Soli nella foresta?
«Isère: Complottista e arrabbiato con lo Stato,
incendia alcune antenne-ripetitori»
«Drôme: Il piromane di Pierrelatte:
«Drôme: Il piromane di Pierrelatte:
anti-5G ma non anti-fibra ottica»
«Rhône: Arrestati due monaci
«Rhône: Arrestati due monaci
per aver dato fuoco ad alcuni ripetitori 5G»
«Parigi: Antivax sabota 26 antenne 5G
«Parigi: Antivax sabota 26 antenne 5G
per salvare la Francia dal complotto del Covid19»
(alcuni titoli di giornali negli ultimi mesi)
(alcuni titoli di giornali negli ultimi mesi)
I servizi statali hanno registrato centinaia di sabotaggi a partire dal 2018 contro infrastrutture di telecomunicazione. Antenne incendiate, fibre ottiche sezionate, centraline bruciate, armadi di distribuzione telefonica scardinati: queste pratiche si sono diffuse in tutto il territorio e hanno avuto un evidente incremento quantitativo nel corso degli ultimi due anni. Anche la qualità delle attività notturne dei sabotatori sembra aver fatto un salto di qualità: ci sono stati sabotaggi che hanno interessato nodi particolarmente sensibili, altri coordinati o ripetuti nella stessa area geografica, alcuni volti a interrompere le comunicazioni di un struttura precisa, in una zona precisa o in un momento preciso… Insomma, malgrado i reiterati avvertimenti delle autorità, le grida di allarme degli operatori e un numero non trascurabile di arresti, continuano gli attacchi contro queste infrastrutture che restano difficili da proteggere da un colpo di tenaglia furtivo o da un incendio notturno.
Tuttavia, pur prendendo indubbiamente di mira le vene del dominio tecnologico, le motivazioni specifiche e le aspirazioni più ampie delle mani che li realizzano rimangono spesso sconosciute. La repressione, di cui uno dei compiti principali è ovviamente quello di individuare gli autori di misfatti che turbano il buon funzionamento della società, ha però svelato in parte la diversità delle persone che si dedicano a queste passeggiate sotto la luna. Leggendo con cautela le notizie dei giornali o le dichiarazioni dei condannati «citate» dai giornalisti, ed evitando di riprendere a nostra volta i «profili» e le «categorie» stabilite dai servizi dello Stato a fini di mappatura, schedatura e repressione, negli ultimi anni abbiamo visto condannare persone assai diverse per attentati contro la connessione permanente. Durante il periodo di massimo splendore dei Gilet gialli, diversi piccoli gruppi hanno effettuato, ad esempio, sabotaggi nel contesto o a margine di questo eterogeneo movimento di rivolta. Altri condannati hanno specificato in tribunale la loro sensibilità ecologista, la loro opposizione al 5G per i suoi effetti nocivi sulla salute e sull’ambiente, la loro appartenenza alla sinistra o il rifiuto da parte loro del controllo. Altri ancora, pur di fronte a prove a proprio carico e infine condannati, hanno rifiutato fino alla fine di lanciarsi in lunghe spiegazioni in tribunale o sulla stampa. Dietro il loro ostinato silenzio potrebbero certo nascondersi visioni poco liberatrici, ma rifiutarsi di parlare con uno sbirro o un giudice, o non vedere il senso di spiegare le proprie tensioni e le proprie idee a un giornalista, non significa necessariamente non avere alcun «problema a venire associato al complottismo o all’estrema destra». Allo stesso modo, non appartenere a nessun ambiente più o meno «militante», non avere un «comitato di solidarietà» che difende le proprie idee quando si viene arrestati, non scrivere lettere pubbliche per spiegare le proprie azioni, non vuol dire far automaticamente parte dei «nazistoidi» che progettano lo scatenamento di una guerra razziale attraverso una diffusione del caos, o dei «complottisti» che si fanno imbottire il cervello da internet, o dei «fondamentalisti» che equiparano le innovazioni tecnologiche all’opera del diavolo.
Ma negli ultimi mesi, titoli di giornale come quelli riportati all’inizio di questo testo hanno perfino messo in discussione quella che qualcuno potrebbe definire «benevolenza» nei confronti del silenzio degli autori di attacchi, arrivando in qualche caso a provocare un attacco di febbre esistenziale nei compagni. Il ragionamento sembra essere così imbastito: se dietro tutti questi atti anonimi — sì, bisogna precisarlo, la maggioranza degli attacchi contro le infrastrutture di telecomunicazione non è stata seguita da comunicati di rivendicazione, e non è stato fornito alcun indizio di appartenenza ideologica agli investigatori né ai diffidenti guardiani della genealogia — ci possono essere anche individui poco affidabili come illuminati da Dio, attivisti patriottici o persone alquanto confuse con poche velleità di approfondimento, … allora ogni attacco anonimo dovrebbe essere trattato come qualcosa che proviene probabilmente, o molto probabilmente, da persone poco raccomandabili.
L’errore logico salta agli occhi, ma poco importano i ragionamenti, le argomentazioni, le valutazioni critiche o gli approfondimenti, quando è più facile sentirsi soli nella foresta piuttosto che apprendere che altre persone non disprezzabili, che non si conoscono e che hanno forse, con molta probabilità, visioni e sensibilità assai diverse dalle nostre, possano ugualmente sgattaiolare attraverso il sottobosco. Soli nella foresta, soli come anarchici, puri servitori di un alto ideale, senza contraddizioni nella nostra vita, senza «macchie» sul nostro blasone patrimoniale, senza dubbi nei nostri pensieri e senza «colpe» nei nostri rapporti e nel nostro modo di vivere, chiaro come un plenilunio e senza alcuna «illusione rivoluzionaria» o «insurrezionale». Eppure, sebbene sia sempre possibile mentire a se stessi, sebbene sia sempre possibile costruire castelli di carte che il primo vento della realtà spazzerà via come sabbia, esistono anche altri percorsi che non si astraggono dal mondo che ci circonda, che non hanno bisogno di issare le nostre idee e coloro che le incarnano in cima a un piedistallo al di sopra di ogni possibilità di errore, al fine di dare un senso alla lotta e un significato alla propria vita.
