Author: avisbabel
Foresta Nera
Pecore nere
Nictalopi
In un periodo come questo decisamente particolare, cosa potrebbe invece discernere un organo che disprezza sia lo spirito da caserma che il terrorismo di Stato? A prima vista, tra una pandemia mortale che giustifica misure autoritarie di ogni genere, il rafforzamento di protesi tecnologiche dal lavoro alla scuola fino ad ogni relazione, un ambiente sempre più devastato e artificiale sotto i continui attacchi violenti dell’industria, o anche l’assenza di orizzonti utopici — questo «sogno non realizzato, ma non irrealizzabile» come lo definiva un celebre «proiettile autoricida lanciato sul selciato dei civilizzati» — è vero che i tempi sembrano più propizi ai nuvoloni del dominio che alla tempesta sociale. E che si potrebbe quasi perdere il ricordo dei tempi andati, spazzato via in un lampo dal covid-19.
Dimenticato il breve inizio d’insurrezione in Grecia di poco più di dieci anni fa, che aveva al tempo stesso segnato un possibile in seno alla vecchia Europa e mostrato i limiti dell’assenza di prospettive rivoluzionarie che andassero oltre una semplice estensione di sommosse? Dimenticate le possibilità aperte tre anni dopo dai vari moti dall’altra parte del Mediterraneo, annegati nel sangue delle guerre civili, schiacciati sotto lo stivale militare o soffocati dalle sirene religiose e democratiche? Dimenticato il sollevamento in Cile di appena un anno fa, così potente nei suoi atti mescolanti espropri e distruzioni massicce davanti ai militari, ma arretrando all’ultimo minuto per non varcare la soglia dell’irreparabile ignoto, in un territorio ancora traumatizzato da un passato feroce? Dimenticate le recenti sommosse nordamericane contro la polizia, capaci per una volta di superare puntualmente le antiche divisioni iniziando a mettere in discussione uno dei pilastri del dominio, senza riuscire tuttavia a intaccare tutti gli altri, se non dall’azione rabbiosa di poche minoranze? Dimenticato anche il famoso movimento dei gilet gialli, di certo profondamente legato alla richiesta di uno Stato migliore, pur essendo in grado in nome stesso del suo postulato riformista di trovare il gusto spontaneo della rivolta di fronte a quello in carica, o quello dei sabotaggi contro varie strutture del potere mediante l’auto-organizzazione in piccoli gruppi diffusi? Un esempio tuttavia promettente di identificazione delle strutture del nemico, che non si accontentava di caselli autostradali, di centri d’imposte o di radar, ma aveva ad esempio spinto l’esplorazione fino alle antenne, alle case di rappresentanti eletti o agli impianti elettrici di aree industriali e commerciali.
I cuori gonfi di rabbia sarebbero stati quindi colpiti all’improvviso da amnesia durante i ripetuti confinamenti a furia di analizzare l’orrore del mondo da dietro gli schermi, e soprattutto non riuscendo a uscire in strada per attaccarlo? O viceversa è possibile che, sebbene straziati dal prezzo da pagare per tutti questi entusiasmanti processi non conclusi, essi non si siano tuttavia rassegnati di fronte a quanto tali momenti di rottura comportano sia di gioia distruttiva collettiva che di riappropriazioni individuali della propria esistenza? Quando un demone della rivolta diceva che le rivoluzioni sono fatte per tre quarti di fantasia e per un quarto di realtà, non era certo per accontentarsi di sezionare all’infinito quest’ultima a ritroso allo scopo di affinare il nostro agire, ma perché sapeva che questa preziosa fantasia vissuta può arrivare a sconvolgere una vita intera dandole ben altra ragione che quella di ritardare la morte il più a lungo possibile. Allora, se fosse vero che si vede bene solo con il cuore, il nostro sempre ardente potrebbe solo constatare che la gestione autoritaria di questa pandemia e le sue conseguenze in termini di ristrutturazione economica come di accelerazione tecnologica non giunge in un momento qualsiasi, ma pure per contrastare questi ultimi dieci anni di sollevamenti, insurrezioni e rivolte nel tentativo di chiudere pagina.
Di fronte alla miseria dell’esistente si può ripetere a iosa che l’ordine non agisce mai da solo, che le sole battaglie perse in anticipo sono quelle mai combattute, che non sono i rivoluzionari a fare le rivoluzioni, o che quando si accumulano insoddisfazione e malcontento a volte basta una scintilla per far esplodere la polveriera dei rapporti sociali (che sia una guerra persa dallo Stato, l’aumento del prezzo dei trasporti, la gestione contestata di un’epidemia, l’immolazione di un venditore ambulante, un nuovo drastico piano economico di bilancio, un ennesimo omicidio della polizia…). Tutto ciò è giusto, ma al di là delle manifestazioni di rabbia che il potere intende ora seppellire sotto il peso dell’emergenza sanitaria si sta sviluppando anche un altro movimento, sempre meno invisibile eppure essenziale, nonostante ciò che potrebbe dire la volpe del racconto.
Si tratta di quello composto da individui e piccoli gruppi che hanno preso atto che di fronte alla catastrofe climatica, il disastro è il sistema industriale stesso e che è meglio occuparsene alla fonte (energetica). Che di fronte all’alienazione o al controllo tecnologico, il problema deve essere risolto alla radice tagliandogli le vene. Che di fronte al moloch statale e alla sua crescente militarizzazione contro i rivoltosi, è tempo di prendere l’iniziativa secondo i propri tempi in maniera asimmetrica, senza più attendere movimenti sociali che debordino dai contesti istituiti prima di estinguersi.
È il caso, ad esempio, dei sabotaggi incendiari che attaccano incessantemente gli impianti elettrici che alimentano le pompe della miniera di lignite a cielo aperto che sta distruggendo la foresta di Hambach (Germania), dei recenti sabotaggi e blocchi contro la costruzione del gasdotto costiero Coastal GasLink nella Columbia Britannica (Canada), del sabotaggio dello scorso ottobre in Toscana (Italia) contro l’impianto di perforazione previsto per l’installazione di un nuovo parco eolico, o dell’incendio negli uffici dello sfruttatore statale forestale ONF ad Aubenas (Ardèche) all’inizio di ottobre. Per non parlare di tutti gli attacchi che da anni ritardano l’avanzamento del progetto di interramento di scorie nucleari a Bure, in particolare con l’ausilio di sabotaggi contro le perforazioni sulla vecchia linea ferroviaria destinata al cantiere di Cigéo e al trasporto dei rifiuti radioattivi. Tante belle energie sprigionate per danneggiare coloro che alimentano questo mondo mortifero.
