«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»
Tancredi, Il gattopardo (1958)
Come rendere la società industriale eterna? Ecco una domanda che i dirigenti del mondo sono ormai costretti a porsi in maniera diversa. Costretti, nel senso che certi modelli di sfruttamento rischiano di avvitarsi su se stessi qualora le società continuino a seguire lo stesso schema. Ogni estate le foreste vanno in fiamme in proporzioni sempre più apocalittiche, e fino al circolo artico. Le terre si inaridiscono. Le acque del mare salgono. Gli oceani si svuotano di pesci. L’inquinamento uccide irrimediabilmente la fauna e la flora, rendendo l’essere umano ancora più dipendente dall’industria farmaceutica per far fronte a ciò malgrado tutto. Più la devastazione avanza, e più l’artificializzazione del vivente viene accolta come la sola ed unica soluzione.
E in effetti è davvero la sola soluzione. In ogni caso per continuare sulla stessa strada. Regolare ancor più i territori, modificare geneticamente gli organismi, erigere dighe, riorganizzare foreste, fertilizzare il suolo con l’ausilio di prodotti industriali…: ecco le sole possibilità per dare un barlume di vita a ciò che è già morto. In nome della salvaguardia del pianeta, si distrugge quanto rimane ancora del pianeta per costruirne un simulacro. Qualcosa che ci assomiglia, ma non lo è. Essere o apparire, ecco la domanda, avrebbe potuto dire il famoso poeta inglese. La nostra epoca è votata ad essere quella dell’apparire e dei fantasmi. Ovunque, questa «derealizzazione» è in corso e diventa palpabile, inclusi i rapporti umani, fin nel più intimo dell’individuo sottomesso a questa corsa in avanti che lo mutila, lo adatta, lo rende artificiale, copia impoverita di ciò che, un tempo, avrebbe potuto essere.
Qualche decennio fa la Francia scelse fieramente l’onni-nucleare. Ormai installate dappertutto, le centrali erano promesse di un bell’avvenire quali garanti della famosa «indipendenza energetica» del paese. In effetti si è rivelato più «facile» tenere un pugno di ferro su un paese come il Niger, principale fornitore dell’uranio francese e anche uno dei paesi più poveri del mondo, che preservare posizioni strategiche sullo scacchiere petrolifero in Medio Oriente. Oggi il «ciclo francese» della produzione nucleare non è chiuso. Restano molte centrali sempre più vetuste — il cui smantellamento sarà solo un grande esperimento a cielo aperto senza garanzia di successo —, una irradiazione duratura di certe zone, e soprattutto le famigerate scorie, per cui attualmente non esiste alcuna soluzione, salvo sotterrarle e vedere nel tempo cosa accade. Il progetto di sotterramento delle scorie nucleari a Bure è quindi una delle chiavi di volta di tutto il progetto nucleare francese; ed è subito evidente perché la resistenza locale si scontri con una repressione che non intende risparmiare colpi. Una lotta particolarmente importante, come avrebbe dovuto essere quella contro quest’altra «perla» dell’atomo francese, lanciata nel 2006: il progetto ITER nella campagna provenzale, probabilmente uno dei progetti più ambiziosi nell’ambito energetico, sostenuto da 35 paesi, al fine di condurre delle ricerche, col 2035 come nuovo orizzonte pratico, sulla fusione nucleare (una tecnica sperimentale che cerca di imitare il sole fondendo piccoli nuclei atomici per liberare una gigantesca energia, cosa differente dalla fissione attualmente attuata nelle centrali, che «rompe» grossi atomi per recuperarne l’energia).