Perché noi non siamo soli nella foresta. Non siamo gli unici fattori umani del disordine, così come neanche gli esseri umani sono gli unici fattori che turbano i fragili equilibri su cui questo mondo in pieno dissesto cerca di avanzare. Altre persone agiscono, con idee forse meno approfondite delle tue, con sensibilità forse più affinate delle mie, mosse da un immediato desiderio di rivalsa contro un sistema mortifero, da un’oscura vendetta contro una vita privata di senso, così come da una convinzione ideologica o religiosa in conflitto con la marcia tecnologica del mondo.
Tuttavia, pur prendendo indubbiamente di mira le vene del dominio tecnologico, le motivazioni specifiche e le aspirazioni più ampie delle mani che li realizzano rimangono spesso sconosciute. La repressione, di cui uno dei compiti principali è ovviamente quello di individuare gli autori di misfatti che turbano il buon funzionamento della società, ha però svelato in parte la diversità delle persone che si dedicano a queste passeggiate sotto la luna. Leggendo con cautela le notizie dei giornali o le dichiarazioni dei condannati «citate» dai giornalisti, ed evitando di riprendere a nostra volta i «profili» e le «categorie» stabilite dai servizi dello Stato a fini di mappatura, schedatura e repressione, negli ultimi anni abbiamo visto condannare persone assai diverse per attentati contro la connessione permanente. Durante il periodo di massimo splendore dei Gilet gialli, diversi piccoli gruppi hanno effettuato, ad esempio, sabotaggi nel contesto o a margine di questo eterogeneo movimento di rivolta. Altri condannati hanno specificato in tribunale la loro sensibilità ecologista, la loro opposizione al 5G per i suoi effetti nocivi sulla salute e sull’ambiente, la loro appartenenza alla sinistra o il rifiuto da parte loro del controllo. Altri ancora, pur di fronte a prove a proprio carico e infine condannati, hanno rifiutato fino alla fine di lanciarsi in lunghe spiegazioni in tribunale o sulla stampa. Dietro il loro ostinato silenzio potrebbero certo nascondersi visioni poco liberatrici, ma rifiutarsi di parlare con uno sbirro o un giudice, o non vedere il senso di spiegare le proprie tensioni e le proprie idee a un giornalista, non significa necessariamente non avere alcun «problema a venire associato al complottismo o all’estrema destra». Allo stesso modo, non appartenere a nessun ambiente più o meno «militante», non avere un «comitato di solidarietà» che difende le proprie idee quando si viene arrestati, non scrivere lettere pubbliche per spiegare le proprie azioni, non vuol dire far automaticamente parte dei «nazistoidi» che progettano lo scatenamento di una guerra razziale attraverso una diffusione del caos, o dei «complottisti» che si fanno imbottire il cervello da internet, o dei «fondamentalisti» che equiparano le innovazioni tecnologiche all’opera del diavolo.
Ma negli ultimi mesi, titoli di giornale come quelli riportati all’inizio di questo testo hanno perfino messo in discussione quella che qualcuno potrebbe definire «benevolenza» nei confronti del silenzio degli autori di attacchi, arrivando in qualche caso a provocare un attacco di febbre esistenziale nei compagni. Il ragionamento sembra essere così imbastito: se dietro tutti questi atti anonimi — sì, bisogna precisarlo, la maggioranza degli attacchi contro le infrastrutture di telecomunicazione non è stata seguita da comunicati di rivendicazione, e non è stato fornito alcun indizio di appartenenza ideologica agli investigatori né ai diffidenti guardiani della genealogia — ci possono essere anche individui poco affidabili come illuminati da Dio, attivisti patriottici o persone alquanto confuse con poche velleità di approfondimento, … allora ogni attacco anonimo dovrebbe essere trattato come qualcosa che proviene probabilmente, o molto probabilmente, da persone poco raccomandabili.
L’errore logico salta agli occhi, ma poco importano i ragionamenti, le argomentazioni, le valutazioni critiche o gli approfondimenti, quando è più facile sentirsi soli nella foresta piuttosto che apprendere che altre persone non disprezzabili, che non si conoscono e che hanno forse, con molta probabilità, visioni e sensibilità assai diverse dalle nostre, possano ugualmente sgattaiolare attraverso il sottobosco. Soli nella foresta, soli come anarchici, puri servitori di un alto ideale, senza contraddizioni nella nostra vita, senza «macchie» sul nostro blasone patrimoniale, senza dubbi nei nostri pensieri e senza «colpe» nei nostri rapporti e nel nostro modo di vivere, chiaro come un plenilunio e senza alcuna «illusione rivoluzionaria» o «insurrezionale». Eppure, sebbene sia sempre possibile mentire a se stessi, sebbene sia sempre possibile costruire castelli di carte che il primo vento della realtà spazzerà via come sabbia, esistono anche altri percorsi che non si astraggono dal mondo che ci circonda, che non hanno bisogno di issare le nostre idee e coloro che le incarnano in cima a un piedistallo al di sopra di ogni possibilità di errore, al fine di dare un senso alla lotta e un significato alla propria vita.
Perché noi non siamo soli nella foresta. Non siamo gli unici fattori umani del disordine, così come neanche gli esseri umani sono gli unici fattori che turbano i fragili equilibri su cui questo mondo in pieno dissesto cerca di avanzare. Altre persone agiscono, con idee forse meno approfondite delle tue, con sensibilità forse più affinate delle mie, mosse da un immediato desiderio di rivalsa contro un sistema mortifero, da un’oscura vendetta contro una vita privata di senso, così come da una convinzione ideologica o religiosa in conflitto con la marcia tecnologica del mondo.