Di che ispirare indubbiamente gli individui nictalopici che, ciascuno a modo proprio, continuano ad illuminare la notte per far deragliare i treni del dominio.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 36, 15 dicembre 2020]
All’alba di una nuova era
Oggi si può vedere molto chiaramente, col grosso balzo in avanti sperimentale legato alla pandemia del Covid19, a qual punto siano stati generalizzati i processi di automazione, anche nella maggior parte di regioni una volta considerate più secondarie all’interno dell’economia mondiale. Grazie alle tecnologie disponibili, è possibile ormai fare sempre più a meno del «lavoro manuale». La stragrande maggioranza dei processi produttivi sono oggi guidati e gestiti digitalmente. L’attuale esperienza di assegnare parti importanti dell’attività economica al «lavoro a distanza» permette di coglierne lo spaventoso potenziale. Siamo alla vigilia di ciò che il fondatore del WEF definisce, assieme ad altri «visionari», la «quarta rivoluzione industriale». Si tratta dell’integrazione e della convergenza delle tecnologie digitali, fisiche e biologiche in una nuova visione del pianeta e dell’umanità. L’industria 4.0 implica una connettività di massa (in particolare attraverso il 5G), l’intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione della logistica e del trasporto, le nano- e le bio-tecnologie, l’Internet delle Cose, le blockchain, l’ingegneria genetica e dei materiali, le reti energetiche intelligenti, ecc. Tutte tecnologie che sono «dirompenti», avendo cioè il potenziale di sconvolgere radicalmente i precedenti processi produttivi e le tecniche di accumulazione «tradizionali». Se da un lato il loro impatto sul clima si preannuncia disastroso, dall’altro perfino i grandi capitani dell’industria tecnologica da parecchi anni mettono in guardia dall’automazione che grazie alla tecnologia digitale e alla nuova tappa robotica provocherà una disoccupazione di massa mai vista.
Se buona parte dei processi produttivi nelle fabbriche sono già ampiamente automatizzati, anche altri settori stanno per subire analoghi cambiamenti. Secondo alcune stime, verso il 2035 potrebbero essere automatizzati l’86% di tutti gli impieghi nel settore della ristorazione, il 75% in quello del commercio e il 59% in quello dell’intrattenimento. Nel Regno Unito, nel periodo che va dal 2011 al 2017, con l’introduzione del pagamento tramite macchine è stato perso il 25% dei posti di lavoro alle casse dei supermercati. Il settore degli acquisti a distanza e delle consegne a domicilio è un altro settore in piena automazione, il cui grande modello è l’organizzazione del lavoro come avviene nei magazzini di Amazon o di Alibaba. Notevoli sperimentazioni sono in corso in diverse città in tutto il mondo per sostituire con robot e droni gli addetti umani alle consegne. Ulteriori stime più generali paventano una perdita del 54% degli posti di lavoro nei prossimi due decenni all’interno dell’Unione Europea, qualora l’espansione e lo sviluppo dell’automazione mantengano l’attuale ritmo. Pensiamo anche alla prevedibile generalizzazione delle stampanti 3D, che consentirebbero di sostituire gli operai che fabbricano oggetti con macchine che li stampano. Oppure alle possibilità aperte dagli algoritmi e dai Big Data per rimpiazzare gli impiegati agli sportelli e negli uffici, nella stipula di un contratto d’assicurazione o addirittura in una diagnosi medica effettuate in base a decisioni automatiche. È chiaro che la natura del lavoro cambierà negli anni a venire.
La questione del lavoro e dell’occupazione continuerà perciò ad essere prioritaria. L’indebitamento degli Stati che consente in particolare di concedere incentivi di sopravvivenza sotto forma di assistenza sociale o d’indennità agli espulsi dal mercato del lavoro può apparire una soluzione, ma la volatilità e l’instabilità permanente sui mercati finanziari non consentiranno di proseguire a lungo sulla strada intrapresa nel corso di tutto il secolo passato dai grandi Stati capitalisti. Le lotte a difesa dell’impiego non possono, ora più che mai, portare da nessuna parte. Del resto, assai raramente, per non dire mai, affrontano la vera domanda da porsi: vogliamo la perpetuità del sistema industriale che sta devastando il pianeta e i suoi abitanti? A cosa prestiamo la nostra «forza lavoro»? In tal senso, tutto il garbuglio di lotte «contro il capitale» spesso difese dalla sinistra è da criticare, ovvero da disertare radicalmente. Cosa è successo in questi ultimi tempi in Francia? L’annunciata delocalizzazione o la chiusura definitiva di fabbriche di automobili, di pneumatici, di aeronautica (civile e militare)? Di certo, la chiusura o la delocalizzazione di una nocività non impedisce la continuità della crescita mortifera, grazie soprattutto all’automazione, e in effetti ciò determina un potenziale impoverimento dei vecchi lavoratori. Ma «la difesa del posto di lavoro», l’accettazione sempre più massiccia delle nuove forme di (tele) lavoro da parte di sindacati e sfruttati, gli annunci grotteschi di un governo che vuole «rilanciare l’industria nazionale»… tutto ciò fa inesorabilmente parte di quanto bisogna combattere. Certo, una ristrutturazione della produzione comporta sempre la sua parte di instabilità e d’incertezza (questa instabilità è peraltro diventata il «sistema» nervoso centrale dell’economia contemporanea): da qui la necessità di passare all’offensiva e di non restare più a rimorchio dei conflitti di «retroguardia». Altrimenti finiremo per portare l’acqua a un mulino non solo decrepito, ma eticamente inaccettabile e praticamente obsoleto. Non dovremmo prestarci a difendere l’occupazione in una industria di aerei da caccia (come Airbus, tanto per fare un esempio), in un porto da sempre punto nevralgico per il commercio internazionale e in corso d’automazione totale, in una casa automobilistica, in una centrale nucleare, in una raffineria … Né dovremmo prestare le nostre (magre) forze a ciò che contribuisce al rinnovamento capitalista del mondo, come gli innumerevoli progetti definiti «sostenibili» su immagine dell’eolico industriale. Ciò che bisogna fare è cercare di attaccare la produzione stessa, con la prospettiva della sua distruzione (e non della sua riqualificazione o per strappare qualche concessione salariale). Prendendo di mira i nuovi progetti in corso, colpendo direttamente fabbriche e centri di produzione o sabotando ciò che ne permette il funzionamento (infrastrutture energetiche e di comunicazione, reti logistiche, interdipendenze varie e variegate). Quando i lavoratori, sfacchinando per preservare il proprio salario e soffrendo inoltre una panoplia di malattie causate dall’attività che svolgono, iniziano a distruggere gli strumenti di produzione (più o meno mortiferi), allora possono trovare in noi complici e individui solidali; se invece «lottano» per preservare quegli strumenti concedendo loro per di più la mistificazione di una certa «utilità sociale», non smetteremo di indicare e di attaccare le loro responsabilità nel mantenimento e nella difesa di un apparato produttivo che distrugge noi ed il pianeta. Men che meno la prospettiva di un’autogestione degli strumenti di produzione esistenti denota una prospettiva veramente rivoluzionaria: la sola prospettiva rivoluzionaria, sì, l’unica, è la distruzione della produzione, quindi del lavoro.
