41.000 ettari (incluso in Finlandia e in Irlanda). Ma perché le grandi assicurazioni dovrebbero acquistare freneticamente milioni di alberi, se non, come dubitarne, per qualcosa di più di un’improvvisa attrazione per la fotosintesi? Oltre ad offrire vantaggi fiscali ai clienti e ai loro eredi, le foreste rappresentano per loro un modello di investimento a lungo termine, tanto stabile quanto redditizio. Un buon piazzamento di base, insomma, dove una simulazione algoritmica a partire dal seme selezionato in vivaio fino al taglio netto trent’anni dopo, su specie robuste di conifere che crescono in modo rapido ed uniforme, permette di calcolare l’evoluzione del diametro di tutti gli alberi della stessa età e con la stessa altezza, stimandone la resa finale durante il «raccolto». Il tutto, ovviamente, tempestato da erbicidi e pesticidi. Pertanto, non è sorprendente che il 3% dei proprietari privati ​​possieda oggi il 50% della superficie forestale del paese e che tra loro ci siano tre banche (Société Générale, Crédit Agricole, Caisse d’Épargne), le due suddette assicurazioni, e il gruppo Louis-Dreyfus specializzato nel commercio e nella speculazione di materie prime agricole.
A favorire i loro affari è stata innanzitutto la politica statale condotta dal 1946 al 1999 dal Fondo Forestale Nazionale (FFN), incaricato del «rimboschimento» e dell’«apertura» delle foreste, cioè concretamente di ripiantarle e poi organizzarle per favorire l’accesso dei camion per il carico. In questi cinquant’anni, lo Stato ha trasformato drasticamente i massicci, piantandovi l’83% di conifere su due milioni di ettari: pini marittimi a sud, pini Douglas e abeti rossi Sitka del Nord America dappertutto. È così che gli amministratori hanno pressato affinché quasi la metà delle foreste francesi siano costituite non solo da insediamenti monospecifici (e un ulteriore terzo solo da due specie), ma che oltre l’80% delle nuove piantagioni continui ad essere composto da una monocoltura di conifere.
In seguito, a partire dagli anni 90, c’è stato il tempestivo arrivo di nuove grosse macchine forestali, che consentivano di tranciare la base del tronco, di afferrarlo, di sramarlo, di tagliarlo in parti standardizzate di sei metri poi ammassate su un vettore, il tutto in meno di un minuto ad albero. Provenienti ​​da paesi nordici, erano ovviamente già utilizzate per conifere e betulle con un lungo tronco cilindrico eretto senza intoppi verso il cielo, a differenza delle maledette latifoglie (querce, faggi, olmi, frassini, carpini, ciliegi o castagni) i cui rami e il fogliame iniziano troppo in basso e che crescono comunque troppo lentamente per raggiungere il livello voluto.
Aggiungiamo infine a questo quadro che i cambiamenti climatici provocati dalla stessa industrializzazione causano da diversi anni tempeste sempre più devastanti per le foreste nonché una successione di periodi di siccità che decimano i massicci, favorendo l’accelerazione del disboscamento di interi appezzamenti, poi sostituiti con piantagioni intensive. Per non parlare dell’energia da legno, con la trasformazione di vecchie centrali a carbone in impianti a biomassa per produrre elettricità a flusso continuo: nel 2018, ad esempio, sono state bruciate 13 milioni di tonnellate di legna (di cui l’80% importato da Nord America, Stati baltici e Portogallo) per rifornire l’ex centrale elettrica a carbone più grande d’Europa, quella di Drax in Inghilterra. E a proposito, qual è il nome dell’azienda che presto sorgerà a Fessenheim, la città alsaziana dove è stata chiusa definitivamente la prima centrale nucleare? Biomassa d’Europa, in linea con l’aumento del 34% tra il 2005 e il 2018 dell’utilizzo di biomassa forestale per la produzione della cosiddetta energia verde.
Certo, l’industrializzazione delle foreste non è nuova, come testimonia ad esempio quella delle Ardenne, dove dopo essere stata decimata da una metallurgia estremamente avida di carbone da legno per i suoi altiforni, è stata poi in gran parte ripiantata dal 1850 con abeti rossi dei Carpazi. La loro rapida crescita in primo piano nella produzione di tronchi rettilinei era infatti perfetta per puntellare le gallerie delle nuove miniere di carbone o per rinnovare le palificazioni che sostenevano le grandi città dei Paesi Bassi, oltre alle linee elettriche e telefoniche. Di fronte a un progresso che riduce le foreste e tutto il vivente a mera materia sfruttabile, possiamo andare con la mente a quell’aprile del 2015, quando ignoti hanno sabotato sette anni di lavoro ad Avallon (Yonne) — la stessa città il cui sindaco era presidente dell’ONF —, sezionando a metà la cima delle pianticelle dei pini Douglas in quasi 5 ettari, il che ha avuto l’effetto di renderli inutilizzabili dai boscaioli… perché sarebbero cresciuti con due teste.
E dato che si parla di accette, torniamo indietro nel tempo a quei piccoli gruppi di contadini del Giura, che a partire dal febbraio 1765 e per quasi un anno condussero una guerriglia la cui posta era la foresta reale di Chaux, rimasta a tutt’oggi la seconda più vasta di querce e faggi. I nemici di allora erano già stati ben individuati: lo Stato che se n’era accaparrato l’uso, le Guardie Idriche e Forestali incaricate di far rispettare l’ordine, e gli industriali (di vetrerie, di fucine per la marina da guerra, di saline) che divoravano quantità astronomiche di legna per alimentare fabbriche in espansione. Truccati da donna, col volto mascherato o imbrattato di fuliggine, duecento contadini subito soprannominati Signorine occuparono improvvisamente l’immensa foresta per restituirla a tutti, fermarono la devastante fornitura delle industrie, scacciarono le guardie sequestrandone le armi, non senza saccheggiare e distruggere le loro case. In seguito all’impotenza di un primo reggimento di cavalleria arrivato da Besançon, che aveva poca familiarità con la foresta oscura, mandato in confusione dalle inafferrabili Signorine che viceversa la conoscevano a fondo, beneficiando per di più di una rete di complicità, furono le compagnie di granatieri a mettere temporaneamente fine alla rivolta occupando due villaggi ed esercitando tutto il terrore di cui erano capaci. E malgrado il re sia stato poi costretto a concedere ai contadini un ripristino del precedente utilizzo della foresta di Chaux, ciò non impedì ad alcuni individui determinati di continuare a praticare l’antica arte dell’incendio fino al 1789. Parecchi lotti di tronchi massicci acquistati dai padroni delle fucine ai monarchi furono così regolarmente e senza pietà dati alle fiamme negli anni seguenti, piuttosto di lasciarli ad alimentare fabbriche devastanti.
Conoscendo l’utilizzo delle grandi querce fatto alcuni secoli prima da un leggendario fuorilegge dalle parti di Sherwood, diciamo a noi stessi che potrebbe esserci un filo ben diverso di quello che va dalle strutture delle cattedrali alle pinete di Douglas: quello tessuto con alberi contorti, stelle ridenti e passi fermi, che corre lentamente nella notte per portare il fuoco in territorio nemico…
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 38, 15 febbraio 2021]
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Pecore nere

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Braccialetti. Una delle peculiarità dell’attuale situazione pandemica — che ripropone ad ognuno la vecchia domanda su quale possa essere il senso di una vita degna che vada oltre la semplice sopravvivenza — è quella di mettere un po’ più a nudo certe sbarre della prigione sociale.
Non si ingannava quel filosofo di Stato quando qualche decennio fa affermava che si poteva prevedere l’abolizione del carcere grazie alla sua diffusione capillare a tutta la società, piuttosto che la sua distruzione col mondo che ne necessita. Nel frattempo, come sempre, non stiamo assistendo ad un processo di sostituzione ma di accumulo. In materia energetica abbiamo il petrolio, il carbone, l’energia nucleare e giganteschi campi eolici o impianti fotovoltaici che continuano ad alimentare un mortifero produttivismo. Allo stesso modo, in materia carceraria siamo di fronte non solo a massicci accampamenti di indesiderabili attorno alle frontiere, alla costruzione di nuove galere (15.000 posti di detenzione supplementari entro cinque anni), ma anche ad una moltiplicazione delle forme di reclusione all’esterno delle quattro mura. Se si dovesse fare un solo esempio, senza nemmeno menzionare i tradizionali arresti domiciliari e altre costrizioni, il più indicativo sarebbe forse l’estensione del braccialetto elettronico. A fine dicembre, oltre ai 63.000 prigionieri stipati in carceri passate a modalità covid (con sistemi di videoconferenza, restrizioni delle attività e dei permessi d’uscita), ad altri 11.000 è stata allacciata alla caviglia una spia allarmata. Un aumento di guinzagli giudiziari elettronici che accresce le capacità carcerarie dello Stato e ormai va di pari passo con la volontà di imporli sotto forma di misure di sicurezza post-carcerazione nei confronti di quei detenuti che perseverano nelle loro idee (a cominciare da chi ha appena scontato una condanna per “terrorismo”). Eppure, a pensarci bene, essendo la prigione null’altro che lo specchio esacerbato di questa società tecnologica autoritaria, come sorprendersi quando la maggior parte dei sudditi dello Stato — ribelli compresi — vanno già a spasso fuori, volontariamente e permanentemente, con un microfono e un Gps in tasca, anche quando non stanno aspettando la fastidiosa chiamata di un padrone? Così, con il pretesto del covid-19, i portuali di Anversa o di Gien (Loiret), i liceali di Pechino, i malati o i viaggiatori in quarantena provenienti dalla Corea del Sud e dalla Polonia possono essere costretti a portare un braccialetto della salute che rileva a scelta la loro temperatura corporea, calcola la distanza che li divide dagli altri esseri umani o ne verifica la posizione, amplificando un medesimo movimento dove ciascuno diventa il secondino di se stesso. Quando il confine fra reclusione forzata e auto-reclusione da confinamento, fra trasformazione totalitaria dello spazio urbano e architettura carceraria contemporanea, tra guinzagli e braccialetti elettronici, si fa sempre più labile, la vita stessa — questo cuore a serramanico, come diceva il poeta — tende a diventare una pena in sé nella vasta prigione sociale.
È ovvio che esiste una differenza fra aprire una porta da soli e subire l’arbitrio di un boia in divisa, fra un isolamento dove la luce del giorno penetra a malapena e le strade deserte per decreto, fra privazione del significato e sostituzione del contatto umano con quello delle macchine, ma occorre constatare che la vecchia metafora secondo cui il carcere non è un’estensione della società essendo piuttosto quest’ultima a costituirne l’estensione, non ha perso la sua pertinenza. Anzi, tutt’altro. Quindi, se non possiamo evadere da una prigione sociale che ha ormai colonizzato tutto lo spazio, se le sue gabbie da bamboline russe si incastrano e si fondono l’un l’altra, quale possibilità ci resta, se non quella di distruggerla dall’interno? Coltivando con cura un mondo tutto nostro, respingendo gli assalti di un dominio che mutila ogni giorno la nostra sensibilità, devastando senza pietà le sbarre e i muri che ci tengono prigionieri. Tanti ostacoli alla libertà, che non s’incarnano più solamente nella pietra e nell’acciaio, ma anche nelle reti diffuse in fibra di vetro e rame che corrono sotto i nostri piedi e volano sopra le nostre teste. Se quasi un centinaio di antenne-ripetitori sono state sabotate nel 2020 malgrado i vari confinamenti, il fatto che queste strutture costituiscano un anello supplementare delle nostre catene ha forse una qualche attinenza.
Passaporto sanitario. Nel corso dell’ultima grande epidemia di peste conosciuta in Francia, avvenuta nel 1720 quando alcuni mercanti e notabili fecero sbarcare comunque il loro carico di stoffe e di cotone da una nave in quarantena nel porto di Marsiglia, furono impiegati due particolari tipi di dispositivi. Da un lato, usare gli schiavi delle galere, cioè i condannati ai lavori forzati, per far raccogliere i cadaveri dalle strade con le baionette, e poi gettarli in antichi bastioni e ricoprirli di calce viva. Dall’altro, costruire un po’ più a distanza un Muro della peste, sorvegliato giorno e notte dalle truppe francesi e papaline, allo scopo di isolare le regioni colpite e impedire che il bacillo si diffondesse sul resto del territorio. Beninteso, i ricchi avevano già lasciato Marsiglia per rifugiarsi nelle loro bastie, ed essendo l’economia un imperativo irrinunciabile al di là di ogni altra considerazione, i viticoltori facevano consegnare dagli uffici sanitari ai propri vendemmiatori un cartellino contrassegnato con lo stemma della città come lasciapassare. Fino alla fine dell’epidemia nel 1722, le autorità emanarono così migliaia di salvacondotti attestanti che il loro vettore era in buona salute, mentre comunicavano le istruzioni reali qualora i residenti fossero stati sorpresi a varcare il muro: «Farli arrestare con ogni precauzione per non trasmettere [il Male], riportarli nel loro territorio e spaccar loro la testa davanti ai propri compatrioti, esempio assolutamente necessario per contenerli».
Quasi trecento anni più tardi, né le priorità di un sistema mortifero e neanche le ingiunzioni del potere sono in fondo cambiate, sebbene il covid-19 sia senz’altro meno contagioso e mortale (prima di nuove mutazioni?) della peste nera. Certo, le tessere sanitarie si sono trasformate in certificati vaccinali prima dell’istituzione più o meno esplicita di un passaporto sanitario, gli antichi lasciapassare comunali sono diventati attestazioni ministeriali su smartphone, l’autorità religiosa delle multicolori guardie pontificie si è tramutata in un potere scientifico in camice bianco, il Codex nazionale che regola la produzione di farmaci non raccomanda più di ingurgitare pozioni a base di aceto, ma piuttosto di farsi iniezioni a base di RNA messaggero, e i refrattari al confinamento si fanno un po’ meno spaccare la testa e un po’ più tassare (o entrambe le cose), mentre i forzati devono ancora trasportare cadaveri di contagiati in tutto il pianeta e scavarne le fosse. No, ciò che è cambiato radicalmente alle nostre latitudini sono altri tre secoli di addomesticamento statale: non c’è bisogno di un Muro della peste quando una servitù volontaria unita alla tecnologia sembra essere sufficiente a limitare i movimenti collettivi del gregge. Quanto alle pecore nere mai attratte veramente dal loro odore, ci scommettiamo che sapranno ancora una volta esplorare strade secondarie per rifiutare l’aria dei pastori e attaccarli di sorpresa.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 37, 15/1/21]
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Nictalopi