I perché
«Perché in fondo il succo della questione non riguarda i presunti perché di perfetti sconosciuti di cui comunque non sapremo mai nulla (salvo in caso di un eventuale arresto, malaugurato per chiunque), ma come intendiamo, in seno alla guerra sociale, far risuonare gli atti che ci parlano e vibrano con le nostre idee. Siano essi collettivi o individuali, diffusi o specifici, ampiamente condivisibili o perfidamente eterodossi, totalmente anonimi o etichettati come sovversivi, all’ombra dei riflettori o pubblicizzati dai loro autori in differenti maniere»
(Ricercati interconnessi, luglio 2021)
(Ricercati interconnessi, luglio 2021)
Di fronte alla constatazione che la foresta non ospita solo anarchici, si aprono sostanzialmente due possibilità, come sempre con mille sfumature intermedie.
La prima consiste nel considerare che, poiché nessun altro oltre a noi condivide le idee anarchiche (almeno nella loro completezza che le differenzia fortemente da ideologie che si possono più o meno fare a pezzi a seconda della situazione e dell’inclinazione del momento), l’insieme degli «atti di rivolta», di «brevi del disordine», di «frammenti di guerra sociale» — poco importa come vogliamo chiamarli — sono sicuramente parte del panorama in cui agiamo, il fondo della trama, ma occorre stare ben attenti a non fornir loro delle motivazioni. Poi, via via che le motivazioni sfuggiranno dalla penombra della foresta dando un colore specifico a questi atti, colore che in linea di principio non ci piacerà mai del tutto (dato che gli anarchici sono gli unici a condividere le idee anarchiche), avremo sempre più bisogno di affermare o di chiarire le nostre intenzioni e motivazioni rispetto a quelle degli altri. Perché qualsiasi silenzio da parte nostra potrebbe portare acqua al mulino di chi non condividiamo. Saremo allora costretti ad accendere torce in mezzo alla foresta, e fare in modo che i roghi che appicchiamo ardano ancora più forti, più alti e più luminosi di quelli degli altri. Correndo quindi il forte rischio che l’identità anarchica diventi in realtà la nostra principale preoccupazione, che si finisca con l’instaurare (anche all’interno della nostra stessa cerchia) una sorta di catechismo che determina i punti positivi e negativi, non riuscendo più a cogliere in definitiva la diversità e la ricchezza delle individualità come un frutto della libertà, ma come una terribile minaccia.
La seconda possibilità resta quella di partire sempre da noi stessi, dalle nostre idee e aspirazioni anarchiche, ma percependo gli altri come «fattori di disordine» e non cose da assimilare o da presentare come se fossero — inconsapevolmente e sotterraneamente — ispirate dal sacro fuoco dell’anarchia, bensì semplicemente come elementi che hanno un loro peso e un significato nella guerra concreta (e non platonica o idealista) condotta dagli esseri umani. Una guerra «sociale», se si vuole, nel senso che attraversa l’intera società e ruota pur sempre attorno alla questione del potere (in tutte le sue declinazioni), e in cui gli anarchici sono coloro che difendono la necessità della distruzione del potere anziché la sua riorganizzazione. Questa «guerra sociale» non è l’espressione della tensione verso la «liberazione totale» né verso «l’anarchia», essa costituisce solo il conflitto da cui emergono e si modificano i rapporti sociali, che a loro volta forgiano le modalità della «guerra sociale». Le motivazioni espresse, tacitamente o esplicitamente, da chi è coinvolto in questa guerra devono allora essere ricollocate nel loro contesto storico, e non estratte per compararle nel pantheon delle astrazioni. Senza beninteso negare il loro peso, questa seconda possibilità (scusate lo schematismo troppo grossolano) non considera tali motivazioni l’unico riferimento, il solo indizio della realtà, ma uno fra i tanti. L’esigenza di stabilire una genealogia degli «atti di rivolta», di sondare le motivazioni dei loro autori, si fa qui sentire di meno — proprio come l’esigenza di rivestire sistematicamente di spiegazioni i propri di atti. Le spiegazioni degli atti singolari lasciano allora posto all’elaborazione di una progettualità che tenta di andare oltre ciascuno di essi, e il fatto che questa progettualità abbia finalità insurrezionali (lo scatenamento di una situazione di rottura) o altre ancora, non farà necessariamente grossa differenza. È vero, come sottolineano certi critici, che ciò potrebbe portare a scartare del tutto il peso delle motivazioni, col rischio di non considerare tale fattore, che non è certo l’unico ma che comunque resta. In questo caso, se le «motivazioni» dietro agli atti di rivolta non sono l’elemento esclusivo che potrebbe interessare gli anarchici per ciò che esse generano, ciò non dovrebbe però spingere a negare completamente la loro influenza nella realtà della guerra sociale.
La prima consiste nel considerare che, poiché nessun altro oltre a noi condivide le idee anarchiche (almeno nella loro completezza che le differenzia fortemente da ideologie che si possono più o meno fare a pezzi a seconda della situazione e dell’inclinazione del momento), l’insieme degli «atti di rivolta», di «brevi del disordine», di «frammenti di guerra sociale» — poco importa come vogliamo chiamarli — sono sicuramente parte del panorama in cui agiamo, il fondo della trama, ma occorre stare ben attenti a non fornir loro delle motivazioni. Poi, via via che le motivazioni sfuggiranno dalla penombra della foresta dando un colore specifico a questi atti, colore che in linea di principio non ci piacerà mai del tutto (dato che gli anarchici sono gli unici a condividere le idee anarchiche), avremo sempre più bisogno di affermare o di chiarire le nostre intenzioni e motivazioni rispetto a quelle degli altri. Perché qualsiasi silenzio da parte nostra potrebbe portare acqua al mulino di chi non condividiamo. Saremo allora costretti ad accendere torce in mezzo alla foresta, e fare in modo che i roghi che appicchiamo ardano ancora più forti, più alti e più luminosi di quelli degli altri. Correndo quindi il forte rischio che l’identità anarchica diventi in realtà la nostra principale preoccupazione, che si finisca con l’instaurare (anche all’interno della nostra stessa cerchia) una sorta di catechismo che determina i punti positivi e negativi, non riuscendo più a cogliere in definitiva la diversità e la ricchezza delle individualità come un frutto della libertà, ma come una terribile minaccia.