La «quarta rivoluzione industriale» non è una semplice evoluzione logica e lineare che seguirà la «terza». Spunta fuori in un momento in cui gli imprevisti e le incertezze si accumulano sulla testa. La disoccupazione di massa è solo uno di questi aspetti, e non necessariamente il più importante (il dominio non si è mai privato di sacrificare milioni di persone). Viceversa, il problema del clima si preannuncia sempre più pressante attraverso l’accelerazione di fenomeni inauditi (come incendi boschivi, tempeste devastanti, pandemie, estinzione esponenziale delle specie, ecc.); i limiti della disponibilità di un’energia a basso costo (soprattutto sotto forma di petrolio) fanno prevedere un collasso economico nel giro di pochi decenni (da qui d’altronde l’accelerazione delle «energie rinnovabili», benché alquanto insufficienti a fornire il combustibile necessario al mantenimento della crescita della megamacchina); la «perdita dell’anima», di ogni bussola, la crescente difficoltà di gestire le popolazioni (sempre più paesi del mondo si trovano in una sorta di stato permanente di guerra civile), la nascita di fondamentalismi di ogni tipo, le esplosioni di rabbia e disperazione che non corrispondono più ai contesti «tradizionali» della protesta — tutto ciò implica a diversi livelli delle soglie da superare incerte e potenzialmente pericolose per gli Stati, che si drogano a furia di sorveglianza di massa, di crescente militarizzazione, di strategie e forze anti-insurrezionali, di prigioni «intelligenti»…
Il terribile auspicio del fondatore del WEF che la «quarta rivoluzione industriale» finisca per «cambiarci» ci fa capire inoltre dove si situano i nuovi terreni dell’accumulazione e della depredazione capitalista. Perché non intende più soltanto indurre un consumismo frenetico, distruggere i resti di una certa autonomia o guidare i comportamenti mediante un’incessante propaganda. Le nuove tecnologie e industrie mireranno sempre più a «separarci dai nostri corpi e dalla nostra comprensione di noi stessi come facenti parte di una biosfera e di un bioritmo, in modo che ciò sia percepito sempre di più come qualcosa che si può acquistare, aggiornare e “riparare”, una serie di parti meccaniche sempre adattabili e intercambiabili» (The Fourth and Fifth Industrial Revolutions, nella pubblicazione 325, n. 12, estate 2020). In sostanza, la creazione di un essere dipendente dalla chirurgia, dai farmaci, dalla tecno-psichiatria e dai dispositivi, permanentemente connesso a grandi banche-dati, pur sottoposto ad influenze, suggestioni e imposizioni calcolate da algoritmi.
Dieci anni dopo le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, un erudito dava libero sfogo ai suoi peggiori timori riguardo le trasformazioni in corso dell’essere umano: «Creando la macchina pensante, l’uomo ha compiuto l’ultimo passo verso la sottomissione alla meccanizzazione, e la sua abdicazione finale davanti a questo prodotto del suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto di culto: un dio cibernetico. È vero che la nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca del Dio dell’uomo assiale: la certezza che questo demiurgo meccanico, i cui calcoli non potranno essere verificati umanamente, darà solo risposte corrette…». Cos’è questo «dio cibernetico», se non l’avvento dell’Intelligenza Artificiale? La corsa è decisamente iniziata, il moloch digitale si nutre giorno dopo giorno dei dati di cui ha bisogno per crescere in potenza, le macchine imparano giorno dopo giorno e aumentano la loro «capacità di autonomia» (vale a dire la possibilità di eseguire compiti complessi senza intervento umano), la potenza di calcolo necessaria aumenta sempre più spettacolarmente, i tentacoli di fibre ottiche e onde che collegano esseri umani, macchine, piante, terreni e oggetti si espandono rapidamente. Inoltre, gli scienziati all’opera nella creazione di questo demiurgo possono basarsi solidamente, in assenza di legittimità, su oltre un secolo di razionalità scientifica come unica fonte di verità (e, in ultima analisi, di valore), spazzando via tutto ciò che le si oppone come se fosse oscurantismo, fondamentalismo, pessimismo paralizzante.
L’ora dell’apparizione di questo «dio cibernetico» è forse molto più vicina di quanto si pensi, o forse è già qui, e cerca, passo dopo passo, di stabilirsi nel mondo piuttosto che di annunciare il suo definitivo avvento a suon di trombe. Quel che è certo è che la velocità con cui convergono i diversi settori della ricerca, della produzione e della gestione della popolazione è in forte aumento. Le fantasie tecnologiche di ieri stanno rapidamente diventando realtà. Chi avrebbe mai creduto che il sistema produttivo potesse davvero permettersi di far passare in un battibaleno un gran numero di impieghi al telelavoro senza mettere in pericolo i processi produttivi?
È difficile comprendere tutti gli aspetti che determineranno questa nuova era. Anche i visionari moderni vanno alla cieca. Ma certi processi stanno emergendo in maniera sempre più chiara nella nebulosa che darà vita a un nuovo mondo. L’installazione della rete 5G è sicuramente uno di questi, e c’è una battaglia che va intrapresa subito. Il 5G costituisce uno dei pilastri della trasformazione dell’economia e offrirà allo Stato uno strumento particolarmente potente di controllo della popolazione. È forse la «prima» battaglia di rilievo alla vigilia della «quarta rivoluzione industriale», una battaglia che vale la pena di combattere con tutta la creatività e l’audacia che abbiamo dentro di noi.