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Se c’è un segreto stantio che da decenni fa il giro del mondo infantile è sicuramente quello confidato dalla volpe al Piccolo Principe: «Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». È forse un mero caso se il cuore che ha pronunciato questa sentenza verso metà del secolo scorso, quando non indossava la livrea militare, si insinuava tranquillamente negli stracci del giornalista, ad esempio per denunciare i «crimini repubblicani» della Spagna del 1936-37 sui principali giornali nazionalisti? O che un fervente ammiratore di un Maresciallo che ha riconciliato il popolo frrrancese sotto il suo giogo dopo la disfatta sia stato ricompensato con una nomina al comitato provvisorio del Rassemblement pour la Révolution nationale (1941)? Come alcuni hanno fatto notare successivamente in un’altra occasione, l’importante in materia di sonagli ufficiali non è tanto essere capaci di rifiutarli, quanto non meritarli. Il 31 ottobre scorso, i suoi scadenti eredi del Master 2 Sicurezza e Difesa dell’Università di Assas non si sono quindi sbagliati nell’adottare il nome di Saint-Exupéry per la loro sedicesima promozione, riconoscendo in lui l’alleanza tra «genio letterario e spirito militare: onore, rispetto, coraggio e amor di Patria». A quanto pare, sembra che l’essenziale possa talvolta saltare comunque agli occhi! Ma passiamo oltre.
In un periodo come questo decisamente particolare, cosa potrebbe invece discernere un organo che disprezza sia lo spirito da caserma che il terrorismo di Stato? A prima vista, tra una pandemia mortale che giustifica misure autoritarie di ogni genere, il rafforzamento di protesi tecnologiche dal lavoro alla scuola fino ad ogni relazione, un ambiente sempre più devastato e artificiale sotto i continui attacchi violenti dell’industria, o anche l’assenza di orizzonti utopici — questo «sogno non realizzato, ma non irrealizzabile» come lo definiva un celebre «proiettile autoricida lanciato sul selciato dei civilizzati» — è vero che i tempi sembrano più propizi ai nuvoloni del dominio che alla tempesta sociale. E che si potrebbe quasi perdere il ricordo dei tempi andati, spazzato via in un lampo dal covid-19.
Dimenticato il breve inizio d’insurrezione in Grecia di poco più di dieci anni fa, che aveva al tempo stesso segnato un possibile in seno alla vecchia Europa e mostrato i limiti dell’assenza di prospettive rivoluzionarie che andassero oltre una semplice estensione di sommosse? Dimenticate le possibilità aperte tre anni dopo dai vari moti dall’altra parte del Mediterraneo, annegati nel sangue delle guerre civili, schiacciati sotto lo stivale militare o soffocati dalle sirene religiose e democratiche? Dimenticato il sollevamento in Cile di appena un anno fa, così potente nei suoi atti mescolanti espropri e distruzioni massicce davanti ai militari, ma arretrando all’ultimo minuto per non varcare la soglia dell’irreparabile ignoto, in un territorio ancora traumatizzato da un passato feroce? Dimenticate le recenti sommosse nordamericane contro la polizia, capaci per una volta di superare puntualmente le antiche divisioni iniziando a mettere in discussione uno dei pilastri del dominio, senza riuscire tuttavia a intaccare tutti gli altri, se non dall’azione rabbiosa di poche minoranze? Dimenticato anche il famoso movimento dei gilet gialli, di certo profondamente legato alla richiesta di uno Stato migliore, pur essendo in grado in nome stesso del suo postulato riformista di trovare il gusto spontaneo della rivolta di fronte a quello in carica, o quello dei sabotaggi contro varie strutture del potere mediante l’auto-organizzazione in piccoli gruppi diffusi? Un esempio tuttavia promettente di identificazione delle strutture del nemico, che non si accontentava di caselli autostradali, di centri d’imposte o di radar, ma aveva ad esempio spinto l’esplorazione fino alle antenne, alle case di rappresentanti eletti o agli impianti elettrici di aree industriali e commerciali.
I cuori gonfi di rabbia sarebbero stati quindi colpiti all’improvviso da amnesia durante i ripetuti confinamenti a furia di analizzare l’orrore del mondo da dietro gli schermi, e soprattutto non riuscendo a uscire in strada per attaccarlo? O viceversa è possibile che, sebbene straziati dal prezzo da pagare per tutti questi entusiasmanti processi non conclusi, essi non si siano tuttavia rassegnati di fronte a quanto tali momenti di rottura comportano sia di gioia distruttiva collettiva che di riappropriazioni individuali della propria esistenza? Quando un demone della rivolta diceva che le rivoluzioni sono fatte per tre quarti di fantasia e per un quarto di realtà, non era certo per accontentarsi di sezionare all’infinito quest’ultima a ritroso allo scopo di affinare il nostro agire, ma perché sapeva che questa preziosa fantasia vissuta può arrivare a sconvolgere una vita intera dandole ben altra ragione che quella di ritardare la morte il più a lungo possibile. Allora, se fosse vero che si vede bene solo con il cuore, il nostro sempre ardente potrebbe solo constatare che la gestione autoritaria di questa pandemia e le sue conseguenze in termini di ristrutturazione economica come di accelerazione tecnologica non giunge in un momento qualsiasi, ma pure per contrastare questi ultimi dieci anni di sollevamenti, insurrezioni e rivolte nel tentativo di chiudere pagina.
Di fronte alla miseria dell’esistente si può ripetere a iosa che l’ordine non agisce mai da solo, che le sole battaglie perse in anticipo sono quelle mai combattute, che non sono i rivoluzionari a fare le rivoluzioni, o che quando si accumulano insoddisfazione e malcontento a volte basta una scintilla per far esplodere la polveriera dei rapporti sociali (che sia una guerra persa dallo Stato, l’aumento del prezzo dei trasporti, la gestione contestata di un’epidemia, l’immolazione di un venditore ambulante, un nuovo drastico piano economico di bilancio, un ennesimo omicidio della polizia…). Tutto ciò è giusto, ma al di là delle manifestazioni di rabbia che il potere intende ora seppellire sotto il peso dell’emergenza sanitaria si sta sviluppando anche un altro movimento, sempre meno invisibile eppure essenziale, nonostante ciò che potrebbe dire la volpe del racconto.
Si tratta di quello composto da individui e piccoli gruppi che hanno preso atto che di fronte alla catastrofe climatica, il disastro è il sistema industriale stesso e che è meglio occuparsene alla fonte (energetica). Che di fronte all’alienazione o al controllo tecnologico, il problema deve essere risolto alla radice tagliandogli le vene. Che di fronte al moloch statale e alla sua crescente militarizzazione contro i rivoltosi, è tempo di prendere l’iniziativa secondo i propri tempi in maniera asimmetrica, senza più attendere movimenti sociali che debordino dai contesti istituiti prima di estinguersi.
È il caso, ad esempio, dei sabotaggi incendiari che attaccano incessantemente gli impianti elettrici che alimentano le pompe della miniera di lignite a cielo aperto che sta distruggendo la foresta di Hambach (Germania), dei recenti sabotaggi e blocchi contro la costruzione del gasdotto costiero Coastal GasLink nella Columbia Britannica (Canada), del sabotaggio dello scorso ottobre in Toscana (Italia) contro l’impianto di perforazione previsto per l’installazione di un nuovo parco eolico, o dell’incendio negli uffici dello sfruttatore statale forestale ONF ad Aubenas (Ardèche) all’inizio di ottobre. Per non parlare di tutti gli attacchi che da anni ritardano l’avanzamento del progetto di interramento di scorie nucleari a Bure, in particolare con l’ausilio di sabotaggi contro le perforazioni sulla vecchia linea ferroviaria destinata al cantiere di Cigéo e al trasporto dei rifiuti radioattivi. Tante belle energie sprigionate per danneggiare coloro che alimentano questo mondo mortifero.
Dall’arrivo del covid-19 all’inizio dell’anno e malgrado le conseguenti restrizioni ai movimenti che sono seguite, le voci degli agili sabotatori non sono rimaste zitte, ma la loro autonomia progettuale le ha fatte addirittura risuonare con maggiore clamore durante le varie fasi di autoreclusione. Se ad esempio consideriamo i tagli dolosi di fibre ottiche o dei ripetitori-antenne durante il confinamento in primavera, il potere non può che deplorare che questi siano stati messi in condizione di non nuocere un po’ dappertutto ogni due giorni. Di recente, un tirapiedi dello Stato incaricato di gestire queste piccole preoccupazioni, ha ammesso che oltre un centinaio hanno subìto la stessa sorte dall’inizio dell’anno. Se si dovesse dare un solo esempio delle molteplici possibilità offerte a mani audaci nonostante il riconfinamento in vigore dall’autunno, potrebbe essere il sabotaggio a nord di Marsiglia del secondo sito televisivo più importante del Paese in materia di TV, radio e telefonia mobile, avvenuto il primo dicembre: 3 milioni e mezzo di persone si sono trovate improvvisamente disconnesse in qualche caso per più di dieci giorni!
Di che ispirare indubbiamente gli individui nictalopici che, ciascuno a modo proprio, continuano ad illuminare la notte per far deragliare i treni del dominio. 

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 36, 15 dicembre 2020]

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All’alba di una nuova era

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«Uno degli aspetti di questa quarta rivoluzione industriale
è che essa non cambierà ciò che stiamo facendo, ma cambierà noi»
Klaus Schwabb, fondatore e presidente del World Economic Forum (WEF), che ha appena pubblicato
The Fourth Industrial Revolution, seguito da un’altra opera — in piena pandemia di Covid19, The Great Reset —
in cui esorta ad approfittare della crisi sanitaria per accelerare la nascita dell’«economia 4.0»
Se si accetta la definizione di «rivoluzione» per indicare le trasformazioni dell’economia capitalista nel corso della sua storia, è ovviamente nel senso che certe trasformazioni hanno comportato un importante sconvolgimento nei rapporti di produzione, nelle relazioni sociali, nelle gerarchie della società, negli usi e costumi. Ma il termine sarebbe fuorviante se si intendesse con esso anche un «cambio di rotta» radicale e profondo. Infatti, dalla messa in funzione del vapore e dell’acqua per meccanizzare la produzione sostituendo parte del lavoro manuale con la macchina a vapore e fino all’estrazione dell’uranio e al suo utilizzo all’interno delle centrali nucleari per alimentare il complesso produttivo, l’orientamento e la logica sottostante non hanno subito alcuna «rivoluzione». Si tratta pur sempre di accumulare profitti e per accumulare è necessario che l’economia cresca incessantemente. Senza crescita, i margini per reinvestire e rendere redditizi i profitti sono troppo bassi. Ciò che viene chiamato progresso moderno soddisfa quindi due esigenze fondamentali: accrescere il dominio e aumentare l’accumulazione. I due aspetti — che spesso sono stati falsamente contrapposti nelle figure dello «Stato regolatore» e del «libero mercato» — sono sempre andati avanti insieme. L’apertura di nuovi mercati, la mercificazione di alcuni settori, l’estrazione delle risorse, la costruzione e la manutenzione di infrastrutture necessarie alla produzione, tutto questo non sarebbe stato possibile senza la crescita del potere statale, e viceversa tale crescita non sarebbe stata possibile senza l’apporto di crediti, prodotti, armi e tecnologie da parte dei complessi industriali capitalisti. I noiosi dibattiti sulle aliquote d’imposta delle imprese, sui costi salariali, sulla competitività, che sembrano contrapporre lo Stato al mercato in sostanza non sono che chiacchiere: il «libero mercato» non è mai esistito e lo Stato ha avuto un ruolo preponderante, se non indispensabile, nella crescita di grandi apparati economici. Per fare solo un esempio: i mercati finanziari globali, base del sistema monetario mondiale e sovente presentati come il regno del capitalismo più autentico, il meno frenato dalle normative, semplicemente non possono esistere senza gli Stati. Il «salvataggio» effettuato dopo il crollo finanziario del 2008 la dice lunga al riguardo, e può sorprendere solo chi crede nella favola assai interessata che contrappone lo Stato al capitale.Dopo un primo periodo di meccanizzazione della produzione, che subisce un’accelerazione con l’estrazione massiccia del carbone per alimentare i forni industriali, tra il 1760 e il 1870 arriva una seconda «rivoluzione industriale» che generalizza la produzione di massa e l’espansione del complesso metallurgico ed energetico. È l’era del petrolio e dell’elettricità, delle acciaierie e del motore a combustione. La «liberazione» di forze energetiche mai viste prima, attraverso l’estrazione del petrolio, renderà possibile un vertiginoso aumento della produzione, e il primo grande massacro mondiale di una vastità senza precedenti. Più le fonti energetiche vengono iniettate nella macchina, più essa si estende in tutto il pianeta. La costruzione di centinaia di centrali nucleari, promessa di fonte inesauribile di energia elettrica (ma comunque meno gestibile e flessibile del petrolio), ha suggellato l’avvento della megamacchina: un «complesso di civilizzazione» da cui tutti i settori e gli aspetti sono ormai interdipendenti. Quando quasi tutti i territori del pianeta hanno finito per essere integrati nella megamacchina e la produzione di massa ha finito con l’abbassare i tassi di profitto mediante sovrapproduzioni cicliche e saturazioni del mercato, è iniziata una nuova era. Da un lato occorreva superare il problema del calo dei tassi di profitto, dall’altro bisognava rispondere alle sfide e alle minacce poste dai movimenti rivoluzionari degli anni 60 e 70. All’inizio degli anni 80, l’elettronica e le tecnologie digitali sviluppate nella struttura militar-industriale sono state integrate all’interno di sempre più processi produttivi. La disponibilità di un gigantesco apparato in grado di fornire sempre più energia a basso costo era fondamentale per consentire l’automazione di alcuni processi produttivi da un lato e la delocalizzazione delle fabbriche in regioni più periferiche dall’altro. Per liberare e stimolare l’accumulazione necessaria a tali massicci investimenti, sono stati superati alcuni divari tradizionali (tra la città e la campagna, ad esempio) e «liberalizzati» settori fino ad allora rimasti ai margini, un processo che attualmente sta volgendo al termine nella maggior parte dei paesi. Abbinata all’endemico indebitamento dei cosiddetti paesi «periferici» sottomessi a massicci programmi di sviluppo delle infrastrutture (al servizio dell’estrazione di materie prime), la forza finanziaria così liberata ha permesso un’ulteriore crescita della capacità produttiva.