La seconda possibilità resta quella di partire sempre da noi stessi, dalle nostre idee e aspirazioni anarchiche, ma percependo gli altri come «fattori di disordine» e non cose da assimilare o da presentare come se fossero — inconsapevolmente e sotterraneamente — ispirate dal sacro fuoco dell’anarchia, bensì semplicemente come elementi che hanno un loro peso e un significato nella guerra concreta (e non platonica o idealista) condotta dagli esseri umani. Una guerra «sociale», se si vuole, nel senso che attraversa l’intera società e ruota pur sempre attorno alla questione del potere (in tutte le sue declinazioni), e in cui gli anarchici sono coloro che difendono la necessità della distruzione del potere anziché la sua riorganizzazione. Questa «guerra sociale» non è l’espressione della tensione verso la «liberazione totale» né verso «l’anarchia», essa costituisce solo il conflitto da cui emergono e si modificano i rapporti sociali, che a loro volta forgiano le modalità della «guerra sociale». Le motivazioni espresse, tacitamente o esplicitamente, da chi è coinvolto in questa guerra devono allora essere ricollocate nel loro contesto storico, e non estratte per compararle nel pantheon delle astrazioni. Senza beninteso negare il loro peso, questa seconda possibilità (scusate lo schematismo troppo grossolano) non considera tali motivazioni l’unico riferimento, il solo indizio della realtà, ma uno fra i tanti. L’esigenza di stabilire una genealogia degli «atti di rivolta», di sondare le motivazioni dei loro autori, si fa qui sentire di meno — proprio come l’esigenza di rivestire sistematicamente di spiegazioni i propri di atti. Le spiegazioni degli atti singolari lasciano allora posto all’elaborazione di una progettualità che tenta di andare oltre ciascuno di essi, e il fatto che questa progettualità abbia finalità insurrezionali (lo scatenamento di una situazione di rottura) o altre ancora, non farà necessariamente grossa differenza. È vero, come sottolineano certi critici, che ciò potrebbe portare a scartare del tutto il peso delle motivazioni, col rischio di non considerare tale fattore, che non è certo l’unico ma che comunque resta. In questo caso, se le «motivazioni» dietro agli atti di rivolta non sono l’elemento esclusivo che potrebbe interessare gli anarchici per ciò che esse generano, ciò non dovrebbe però spingere a negare completamente la loro influenza nella realtà della guerra sociale.
Azioni che parlano da sole?
«Niente di ciò che viene pronunciato appare
tanto carico di minaccia quanto il non-pronunciato»
Stig Dagerman
Stig Dagerman
In una realtà complessa come la nostra le cose sono ovviamente ancor più complicate e finiscono anche per gettare nella confusione ogni schematismo e ansia, richiedendo ulteriori riflessioni.
Se da un lato il mutismo degli insorti può talvolta finire per offuscare il peso delle motivazioni, dall’altro risponde anche all’esigenza pratica di non fornire indizi al nemico statale. Allo stesso modo, se da un lato difficilmente si può dubitare della necessità di chiarire le ragioni in un contesto confuso, ovvero in un contesto di aspro malcontento che incontra una proiezione strategica dei neofascisti (come nell’attuale opposizione al pass sanitario e negli attacchi contro strutture come i centri vaccinali), dall’altro occorre restare lucidi sul peso relativo delle parole e di ciò che riescono ad esprimere e a trasmettere. Ciò vale ovviamente per qualsiasi espressione linguistica, dal manifesto al volantino passando per la discussione, e fino ad un giornale o ad una rivendicazione: tutte sono condizionate dall’altrui capacità di comprendere ciò che viene scritto o detto.
Se, ad esempio, vogliamo continuare a poter apprezzare le azioni altrui quali differenti espressioni in seno alla «guerra sociale» — dagli attacchi contro la polizia nelle periferie fino ai sabotaggi anonimi di infrastrutture — dobbiamo allora trovare un altro modo per farlo, che non sia semplicemente quello di pesarle sul bilancino dell’anarchismo. Altrimenti dovremo deciderci una volta per tutte ad evocare solo azioni debitamente rivendicate da anarchici, unico modo per evitare alla radice ogni rischio di speculazione, di valutazioni affrettate e di malsane inquisizioni — sapendo che ciò sarebbe solo provvisorio, giacché l’anarchico che ieri ha compiuto una bella azione potrebbe anche rivelarsi oggi una merda nei suoi rapporti quotidiani o cambiar bandiera domani…
In ogni modo, rimane ovviamente importante prendersi il tempo per approfondire in maniera critica il nostro rapporto con gli altri esseri della foresta, così come il nostro modo di agire. Per contro, se in effetti non esiste nessuna ricetta da applicare né vulgata da raccontare, non possono esserci neanche consegne da rispettare sul «come fare», pena l’essere accusati di volersi nascondere dietro immondi nazistoidi o altri fanatici. Nessuno, nemmeno il più ottuso fra loro, può tentare di imporre alle compagne e ai compagni l’obbligo di motivare le loro azioni, di spiegare e giustificare in dettaglio i loro progetti, di etichettare le loro azioni in base a certi requisiti, solo per evitarsi l’acredine di un qualunque cronista della guerra sociale. Spetta comunque a ciascuno agire come meglio crede. A costo di lasciare gli uni nell’ignoranza e nell’incomprensione, e di preservare l’ombra per coprire le attività degli altri. O a costo di deludere gli uni con una esibizione ritenuta troppo indelicata, e di ispirare gli altri con l’affermazione chiara e precisa delle idee e dei sentimenti che hanno ispirato un’azione.