Un primo passo, insomma, per entrare in pieno nella danza e ritrovarsi in mezzo alle ostilità, faccia a faccia con un nemico che non smetterà di anestetizzare le coscienze ed il pensiero a furia di promesse terribilmente favolose.
La tirannia della flessibilità
Lewis Mumford, 1956
Questa premessa appare necessaria se si intende abbozzare, con devastanti conseguenze per l’idea, per il sogno dell’essere umano libero, ciò che della mentalità contemporanea è in procinto di dominare le relazioni e gli individui. Le modificazioni e i cambiamenti a livello economico, tecnologico e sociale hanno infatti assunto una tale velocità che qualsiasi tentativo di descrizione potrebbe rivelarsi del tutto vano. È un po’ come accade agli economisti più lucidi (e bisogna cercare bene per trovarne qualcuno in mezzo ai ciarlatani dell’utilità) che hanno rinunciato da almeno due decenni a fare ulteriori previsioni sullo sviluppo economico, rendendosi conto che la velocità del cambiamento è tale che qualsiasi previsione, già discutibile in partenza, non è altro che pura speculazione. Ciò non impedisce alle loro speculazioni di produrre effetti notevoli, come quelli che indicano oggi la scomparsa delle specie, ma più che di previsioni si tratta di self fulfilling prophecies (profezie che si auto-realizzano), un concetto d’altronde nato nell’ambito degli economisti. In ogni caso, i cambiamenti nei comportamenti quotidiani si diffondono e si generalizzano così rapidamente che presto non avremo più bisogno dell’iperbole critica di cui si serviva il filosofo tedesco del secolo scorso per mettere in guardia dal fallimento morale che comporta la tecnologizzazione del mondo.
Dopo un primo periodo di caotico e selvaggio sviluppo dell’industria che ha devastato ciò che generalmente veniva ritenuto immutabile sebbene questo stato stesso avesse una sua storicità, l’industrializzazione ostentava le sue prodezze tecniche mentre si rivelava del tutto incapace di mascherare la miseria e l’angoscia che dispensava con le sue miniere e le sue fabbriche, dando impulso per altro a correnti politiche aspiranti ad una regolamentazione. Sia che si tratti del socialismo, con l’idea di un’economia pianificata in funzione dei bisogni della società-Stato; o del liberalismo democratico, con l’idea di un’economia di mercato regolata da uno Stato-arbitro rappresentante i differenti interessi; o del fascismo, con l’idea di un’economia corporativista: tutte queste correnti di massa hanno cercato di fornire una risposta agli assalti della tecnica e agli inediti sconvolgimenti che ne derivano. Il «vuoto morale» generato dalla disumanizzazione dei rapporti sociali non poteva che ricevere, da destra come da sinistra, una risposta da caserma. Parallelamente all’implicita standardizzazione indotta dalle tecniche industriali dell’epoca, i rapporti sociali a loro volta avrebbero seguito lo stesso percorso. L’intera società cominciava ad assomigliare ad una vasta caserma che non aveva più nulla da invidiare al conformismo delle precedenti società contadine, grazie ad una cultura uniformante che prese slancio durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il consumo di massa veniva allora concepito come una forza molto più potente di arruolamento, livellamento e coesione. La mentalità della fabbrica era una mentalità rigida, inflessibile, con orari cadenzati senza eccezioni (si pensi ad esempio allo sradicamento dell’usanza del Lunedì Santo). In cambio di una vita così triste, si profilava infine all’orizzonte un certo benessere materiale per sempre più strati oppressi dalla società industriale.
Negli anni 70 questa mentalità avrebbe finito per incrinarsi e vacillare, soprattutto sotto l’assalto dei disadattati, degli insoddisfatti, dei sognatori e dei giovani ribelli, con grande sorpresa dei vecchi rivoluzionari da caserma i quali pensavano che ridipingere i muri potesse bastare alla felicità di massa. Rifiuto del lavoro (non creativo), rifiuto delle abitudini rigide, rifiuto della standardizzazione e dell’uniformità, rifiuto di un’identità ancorata al luogo di produzione. Dopo aver eliminato i residui sovversivi contenuti in quegli assalti, dopo aver assassinato, rinchiuso e frantumato le minoranze rivoluzionarie spesso ancora portatrici di certe teorie da caserma (marxismo, leninismo, socialismo di Stato…), questo slancio proteiforme avrebbe incontrato il triste destino di essere assorbito, una volta mutilato e amputato, all’interno di una vasta ristrutturazione della società nel suo insieme. Oggi, questo movimento sembra sul punto di realizzarsi. Gli antichi equilibri economici sono stati trasformati, le mentalità incompatibili con i nuovi modelli di produzione sono state eliminate o isolate, il terreno per far crescere un altro capitalismo occidentale è stato fertilizzato a furia di delocalizzazione, di smantellamento delle grandi strutture produttive e dei loro corollari politici (sindacati, partiti, ecc.), di automazione, di ridefinizione del rapporto tra lavoro e fuori-lavoro (sfumandone i confini), di una certa liberalizzazione dei costumi, ecc.
In ogni caso, la mentalità da caserma d’altri tempi sembra essere oggi più retrograda che mai. La rigidità moralista, basata sui modelli cristiani, ha lasciato posto ad un consumismo per cui la mercificazione di tutti i settori della vita, fino a quelli più intimi, è diventata la norma. E la brutale accelerazione di questi profondi cambiamenti non avrebbe potuto prodursi (senza provocare, potenzialmente, insurrezioni in grado di aprire le porte dell’ignoto), non avrebbe potuto avvenire senza l’introduzione e la generalizzazione delle tecnologie all’interno di tutti i settori della società.
Vale sempre la pena di ripeterlo. L’industrialismo, le tecnologie, non sono responsabili solo della devastazione e dell’intossicazione duratura del pianeta e dei suoi abitanti. Implicano anche una mentalità che ha il pregio paradossale di presentare molti aspetti di libertà svuotandoli completamente dall’interno, cioè rendendoli incapaci di aspirare alla libertà. Un liberalismo funzionale che è l’esatto opposto del rapporto anarchico con quest’ultima. Oggi, nel nuovo mondo, non si parla ad esempio di luoghi di lavoro, ma di open space. Non si parla di produzione, ma piuttosto di creazione. Non ci si rivolge ai dipendenti, ma ai collaboratori. Non si provoca obbedienza, ma partecipazione. Ovunque questa nuova mentalità, determinata a farla finita con le ultime roccaforti dell’industrialismo «antiquato», fiorisce, prende slancio, riunisce risorse e capitali per «irrompere» sui mercati. E questo cambia tutto, capovolge tutto. Ad una velocità incredibilmente elevata. Chi avrebbe mai pensato che il piccolo piacere colpevole del sabato sera, dopo una dura settimana di sfruttamento, di ordinare una pizza consegnata a domicilio, sarebbe diventato un modello di nutrimento esteso ad un’infinità di altri campi? Che il «lusso» di passare una notte in albergo si sarebbe «democratizzato» fino a trasformare tutti gli appartamenti del mondo in potenziali suite d’albergo?