Oggi si può vedere molto chiaramente, col grosso balzo in avanti sperimentale legato alla pandemia del Covid19, a qual punto siano stati generalizzati i processi di automazione, anche nella maggior parte di regioni una volta considerate più secondarie all’interno dell’economia mondiale. Grazie alle tecnologie disponibili, è possibile ormai fare sempre più a meno del «lavoro manuale». La stragrande maggioranza dei processi produttivi sono oggi guidati e gestiti digitalmente. L’attuale esperienza di assegnare parti importanti dell’attività economica al «lavoro a distanza» permette di coglierne lo spaventoso potenziale. Siamo alla vigilia di ciò che il fondatore del WEF definisce, assieme ad altri «visionari», la «quarta rivoluzione industriale». Si tratta dell’integrazione e della convergenza delle tecnologie digitali, fisiche e biologiche in una nuova visione del pianeta e dell’umanità. L’industria 4.0 implica una connettività di massa (in particolare attraverso il 5G), l’intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione della logistica e del trasporto, le nano- e le bio-tecnologie, l’Internet delle Cose, le blockchain, l’ingegneria genetica e dei materiali, le reti energetiche intelligenti, ecc. Tutte tecnologie che sono «dirompenti», avendo cioè il potenziale di sconvolgere radicalmente i precedenti processi produttivi e le tecniche di accumulazione «tradizionali». Se da un lato il loro impatto sul clima si preannuncia disastroso, dall’altro perfino i grandi capitani dell’industria tecnologica da parecchi anni mettono in guardia dall’automazione che grazie alla tecnologia digitale e alla nuova tappa robotica provocherà una disoccupazione di massa mai vista.

Se buona parte dei processi produttivi nelle fabbriche sono già ampiamente automatizzati, anche altri settori stanno per subire analoghi cambiamenti. Secondo alcune stime, verso il 2035 potrebbero essere automatizzati l’86% di tutti gli impieghi nel settore della ristorazione, il 75% in quello del commercio e il 59% in quello dell’intrattenimento. Nel Regno Unito, nel periodo che va dal 2011 al 2017, con l’introduzione del pagamento tramite macchine è stato perso il 25% dei posti di lavoro alle casse dei supermercati. Il settore degli acquisti a distanza e delle consegne a domicilio è un altro settore in piena automazione, il cui grande modello è l’organizzazione del lavoro come avviene nei magazzini di Amazon o di Alibaba. Notevoli sperimentazioni sono in corso in diverse città in tutto il mondo per sostituire con robot e droni gli addetti umani alle consegne. Ulteriori stime più generali paventano una perdita del 54% degli posti di lavoro nei prossimi due decenni all’interno dell’Unione Europea, qualora l’espansione e lo sviluppo dell’automazione mantengano l’attuale ritmo. Pensiamo anche alla prevedibile generalizzazione delle stampanti 3D, che consentirebbero di sostituire gli operai che fabbricano oggetti con macchine che li stampano. Oppure alle possibilità aperte dagli algoritmi e dai Big Data per rimpiazzare gli impiegati agli sportelli e negli uffici, nella stipula di un contratto d’assicurazione o addirittura in una diagnosi medica effettuate in base a decisioni automatiche. È chiaro che la natura del lavoro cambierà negli anni a venire.

La questione del lavoro e dell’occupazione continuerà perciò ad essere prioritaria. L’indebitamento degli Stati che consente in particolare di concedere incentivi di sopravvivenza sotto forma di assistenza sociale o d’indennità agli espulsi dal mercato del lavoro può apparire una soluzione, ma la volatilità e l’instabilità permanente sui mercati finanziari non consentiranno di proseguire a lungo sulla strada intrapresa nel corso di tutto il secolo passato dai grandi Stati capitalisti. Le lotte a difesa dell’impiego non possono, ora più che mai, portare da nessuna parte. Del resto, assai raramente, per non dire mai, affrontano la vera domanda da porsi: vogliamo la perpetuità del sistema industriale che sta devastando il pianeta e i suoi abitanti? A cosa prestiamo la nostra «forza lavoro»? In tal senso, tutto il garbuglio di lotte «contro il capitale» spesso difese dalla sinistra è da criticare, ovvero da disertare radicalmente. Cosa è successo in questi ultimi tempi in Francia? L’annunciata delocalizzazione o la chiusura definitiva di fabbriche di automobili, di pneumatici, di aeronautica (civile e militare)? Di certo, la chiusura o la delocalizzazione di una nocività non impedisce la continuità della crescita mortifera, grazie soprattutto all’automazione, e in effetti ciò determina un potenziale impoverimento dei vecchi lavoratori. Ma «la difesa del posto di lavoro», l’accettazione sempre più massiccia delle nuove forme di (tele) lavoro da parte di sindacati e sfruttati, gli annunci grotteschi di un governo che vuole «rilanciare l’industria nazionale»… tutto ciò fa inesorabilmente parte di quanto bisogna combattere. Certo, una ristrutturazione della produzione comporta sempre la sua parte di instabilità e d’incertezza (questa instabilità è peraltro diventata il «sistema» nervoso centrale dell’economia contemporanea): da qui la necessità di passare all’offensiva e di non restare più a rimorchio dei conflitti di «retroguardia». Altrimenti finiremo per portare l’acqua a un mulino non solo decrepito, ma eticamente inaccettabile e praticamente obsoleto. Non dovremmo prestarci a difendere l’occupazione in una industria di aerei da caccia (come Airbus, tanto per fare un esempio), in un porto da sempre punto nevralgico per il commercio internazionale e in corso d’automazione totale, in una casa automobilistica, in una centrale nucleare, in una raffineria … Né dovremmo prestare le nostre (magre) forze a ciò che contribuisce al rinnovamento capitalista del mondo, come gli innumerevoli progetti definiti «sostenibili» su immagine dell’eolico industriale. Ciò che bisogna fare è cercare di attaccare la produzione stessa, con la prospettiva della sua distruzione (e non della sua riqualificazione o per strappare qualche concessione salariale). Prendendo di mira i nuovi progetti in corso, colpendo direttamente fabbriche e centri di produzione o sabotando ciò che ne permette il funzionamento (infrastrutture energetiche e di comunicazione, reti logistiche, interdipendenze varie e variegate). Quando i lavoratori, sfacchinando per preservare il proprio salario e soffrendo inoltre una panoplia di malattie causate dall’attività che svolgono, iniziano a distruggere gli strumenti di produzione (più o meno mortiferi), allora possono trovare in noi complici e individui solidali; se invece «lottano» per preservare quegli strumenti concedendo loro per di più la mistificazione di una certa «utilità sociale», non smetteremo di indicare e di attaccare le loro responsabilità nel mantenimento e nella difesa di un apparato produttivo che distrugge noi ed il pianeta. Men che meno la prospettiva di un’autogestione degli strumenti di produzione esistenti denota una prospettiva veramente rivoluzionaria: la sola prospettiva rivoluzionaria, sì, l’unica, è la distruzione della produzione, quindi del lavoro.

La «quarta rivoluzione industriale» non è una semplice evoluzione logica e lineare che seguirà la «terza». Spunta fuori in un momento in cui gli imprevisti e le incertezze si accumulano sulla testa. La disoccupazione di massa è solo uno di questi aspetti, e non necessariamente il più importante (il dominio non si è mai privato di sacrificare milioni di persone). Viceversa, il problema del clima si preannuncia sempre più pressante attraverso l’accelerazione di fenomeni inauditi (come incendi boschivi, tempeste devastanti, pandemie, estinzione esponenziale delle specie, ecc.); i limiti della disponibilità di un’energia a basso costo (soprattutto sotto forma di petrolio) fanno prevedere un collasso economico nel giro di pochi decenni (da qui d’altronde l’accelerazione delle «energie rinnovabili», benché alquanto insufficienti a fornire il combustibile necessario al mantenimento della crescita della megamacchina); la «perdita dell’anima», di ogni bussola, la crescente difficoltà di gestire le popolazioni (sempre più paesi del mondo si trovano in una sorta di stato permanente di guerra civile), la nascita di fondamentalismi di ogni tipo, le esplosioni di rabbia e disperazione che non corrispondono più ai contesti «tradizionali» della protesta —  tutto ciò implica a diversi livelli delle soglie da superare incerte e potenzialmente pericolose per gli Stati, che si drogano a furia di sorveglianza di massa, di crescente militarizzazione, di strategie e forze anti-insurrezionali, di prigioni «intelligenti»…
Il terribile auspicio del fondatore del WEF che la «quarta rivoluzione industriale» finisca per «cambiarci» ci fa capire inoltre dove si situano i nuovi terreni dell’accumulazione e della depredazione capitalista. Perché non intende più soltanto indurre un consumismo frenetico, distruggere i resti di una certa autonomia o guidare i comportamenti mediante un’incessante propaganda. Le nuove tecnologie e industrie mireranno sempre più a «separarci dai nostri corpi e dalla nostra comprensione di noi stessi come facenti parte di una biosfera e di un bioritmo, in modo che ciò sia percepito sempre di più come qualcosa che si può acquistare, aggiornare e “riparare”, una serie di parti meccaniche sempre adattabili e intercambiabili» (The Fourth and Fifth Industrial Revolutions, nella pubblicazione 325, n. 12, estate 2020). In sostanza, la creazione di un essere dipendente dalla chirurgia, dai farmaci, dalla tecno-psichiatria e dai dispositivi, permanentemente connesso a grandi banche-dati, pur sottoposto ad influenze, suggestioni e imposizioni calcolate da algoritmi.

Dieci anni dopo le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, un erudito dava libero sfogo ai suoi peggiori timori riguardo le trasformazioni in corso dell’essere umano: «Creando la macchina pensante, l’uomo ha compiuto l’ultimo passo verso la sottomissione alla meccanizzazione, e la sua abdicazione finale davanti a questo prodotto del suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto di culto: un dio cibernetico. È vero che la nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca del Dio dell’uomo assiale: la certezza che questo demiurgo meccanico, i cui calcoli non potranno essere verificati umanamente, darà solo risposte corrette…». Cos’è questo «dio cibernetico», se non l’avvento dell’Intelligenza Artificiale? La corsa è decisamente iniziata, il moloch digitale si nutre giorno dopo giorno dei dati di cui ha bisogno per crescere in potenza, le macchine imparano giorno dopo giorno e aumentano la loro «capacità di autonomia» (vale a dire la possibilità di eseguire compiti complessi senza intervento umano), la potenza di calcolo necessaria aumenta sempre più spettacolarmente, i tentacoli di fibre ottiche e onde che collegano esseri umani, macchine, piante, terreni e oggetti si espandono rapidamente. Inoltre, gli scienziati all’opera nella creazione di questo demiurgo possono basarsi solidamente, in assenza di legittimità, su oltre un secolo di razionalità scientifica come unica fonte di verità (e, in ultima analisi, di valore), spazzando via tutto ciò che le si oppone come se fosse oscurantismo, fondamentalismo, pessimismo paralizzante.
L’ora dell’apparizione di questo «dio cibernetico» è forse molto più vicina di quanto si pensi, o forse è già qui, e cerca, passo dopo passo, di stabilirsi nel mondo piuttosto che di annunciare il suo definitivo avvento a suon di trombe. Quel che è certo è che la velocità con cui convergono i diversi settori della ricerca, della produzione e della gestione della popolazione è in forte aumento. Le fantasie tecnologiche di ieri stanno rapidamente diventando realtà. Chi avrebbe mai creduto che il sistema produttivo potesse davvero permettersi di far passare in un battibaleno un gran numero di impieghi al telelavoro senza mettere in pericolo i processi produttivi?