Se da un lato il mutismo degli insorti può talvolta finire per offuscare il peso delle motivazioni, dall’altro risponde anche all’esigenza pratica di non fornire indizi al nemico statale. Allo stesso modo, se da un lato difficilmente si può dubitare della necessità di chiarire le ragioni in un contesto confuso, ovvero in un contesto di aspro malcontento che incontra una proiezione strategica dei neofascisti (come nell’attuale opposizione al pass sanitario e negli attacchi contro strutture come i centri vaccinali), dall’altro occorre restare lucidi sul peso relativo delle parole e di ciò che riescono ad esprimere e a trasmettere. Ciò vale ovviamente per qualsiasi espressione linguistica, dal manifesto al volantino passando per la discussione, e fino ad un giornale o ad una rivendicazione: tutte sono condizionate dall’altrui capacità di comprendere ciò che viene scritto o detto.
Se, ad esempio, vogliamo continuare a poter apprezzare le azioni altrui quali differenti espressioni in seno alla «guerra sociale» — dagli attacchi contro la polizia nelle periferie fino ai sabotaggi anonimi di infrastrutture — dobbiamo allora trovare un altro modo per farlo, che non sia semplicemente quello di pesarle sul bilancino dell’anarchismo. Altrimenti dovremo deciderci una volta per tutte ad evocare solo azioni debitamente rivendicate da anarchici, unico modo per evitare alla radice ogni rischio di speculazione, di valutazioni affrettate e di malsane inquisizioni — sapendo che ciò sarebbe solo provvisorio, giacché l’anarchico che ieri ha compiuto una bella azione potrebbe anche rivelarsi oggi una merda nei suoi rapporti quotidiani o cambiar bandiera domani…
In ogni modo, rimane ovviamente importante prendersi il tempo per approfondire in maniera critica il nostro rapporto con gli altri esseri della foresta, così come il nostro modo di agire. Per contro, se in effetti non esiste nessuna ricetta da applicare né vulgata da raccontare, non possono esserci neanche consegne da rispettare sul «come fare», pena l’essere accusati di volersi nascondere dietro immondi nazistoidi o altri fanatici. Nessuno, nemmeno il più ottuso fra loro, può tentare di imporre alle compagne e ai compagni l’obbligo di motivare le loro azioni, di spiegare e giustificare in dettaglio i loro progetti, di etichettare le loro azioni in base a certi requisiti, solo per evitarsi l’acredine di un qualunque cronista della guerra sociale. Spetta comunque a ciascuno agire come meglio crede. A costo di lasciare gli uni nell’ignoranza e nell’incomprensione, e di preservare l’ombra per coprire le attività degli altri. O a costo di deludere gli uni con una esibizione ritenuta troppo indelicata, e di ispirare gli altri con l’affermazione chiara e precisa delle idee e dei sentimenti che hanno ispirato un’azione.
Perché, alla fin fine, le azioni parlano davvero da sole? Da un lato sì, nel senso che sono la manifestazione di un attacco concreto contro una struttura o una persona concreta. La distruzione di un traliccio è la distruzione di un traliccio, poco importa come si vorrebbe interpretarla. Dall’altro no, perché non possono esprimere di per sé tutte le motivazioni, le tensioni, le sensibilità che hanno spinto gli autori a realizzarle. Quindi le azioni sono ciò che sono, un fatto materiale distruttivo che può ispirare o aprire l’immaginazione (oppure no), né più né meno. Allo stesso tempo, sono anche tutti questi atti a costituire il panorama in cui si agisce, e di cui si fa parte. Essi assumono quindi il loro significato anche in un contesto, e non solo grazie all’eventuale espressione esplicita degli autori. Disturbando, interrompendo, mettendo in discussione la vita di altre persone, non potranno mai essere proprietà esclusiva dei loro autori, così come gli autori non saranno mai i soli ad attribuire ad esse un senso (poco importa che sia per apprezzarle o condannarle). Di fronte a ciò, il fatto di rivendicare o meno un’azione non cambia radicalmente la situazione. «Gli altri» non sono semplici spettatori passivi che subiscono senza batter ciglio sia gli atti che i significati che talvolta i loro autori vogliono dar loro: ne sono direttamente coinvolti visto che le loro vite vengono modificate (in modo più o meno passeggero) dall’azione, visto il disgusto o l’entusiasmo che può ispirare in loro, ecc. ecc.
Può allora una rivendicazione aiutare a comprendere un’azione? Ovviamente, così come potrebbe viceversa renderla incomprensibile ai suoi lettori, gonfiandola a tal punto o gravandola talvolta di così tante parole da farla quasi annegare in un trattato e seppellire il semplice suggerimento che essa contiene sempre: distruggiamo ciò che ci distrugge. E d’altro canto, il fatto di rivendicare ci mette davvero al riparo dalla possibilità di essere accomunati a persone poco raccomandabili? Considerato che la foresta è vasta e che le azioni risuonano ben più lontano e al di là delle nostre stesse parole (gli «effetti» della propaganda, attraverso i giornali anarchici o attraverso rivendicazioni anarchiche, saranno comunque relativi), si sarebbe piuttosto propensi a relativizzare questa convinzione, e in ogni caso a non considerare la rivendicazione una sorta di soluzione magica, un bicarbonato destinato a risolvere tutti i problemi posti dalle azioni e dalla loro possibile comprensione.