Col rischio di fissarci sull’albero piuttosto che sulla foresta, potremmo dire che la tecnologia che sta devastando profondamente quanto credevamo di conoscere dell’«essere umano» e del suo modo di relazionarsi con gli altri, è rappresentata da una sottile scatola metallica con uno schermo luminoso e tattile. Dopo la sua diffusione, impossibile fissare un appuntamento con qualcuno in anticipo. È troppo rigido, non rientra nella permanente flessibilità cui siamo condannati (o meglio, che si presume si voglia vivere come un misero surrogato di libertà). Difficile contare su un accordo preso, perché tutto è soggetto a un cambiamento dell’ultimo minuto, d’urgenza, in diretta. Complicato mantenere un segreto o una situazione vergognosa, perché tutto si condivide, va condiviso, pena l’essere asociale. Impossibile non precisare dove siamo, cosa facciamo, perché è la prima domanda che lo schermo o l’interlocutore ci pone prima di avviare quello che ormai passa per dialogo.
Ci si è quasi dimenticati che parlare con qualcuno faccia a faccia non è la stessa cosa che pronunciare parole con o su uno schermo, dietro il quale si trova possibilmente un essere umano. Che mettersi d’accordo con qualcuno non significa implicitamente che si possa cambiare all’ultimo minuto attraverso quella maledetta protesi tecnologica ciò che si era stabilito appena ieri. Abbiamo dimenticato che trascorrere del tempo con qualcuno esclude la presenza di questo fantasma che si intromette nelle relazioni a suon di rumori di chiamata e luminosità cangianti. Abbiamo dimenticato che non è possibile abbandonarsi ad una intensa, a volte sofferta, ma particolarmente umana attività di riflettere quando da un momento all’altro, come un prigioniero nella sua cella, può fare irruzione il guardiano tecnologico. Magari non ce ne siamo dimenticati, ma abbiamo semplicemente rinunciato, più o meno velocemente a seconda della nostra propensione al gregarismo o all’adattamento, stanchi ed esausti di resistere ancora alle sirene e alle sollecitazioni del padrone, della famiglia, degli amici che ci vogliono bene.
I rari «partigiani» che ancora bandiscono, o che semplicemente cercano di limitare drasticamente o ridurre la presenza del collare elettronico del cellulare, hanno vita dura. Non solo perché devono fare i salti mortali se sono in attesa di un contatto con un’istituzione, un’azienda, un proprietario, un medico qualunque (che chiameranno quando e come gli conviene), non solo perché quasi nessun lavoro è ormai disponibile senza essere costretti a comunicare permanentemente col capo e coi colleghi, non solo perché passano di mente gli inviti alle varie socialità (fissati quasi esclusivamente tramite il fantasma, e ovviamente all’ultimo minuto, soggetti agli eterni mutamenti di ora e di luogo…), non solo perché rischiano di perdere ogni contatto (se non rinnovano la loro presenza digitale, cessano di «esistere» agli occhi degli altri).
Hanno vita dura anche perché non è solo la caserma o il prete, non è solo la scuola o il lavoro a far loro subire tutto questo, ma anche i loro cari contribuiscono a questa tirannia della flessibilità. Anch’essi li espongono alla sottomissione dei bit e dei byte. Anch’essi impongono, a volte contro il loro volere e contro la loro (esplicita) volontà, una frequentazione obbligatoria e dolorosa con il fantasma-guardiano, costruendo, anello su anello, catena su catena, il collare tecnologico attorno al loro collo. In nome dell’amicizia, della compagnia, dell’amore, della condivisione, ovviamente. E forse è proprio questo l’aspetto più terribile. Come far capire ad un amico che non solo non sai parlare al telefono, ma che per di più non ti piace affatto farlo? Come far sì che la tua rabbia, la tua frustrazione, il tuo disgusto dopo l’ennesimo cambio di appuntamento per mezzo del fantasma-guardiano non passi per rigidità altezzosa, arroganza elitaria, incapacità di comprendere le preoccupazioni altrui? A volte si ha l’impressione, in mezzo agli ultimi dei Mohicani, che sia tutto vano. Stanchi di apparire irascibili e inflessibili, si finisce per accettare di diventarlo: infrequentabili, troppo rigidi e «per niente fighi».
All’inizio degli anni 90, un testo anarchico ci metteva già in guardia dall’arrivo della nuova mentalità forgiata nei laboratori del potere: flessibile, povera di contenuti e basata «sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può aggiustare». Questa mentalità «produce un degrado morale in cui la dignità dell’oppresso finisce per essere contrattata e svenduta dietro la garanzia di una penosa sopravvivenza». Laddove «tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire», l’anarchismo e gli anarchici non possono che adattarsi col rischio di scomparire in quanto tali. Ed è questo ciò che forse sta accadendo, anche se è difficile rendersene conto e per illustrarlo ci si riduce ad invocare un’immagine stupida e limitata come quella dell’uso generalizzato del collare comunicativo. Come hanno potuto degli anarchici diffondere seriamente non molto tempo fa una proposta come quella della connessione permanente per tentare di sfuggire alle sue nefaste conseguenze? Come ha potuto un qualsiasi anarchico finire con l’accettare di andare in giro in modo permanente con un microfono e un GPS addosso, ossia anche al di là di ogni «necessità» ritenuta inevitabile (come essere raggiungibile per lavoro, per esempio), esponendo non solo se stesso ad intercettazioni e tracciamenti inopportuni, ma anche qualsiasi persona nota o sconosciuta che entra nella gabbia dalle sbarre invisibili che si porta in tasca?