È difficile comprendere tutti gli aspetti che determineranno questa nuova era. Anche i visionari moderni vanno alla cieca. Ma certi processi stanno emergendo in maniera sempre più chiara nella nebulosa che darà vita a un nuovo mondo. L’installazione della rete 5G è sicuramente uno di questi, e c’è una battaglia che va intrapresa subito. Il 5G costituisce uno dei pilastri della trasformazione dell’economia e offrirà allo Stato uno strumento particolarmente potente di controllo della popolazione. È forse la «prima» battaglia di rilievo alla vigilia della «quarta rivoluzione industriale», una battaglia che vale la pena di combattere con tutta la creatività e l’audacia che abbiamo dentro di noi.
Un primo passo, insomma, per entrare in pieno nella danza e ritrovarsi in mezzo alle ostilità, faccia a faccia con un nemico che non smetterà di anestetizzare le coscienze ed il pensiero a furia di promesse terribilmente favolose.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 35, 15 novembre 2020]
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La tirannia della flessibilità

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«L’uomo moderno si è già spersonalizzato così profondamente da non essere più sufficientemente umano da tener testa alle sue macchine. L’uomo primitivo, affidandosi al potere della magia, confidava nella sua capacità di dirigere e controllare le forze naturali. L’uomo post-storico, avendo a disposizione le immense risorse della scienza, ha così poca fiducia in se stesso da essere disposto ad accettare la propria sostituzione, la propria estinzione, piuttosto di dover fermare le macchine o anche solo di farle girare ad una velocità inferiore»
Lewis Mumford, 1956
Riassumere un’epoca, descriverne i tratti generali e distintivi, penetrare nei rapporti sociali che la reggono è forse un’impresa impossibile. Potrebbe persino comportare — come spesso accade nelle opere di storici, antropologi, sociologi e compagnia — di pervenire ad un’approssimazione distorta, a genericità che prescindono dal reale rapporto tra società, comunità e individui. In altre parole, quando si parla della cultura di una data epoca si corre fortemente il rischio di lasciare nell’ombra gli individui che se ne distaccano, che se ne separano, che conducono o cercano di condurre un’altra vita, differente. Tuttavia, l’individuo umano non è esente da una propensione ad assimilare i comportamenti altrui, né da un terribile gregarismo che può trasformarlo in docile schiavo o in feroce soldato. Ogni volta che si parla della cultura di un’epoca, di un raggruppamento umano, ci si riferisce sempre alla maggioranza, benché non si dovrebbe mai dimenticare che ogni individuo, anche il più gregario, anche il più conforme ai comportamenti dominanti, è a sua volta attraversato da molte contraddizioni, e può anche essere tentato, davanti ad una delusione o ad un’occasione, di sfuggire alla regola e di costituire un’eccezione. La storia è piena di esempi di come un comportamento accettato come norma generale, che in effetti stabilisce i costumi e le abitudini di una società, abbia spesso diversi effetti indesiderati, più nascosti, più clandestini e tuttavia altrettanto costitutivi della società. Per fare un facile esempio: quando, con l’avanzare dell’industrialismo capitalista, la famiglia nucleare tende ad imporsi come modello (prima in seno alla borghesia, poi negli altri strati della società), si sviluppano affianco altre pratiche, magari contro il modello del matrimonio, pietra angolare della famiglia nucleare patriarcale. È importante tener sempre presente che nessuna descrizione generale di un’epoca può pretendere d’essere esaustiva, né a livello di società, né tantomeno a livello di individuo.
Questa premessa appare necessaria se si intende abbozzare, con devastanti conseguenze per l’idea, per il sogno dell’essere umano libero, ciò che della mentalità contemporanea è in procinto di dominare le relazioni e gli individui. Le modificazioni e i cambiamenti a livello economico, tecnologico e sociale hanno infatti assunto una tale velocità che qualsiasi tentativo di descrizione potrebbe rivelarsi del tutto vano. È un po’ come accade agli economisti più lucidi (e bisogna cercare bene per trovarne qualcuno in mezzo ai ciarlatani dell’utilità) che hanno rinunciato da almeno due decenni a fare ulteriori previsioni sullo sviluppo economico, rendendosi conto che la velocità del cambiamento è tale che qualsiasi previsione, già discutibile in partenza, non è altro che pura speculazione. Ciò non impedisce alle loro speculazioni di produrre effetti notevoli, come quelli che indicano oggi la scomparsa delle specie, ma più che di previsioni si tratta di self fulfilling prophecies (profezie che si auto-realizzano), un concetto d’altronde nato nell’ambito degli economisti. In ogni caso, i cambiamenti nei comportamenti quotidiani si diffondono e si generalizzano così rapidamente che presto non avremo più bisogno dell’iperbole critica di cui si serviva il filosofo tedesco del secolo scorso per mettere in guardia dal fallimento morale che comporta la tecnologizzazione del mondo.
Dalla caserma all’open space
Dopo un primo periodo di caotico e selvaggio sviluppo dell’industria che ha devastato ciò che generalmente veniva ritenuto immutabile sebbene questo stato stesso avesse una sua storicità, l’industrializzazione ostentava le sue prodezze tecniche mentre si rivelava del tutto incapace di mascherare la miseria e l’angoscia che dispensava con le sue miniere e le sue fabbriche, dando impulso per altro a correnti politiche aspiranti ad una regolamentazione. Sia che si tratti del socialismo, con l’idea di un’economia pianificata in funzione dei bisogni della società-Stato; o del liberalismo democratico, con l’idea di un’economia di mercato regolata da uno Stato-arbitro rappresentante i differenti interessi; o del fascismo, con l’idea di un’economia corporativista: tutte queste correnti di massa hanno cercato di fornire una risposta agli assalti della tecnica e agli inediti sconvolgimenti che ne derivano. Il «vuoto morale» generato dalla disumanizzazione dei rapporti sociali non poteva che ricevere, da destra come da sinistra, una risposta da caserma. Parallelamente all’implicita standardizzazione indotta dalle tecniche industriali dell’epoca, i rapporti sociali a loro volta avrebbero seguito lo stesso percorso. L’intera società cominciava ad assomigliare ad una vasta caserma che non aveva più nulla da invidiare al conformismo delle precedenti società contadine, grazie ad una cultura uniformante che prese slancio durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il consumo di massa veniva allora concepito come una forza molto più potente di arruolamento, livellamento e coesione. La mentalità della fabbrica era una mentalità rigida, inflessibile, con orari cadenzati senza eccezioni (si pensi ad esempio allo sradicamento dell’usanza del Lunedì Santo). In cambio di una vita così triste, si profilava infine all’orizzonte un certo benessere materiale per sempre più strati oppressi dalla società industriale.
Negli anni 70 questa mentalità avrebbe finito per incrinarsi e vacillare, soprattutto sotto l’assalto dei disadattati, degli insoddisfatti, dei sognatori e dei giovani ribelli, con grande sorpresa dei vecchi rivoluzionari da caserma i quali pensavano che ridipingere i muri potesse bastare alla felicità di massa. Rifiuto del lavoro (non creativo), rifiuto delle abitudini rigide, rifiuto della standardizzazione e dell’uniformità, rifiuto di un’identità ancorata al luogo di produzione. Dopo aver eliminato i residui sovversivi contenuti in quegli assalti, dopo aver assassinato, rinchiuso e frantumato le minoranze rivoluzionarie spesso ancora portatrici di certe teorie da caserma (marxismo, leninismo, socialismo di Stato…), questo slancio proteiforme avrebbe incontrato il triste destino di essere assorbito, una volta mutilato e amputato, all’interno di una vasta ristrutturazione della società nel suo insieme. Oggi, questo movimento sembra sul punto di realizzarsi. Gli antichi equilibri economici sono stati trasformati, le mentalità incompatibili con i nuovi modelli di produzione sono state eliminate o isolate, il terreno per far crescere un altro capitalismo occidentale è stato fertilizzato a furia di delocalizzazione, di smantellamento delle grandi strutture produttive e dei loro corollari politici (sindacati, partiti, ecc.), di automazione, di ridefinizione del rapporto tra lavoro e fuori-lavoro (sfumandone i confini), di una certa liberalizzazione dei costumi, ecc.
In ogni caso, la mentalità da caserma d’altri tempi sembra essere oggi più retrograda che mai. La rigidità moralista, basata sui modelli cristiani, ha lasciato posto ad un consumismo per cui la mercificazione di tutti i settori della vita, fino a quelli più intimi, è diventata la norma. E la brutale accelerazione di questi profondi cambiamenti non avrebbe potuto prodursi (senza provocare, potenzialmente, insurrezioni in grado di aprire le porte dell’ignoto), non avrebbe potuto avvenire senza l’introduzione e la generalizzazione delle tecnologie all’interno di tutti i settori della società.
Una nuova mentalità in un nuovo mondo
Vale sempre la pena di ripeterlo. L’industrialismo, le tecnologie, non sono responsabili solo della devastazione e dell’intossicazione duratura del pianeta e dei suoi abitanti. Implicano anche una mentalità che ha il pregio paradossale di presentare molti aspetti di libertà svuotandoli completamente dall’interno, cioè rendendoli incapaci di aspirare alla libertà. Un liberalismo funzionale che è l’esatto opposto del rapporto anarchico con quest’ultima. Oggi, nel nuovo mondo, non si parla ad esempio di luoghi di lavoro, ma di open space. Non si parla di produzione, ma piuttosto di creazione. Non ci si rivolge ai dipendenti, ma ai collaboratori. Non si provoca obbedienza, ma partecipazione. Ovunque questa nuova mentalità, determinata a farla finita con le ultime roccaforti dell’industrialismo «antiquato», fiorisce, prende slancio, riunisce risorse e capitali per «irrompere» sui mercati. E questo cambia tutto, capovolge tutto. Ad una velocità incredibilmente elevata. Chi avrebbe mai pensato che il piccolo piacere colpevole del sabato sera, dopo una dura settimana di sfruttamento, di ordinare una pizza consegnata a domicilio, sarebbe diventato un modello di nutrimento esteso ad un’infinità di altri campi? Che il «lusso» di passare una notte in albergo si sarebbe «democratizzato» fino a trasformare tutti gli appartamenti del mondo in potenziali suite d’albergo?
Col rischio di fissarci sull’albero piuttosto che sulla foresta, potremmo dire che la tecnologia che sta devastando profondamente quanto credevamo di conoscere dell’«essere umano» e del suo modo di relazionarsi con gli altri, è rappresentata da una sottile scatola metallica con uno schermo luminoso e tattile. Dopo la sua diffusione, impossibile fissare un appuntamento con qualcuno in anticipo. È troppo rigido, non rientra nella permanente flessibilità cui siamo condannati (o meglio, che si presume si voglia vivere come un misero surrogato di libertà). Difficile contare su un accordo preso, perché tutto è soggetto a un cambiamento dell’ultimo minuto, d’urgenza, in diretta. Complicato mantenere un segreto o una situazione vergognosa, perché tutto si condivide, va condiviso, pena l’essere asociale. Impossibile non precisare dove siamo, cosa facciamo, perché è la prima domanda che lo schermo o l’interlocutore ci pone prima di avviare quello che ormai passa per dialogo.
Ci si è quasi dimenticati che parlare con qualcuno faccia a faccia non è la stessa cosa che pronunciare parole con o su uno schermo, dietro il quale si trova possibilmente un essere umano. Che mettersi d’accordo con qualcuno non significa implicitamente che si possa cambiare all’ultimo minuto attraverso quella maledetta protesi tecnologica ciò che si era stabilito appena ieri. Abbiamo dimenticato che trascorrere del tempo con qualcuno esclude la presenza di questo fantasma che si intromette nelle relazioni a suon di rumori di chiamata e luminosità cangianti. Abbiamo dimenticato che non è possibile abbandonarsi ad una intensa, a volte sofferta, ma particolarmente umana attività di riflettere quando da un momento all’altro, come un prigioniero nella sua cella, può fare irruzione il guardiano tecnologico. Magari non ce ne siamo dimenticati, ma abbiamo semplicemente rinunciato, più o meno velocemente a seconda della nostra propensione al gregarismo o all’adattamento, stanchi ed esausti di resistere ancora alle sirene e alle sollecitazioni del padrone, della famiglia, degli amici che ci vogliono bene.
I rari «partigiani» che ancora bandiscono, o che semplicemente cercano di limitare drasticamente o ridurre la presenza del collare elettronico del cellulare, hanno vita dura. Non solo perché devono fare i salti mortali se sono in attesa di un contatto con un’istituzione, un’azienda, un proprietario, un medico qualunque (che chiameranno quando e come gli conviene), non solo perché quasi nessun lavoro è ormai disponibile senza essere costretti a comunicare permanentemente col capo e coi colleghi, non solo perché passano di mente gli inviti alle varie socialità (fissati quasi esclusivamente tramite il fantasma, e ovviamente all’ultimo minuto, soggetti agli eterni mutamenti di ora e di luogo…), non solo perché rischiano di perdere ogni contatto (se non rinnovano la loro presenza digitale, cessano di «esistere» agli occhi degli altri).
Hanno vita dura anche perché non è solo la caserma o il prete, non è solo la scuola o il lavoro a far loro subire tutto questo, ma anche i loro cari contribuiscono a questa tirannia della flessibilità. Anch’essi li espongono alla sottomissione dei bit e dei byte. Anch’essi impongono, a volte contro il loro volere e contro la loro (esplicita) volontà, una frequentazione obbligatoria e dolorosa con il fantasma-guardiano, costruendo, anello su anello, catena su catena, il collare tecnologico attorno al loro collo. In nome dell’amicizia, della compagnia, dell’amore, della condivisione, ovviamente. E forse è proprio questo l’aspetto più terribile. Come far capire ad un amico che non solo non sai parlare al telefono, ma che per di più non ti piace affatto farlo? Come far sì che la tua rabbia, la tua frustrazione, il tuo disgusto dopo l’ennesimo cambio di appuntamento per mezzo del fantasma-guardiano non passi per rigidità altezzosa, arroganza elitaria, incapacità di comprendere le preoccupazioni altrui? A volte si ha l’impressione, in mezzo agli ultimi dei Mohicani, che sia tutto vano. Stanchi di apparire irascibili e inflessibili, si finisce per accettare di diventarlo: infrequentabili, troppo rigidi e «per niente fighi».
All’inizio degli anni 90, un testo anarchico ci metteva già in guardia dall’arrivo della nuova mentalità forgiata nei laboratori del potere: flessibile, povera di contenuti e basata «sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può aggiustare». Questa mentalità «produce un degrado morale in cui la dignità dell’oppresso finisce per essere contrattata e svenduta dietro la garanzia di una penosa sopravvivenza». Laddove «tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire», l’anarchismo e gli anarchici non possono che adattarsi col rischio di scomparire in quanto tali. Ed è questo ciò che forse sta accadendo, anche se è difficile rendersene conto e per illustrarlo ci si riduce ad invocare un’immagine stupida e limitata come quella dell’uso generalizzato del collare comunicativo. Come hanno potuto degli anarchici diffondere seriamente non molto tempo fa una proposta come quella della connessione permanente per tentare di sfuggire alle sue nefaste conseguenze? Come ha potuto un qualsiasi anarchico finire con l’accettare di andare in giro in modo permanente con un microfono e un GPS addosso, ossia anche al di là di ogni «necessità» ritenuta inevitabile (come essere raggiungibile per lavoro, per esempio), esponendo non solo se stesso ad intercettazioni e tracciamenti inopportuni, ma anche qualsiasi persona nota o sconosciuta che entra nella gabbia dalle sbarre invisibili che si porta in tasca?
Alla fine degli anni 90 un saggio uscito dall’università ha avuto il merito di cogliere le caratteristiche del nuovo spirito: «L’immagine del camaleonte è tentatrice per descrivere il professionista che sa condurre i propri rapporti al fine di andare più facilmente verso gli altri», giacché «l’adattabilità è la chiave d’accesso allo spirito di rete». Ecco perché è «realista, in un mondo in rete, l’essere ambivalenti…, perché le situazioni che si devono affrontare sono esse stesse complesse ed incerte». Senza troppe ipocrisie, veniva riconosciuto che ciò equivale al «sacrificio… della personalità intesa nel senso di una maniera d’essere che si manifesterebbe con atteggiamenti e comportamenti simili quali che siano le circostanze». Insomma, «per sistemarsi in un mondo connessionista, bisogna mostrarsi sufficientemente malleabili». E chi non accettasse di diventarlo? Allora non ci sono dubbi, «la permanenza e, soprattutto, la permanenza in se stessi o l’attaccamento duraturo a dei “valori” sono criticabili in quanto rigidità incongrua, ovvero patologica. E, a seconda dei contesti, in quanto inefficacia, maleducazione, intolleranza, incapacità di comunicare».
Il prezzo da pagare
Rifiutare la mentalità inculcata dalla scatola metallica e dal suo mondo pare significare scavarsi la fossa, rimanendo in disparte e dimenticati. Non essere connessi equivale ad essere asociali, cupi, intolleranti, rigidi. E non c’è dubbio che il prezzo da pagare per tentare di non farsi fagocitare dall’alta marea della tecnologia della «comunicazione» continuerà ad aumentare col passare delle stagioni e degli anni. Il fantasma-guardiano è diventato così inevitabile, sia che si resti tra i pochi disertori e refrattari che rifiutano di terrorizzarsi quotidianamente a suon di chiamate e messaggi, sia che ci si veda condannati a una solitudine simile a quella che recentemente descriveva un compagno cileno, come quella che va di pari passo con una esistenza trascorsa in clandestinità. Perché in fondo, forse si tratta proprio di una nuova forma di «clandestinità» da sperimentare: quella di sottrarsi ai tentacoli della piovra tecnologica. Non solo, ovvero non tanto per sfuggire alle malintenzionate attenzioni della macchina repressiva in divisa e in toga, quanto per combattere passo dopo passo una repressione quotidiana ben più importante, se così si può dire, che è l’adattamento al nuovo mondo da incubo in movimento. Privare la piovra delle sue antenne e delle sue fibre ottiche perderebbe infatti molto significato se si lasciasse, senza combattere, penetrare il suo veleno nelle nostre vene e in quelle dei nostri complici e cari.
«L’uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva un poeta sognatore dell’impossibile. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel duplice significato della parola: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo, bisogna disporre in noi di altro che non sia un riflesso. Ed è proprio questo aspetto dell’umano ad essere ora il bersaglio, assalto dopo assalto, del mondo tecnologizzato. Non si può combattere questo «nuovo umano», questo «uomo nuovo», questo zombi flessibile e connesso — e che cova in ognuno di noi — senza concepire, nel nostro intimo e all’interno dei nostri circoli di affinità, un mondo, un immaginario, un sogno che si distingua qualitativamente dal mondo-gabbia in cui siamo costretti a sopravvivere. Questo immaginario non può rimanere compartimentato nel nostro cervello e nel nostro cuore, a meno di soffocare per il dolore: deve anche invadere la realtà. Al di là delle lotte da intraprendere, delle azioni da considerare, dei conflitti a cui partecipare, o meglio, intimamente con essi, si pone una questione di etica pratica. Rifiutare per quanto possibile, e fino all’impossibile, l’invasione dell’elettronica, non coltivare la dipendenza dagli strumenti tecnologici, non adattarsi all’era dell’istantaneo. Continuare ad occuparsi dell’inchiostro sulla carta per aprirsi su qualcosa di diverso da una squallida riproduzione dell’esistente, appropriarsi del contenuto di questi oggetti quasi desueti che assorbono così rapidamente la polvere del tempo, per arricchire la propria unicità dall’esperienza limitata. Non contribuire all’impoverimento del linguaggio, creatore di mondi. Evitare il ricorso alla tecnologia per risolvere problemi che fino a ieri non ne avevano bisogno. Rifiutare, a costo di apparire obsoleti, intrattabili, irritanti, il modello del «nuovo umano» che si sta diffondendo intorno a noi.
Ecco il nuovo partigiano, un nuovo genere di clandestinità, necessaria per lottare, agire e respirare, in un mondo interamente connesso.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 34, 15 ottobre 2020]
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Guastafeste