Può allora una rivendicazione aiutare a comprendere un’azione? Ovviamente, così come potrebbe viceversa renderla incomprensibile ai suoi lettori, gonfiandola a tal punto o gravandola talvolta di così tante parole da farla quasi annegare in un trattato e seppellire il semplice suggerimento che essa contiene sempre: distruggiamo ciò che ci distrugge. E d’altro canto, il fatto di rivendicare ci mette davvero al riparo dalla possibilità di essere accomunati a persone poco raccomandabili? Considerato che la foresta è vasta e che le azioni risuonano ben più lontano e al di là delle nostre stesse parole (gli «effetti» della propaganda, attraverso i giornali anarchici o attraverso rivendicazioni anarchiche, saranno comunque relativi), si sarebbe piuttosto propensi a relativizzare questa convinzione, e in ogni caso a non considerare la rivendicazione una sorta di soluzione magica, un bicarbonato destinato a risolvere tutti i problemi posti dalle azioni e dalla loro possibile comprensione.
Sinistra, destra, sinistra, destra: al di fuori!
«Il fatto che da settimane la sinistra vada a spasso mano nella mano con i fascisti/cospirazionisti dovrebbe metterci in guardia sul pericolo insito nell’idea di lotta comune, che ci induce a non badare a chi siano le persone con cui lottiamo, finché si hanno le stesse pratiche e lo stesso obiettivo. Dimentichiamo che queste persone di cui applaudiamo le azioni o con cui manifestiamo hanno posizioni opposte alle nostre su quasi tutto, e che noi in altri contesti saremmo il loro bersaglio»
(Refrattari solidali, rivendicazione contro
Orange a Grenoble, settembre 2021)
Da diversi mesi, buona parte dell’opposizione alle misure sanitarie restrittive del governo sembra essere guidata da personaggi di destra. Anche in altri paesi, come l’Italia, i Paesi Bassi o la Germania, i nazistoidi sono scesi in piazza numerosi e hanno chiaramente segnato la loro presenza nel corso delle mobilitazioni d’altronde molto eterogenee. In diverse occasioni gli anarchici sono stati persino attaccati da gruppi fascisti, e per fortuna è successo anche il contrario. Tuttavia, ritrovarsi sullo stesso terreno del conflitto non significa necessariamente essersi appropriati dell’indigesto vocabolario degli opportunisti in cerca di «fronti comuni» o teorizzanti «oggettive alleanze» come strategia politica. Pur avendo sempre la possibilità di sbattere la porta ed abbandonare un terreno di lotta che non ci sembra offrire alcuna possibilità di sovversione o di azione liberatrice, nessun conflitto potrà comunque mai corrispondere pienamente ai soli criteri anti-autoritari. Agire su un terreno conflittuale che non è «puro» (e quale lo sarebbe?) ovviamente non significa avallare l’autoritarismo che vi può essere presente, e la questione sarà sempre più quella di come agiamo, e in quale prospettiva.
Dall’altra parte del Reno, ci sono ampi settori della sinistra radicale e libertaria che accusano coloro che difendono gli attacchi anonimi contro le infrastrutture di telecomunicazioni o energetiche di fare «fronte comune» con i nazisti, o in ogni caso di giocare il loro gioco (dato che in generale i militanti nazisti pare siano poco inclini a rivendicare e teorizzino inoltre l’attacco alle infrastrutture al fine di accelerare il Tag X, il Giorno del crollo sociale e inizio della «guerra razziale»). Per di più, siccome buona parte del terreno dell’opposizione al 5G sembra essere colà occupato da comitati apertamente complottisti («Querdenker») e condiscendenti nei confronti dell’estrema destra, gli attacchi alle infrastrutture possono non essere più percepiti come sabotaggi al tecnomondo, ma come dimostrazioni della virulenza nazista. Dall’alto dei collettivi antifascisti e dei circoli di movimento vengono poi screditate le azioni non rivendicate, una volta sancito il principio para-poliziesco che «azione non rivendicata contro un’infrastruttura uguale azione nazista». Tanto più che alcuni di loro, da buoni adepti del progresso collettivo e civilizzatore, generalmente non riescono a concepire la portata sovversiva di attentati a quel «bene comune» che a loro dire sarebbe l’elettricità o la connettività virtuale.
Di fronte alle attuali ristrutturazioni tecnologiche del dominio, e da qualsiasi parte lo si prenda, una piccola frase di Orwell — di certo non un nemico di ogni autorità — resta di inquietante attualità: «La vera divisione non è fra conservatori e rivoluzionari, ma fra autoritari e libertari». Al di là del Reno, queste voci della sinistra radicale o libertaria tedesca non solo accusano gli anarchici di voler scatenare una «guerra civile» mediante attacchi alle infrastrutture (allo scopo principalmente di creare disordine e compromettere le catene tecnologiche, pratiche che possono anche far parte di una progettualità insurrezionale), ma poi, puntando il dito accusatore, insistono affinché tali attacchi siano perlomeno accompagnati da attestati politici di buona volontà («giustizia sociale» ed «emancipazione progressiva» invece di scatenamento della libertà, «contro i dominanti» ma comunque comprensivi nei confronti della sottomissione e dell’adesione dei dominati). Di fatto, chiedono solo la continuazione della buona vecchia tradizione opportunista che è sì disposta ad usare l’arma del sabotaggio, ma a condizione che serva da veicolo e da megafono ai propri disegni politici.
E se gli anarchici qui e altrove finissero per fare più o meno lo stesso? Per esigere spiegazioni sugli atti di sabotaggio delle infrastrutture, per distanziarsi di fatto da ogni atto che non sia rivendicato come «anarchico», per vedere solo la mano di nazisti, di complottisti — e perché no, era un classico dello scorso secolo: di servizi segreti stranieri — dietro sabotaggi i cui autori decidono di restare nell’ombra? In tal modo finirebbero così per rifiutare ogni propensione o volontà che auspichi e si adoperi a favore di una moltiplicazione incontrollata dei sabotaggi di infrastrutture di telecomunicazione, energia e logistica, per accettare e valorizzare unicamente la loro moltiplicazione sottomessa ad un controllo ideologico. Ciò significa difendere la libertà, o piuttosto temerla?