Alla fine degli anni 90 un saggio uscito dall’università ha avuto il merito di cogliere le caratteristiche del nuovo spirito: «L’immagine del camaleonte è tentatrice per descrivere il professionista che sa condurre i propri rapporti al fine di andare più facilmente verso gli altri», giacché «l’adattabilità è la chiave d’accesso allo spirito di rete». Ecco perché è «realista, in un mondo in rete, l’essere ambivalenti…, perché le situazioni che si devono affrontare sono esse stesse complesse ed incerte». Senza troppe ipocrisie, veniva riconosciuto che ciò equivale al «sacrificio… della personalità intesa nel senso di una maniera d’essere che si manifesterebbe con atteggiamenti e comportamenti simili quali che siano le circostanze». Insomma, «per sistemarsi in un mondo connessionista, bisogna mostrarsi sufficientemente malleabili». E chi non accettasse di diventarlo? Allora non ci sono dubbi, «la permanenza e, soprattutto, la permanenza in se stessi o l’attaccamento duraturo a dei “valori” sono criticabili in quanto rigidità incongrua, ovvero patologica. E, a seconda dei contesti, in quanto inefficacia, maleducazione, intolleranza, incapacità di comunicare».
Rifiutare la mentalità inculcata dalla scatola metallica e dal suo mondo pare significare scavarsi la fossa, rimanendo in disparte e dimenticati. Non essere connessi equivale ad essere asociali, cupi, intolleranti, rigidi. E non c’è dubbio che il prezzo da pagare per tentare di non farsi fagocitare dall’alta marea della tecnologia della «comunicazione» continuerà ad aumentare col passare delle stagioni e degli anni. Il fantasma-guardiano è diventato così inevitabile, sia che si resti tra i pochi disertori e refrattari che rifiutano di terrorizzarsi quotidianamente a suon di chiamate e messaggi, sia che ci si veda condannati a una solitudine simile a quella che recentemente descriveva un compagno cileno, come quella che va di pari passo con una esistenza trascorsa in clandestinità. Perché in fondo, forse si tratta proprio di una nuova forma di «clandestinità» da sperimentare: quella di sottrarsi ai tentacoli della piovra tecnologica. Non solo, ovvero non tanto per sfuggire alle malintenzionate attenzioni della macchina repressiva in divisa e in toga, quanto per combattere passo dopo passo una repressione quotidiana ben più importante, se così si può dire, che è l’adattamento al nuovo mondo da incubo in movimento. Privare la piovra delle sue antenne e delle sue fibre ottiche perderebbe infatti molto significato se si lasciasse, senza combattere, penetrare il suo veleno nelle nostre vene e in quelle dei nostri complici e cari.
«L’uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva un poeta sognatore dell’impossibile. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel duplice significato della parola: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo, bisogna disporre in noi di altro che non sia un riflesso. Ed è proprio questo aspetto dell’umano ad essere ora il bersaglio, assalto dopo assalto, del mondo tecnologizzato. Non si può combattere questo «nuovo umano», questo «uomo nuovo», questo zombi flessibile e connesso — e che cova in ognuno di noi — senza concepire, nel nostro intimo e all’interno dei nostri circoli di affinità, un mondo, un immaginario, un sogno che si distingua qualitativamente dal mondo-gabbia in cui siamo costretti a sopravvivere. Questo immaginario non può rimanere compartimentato nel nostro cervello e nel nostro cuore, a meno di soffocare per il dolore: deve anche invadere la realtà. Al di là delle lotte da intraprendere, delle azioni da considerare, dei conflitti a cui partecipare, o meglio, intimamente con essi, si pone una questione di etica pratica. Rifiutare per quanto possibile, e fino all’impossibile, l’invasione dell’elettronica, non coltivare la dipendenza dagli strumenti tecnologici, non adattarsi all’era dell’istantaneo. Continuare ad occuparsi dell’inchiostro sulla carta per aprirsi su qualcosa di diverso da una squallida riproduzione dell’esistente, appropriarsi del contenuto di questi oggetti quasi desueti che assorbono così rapidamente la polvere del tempo, per arricchire la propria unicità dall’esperienza limitata. Non contribuire all’impoverimento del linguaggio, creatore di mondi. Evitare il ricorso alla tecnologia per risolvere problemi che fino a ieri non ne avevano bisogno. Rifiutare, a costo di apparire obsoleti, intrattabili, irritanti, il modello del «nuovo umano» che si sta diffondendo intorno a noi.
Ecco il nuovo partigiano, un nuovo genere di clandestinità, necessaria per lottare, agire e respirare, in un mondo interamente connesso.
Guastafeste
Quando il sole e il vento…
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»
Tancredi, Il gattopardo (1958)
Come rendere la società industriale eterna? Ecco una domanda che i dirigenti del mondo sono ormai costretti a porsi in maniera diversa. Costretti, nel senso che certi modelli di sfruttamento rischiano di avvitarsi su se stessi qualora le società continuino a seguire lo stesso schema. Ogni estate le foreste vanno in fiamme in proporzioni sempre più apocalittiche, e fino al circolo artico. Le terre si inaridiscono. Le acque del mare salgono. Gli oceani si svuotano di pesci. L’inquinamento uccide irrimediabilmente la fauna e la flora, rendendo l’essere umano ancora più dipendente dall’industria farmaceutica per far fronte a ciò malgrado tutto. Più la devastazione avanza, e più l’artificializzazione del vivente viene accolta come la sola ed unica soluzione.
E in effetti è davvero la sola soluzione. In ogni caso per continuare sulla stessa strada. Regolare ancor più i territori, modificare geneticamente gli organismi, erigere dighe, riorganizzare foreste, fertilizzare il suolo con l’ausilio di prodotti industriali…: ecco le sole possibilità per dare un barlume di vita a ciò che è già morto. In nome della salvaguardia del pianeta, si distrugge quanto rimane ancora del pianeta per costruirne un simulacro. Qualcosa che ci assomiglia, ma non lo è. Essere o apparire, ecco la domanda, avrebbe potuto dire il famoso poeta inglese. La nostra epoca è votata ad essere quella dell’apparire e dei fantasmi. Ovunque, questa «derealizzazione» è in corso e diventa palpabile, inclusi i rapporti umani, fin nel più intimo dell’individuo sottomesso a questa corsa in avanti che lo mutila, lo adatta, lo rende artificiale, copia impoverita di ciò che, un tempo, avrebbe potuto essere.