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Cosa c’è di più irritante di un compleanno, di un rituale prestabilito che ogni anno ti ricorda che un bel giorno sei nato senza averlo chiesto, rimandandoti a scadenza fissa al tempo che passa fino alla tomba? Per non parlare di quelle cifre tonde che in base all’arbitrarietà del sistema decimale dovrebbero sfociare in una di quelle feste dove l’ipocrisia sociale raggiunge l’acme. Eppure, ciò che vale per l’individuo che può sempre districarsi dalle ricorrenze sparando sull’orologio, assume un’altra dimensione quando il dominio decide di autocelebrarsi. Allora non si tratta più del filo di Crono che si allunga, ma dello spettacolo del padrone che si manifesta per intimare agli schiavi l’enormità della loro servitù. Come un eterno presente il cui solo orizzonte è costituito da catene forgiate col medesimo acciaio: quello dell’autorità.
Le pubbliche commemorazioni di avvenimenti del passato costituiscono un buon esempio del duplice uso degli anniversari da parte dei potenti in carica. Da un lato, imprimere la loro versione della storia nella mente delle persone e, dall’altro, riaffermare la loro legittimità attraverso una continuità regolarmente scossa dal basso dalle rivolte. In Italia, ad esempio, la Festa della Liberazione fissata il 25 aprile (1945) corrisponde alla data che segna la presa dei pieni poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), mentre lo sciopero generale insurrezionale a Torino e Milano era cominciato il 18 e il 23 aprile, e Napoli era già insorta nel settembre 1943 scacciando gli occupanti nazisti. Così come è  il 28 aprile, tre giorni dopo, la data in cui Mussolini fu giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso in Piazzale Loreto a Milano. Ma la scelta di quella data avrebbe certo ricordato in modo troppo crudo la guerra civile tra i pro- e gli anti-fascisti, a scapito di una «riconciliazione nazionale» allora auspicata sia dai conservatori che dal partito comunista al fine di spartirsi in santa pace il potere. Quanto ai nazisti, le truppe tedesche si sono arrese agli angloamericani il 2 maggio, segnando la definitiva liberazione del territorio della penisola. Ma quest’ultima data avrebbe ovviamente lasciato troppo poco spazio alla resistenza nazionale. Una delle conseguenze dell’istituzione di una ufficialissima Festa della Liberazione fin dall’aprile 1946, mentre i fascisti sarebbero stati amnistiati in massa a partire da giugno per venire in parte riciclati nell’apparato di Stato repubblicano, è che quei rivoluzionari che hanno proseguito la lotta per la libertà nei mesi e negli anni successivi, dopo l’aprile 1945 sono ridiventati «banditi» e «criminali» come sotto il fascismo, e non più «partigiani».
Qui la questione va ben oltre le controversie commemorative e i confini della legalità. È legata piuttosto al fatto di agire in prima persona senza attendere date esterne o masse fluttuanti, a partire dalle proprie temporalità, dalle proprie idee e da esperienze radicate in fondo alle proprie viscere. Allo stesso modo, non si tratta di rinunciare all’utopia dato che i tempi sono spesso senza speranza (e quando non lo sono?), ma per farvi fronte esser capaci nel contempo di coltivare un mondo interiore singolare e di sviluppare le nostre proiezioni su quello che ci circonda: per non lasciarci più semplicemente trascinare dalle burrasche della storia, dobbiamo pur iniziare a fare la nostra. Per dirla con le parole di un compagno come Belgrado Pedrini, che come altri non aveva atteso la rottura del patto tra Stalin e Hitler per combattere armi in pugno contro il fascismo, né si era fermato quel 25 aprile, «Si faccia o no la rivoluzione, io farò la mia».
Ma non c’è bisogno di valicare le Alpi per produrre immaginari legati più all’eternità dell’oppressione statale che alla sua distruzione. Pensiamo ad esempio alla Rivoluzione del 1789, che i dirigenti di questo paese brandiscono ancora oggi come un totem d’immunità quasi culturale, mentre esportano le loro armi in ogni angolo del pianeta (se il massacro nello Yemen, ad esempio, vi dice qualcosa). Ma no, suvvia, niente di tutto questo, noi siamo la patria dei Diritti dell’Uomo! E la presa della Bastiglia, non è persino diventata la nostra Festa Nazionale? Una festa che tra l’altro è stata indicata nel 14 luglio quasi cento anni più tardi, nel 1880, dopo parecchi cambiamenti sotto forma di compromesso tra borghesi liberali e conservatori… certamente in relazione alla presa della Bastiglia, ma anche alla Festa della Federazione dell’anno successivo, che vide il Re prestare giuramento alla Costituzione dopo una messa celebrata da 300 sacerdoti e davanti a un Te deum intonato dalla folla. In quest’ultima scelta, nessuna visione di teste reali mozzate, tutt’altro, né di assalti ad arsenali militari da parte degli insorti per impadronirsi della polvere e dei cannoni. Con questa data è in sostanza un intero movimento, difeso dall’esperienza di un Varlet nel suo opuscolo del 1794, che la continuità repubblicana del potere avrebbe voluto cancellare dalla memoria ribelle: «Per qualsiasi essere senziente, governo e rivoluzione sono incompatibili…».
Infine, al di là della sacralizzazione dello Stato o della proprietà tramite incisione della loro autorità nella pietra marmorea di una Dichiarazione Universale, ricordiamo che uno dei successi poco conosciuti di quel periodo è stato inoltre l’importazione in diverse lingue comuni di due concetti del dominio che avrebbero presto colonizzato le menti: «vandalismo» e «terrorismo».
Il primo termine, coniato nel 1794 da un deputato a partire dal nome di una popolazione considerata la più barbara di tutte (i Vandali), mirava a porre fine alle pratiche di chi continuava ad attaccare le chiese e i castelli per distruggerne il contenuto, come nei bei tempi andati. Attraverso l’invenzione del vandalismo, la ragione di Stato ha inteso arrogarsi il monopolio delle buone distruzioni fattori di progresso — in chiave contemporanea sommergendo villaggi per costruire dighe, radendo al suolo quartieri poveri per farvi passare un treno o costruirvi torri di uffici, distruggendo una montagna per estrarre il litio — opponendosi a quelle malvagie, per forza di cose irrazionali. Ovvero a tutte le altre distruzioni diverse dalle proprie, quelle praticate in modo autonomo, a maggior ragione se attaccano beni fondamentali per lo Stato.
Il secondo termine, risalente anch’esso all’anno 1794, designava il regime di terrore politico del Comitato di Salute Pubblica. Non si nominavano gli attacchi provenienti dal basso contro il potere, per spaventare e squalificarli, ma si indicava il terrore di Stato esercitato in modo indiscriminato. Mentre alcuni gruppi come i populisti russi tentarono di riappropriarsi della parola all’inizio del secolo scorso, nello stesso periodo il potere comprese l’uso interessato che avrebbe potuto farne rovesciandone il significato contro chi gli si opponeva mediante l’azione diretta. Una confusione che si è rapidamente diffusa con l’aiuto dei suoi portavoce di massa (prima la stampa popolare poi la radio), ed è così che ad esempio i sabotatori di reti elettriche, di linee ferroviarie o di fabbriche di armi diventavano partigiani o terroristi a seconda che fossero amici o nemici di uno dei regimi in carica, vale a dire sostenuti dalle potenze alleate o vilipesi dal regime nazista. Così come lo stesso atto di sabotaggio compiuto dagli stessi individui durante gli scioperi insurrezionali del 1947 e del 48 sarebbe diventato «terrorista» piuttosto che «di liberazione» a detta degli stessi dirigenti… ormai passati dagli scranni dell’opposizione a quelli del potere. Ancora una volta, era una data ormai anniversario destinata a fare la differenza, l’8 maggio 1945.
Lo scorso 4 settembre, al Pantheon, la crema progressista del paese si è stretta attorno a Macron per celebrare nientemeno che «un momento fondante del modello repubblicano», ovvero il 150° anniversario della Terza Repubblica (1870). Sì, sì, quella che si concluse quando 572 dei suoi deputati e senatori riunitisi al Gran Casino di Vichy votarono per i pieni poteri a Pétain. Quella che, prima di realizzare la sua grande opera a suon di massacri coloniali, feroce industrializzazione, leggi scellerate e macellerie della prima guerra mondiale, aveva caratterizzato l’inizio del suo regime con il repubblicano squartamento di 20000 insorti della Comune.
All’interno del pesante edificio in pietra bianca, proprio sotto i piedi dei potenti assisi in ranghi meno serrati del solito, c’è la tomba di un grand’uomo in putrefazione che probabilmente li ha lasciati perplessi. Si tratta del primo presidente della Repubblica la cui carriera è stata tagliata di netto prima del suo termine. Che bel giorno è stato quel 24 giugno 1894, quando il pugnale dell’anarchico Sante Caserio è penetrato a fondo nel fegato di Carnot, liberandolo definitivamente del peso del suo fardello. Contrapporre il nostro 24 giugno omicida alla loro ultima buffonata istituzionale del 4 settembre potrà apparire magari ridicolo a molti, ma è più che altro assurdo, tanto la nostra dimensione, quella della qualità, è radicalmente diversa dalla loro, quella della politica. La cosa più importante qui è infatti che un compagno di carne e ossa come noi, un nemico dell’autorità come noi, abbia deciso di forzare il destino armato di coraggio e di determinazione, realizzando la propria storia. «Se il governo usa contro di noi i fucili, le catene, il carcere, dovremmo forse noi anarchici, che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa?» chiese non senza ironia Caserio alla giuria, dopo aver già risposto a modo suo. È nel corso della nostra stessa vita, di fronte alle sfide del presente, che ognuno dovrà trovare la propria risposta. Come solo calendario in tasca, la nostra irragionevole passione per la libertà.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, 33, 15 settembre 2020]
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Quando il sole e il vento…