Ma senza attendere la realizzazione dei progetti a lungo termine dei nucleocrati, altri progressi tecnologici hanno fin d’ora permesso l’esplorazione di massa di «nuove» fonti energetiche, di cui quelle più emblematiche sono senza dubbio l’eolico, il fotovoltaico e ciò che è conosciuto con l’ingannevole nome di «biomassa», ovvero il buon vecchio procedimento di bruciare materiali organici per produrre calore (ed eventualmente elettricità). Nel bel mezzo del confinamento deciso per gestire la pandemia del Covid 19, lo Stato francese ha presentato la sua «programmazione pluriannuale dell’energia», una sorta di foglio stradale per lo sviluppo del settore energetico. Esibito come la dimostrazione degli sforzi dello Stato per andare verso una «transizione energetica» (ossia, ridurre le emissioni di CO2), questo progetto è soprattutto un indicatore per ciò che si dovrebbe, in gran parte, fare nei prossimi anni. Per cogliere l’ampiezza di questa «programmazione» (alla quale lo Stato nella sua migliore tradizione burocratica ha concesso un bell’acronimo che rischia di ritornare sovente nel discorso: PPE), sfortunatamente è inevitabile dare un’occhiata alle cifre dell’evoluzione proiettata fra il 2018 ed il 2028. Quando il progetto si riferisce all’energia, ciò include sia la produzione di calore e di elettricità che l’uso di idrocarburi (principalmente il petrolio). Così spesso vengono paragonati limoni e pere, ma sorvoliamo.
Concretamente, il «PPE» prevede un calo dei consumi d’energia del 15,4% all’orizzonte del 2028. Per ridurre questo consumo, prevede di produrre più che mai: l’industria dovrà produrre auto meno energivore, costruire edifici meglio isolati, installare reti di calore, sostituire camion e bus a diesel con veicoli a gas, ecc. Tutta questa produzione industriale 2.0 e 3.0 comporta ovviamente un importante uso di energia, e nessuno si sente di calcolare quanta energia sarà, in fin dei conti, veramente «economizzata» se si include la produzione di questi nuovi prodotti meno energivori. Ma se questo problema non viene mai discusso, esso rimane nondimeno fondamentale e impone una sola conclusione: quando si considera il sistema industriale nel suo insieme, non esiste nessuna maniera dolce di ridurre il consumo energetico. La sola maniera sarebbe fermare le macchine, abbandonare i bisogni indotti, rinunciare al modello di vita industriale, e un simile «avvenire» non viene ovviamente preso in considerazione, né nei gabinetti dei ministeri, né nella stragrande maggioranza delle case.
Continuiamo coi dati, perché di un certo interesse e un po’ più «palpabile» delle solite abituali chiacchiere sulla «decarbonizzazione» e sulla «transizione».
Nel 2018, con certi territori ormai completamente sacrificati, come il nord della Francia, il parco eolico che produce 15 Gigawatt. L’obiettivo per il 2028, ossia fra meno di dieci anni, è raddoppiare questa produzione passando a 33 Gw. Per avere una misura, il parco nucleare francese produce oggi circa 60 Gw. Dalle 8000 pale eoliche oggi installate, si passerà quindi nel 2028 a 14.500, ossia quasi il doppio, di cui una piccola parte (5 Gw) installata sul mare, soprattutto sulle coste bretoni.
Continuiamo. Nel 2018 la produzione fotovoltaica in Francia (sia i «parchi solari» che i pannelli solari installati sui tetti di aziende e case private) raggiungeva i 10 Gw; nel 2028, dovrà aumentare fino a 44 Gw, ossia quadruplicare. Infine, per rimanere nelle cosiddette «energie rinnovabili», c’è la filiera delle biomasse (il bio non si riferisce a una produzione «biologica», ma al fatto che si tratta di materie organiche). Dedicata soprattutto alla produzione di calore, questa filiera produce tuttavia anche elettricità. La metà di quanto viene bruciato sono rifiuti domestici, seguiti da combustibili solidi (legno, mais, colza) e infine biogas (metanizzazione dei rifiuti mediante fermentazione). Nel 2018, per 42 centrali in funzione, la filiera delle biomasse produceva meno di 1 Gw e aumenterà di poco da qui al 2028, sull’esempio dell’idroelettricità (22 Gw oggi, 26 Gw nel 2023 specialmente grazie ad una ottimizzazione delle dighe esistenti sul Rodano).