Qualche decennio fa la Francia scelse fieramente l’onni-nucleare. Ormai installate dappertutto, le centrali erano promesse di un bell’avvenire quali garanti della famosa «indipendenza energetica» del paese. In effetti si è rivelato più «facile» tenere un pugno di ferro su un paese come il Niger, principale fornitore dell’uranio francese e anche uno dei paesi più poveri del mondo, che preservare posizioni strategiche sullo scacchiere petrolifero in Medio Oriente. Oggi il «ciclo francese» della produzione nucleare non è chiuso. Restano molte centrali sempre più vetuste — il cui smantellamento sarà solo un grande esperimento a cielo aperto senza garanzia di successo —, una irradiazione duratura di certe zone, e soprattutto le famigerate scorie, per cui attualmente non esiste alcuna soluzione, salvo sotterrarle e vedere nel tempo cosa accade. Il progetto di sotterramento delle scorie nucleari a Bure è quindi una delle chiavi di volta di tutto il progetto nucleare francese; ed è subito evidente perché la resistenza locale si scontri con una repressione che non intende risparmiare colpi. Una lotta particolarmente importante, come avrebbe dovuto essere quella contro quest’altra «perla» dell’atomo francese, lanciata nel 2006: il progetto ITER nella campagna provenzale, probabilmente uno dei progetti più ambiziosi nell’ambito energetico, sostenuto da 35 paesi, al fine di condurre delle ricerche, col 2035 come nuovo orizzonte pratico, sulla fusione nucleare (una tecnica sperimentale che cerca di imitare il sole fondendo piccoli nuclei atomici per liberare una gigantesca energia, cosa differente dalla fissione attualmente attuata nelle centrali, che «rompe» grossi atomi per recuperarne l’energia).
Ma senza attendere la realizzazione dei progetti a lungo termine dei nucleocrati, altri progressi tecnologici hanno fin d’ora permesso l’esplorazione di massa di «nuove» fonti energetiche, di cui quelle più emblematiche sono senza dubbio l’eolico, il fotovoltaico e ciò che è conosciuto con l’ingannevole nome di «biomassa», ovvero il buon vecchio procedimento di bruciare materiali organici per produrre calore (ed eventualmente elettricità). Nel bel mezzo del confinamento deciso per gestire la pandemia del Covid 19, lo Stato francese ha presentato la sua «programmazione pluriannuale dell’energia», una sorta di foglio stradale per lo sviluppo del settore energetico. Esibito come la dimostrazione degli sforzi dello Stato per andare verso una «transizione energetica» (ossia, ridurre le emissioni di CO2), questo progetto è soprattutto un indicatore per ciò che si dovrebbe, in gran parte, fare nei prossimi anni. Per cogliere l’ampiezza di questa «programmazione» (alla quale lo Stato nella sua migliore tradizione burocratica ha concesso un bell’acronimo che rischia di ritornare sovente nel discorso: PPE), sfortunatamente è inevitabile dare un’occhiata alle cifre dell’evoluzione proiettata fra il 2018 ed il 2028. Quando il progetto si riferisce all’energia, ciò include sia la produzione di calore e di elettricità che l’uso di idrocarburi (principalmente il petrolio). Così spesso vengono paragonati limoni e pere, ma sorvoliamo.
Concretamente, il «PPE» prevede un calo dei consumi d’energia del 15,4% all’orizzonte del 2028. Per ridurre questo consumo, prevede di produrre più che mai: l’industria dovrà produrre auto meno energivore, costruire edifici meglio isolati, installare reti di calore, sostituire camion e bus a diesel con veicoli a gas, ecc. Tutta questa produzione industriale 2.0 e 3.0 comporta ovviamente un importante uso di energia, e nessuno si sente di calcolare quanta energia sarà, in fin dei conti, veramente «economizzata» se si include la produzione di questi nuovi prodotti meno energivori. Ma se questo problema non viene mai discusso, esso rimane nondimeno fondamentale e impone una sola conclusione: quando si considera il sistema industriale nel suo insieme, non esiste nessuna maniera dolce di ridurre il consumo energetico. La sola maniera sarebbe fermare le macchine, abbandonare i bisogni indotti, rinunciare al modello di vita industriale, e un simile «avvenire» non viene ovviamente preso in considerazione, né nei gabinetti dei ministeri, né nella stragrande maggioranza delle case.
Continuiamo coi dati, perché di un certo interesse e un po’ più «palpabile» delle solite abituali chiacchiere sulla «decarbonizzazione» e sulla «transizione».
Nel 2018, con certi territori ormai completamente sacrificati, come il nord della Francia, il parco eolico che produce 15 Gigawatt. L’obiettivo per il 2028, ossia fra meno di dieci anni, è raddoppiare questa produzione passando a 33 Gw. Per avere una misura, il parco nucleare francese produce oggi circa 60 Gw. Dalle 8000 pale eoliche oggi installate, si passerà quindi nel 2028 a 14.500, ossia quasi il doppio, di cui una piccola parte (5 Gw) installata sul mare, soprattutto sulle coste bretoni.
Continuiamo. Nel 2018 la produzione fotovoltaica in Francia (sia i «parchi solari» che i pannelli solari installati sui tetti di aziende e case private) raggiungeva i 10 Gw; nel 2028, dovrà aumentare fino a 44 Gw, ossia quadruplicare. Infine, per rimanere nelle cosiddette «energie rinnovabili», c’è la filiera delle biomasse (il bio non si riferisce a una produzione «biologica», ma al fatto che si tratta di materie organiche). Dedicata soprattutto alla produzione di calore, questa filiera produce tuttavia anche elettricità. La metà di quanto viene bruciato sono rifiuti domestici, seguiti da combustibili solidi (legno, mais, colza) e infine biogas (metanizzazione dei rifiuti mediante fermentazione). Nel 2018, per 42 centrali in funzione, la filiera delle biomasse produceva meno di 1 Gw e aumenterà di poco da qui al 2028, sull’esempio dell’idroelettricità (22 Gw oggi, 26 Gw nel 2023 specialmente grazie ad una ottimizzazione delle dighe esistenti sul Rodano).