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»

Tancredi, Il gattopardo (1958)

 

Come rendere la società industriale eterna? Ecco una domanda che i dirigenti del mondo sono ormai costretti a porsi in maniera diversa. Costretti, nel senso che certi modelli di sfruttamento rischiano di avvitarsi su se stessi qualora le società continuino a seguire lo stesso schema. Ogni estate le foreste vanno in fiamme in proporzioni sempre più apocalittiche, e fino al circolo artico. Le terre si inaridiscono. Le acque del mare salgono. Gli oceani si svuotano di pesci. L’inquinamento uccide irrimediabilmente la fauna e la flora, rendendo l’essere umano ancora più dipendente dall’industria farmaceutica per far fronte a ciò malgrado tutto. Più la devastazione avanza, e più l’artificializzazione del vivente viene accolta come la sola ed unica soluzione.

E in effetti è davvero la sola soluzione. In ogni caso per continuare sulla stessa strada. Regolare ancor più i territori, modificare geneticamente gli organismi, erigere dighe, riorganizzare foreste, fertilizzare il suolo con l’ausilio di prodotti industriali…: ecco le sole possibilità per dare un barlume di vita a ciò che è già morto. In nome della salvaguardia del pianeta, si distrugge quanto rimane ancora del pianeta per costruirne un simulacro. Qualcosa che ci assomiglia, ma non lo è. Essere o apparire, ecco la domanda, avrebbe potuto dire il famoso poeta inglese. La nostra epoca è votata ad essere quella dell’apparire e dei fantasmi. Ovunque, questa «derealizzazione» è in corso e diventa palpabile, inclusi i rapporti umani, fin nel più intimo dell’individuo sottomesso a questa corsa in avanti che lo mutila, lo adatta, lo rende artificiale, copia impoverita di ciò che, un tempo, avrebbe potuto essere.

Qualche decennio fa la Francia scelse fieramente l’onni-nucleare. Ormai installate dappertutto, le centrali erano promesse di un bell’avvenire quali garanti della famosa «indipendenza energetica» del paese. In effetti si è rivelato più «facile» tenere un pugno di ferro su un paese come il Niger, principale fornitore dell’uranio francese e anche uno dei paesi più poveri del mondo, che preservare posizioni strategiche sullo scacchiere petrolifero in Medio Oriente. Oggi il «ciclo francese» della produzione nucleare non è chiuso. Restano molte centrali sempre più vetuste — il cui smantellamento sarà solo un grande esperimento a cielo aperto senza garanzia di successo —, una irradiazione duratura di certe zone, e soprattutto le famigerate scorie, per cui attualmente non esiste alcuna soluzione, salvo sotterrarle e vedere nel tempo cosa accade. Il progetto di sotterramento delle scorie nucleari a Bure è quindi una delle chiavi di volta di tutto il progetto nucleare francese; ed è subito evidente perché la resistenza locale si scontri con una repressione che non intende risparmiare colpi. Una lotta particolarmente importante, come avrebbe dovuto essere quella contro quest’altra «perla» dell’atomo francese, lanciata nel 2006: il progetto ITER nella campagna provenzale, probabilmente uno dei progetti più ambiziosi nell’ambito energetico, sostenuto da 35 paesi, al fine di condurre delle ricerche, col 2035 come nuovo orizzonte pratico, sulla fusione nucleare (una tecnica sperimentale che cerca di imitare il sole fondendo piccoli nuclei atomici per liberare una gigantesca energia, cosa differente dalla fissione attualmente attuata nelle centrali, che «rompe» grossi atomi per recuperarne l’energia).

Ma senza attendere la realizzazione dei progetti a lungo termine dei nucleocrati, altri progressi tecnologici hanno fin d’ora permesso l’esplorazione di massa di «nuove» fonti energetiche, di cui quelle più emblematiche sono senza dubbio l’eolico, il fotovoltaico e ciò che è conosciuto con l’ingannevole nome di «biomassa», ovvero il buon vecchio procedimento di bruciare materiali organici per produrre calore (ed eventualmente elettricità). Nel bel mezzo del confinamento deciso per gestire la pandemia del Covid 19, lo Stato francese ha presentato la sua «programmazione pluriannuale dell’energia», una sorta di foglio stradale per lo sviluppo del settore energetico. Esibito come la dimostrazione degli sforzi dello Stato per andare verso una «transizione energetica» (ossia, ridurre le emissioni di CO2), questo progetto è soprattutto un indicatore per ciò che si dovrebbe, in gran parte, fare nei prossimi anni. Per cogliere l’ampiezza di questa «programmazione» (alla quale lo Stato nella sua migliore tradizione burocratica ha concesso un bell’acronimo che rischia di ritornare sovente nel discorso: PPE), sfortunatamente è inevitabile dare un’occhiata alle cifre dell’evoluzione proiettata fra il 2018 ed il 2028. Quando il progetto si riferisce all’energia, ciò include sia la produzione di calore e di elettricità che l’uso di idrocarburi (principalmente il petrolio). Così spesso vengono paragonati limoni e pere, ma sorvoliamo.

Concretamente, il «PPE» prevede un calo dei consumi d’energia del 15,4% all’orizzonte del 2028. Per ridurre questo consumo, prevede di produrre più che mai: l’industria dovrà produrre auto meno energivore, costruire edifici meglio isolati, installare reti di calore, sostituire camion e bus a diesel con veicoli a gas, ecc. Tutta questa produzione industriale 2.0 e 3.0 comporta ovviamente un importante uso di energia, e nessuno si sente di calcolare quanta energia sarà, in fin dei conti, veramente «economizzata» se si include la produzione di questi nuovi prodotti meno energivori. Ma se questo problema non viene mai discusso, esso rimane nondimeno fondamentale e impone una sola conclusione: quando si considera il sistema industriale nel suo insieme, non esiste nessuna maniera dolce di ridurre il consumo energetico. La sola maniera sarebbe fermare le macchine, abbandonare i bisogni indotti, rinunciare al modello di vita industriale, e un simile «avvenire» non viene ovviamente preso in considerazione, né nei gabinetti dei ministeri, né nella stragrande maggioranza delle case.

Continuiamo coi dati, perché di un certo interesse e un po’ più «palpabile» delle solite abituali chiacchiere sulla «decarbonizzazione» e sulla «transizione».

Nel 2018, con certi territori ormai completamente sacrificati, come il nord della Francia, il parco eolico che produce 15 Gigawatt. L’obiettivo per il 2028, ossia fra meno di dieci anni, è raddoppiare questa produzione passando a 33 Gw. Per avere una misura, il parco nucleare francese produce oggi circa 60 Gw. Dalle 8000 pale eoliche oggi installate, si passerà quindi nel 2028 a 14.500, ossia quasi il doppio, di cui una piccola parte (5 Gw) installata sul mare, soprattutto sulle coste bretoni.

Continuiamo. Nel 2018 la produzione fotovoltaica in Francia (sia i «parchi solari» che i pannelli solari installati sui tetti di aziende e case private) raggiungeva i 10 Gw; nel 2028, dovrà aumentare fino a 44 Gw, ossia quadruplicare. Infine, per rimanere nelle cosiddette «energie rinnovabili», c’è la filiera delle biomasse (il bio non si riferisce a una produzione «biologica», ma al fatto che si tratta di materie organiche). Dedicata soprattutto alla produzione di calore, questa filiera produce tuttavia anche elettricità. La metà di quanto viene bruciato sono rifiuti domestici, seguiti da combustibili solidi (legno, mais, colza) e infine biogas (metanizzazione dei rifiuti mediante fermentazione). Nel 2018, per 42 centrali in funzione, la filiera delle biomasse produceva meno di 1 Gw e aumenterà di poco da qui al 2028, sull’esempio dell’idroelettricità (22 Gw oggi, 26 Gw nel 2023 specialmente grazie ad una ottimizzazione delle dighe esistenti sul Rodano).

Conclusione del «PPE»: lo Stato punta sull’eolico ed il fotovoltaico, al fine di poter «chiudere» entro il 2028 quattro o sei reattori nucleari. Tuttavia, lo Stato è consapevole che «il consenso attorno all’eolico si indebolisce». Sulla scia della campagna di propaganda lanciata per promuovere il 5G, il PPE prevede quindi una grande campagna di «sensibilizzazione» per far accettare la costruzione eoliche un po’ dappertutto. Sapendo che tre progetti su quattro sono oggi oggetto di contestazioni diverse e varie (che comportano qualche ritardo, sebbene il 90% delle procedure giuridiche che contestano i parchi non giungano a termine — riservato ai maniaci del legalismo), è facile prevedere che la futura installazione di sempre più eoliche potrà provocare nuove resistenze. Esistono già un po’ dovunque collettivi e comitati, spesso di tendenza fastidiosamente cittadinista, che protestano contro tali progetti, siano essi nuovi o esistenti. Ma ancor più interessante è che un po’ dovunque vengono effettuati anche sabotaggi contro i pali che misurano il vento (indispensabili per installare un futuro parco eolico), contro le eoliche stesse, e contro i cantieri in corso. Tuttavia, vista la valanga di «critiche» anti-eoliche che sostengono al tempo stesso il nucleare, sembra importante immettere in questa resistenza un rifiuto netto di queste strutture… come del mondo conseguente. Opporsi alle eoliche senza criticare l’industrialismo e il modo di vita che ha generato, può condurre solo alla ricerca di altre strutture ancora, forse meno orribili da vedere, meno rumorose o meno sterminatrici di uccelli e di vegetazione, ma che avranno sempre l’obiettivo di garantire un avvenire alla società tecno-industriale. È la stessa trappola in cui sono caduti un buon numero di ecologisti ferocemente antinuclearisti, preconizzando lo sfruttamento del vento e del sole piuttosto che dell’atomo: oggi possono raccogliere ciò che hanno seminato.