Conclusione del «PPE»: lo Stato punta sull’eolico ed il fotovoltaico, al fine di poter «chiudere» entro il 2028 quattro o sei reattori nucleari. Tuttavia, lo Stato è consapevole che «il consenso attorno all’eolico si indebolisce». Sulla scia della campagna di propaganda lanciata per promuovere il 5G, il PPE prevede quindi una grande campagna di «sensibilizzazione» per far accettare la costruzione eoliche un po’ dappertutto. Sapendo che tre progetti su quattro sono oggi oggetto di contestazioni diverse e varie (che comportano qualche ritardo, sebbene il 90% delle procedure giuridiche che contestano i parchi non giungano a termine — riservato ai maniaci del legalismo), è facile prevedere che la futura installazione di sempre più eoliche potrà provocare nuove resistenze. Esistono già un po’ dovunque collettivi e comitati, spesso di tendenza fastidiosamente cittadinista, che protestano contro tali progetti, siano essi nuovi o esistenti. Ma ancor più interessante è che un po’ dovunque vengono effettuati anche sabotaggi contro i pali che misurano il vento (indispensabili per installare un futuro parco eolico), contro le eoliche stesse, e contro i cantieri in corso. Tuttavia, vista la valanga di «critiche» anti-eoliche che sostengono al tempo stesso il nucleare, sembra importante immettere in questa resistenza un rifiuto netto di queste strutture… come del mondo conseguente. Opporsi alle eoliche senza criticare l’industrialismo e il modo di vita che ha generato, può condurre solo alla ricerca di altre strutture ancora, forse meno orribili da vedere, meno rumorose o meno sterminatrici di uccelli e di vegetazione, ma che avranno sempre l’obiettivo di garantire un avvenire alla società tecno-industriale. È la stessa trappola in cui sono caduti un buon numero di ecologisti ferocemente antinuclearisti, preconizzando lo sfruttamento del vento e del sole piuttosto che dell’atomo: oggi possono raccogliere ciò che hanno seminato.
Bisogna ancora insistere su quanto la produzione energetica sia fondamentale e «critica» per lo Stato e il capitale? Nel mondo intero, gli Stati corrono dietro alle sue fonti, conducono guerre, colonizzano territori allo scopo di assicurarsele. Oramai la corsa è comunque intrapresa per trovare delle «alternative» (o piuttosto dei complementi) al fine di rispondere a una domanda di energia sempre più crescente: gas di scisto, sabbie bituminose, olio di colza e di mais geneticamente modificati, centrali marine, eoliche, centrali solari fotovoltaiche, nanostrutturazione dei materiali conduttori… la ricerca è sfrenata e la competizione feroce. Dall’altro lato, gli Stati che possono permetterselo sviluppano in parallelo dei progetti per accrescere la resilienza delle loro reti energetiche, mettendo in guardia sulla vulnerabilità dell’economia e del dominio statale, molto dipendenti da una rete in fin dei conti troppo fragile considerati gli interessi che rappresenta.
Senza alcuna pretesa, cosa potrebbe fare allora un individuo, un pugno di individui, contro il mostro industriale? Magari non granché di decisivo da soli, e in ogni caso non abbatterlo. Ma molestarlo sì, ritardarne i progetti sì, disturbarlo all’eccesso sì — tutto ciò lo possono fare. Con mezzi semplici, molta immaginazione e un pizzico di coraggio. Quando il sole e il vento vengono messi al servizio del dominio, sono l’oscurità della notte e la calma dei cieli stellati a richiamarci. Si tratta più che mai di restare liberi e vivi in un mondo mortifero, di vivere risolutamente in un mondo in piena decomposizione…
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 31-32, 15 agosto 2020]