Conclusione del «PPE»: lo Stato punta sull’eolico ed il fotovoltaico, al fine di poter «chiudere» entro il 2028 quattro o sei reattori nucleari. Tuttavia, lo Stato è consapevole che «il consenso attorno all’eolico si indebolisce». Sulla scia della campagna di propaganda lanciata per promuovere il 5G, il PPE prevede quindi una grande campagna di «sensibilizzazione» per far accettare la costruzione eoliche un po’ dappertutto. Sapendo che tre progetti su quattro sono oggi oggetto di contestazioni diverse e varie (che comportano qualche ritardo, sebbene il 90% delle procedure giuridiche che contestano i parchi non giungano a termine — riservato ai maniaci del legalismo), è facile prevedere che la futura installazione di sempre più eoliche potrà provocare nuove resistenze. Esistono già un po’ dovunque collettivi e comitati, spesso di tendenza fastidiosamente cittadinista, che protestano contro tali progetti, siano essi nuovi o esistenti. Ma ancor più interessante è che un po’ dovunque vengono effettuati anche sabotaggi contro i pali che misurano il vento (indispensabili per installare un futuro parco eolico), contro le eoliche stesse, e contro i cantieri in corso. Tuttavia, vista la valanga di «critiche» anti-eoliche che sostengono al tempo stesso il nucleare, sembra importante immettere in questa resistenza un rifiuto netto di queste strutture… come del mondo conseguente. Opporsi alle eoliche senza criticare l’industrialismo e il modo di vita che ha generato, può condurre solo alla ricerca di altre strutture ancora, forse meno orribili da vedere, meno rumorose o meno sterminatrici di uccelli e di vegetazione, ma che avranno sempre l’obiettivo di garantire un avvenire alla società tecno-industriale. È la stessa trappola in cui sono caduti un buon numero di ecologisti ferocemente antinuclearisti, preconizzando lo sfruttamento del vento e del sole piuttosto che dell’atomo: oggi possono raccogliere ciò che hanno seminato.
Bisogna ancora insistere su quanto la produzione energetica sia fondamentale e «critica» per lo Stato e il capitale? Nel mondo intero, gli Stati corrono dietro alle sue fonti, conducono guerre, colonizzano territori allo scopo di assicurarsele. Oramai la corsa è comunque intrapresa per trovare delle «alternative» (o piuttosto dei complementi) al fine di rispondere a una domanda di energia sempre più crescente: gas di scisto, sabbie bituminose, olio di colza e di mais geneticamente modificati, centrali marine, eoliche, centrali solari fotovoltaiche, nanostrutturazione dei materiali conduttori… la ricerca è sfrenata e la competizione feroce. Dall’altro lato, gli Stati che possono permetterselo sviluppano in parallelo dei progetti per accrescere la resilienza delle loro reti energetiche, mettendo in guardia sulla vulnerabilità dell’economia e del dominio statale, molto dipendenti da una rete in fin dei conti troppo fragile considerati gli interessi che rappresenta.
Senza alcuna pretesa, cosa potrebbe fare allora un individuo, un pugno di individui, contro il mostro industriale? Magari non granché di decisivo da soli, e in ogni caso non abbatterlo. Ma molestarlo sì, ritardarne i progetti sì, disturbarlo all’eccesso sì — tutto ciò lo possono fare. Con mezzi semplici, molta immaginazione e un pizzico di coraggio. Quando il sole e il vento vengono messi al servizio del dominio, sono l’oscurità della notte e la calma dei cieli stellati a richiamarci. Si tratta più che mai di restare liberi e vivi in un mondo mortifero, di vivere risolutamente in un mondo in piena decomposizione…
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 31-32, 15 agosto 2020]
Small is beautiful?
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La moltiplicazione di rilevatori di calore con droni e termocamere, la modellizzazione epidemiologica mediante algoritmi di comportamenti sociali ed interazioni umane per registrare, sorvegliare e tracciare, alla fine non fanno altro che consacrare una misurazione di tutto ciò che non può essere risolto dagli individui singolari, per farli rientrare nei ranghi o isolarli. Per l’ennesima volta, se l’epidemia di covid-19 non è che il pretesto per accelerare e consolidare una griglia tecnologica e sociobiologica non prevista, costituisce nel contempo il suo schema ideale nel nome di ciò che è in gioco: il pericolo di una morte improvvisa che rinvia alla vita in sé e non alla sua qualità. È così che finiamo per belare «viva la vita» come qualsiasi mistico religioso, piuttosto che cercare di rafforzare ed estendere il legame tra quest’ultima e la rivolta contro l’esistente che le dà un senso.
Un simile progetto di massa non può beninteso funzionare in modo unilaterale grazie al solo manganello, e cosa c’è di meglio di un’epidemia col suo corteo di morti per poter contare sulla partecipazione di una maggioranza di cittadini impauriti che preferiscono la sicurezza alla libertà, la gerarchia accettata alla reciprocità senza delega, l’autorità rassicurante all’auto-organizzazione incerta? A titolo di esempio, gli occhi del potere che già si esercitavano a individuare ogni assembramento sospetto, a reprimere qualsiasi movimento incontrollato di massa, a regolare i comportamenti imprevedibili al di fuori della circolazione ordinaria non sono più soli: «mantenete la distanza» e che ognuno rimanga chiuso nel suo perimetro invisibile, rischia di diventare una delle ingiunzioni più banali, sia essa sbraitata da un drone poliziesco o borbottata da qualcuno perso nel suo schermo.
Il fatto che le misure di distanziamento sociale siano seguite ben oltre situazioni e relazioni interindividuali particolari, dal senso di colpa o dal riflesso di obbedienza, mantiene soprattutto l’illusione che questa società di concentramento e di flussi non sia la fonte dell’epidemia di covid-19, ma che sia sufficiente gestire bene questo momento adattandosi alle nuove condizioni perché tutto l’orrore di questo mondo possa continuare a propagarsi (quasi) come prima. Il diffuso rispetto per questo distanziamento da sé e dagli altri, insostenibile senza grossolane contraddizioni, è il risultato di un esercizio difensivo di temperanza e autodisciplina — integrato perfino in alcuni incontri o manifestazioni — che non solo non agisce contro l’esistente mortifero, ma per di più rafforza solo l’insieme delle separazioni che già lo attraversano. Separazioni in seno alla pienezza della vita per estrarne la sfera del lavoro che consenta l’economia, o quella del sapere condiviso che permetta l’educazione; completa separazione tra ciò che produciamo e le sue finalità; separazione, inoltre, tra il pensiero e l’azione, che apre la strada alla politica.
Una volta che la vita viene sezionata in pezzi catalogati e staccati gli uni dagli altri, una volta che il mondo interiore, il linguaggio e l’immaginario vengono ridotti a riprodurre un eterno presente col dominio come unico orizzonte, non restava ancora che distanziare radicalmente gli atomi fra di loro e con il loro ambiente immediato all’interno della massa informe: la crescente virtualizzazione dei rapporti vi sta in parte provvedendo, il distanziamento fisico generalizzato potrebbe completare questo lavoro di separazione dal reale, trasformando senza ritorno ciò che resta di direttamente sensibile in ognuno di noi.