Il fatto che dei fascisti/cospirazionisti e perfino dei monaci abbiano attaccato alcuni ripetitori non toglie neanche un briciolo di validità al fatto di attaccare tali strutture, di voler incoraggiare i sabotaggi contro di esse, di desiderare ed operare per l’incontrollabile moltiplicazione di questi ultimi. D’altra parte, ciò potrebbe forse costringerci a riflettere di più sul perché queste azioni possano essere suggerite, sul perché vogliamo davvero che vengano diffuse, riflettere cioè per affinare le nostre prospettive. Se disertare i terreni dove anche altri sono attivi non è un’opzione, se timbrare sistematicamente le azioni non risolve la questione dello «stesso terreno», è perché bisogna cercare ancora più lontano: nella prospettiva che diamo al nostro agire, nelle idee che diffondiamo, nelle metodologie che suggeriamo, nei progetti che elaboriamo.
Dall’altra parte del Reno, ci sono ampi settori della sinistra radicale e libertaria che accusano coloro che difendono gli attacchi anonimi contro le infrastrutture di telecomunicazioni o energetiche di fare «fronte comune» con i nazisti, o in ogni caso di giocare il loro gioco (dato che in generale i militanti nazisti pare siano poco inclini a rivendicare e teorizzino inoltre l’attacco alle infrastrutture al fine di accelerare il Tag X, il Giorno del crollo sociale e inizio della «guerra razziale»). Per di più, siccome buona parte del terreno dell’opposizione al 5G sembra essere colà occupato da comitati apertamente complottisti («Querdenker») e condiscendenti nei confronti dell’estrema destra, gli attacchi alle infrastrutture possono non essere più percepiti come sabotaggi al tecnomondo, ma come dimostrazioni della virulenza nazista. Dall’alto dei collettivi antifascisti e dei circoli di movimento vengono poi screditate le azioni non rivendicate, una volta sancito il principio para-poliziesco che «azione non rivendicata contro un’infrastruttura uguale azione nazista». Tanto più che alcuni di loro, da buoni adepti del progresso collettivo e civilizzatore, generalmente non riescono a concepire la portata sovversiva di attentati a quel «bene comune» che a loro dire sarebbe l’elettricità o la connettività virtuale.
Di fronte alle attuali ristrutturazioni tecnologiche del dominio, e da qualsiasi parte lo si prenda, una piccola frase di Orwell — di certo non un nemico di ogni autorità — resta di inquietante attualità: «La vera divisione non è fra conservatori e rivoluzionari, ma fra autoritari e libertari». Al di là del Reno, queste voci della sinistra radicale o libertaria tedesca non solo accusano gli anarchici di voler scatenare una «guerra civile» mediante attacchi alle infrastrutture (allo scopo principalmente di creare disordine e compromettere le catene tecnologiche, pratiche che possono anche far parte di una progettualità insurrezionale), ma poi, puntando il dito accusatore, insistono affinché tali attacchi siano perlomeno accompagnati da attestati politici di buona volontà («giustizia sociale» ed «emancipazione progressiva» invece di scatenamento della libertà, «contro i dominanti» ma comunque comprensivi nei confronti della sottomissione e dell’adesione dei dominati). Di fatto, chiedono solo la continuazione della buona vecchia tradizione opportunista che è sì disposta ad usare l’arma del sabotaggio, ma a condizione che serva da veicolo e da megafono ai propri disegni politici.
E se gli anarchici qui e altrove finissero per fare più o meno lo stesso? Per esigere spiegazioni sugli atti di sabotaggio delle infrastrutture, per distanziarsi di fatto da ogni atto che non sia rivendicato come «anarchico», per vedere solo la mano di nazisti, di complottisti — e perché no, era un classico dello scorso secolo: di servizi segreti stranieri — dietro sabotaggi i cui autori decidono di restare nell’ombra? In tal modo finirebbero così per rifiutare ogni propensione o volontà che auspichi e si adoperi a favore di una moltiplicazione incontrollata dei sabotaggi di infrastrutture di telecomunicazione, energia e logistica, per accettare e valorizzare unicamente la loro moltiplicazione sottomessa ad un controllo ideologico. Ciò significa difendere la libertà, o piuttosto temerla?
Il fatto che dei fascisti/cospirazionisti e perfino dei monaci abbiano attaccato alcuni ripetitori non toglie neanche un briciolo di validità al fatto di attaccare tali strutture, di voler incoraggiare i sabotaggi contro di esse, di desiderare ed operare per l’incontrollabile moltiplicazione di questi ultimi. D’altra parte, ciò potrebbe forse costringerci a riflettere di più sul perché queste azioni possano essere suggerite, sul perché vogliamo davvero che vengano diffuse, riflettere cioè per affinare le nostre prospettive. Se disertare i terreni dove anche altri sono attivi non è un’opzione, se timbrare sistematicamente le azioni non risolve la questione dello «stesso terreno», è perché bisogna cercare ancora più lontano: nella prospettiva che diamo al nostro agire, nelle idee che diffondiamo, nelle metodologie che suggeriamo, nei progetti che elaboriamo.
Quale libertà?
«Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere»
La foresta dell’agire, aprile 2021
Quali prospettive elaborare, allora? Potremmo forse cominciare da quelle che riusciamo a comprendere, ma che ci ispirano di meno. Ad esempio, quella che spesso trapela tra le righe ma stenta ad esplicitarsi: si tratta della prospettiva che pone come obiettivo principale l’esistenza e il rafforzamento qualitativo e quantitativo del movimento anarchico. Un movimento più forte, più ampio, meglio organizzato, che sarebbe in grado di affrontare le forze oscure del fascismo, le manipolazioni complottiste di collera assai reale, le forze di sinistra il cui ruolo sembra proprio essere quello di accompagnare il capitalismo e il dominio verso futuri più sostenibili, più tecnologici, più equi. Un movimento che osi prendere se stesso come punto di riferimento, e sviluppi una capacità di diffusione, di attacco e di rilevanza sufficienti a costituire una forza reale, capace di pesare nel dibattito pubblico, di fare la differenza nelle lotte intermedie, di cacciare i nazisti dalle manifestazioni.