Bisogna ancora insistere su quanto la produzione energetica sia fondamentale e «critica» per lo Stato e il capitale? Nel mondo intero, gli Stati corrono dietro alle sue fonti, conducono guerre, colonizzano territori allo scopo di assicurarsele. Oramai la corsa è comunque intrapresa per trovare delle «alternative» (o piuttosto dei complementi) al fine di rispondere a una domanda di energia sempre più crescente: gas di scisto, sabbie bituminose, olio di colza e di mais geneticamente modificati, centrali marine, eoliche, centrali solari fotovoltaiche, nanostrutturazione dei materiali conduttori… la ricerca è sfrenata e la competizione feroce. Dall’altro lato, gli Stati che possono permetterselo sviluppano in parallelo dei progetti per accrescere la resilienza delle loro reti energetiche, mettendo in guardia sulla vulnerabilità dell’economia e del dominio statale, molto dipendenti da una rete in fin dei conti troppo fragile considerati gli interessi che rappresenta.

Senza alcuna pretesa, cosa potrebbe fare allora un individuo, un pugno di individui, contro il mostro industriale? Magari non granché di decisivo da soli, e in ogni caso non abbatterlo. Ma molestarlo sì, ritardarne i progetti sì, disturbarlo all’eccesso sì — tutto ciò lo possono fare. Con mezzi semplici, molta immaginazione e un pizzico di coraggio. Quando il sole e il vento vengono messi al servizio del dominio, sono l’oscurità della notte e la calma dei cieli stellati a richiamarci. Si tratta più che mai di restare liberi e vivi in un mondo mortifero, di vivere risolutamente in un mondo in piena decomposizione…

 

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 31-32, 15 agosto 2020]

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Small is beautiful?

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«Ho studiato il fenomeno della dedizione, spesso cieca, dei tecnici per il proprio compito.
Considerando la tecnologia moralmente neutra, costoro erano privi del minimo scrupolo
nello svolgere le loro attività. Più tecnico era il mondo che ci imponeva la guerra,
più pericolosa era l’indifferenza dei tecnici davanti alle conseguenze delle loro attività anonime».

Albert Speer, architetto membro del partito nazista e Ministro per gli armamenti e la produzione bellica dal 1942 al 1945
Nel 1959, un fisico che aveva partecipato al programma di ricerca che ha portato alla costruzione della bomba atomica, fece una curiosa presentazione in una università californiana. Concluse pronunciando parole che volevano essere profetiche, come si addice ai grandi visionari della scienza: «C’è molto spazio in fondo alla scala». Per decenni la sua profezia generò più speculazioni che accurate ricerche. Fino al giorno in cui i primi laboratori di ricerca cominciarono, negli anni 80, a dedicarsi allo studio dell’«infinitamente piccolo». Battezzate «nanotecnologie», queste ricerche comprendono tutti i procedimenti di fabbricazione o di manipolazione di strutture su scala nanometrica (1 nanometro corrisponde ad 1 miliardesimo di metro; un filamento di DNA umano ha una larghezza di 2 nanometri). Il «grande balzo in avanti» è stato fatto nel 2001, quando gli Stati Uniti riconobbero le nanotecnologie come un settore strategico per la ricerca scientifica, irrorando i laboratori col più grande piano di investimenti della loro storia.
Ma le tenebre durarono ancora per un po’ in fondo alla scala. Passò diverso tempo e molti laboratori faticavano a produrre qualcosa di «concreto», nel senso di applicazioni industrializzabili. Diventarono un po’ più discreti, non solo a causa della feroce concorrenza tra differenti potenze, ma forse anche per timore di una contestazione «irrazionale» e «tecnofobica» come quella incontrata dall’introduzione degli OGM in alcune parti del mondo (oggi in gran parte sconfitta, anche se alcuni paesi come la Francia continuano a vietare la loro commercializzazione per l’alimentazione umana nel proprio territorio — il che non impedisce che la quasi totalità delle coltivazioni di mais negli Stati Uniti sia transgenica, così come il riso in India, il grano e la colza in Argentina, ecc.). Assisteremo dunque all’ennesimo inutile annuncio da parte di scienziati che giurano di «rivoluzionare il mondo»? Dappertutto sono stati creati nuovi laboratori, unità di ricerca, cluster che raggruppano istituzioni e aziende, tutti dediti a ricerche sulle nanotecnologie. In Francia, si contano almeno 240 laboratori di nanoscienze. I «poli di competitività» collegati alle nanotecnologie si trovano a Lione (Lyonbiopôle), Grenoble (Minalogic), Besançon (Microtechniques), Provence Alpes-Côtes d’Azur (Optitec e Solutions Communicantes Sécurisées) e Centre-Limousin (Sciences et systèmes de l’énergie électrique). Invece i più importanti istituti di ricerca sono a Grenoble (Institut des Neurosciences), Saclay (Triangle de la Physique), Strasburgo (Centre International de Recherche aux Frontières de la Chimie) e Aix-Marseille (Institut Carnot). Si noti comunque che la maggior parte delle università dispongono ognuna di almeno un laboratorio specifico per le nanotecnologie e che molte regioni si sono dotate di un «centro di competenze» che raggruppa gli attori della ricerca e della produzione nanotecnologica.
Qualche anno fa, lo Stato francese ha istituito un meccanismo di dichiarazione obbligatoria per le imprese che usano nanomateriali nei propri prodotti. Senza ovviamente riportarne i nomi esatti (non esiste alcuna regolamentazione relativa alla segnalazione di presenza di nanoparticelle prodotte, come avviene ad esempio nel caso di additivi negli alimenti), ma l’ultimo rapporto annuale (relativo al 2019) rileva almeno 900 prodotti alimentari contenenti nanoparticelle. Tra questi c’è il latte per bambini, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali o dolci e dessert surgelati. Inoltre l’utilizzo di nanomateriali in altri settori conosce da qualche anno un aumento significativo: nanocomponenti in elettronica, nanoparticelle nei prodotti cosmetici, nanopolveri utilizzate per trattare e migliorare le superfici metalliche, ecc., senza dimenticare — e questo con un po’ meno «trasparenza» — le loro numerose applicazioni in campo militare. E siccome ogni produzione genera la sua parte di rifiuti, i residui dei processi produttivi di nanomateriali si accumulano. Sembra che per il momento questi scarti vengano semplicemente bruciati oppure spediti altrove, preferibilmente verso i campi della morte in Africa (come in Ghana, dove si trova una delle più grandi discariche a cielo aperto per i rifiuti informatici del mondo intero).

E allora? In cosa i nanomateriali differiscono da qualsiasi altro prodotto industriale? Da qualsiasi tossicità prodotta dall’economia? Oseremmo dire, a rischio di dare forse troppo credito all’entusiasmo dei ricercatori, che un’altra soglia qualitativa può essere superata coi nanomateriali, e che non si tratta di una mera estensione quantitativa di ciò che già esiste. Per fare il parallelo con gli OGM: questi costituiscono, sì o no, una soglia-limite in rapporto alla devastazione già provocata dall’agricoltura industriale? Sono semplicemente «un po’ più della stessa cosa» o stanno aggiungendo «qualcosa d’altro» alla somma delle schifezze esistenti? Per gli OGM, non v’è dubbio che la risposta sarebbe generalmente affermativa, trattandosi di manipolazioni che influenzano la struttura stessa del vivente e della sua diffusione nell’ambiente. Ebbene, noi saremmo piuttosto propensi a dare la stessa risposta in materia di nanotecnologie.

La sintetizzazione di composti chimici non è certo nuova. Durante la Seconda guerra mondiale, i complessi chimici del Terzo Reich producevano già un «petrolio sintetico» per rispondere ai bisogni della Wehrmacht. La novità con le nanotecnologie è la scala su cui è possibile lavorare, e soprattutto il fatto che su scala nanometrica le proprietà della materia cambiano. Non si comporta più secondo le medesime leggi fisiche. Il carbonio ad esempio può diventare più resistente dell’acciaio. Il rame può diventare trasparente e l’alluminio esplosivo. Basta e avanza per suscitare l’entusiasmo degli apprendisti stregoni in questo mondo in cui l’artificiale prevale sempre più sul «naturale». Modificare le proprietà della materia potrebbe semplicemente trasformare nel tempo l’insieme della produzione attuale e generare nuovi «insormontabili problemi» (rifiuti, tossicità, limiti fisici…). Basti pensare a come potrebbe essere sconvolto il panorama del trasporto di elettricità, considerata l’attuale perdita di quasi il 5% sulla linea, se alcuni nanomateriali superconduttori venissero usati per sostituire i cavi odierni, costituiti per lo più da una lega di alluminio. O se i microchip diventassero così microscopici (oggi, la loro miniaturizzazione è limitata dalle proprietà dei materiali usati, di solito il silicio) da non essere quasi più rilevabili.
Parlando di irrilevabile, istituzioni di controllo come l’Anses (Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria) ammettono da parte loro che è molto difficile e per il momento abbastanza aleatorio rilevare le nanoparticelle nei prodotti o nell’ambiente. Inoltre le nanoparticelle sono «indistruttibili», non scompaiono mai, viaggiano di corpo in corpo, dai laboratori ai prodotti, dai prodotti alla terra, dalla terra al cibo, ecc. Queste particelle, le cui proprietà sono state modificate, trapassano per di più tutte le membrane e i «filtri» protettivi di cui sono dotati la maggior parte degli organismi viventi. Pertanto, una nanoparticella può passare dallo stomaco o dal polmone al sangue, quindi dal sangue al cervello e così via, e sono disponibili pochissimi dati sulla loro tossicità. A titolo di esempio, lo Stato francese ha vietato nel 2019 in base al «principio di precauzione» l’additivo E171, il biossido di titanio, in tutti i prodotti alimentari ma non nei 4000 farmaci che lo contengono. Secondo cifre ufficiali, lo stesso biossido di titanio utilizzato dall’industria può contenere fino al 2,3% di nanoparticelle. Come per gli altri veleni industriali, la tossicità nanometrica è legata principalmente a una questione di gestione, con soglie modificabili all’infinito in funzione delle necessità del momento.
Per il momento, i «limiti» contro cui si scontra l’attuale produzione capitalistica sono parecchi, ma non costituiscono ostacoli insormontabili tali da annunciare la fine della loro preziosa crescita. Al contrario, costituiscono altrettante «sfide» per un’economia in perpetua ristrutturazione. Ad esempio, le previsioni di penuria di petrolio (tra l’altro abbastanza discutibili) incitano da decenni alla ricerca, alla commercializzazione e alla produzione di idrocarburi alternativi, e oggi possiamo vedere dovunque i disastri causati dal superamento di tale «limite»: monocolture di mais e colza per produrre idrocarburi, esplosione del fracking, sostituzione dei tradizionali motori a combustione con motori elettrici (e domani forse a idrogeno) e così via. Le nanotecnologie svolgeranno sicuramente un ruolo fondamentale nell’ulteriore artificializzazione del mondo. In questo senso, ogni attesa non fa che contribuire al progresso del dominio e delle sue opprimenti prospettive. Perdersi in interminabili discussioni sui gradi di pericolosità delle nanoparticelle rischia allo stesso modo di far perdere di vista che si tratta anzitutto di una via importante per l’economia allo scopo di superare determinate soglie e perpetuare così, ipotecando permanentemente il mondo, la sua mortifera esistenza.
In fondo, come davanti alle altre promettenti tecnologie del dominio, la sola questione di qualche interesse da porre, qui e ora, resta quella dell’attacco distruttivo.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 30, 15 giugno 2020]
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A bassa voce

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Arrabbiati. Alle nostre latitudini, gli individui affetti da rabbia venivano sottoposti a severe misure di detenzione fino all’inizio del XIX secolo, poiché si pensava che la malattia di cui soffrivano potesse trasformarli in animali selvatici. Oggi si vogliono rinchiudere gli arrabbiati che non rispettano né i limiti di spostamento né i gesti-barriera quotidiani (tre multe e potenzialmente si è arrestati, grazie allo stato di emergenza prolungato al 23 luglio), giacché si ritiene che il male dell’insubordinazione di cui soffrono necessiti della loro trasformazione in esseri addomesticati. Ma ciò significa dimenticare troppo in fretta che la rivolta può scoppiare anche nel cuore di questi luoghi di infamia, come ad Uzerche (Corrèze) lo scorso marzo, dove duecento prigionieri hanno devastato e poi incendiato circa 300 celle. In questa grande prigione sociale a cielo aperto, l’attuale laboratorio del «deconfinamento» significa null’altro che un tentativo di stringere le sbarre delle gabbie in cui tentiamo di sopravvivere, e di cui la galera sarebbe sia il punto cieco che l’apice (come punizione e come minaccia). Distruggerle tutte non è quindi solo una necessità per avanzare verso l’ignoto di una pratica esagerata di libertà, è anche uno slancio di vita elementare — siano esse di cemento munito di torrette, di cavi interrati o di servitù volontaria.
Attaccare. Lo Stato e i suoi alleati occasionali a tratti sconcertanti che raccomandavano di autorecludersi in massa nel nome del bene comune mentre il dominio si dava carta bianca, ci sono rimasti male. Sia in periferia, dove gli scontri con la polizia non si sono fermati — con incendi di telecamere, di volanti e di edifici istituzionali —, che durante le passeggiate al chiaro di luna che hanno provocato un po’ dovunque la distruzione di decine di strutture di telecomunicazione, questi 55 giorni di confinamento nell’esagono sono stati anche contrassegnati da una certa conflittualità. Non quella di manifestanti che rivendicano un cambiamento dall’alto, ma quella di piccoli gruppi mobili che agiscono direttamente senza aspettarsi né chiedere nulla a nessuno, prendendo di mira due pilastri indispensabili a questo mondo: gli sbirri e i gendarmi garanti di un ordine spietato, e le reti di dati che gli consentono di funzionare in ogni circostanza (dal telelavoro alla telescolastica, dall’economia alla telegiustizia). Se già si sapeva che la guerra sociale non conosce tregua, è rimarchevole che alcuni ribelli e rivoluzionari non abbiano ceduto al ricatto volto alla pacificazione della mano del potere che cura a suo piacimento (selezionando, ad esempio, chi deve morire o vivere), mentre lava l’altra che colpisce, mutila, assassina e imprigiona. Ora che queste due mani si congiungono esplicitamente per formare gli sbirri in camice bianco delle Brigate Sanitarie e altri dispositivi di tracciamento; ora che i poteri di polizia si estendono a una miriade di tirapiedi armati della loro buona coscienza sanitaria (seguaci dei braccialetti elettronici, secondini col volto ben mascherato, controllori di temperature troppo alte, guardiani delle distanze di sicurezza); ora che è più che mai evidente che la digitalizzazione della nostra sopravvivenza continuerà ad accelerare… questi differenti attacchi e sabotaggi condotti in condizioni più difficili del solito potrebbero avere qualcosa da dirci: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di implorare il suo ritorno urgente o la sua educata revisione a chi sta in alto, ma di impedirne il ritorno, sia teoricamente che praticamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta.
Dati. Dai campi in cui gli input chimici permanenti sono misurati da droni e satelliti, fino agli esseri viventi addomesticati dall’ecologia della catastrofe munendo gli alberi di sensori e gli animali di chip, attraverso città intelligenti che intendono valorizzare il minimo flusso, dobbiamo affrontare continuamente questa economia del dato che quantifica il mondo riducendolo a una serie di cifre ingurgitate dai computer (presto quantistici), ma anche ad astrazioni matematiche che permettono ogni potere. Cosa c’è di più apparentemente oggettivo dei dati, se non fosse che questi sono influenzati dalla scelta arbitraria di ogni loro misura e criterio iniziali la cui domanda contiene già la risposta e che questa elaborazione di modelli è proprio ciò che consente di integrare l’autorità della gestione senza mai mettere in discussione le cause del problema, per concentrarsi sulle sue sole conseguenze previste? Come affermavano qualche anno fa alcuni feroci oppositori del nucleare e del suo mondo, dopo la distruzione volontaria di rilevatori di radioattività nei pressi di centrali nucleari: «Staccata dai suoi usi, la misura è un surrogato di sapere, quale che sia la sofisticazione delle conoscenze che vi sono investite per farla apparire. Essa diventa uno strumento ideologico quando, come il denaro, permette di modulare le effettive disuguaglianze senza rovesciare i rapporti di dominio che ne sono la causa».
La moltiplicazione di rilevatori di calore con droni e termocamere, la modellizzazione epidemiologica mediante algoritmi di comportamenti sociali ed interazioni umane per registrare, sorvegliare e tracciare, alla fine non fanno altro che consacrare una misurazione di tutto ciò che non può essere risolto dagli individui singolari, per farli rientrare nei ranghi o isolarli. Per l’ennesima volta, se l’epidemia di covid-19 non è che il pretesto per accelerare e consolidare una griglia tecnologica e sociobiologica non prevista, costituisce nel contempo il suo schema ideale nel nome di ciò che è in gioco: il pericolo di una morte improvvisa che rinvia alla vita in sé e non alla sua qualità. È così che finiamo per belare «viva la vita» come qualsiasi mistico religioso, piuttosto che cercare di rafforzare ed estendere il legame tra quest’ultima e la rivolta contro l’esistente che le dà un senso.
Distanziamento sociale. L’integrazione di distanze di sicurezza asettiche tra gli esseri umani nelle strade, nei trasporti, nelle caserme di addestramento o in quelle di sfruttamento è in linea col progetto di un dominio su corpi-soggetti atomizzati che interagiscano essenzialmente in modo telematico. In un momento in cui ciascuno è chiamato a diventare un imprenditore autonomo che valorizza anche il suo capitale-salute, perché rischiare l’ignoto al di fuori della famosa cerchia familiare che costituisce notoriamente un modello di salubrità fisica e mentale? Il distanziamento fisico permanente tra individui permetterebbe così che il gregge si mantenga in buona salute e produttivo malgrado l’epidemia in corso e quelle a venire, facilitando la sorveglianza, l’identificazione e l’isolamento dei corpi sospetti, indocili o superflui grazie ad una massa circolante meno compatta. Allo stesso modo consentirebbe di accelerare una ristrutturazione del flusso dei contatti e dei rapporti umani ottimizzandoli maggiormente affinché non si perdano più in tutti questi eccessi di vita troppo umani e decisamente improduttivi. Ammettiamo che contestare un tale progetto verso un mondo meglio ordinato e più fluido che arriva fino alla minima nostra interazione fisica sarebbe a dir poco irresponsabile!
Un simile progetto di massa non può beninteso funzionare in modo unilaterale grazie al solo manganello, e cosa c’è di meglio di un’epidemia col suo corteo di morti per poter contare sulla partecipazione di una maggioranza di cittadini impauriti che preferiscono la sicurezza alla libertà, la gerarchia accettata alla reciprocità senza delega, l’autorità rassicurante all’auto-organizzazione incerta? A titolo di esempio, gli occhi del potere che già si esercitavano a individuare ogni assembramento sospetto, a reprimere qualsiasi movimento incontrollato di massa, a regolare i comportamenti imprevedibili al di fuori della circolazione ordinaria non sono più soli: «mantenete la distanza» e che ognuno rimanga chiuso nel suo perimetro invisibile, rischia di diventare una delle ingiunzioni più banali, sia essa sbraitata da un drone poliziesco o borbottata da qualcuno perso nel suo schermo.
Il fatto che le misure di distanziamento sociale siano seguite ben oltre situazioni e relazioni interindividuali particolari, dal senso di colpa o dal riflesso di obbedienza, mantiene soprattutto l’illusione che questa società di concentramento e di flussi non sia la fonte dell’epidemia di covid-19, ma che sia sufficiente gestire bene questo momento adattandosi alle nuove condizioni perché tutto l’orrore di questo mondo possa continuare a propagarsi (quasi) come prima. Il diffuso rispetto per questo distanziamento da sé e dagli altri, insostenibile senza grossolane contraddizioni, è il risultato di un esercizio difensivo di temperanza e autodisciplina — integrato perfino in alcuni incontri o manifestazioni — che non solo non agisce contro l’esistente mortifero, ma per di più rafforza solo l’insieme delle separazioni che già lo attraversano. Separazioni in seno alla pienezza della vita per estrarne la sfera del lavoro che consenta l’economia, o quella del sapere condiviso che permetta l’educazione; completa separazione tra ciò che produciamo e le sue finalità; separazione, inoltre, tra il pensiero e l’azione, che apre la strada alla politica.
Una volta che la vita viene sezionata in pezzi catalogati e staccati gli uni dagli altri, una volta che il mondo interiore, il linguaggio e l’immaginario vengono ridotti a riprodurre un eterno presente col dominio come unico orizzonte, non restava ancora che distanziare radicalmente gli atomi fra di loro e con il loro ambiente immediato all’interno della massa informe: la crescente virtualizzazione dei rapporti vi sta in parte provvedendo, il distanziamento fisico generalizzato potrebbe completare questo lavoro di separazione dal reale, trasformando senza ritorno ciò che resta di direttamente sensibile in ognuno di noi.
Virus. Se ciò che preoccupa le belle anime del movimento è frenare la diffusione su scala collettiva del covid-19, si pensa veramente che moltiplicare i piccoli gesti individuali distanziati, mascherinati e di barriera cambierà la situazione, come si autogestisce la propria dose di radioattività in territorio contaminato per continuare a consumare e a produrre? Non è ovvio che gli imperativi economici li rendano altrettanto vani a livello globale quanto il differenziare i rifiuti per salvare il pianeta? Anche a costo di comportarsi da amministratori responsabili del disastro, perché non tentare allora di sradicare i principali focolai di contaminazione che ormai sono noti a tutti, come il trasporto pubblico, i commissariati, le scuole, le fabbriche e i magazzini? Tanto più che si conosce da secoli anche un comprovato rimedio contro i virus: il fuoco. Certo, questo rischierebbe di provocare tutta una serie di altri problemi, come quello di un mondo che ci ha reso completamente dipendenti, ma alla fine bisogna pur sapere cosa si vuole: cercare di frenare il virus chiedendo allo Stato più mezzi per gli ospedali e la ricerca, così come il rigoroso tracciamento delle persone contaminanti, oppure occuparsene direttamente da soli devastando l’organizzazione sociale ed economica che lo favorisce e lo propaga. Sempre che si voglia salvare qualcosa, ovviamente.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 29, 15/5/20]
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    En este verano, que ha superado viejos récords de temperatura, muchos habitantes que exportan su oro azul por todo el mundo han conocido un problema que creían reservado a territorios lejanos mas pobres : el racionamiento de agua. De Alta Saboya a Aveyron decenas de pueblos han recibido aprovisionamiento de… Read more: Romper el círculo
  • Herencias mortíferas
    En 221 a.c., el señor de la guerra Ying Zheng concluye la unificación de China y funda la dinastía Qin, de la que se proclama emperador. Después de enviar sus tropas a repeler las tribus demasiado salvajes del norte, ordenó la construcción de una serie de fortificaciones militares mas allá… Read more: Herencias mortíferas
  • Storm Warnings #55-56 (August 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 55-56 (August 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 55-56 (August 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #55-56 (August 2022)
  • El corte es posible
    Si el silencio da miedo, puede ser porque la ausencia de ruidos familiares tiene tendencia a devolvernos a nosotrxs mismxs. Avanzando en la oscuridad silenciosa, es común hablarse a unx mismx, chiflar un estribillo, pensar en voz alta para no encontrarse presa de la ansiedad. Esto no es tan fácil,… Read more: El corte es posible
  • Storm Warnings #54 (June 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 54 (June 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 54 (June 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #54 (June 2022)
  • Hijos de Eichmann?
    Hemos de abandonar definitivamente la esperanza ingenuamente optimista del siglo XIX de que las «luces» de los seres humanos se desarrollarían a la par que la técnica. Quien aún hoy se complace en tal esperanza no es sólo un supersticioso, no es sólo una reliquia de antaño. […] Cuanto más… Read more: Hijos de Eichmann?
  • Economía de guerra
    En Bihar, uno de los estados más pobres y poblados de la India, la gota que colmó el vaso fue el miércoles 15 de junio, antes de extenderse a otras regiones, cuando miles de manifestantes comenzaron a atacar los intereses del Estado en una docena de ciudades. En Nawada, se… Read more: Economía de guerra
  • Figli di Eichmann?
    «L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è… Read more: Figli di Eichmann?
  • Storm Warnings #53 (May 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 53 (May 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 53 (May 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #53 (May 2022)
  • Storm Warnings #52 (April 2022)
    Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 52 (April 2022) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes. Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org Storm warnings, issue 52 (April 15, 2022) :… Read more: Storm Warnings #52 (April 2022)
  • Todas e todos implicados
    Na primeira luz do amanhecer, um caminhão de 40 toneladas começa a se mover sob uma ligeira chuva. Mas não é um dos milhares de caminhões que transportam mercadorias por estrada, e sua missão é muito menos trivial. Com seus faróis acesos, o caminhão passa pelos subúrbios da capital bávara,… Read more: Todas e todos implicados
  • Todxs los implicadxs
    Con las primeras luces del alba, un camión de 40 toneladas se pone en marcha bajo una ligera lluvia. Sin embargo, no es uno de los miles de camiones que transportan mercancías por carretera, y su misión es mucho menos trivial. Con los faros encendidos, el camión atraviesa los suburbios… Read more: Todxs los implicadxs

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