In una simile prospettiva, esiste un forte rischio che il rafforzamento quantitativo del movimento anarchico, anche difficilmente immaginabile (in fondo, pensiamo veramente che le idee anarchiche possano oggi essere condivise dalle masse?), finisca per accontentarsi della rappresentazione di tale rafforzamento. L’effetto-specchio incita facilmente all’esibizionismo, svuotando rapidamente la lotta per sostituirla con un’immagine presa per realtà. Alla fine, una tale prospettiva finisce in genere per puntare anzitutto sul rafforzamento dell’identità anarchica, per arrivare ai ferri corti… con gli altri abitanti della foresta. Così l’identità tenderà a gonfiarsi oltre misura, a sostituire la qualità della sostanza con la preminenza della forma, finendo per misurarsi per paragone, nello specchio della rappresentazione, con tutte le altre identità.
Restano tuttavia possibili altri percorsi, sicuramente un po’ più tenebrosi o pericolosi. Sentieri che non sono fatti per chi ha troppa paura del fango o non sopporta di lavorare nell’ombra. Sentieri al termine dei quali non esistono garanzie e nessun riconoscimento ci attende, che non considerano la mera esistenza degli anarchici e la loro sopravvivenza come l’alfa e l’omega della sovversione o dell’anarchia. È il cammino che si inerpica, scava e si insinua per far deragliare il treno del Progresso e della società attuale. Senza rinunciare alla diffusione delle nostre idee (attraverso vari strumenti), senza sottovalutare l’utilità e la necessità della critica anarchica, il cammino di cui parliamo mira soprattutto a contribuire allo sconvolgimento della situazione, all’esplosione insurrezionale, al crollo di quanto tiene in piedi le strutture produttive e sociali. Questo progetto, questa progettualità, non punta alla crescita numerica del movimento anarchico, né al potenziamento della sua reputazione, ma a far precipitare le situazioni conflittuali in un più ampio pandemonio, perché adoperarsi per la moltiplicazione incontrollata delle azioni e per l’imprevista disconnessione potrebbe consentire l’emergere della libertà, o meglio, è una delle possibilità per far decollare la libertà.
Il fatto che pure alcuni di cui non condividiamo le motivazioni si diano da fare, o che altri di cui non conosciamo affatto le motivazioni vi si dedichino, non suscita in noi un timore paralizzante, né ci induce a partecipare ad una spirale esibizionista (una trappola vecchia come il mondo, conosciuta e tesa da tutti i servizi segreti di ieri e di oggi), ma ci spinge piuttosto ad affinare ulteriormente i nostri suggerimenti, la nostra progettualità, la nostra etica. E soprattutto, ad approfondire sempre più, con i nostri mezzi e le nostre modeste capacità, l’urgente demolizione dell’attuale società.
In una simile prospettiva, esiste un forte rischio che il rafforzamento quantitativo del movimento anarchico, anche difficilmente immaginabile (in fondo, pensiamo veramente che le idee anarchiche possano oggi essere condivise dalle masse?), finisca per accontentarsi della rappresentazione di tale rafforzamento. L’effetto-specchio incita facilmente all’esibizionismo, svuotando rapidamente la lotta per sostituirla con un’immagine presa per realtà. Alla fine, una tale prospettiva finisce in genere per puntare anzitutto sul rafforzamento dell’identità anarchica, per arrivare ai ferri corti… con gli altri abitanti della foresta. Così l’identità tenderà a gonfiarsi oltre misura, a sostituire la qualità della sostanza con la preminenza della forma, finendo per misurarsi per paragone, nello specchio della rappresentazione, con tutte le altre identità.
Restano tuttavia possibili altri percorsi, sicuramente un po’ più tenebrosi o pericolosi. Sentieri che non sono fatti per chi ha troppa paura del fango o non sopporta di lavorare nell’ombra. Sentieri al termine dei quali non esistono garanzie e nessun riconoscimento ci attende, che non considerano la mera esistenza degli anarchici e la loro sopravvivenza come l’alfa e l’omega della sovversione o dell’anarchia. È il cammino che si inerpica, scava e si insinua per far deragliare il treno del Progresso e della società attuale. Senza rinunciare alla diffusione delle nostre idee (attraverso vari strumenti), senza sottovalutare l’utilità e la necessità della critica anarchica, il cammino di cui parliamo mira soprattutto a contribuire allo sconvolgimento della situazione, all’esplosione insurrezionale, al crollo di quanto tiene in piedi le strutture produttive e sociali. Questo progetto, questa progettualità, non punta alla crescita numerica del movimento anarchico, né al potenziamento della sua reputazione, ma a far precipitare le situazioni conflittuali in un più ampio pandemonio, perché adoperarsi per la moltiplicazione incontrollata delle azioni e per l’imprevista disconnessione potrebbe consentire l’emergere della libertà, o meglio, è una delle possibilità per far decollare la libertà.
Il fatto che pure alcuni di cui non condividiamo le motivazioni si diano da fare, o che altri di cui non conosciamo affatto le motivazioni vi si dedichino, non suscita in noi un timore paralizzante, né ci induce a partecipare ad una spirale esibizionista (una trappola vecchia come il mondo, conosciuta e tesa da tutti i servizi segreti di ieri e di oggi), ma ci spinge piuttosto ad affinare ulteriormente i nostri suggerimenti, la nostra progettualità, la nostra etica. E soprattutto, ad approfondire sempre più, con i nostri mezzi e le nostre modeste capacità, l’urgente demolizione dell’attuale società.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]