Lewis Mumford, 1956
Questa premessa appare necessaria se si intende abbozzare, con devastanti conseguenze per l’idea, per il sogno dell’essere umano libero, ciò che della mentalità contemporanea è in procinto di dominare le relazioni e gli individui. Le modificazioni e i cambiamenti a livello economico, tecnologico e sociale hanno infatti assunto una tale velocità che qualsiasi tentativo di descrizione potrebbe rivelarsi del tutto vano. È un po’ come accade agli economisti più lucidi (e bisogna cercare bene per trovarne qualcuno in mezzo ai ciarlatani dell’utilità) che hanno rinunciato da almeno due decenni a fare ulteriori previsioni sullo sviluppo economico, rendendosi conto che la velocità del cambiamento è tale che qualsiasi previsione, già discutibile in partenza, non è altro che pura speculazione. Ciò non impedisce alle loro speculazioni di produrre effetti notevoli, come quelli che indicano oggi la scomparsa delle specie, ma più che di previsioni si tratta di self fulfilling prophecies (profezie che si auto-realizzano), un concetto d’altronde nato nell’ambito degli economisti. In ogni caso, i cambiamenti nei comportamenti quotidiani si diffondono e si generalizzano così rapidamente che presto non avremo più bisogno dell’iperbole critica di cui si serviva il filosofo tedesco del secolo scorso per mettere in guardia dal fallimento morale che comporta la tecnologizzazione del mondo.
Dopo un primo periodo di caotico e selvaggio sviluppo dell’industria che ha devastato ciò che generalmente veniva ritenuto immutabile sebbene questo stato stesso avesse una sua storicità, l’industrializzazione ostentava le sue prodezze tecniche mentre si rivelava del tutto incapace di mascherare la miseria e l’angoscia che dispensava con le sue miniere e le sue fabbriche, dando impulso per altro a correnti politiche aspiranti ad una regolamentazione. Sia che si tratti del socialismo, con l’idea di un’economia pianificata in funzione dei bisogni della società-Stato; o del liberalismo democratico, con l’idea di un’economia di mercato regolata da uno Stato-arbitro rappresentante i differenti interessi; o del fascismo, con l’idea di un’economia corporativista: tutte queste correnti di massa hanno cercato di fornire una risposta agli assalti della tecnica e agli inediti sconvolgimenti che ne derivano. Il «vuoto morale» generato dalla disumanizzazione dei rapporti sociali non poteva che ricevere, da destra come da sinistra, una risposta da caserma. Parallelamente all’implicita standardizzazione indotta dalle tecniche industriali dell’epoca, i rapporti sociali a loro volta avrebbero seguito lo stesso percorso. L’intera società cominciava ad assomigliare ad una vasta caserma che non aveva più nulla da invidiare al conformismo delle precedenti società contadine, grazie ad una cultura uniformante che prese slancio durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il consumo di massa veniva allora concepito come una forza molto più potente di arruolamento, livellamento e coesione. La mentalità della fabbrica era una mentalità rigida, inflessibile, con orari cadenzati senza eccezioni (si pensi ad esempio allo sradicamento dell’usanza del Lunedì Santo). In cambio di una vita così triste, si profilava infine all’orizzonte un certo benessere materiale per sempre più strati oppressi dalla società industriale.
Negli anni 70 questa mentalità avrebbe finito per incrinarsi e vacillare, soprattutto sotto l’assalto dei disadattati, degli insoddisfatti, dei sognatori e dei giovani ribelli, con grande sorpresa dei vecchi rivoluzionari da caserma i quali pensavano che ridipingere i muri potesse bastare alla felicità di massa. Rifiuto del lavoro (non creativo), rifiuto delle abitudini rigide, rifiuto della standardizzazione e dell’uniformità, rifiuto di un’identità ancorata al luogo di produzione. Dopo aver eliminato i residui sovversivi contenuti in quegli assalti, dopo aver assassinato, rinchiuso e frantumato le minoranze rivoluzionarie spesso ancora portatrici di certe teorie da caserma (marxismo, leninismo, socialismo di Stato…), questo slancio proteiforme avrebbe incontrato il triste destino di essere assorbito, una volta mutilato e amputato, all’interno di una vasta ristrutturazione della società nel suo insieme. Oggi, questo movimento sembra sul punto di realizzarsi. Gli antichi equilibri economici sono stati trasformati, le mentalità incompatibili con i nuovi modelli di produzione sono state eliminate o isolate, il terreno per far crescere un altro capitalismo occidentale è stato fertilizzato a furia di delocalizzazione, di smantellamento delle grandi strutture produttive e dei loro corollari politici (sindacati, partiti, ecc.), di automazione, di ridefinizione del rapporto tra lavoro e fuori-lavoro (sfumandone i confini), di una certa liberalizzazione dei costumi, ecc.
In ogni caso, la mentalità da caserma d’altri tempi sembra essere oggi più retrograda che mai. La rigidità moralista, basata sui modelli cristiani, ha lasciato posto ad un consumismo per cui la mercificazione di tutti i settori della vita, fino a quelli più intimi, è diventata la norma. E la brutale accelerazione di questi profondi cambiamenti non avrebbe potuto prodursi (senza provocare, potenzialmente, insurrezioni in grado di aprire le porte dell’ignoto), non avrebbe potuto avvenire senza l’introduzione e la generalizzazione delle tecnologie all’interno di tutti i settori della società.
Vale sempre la pena di ripeterlo. L’industrialismo, le tecnologie, non sono responsabili solo della devastazione e dell’intossicazione duratura del pianeta e dei suoi abitanti. Implicano anche una mentalità che ha il pregio paradossale di presentare molti aspetti di libertà svuotandoli completamente dall’interno, cioè rendendoli incapaci di aspirare alla libertà. Un liberalismo funzionale che è l’esatto opposto del rapporto anarchico con quest’ultima. Oggi, nel nuovo mondo, non si parla ad esempio di luoghi di lavoro, ma di open space. Non si parla di produzione, ma piuttosto di creazione. Non ci si rivolge ai dipendenti, ma ai collaboratori. Non si provoca obbedienza, ma partecipazione. Ovunque questa nuova mentalità, determinata a farla finita con le ultime roccaforti dell’industrialismo «antiquato», fiorisce, prende slancio, riunisce risorse e capitali per «irrompere» sui mercati. E questo cambia tutto, capovolge tutto. Ad una velocità incredibilmente elevata. Chi avrebbe mai pensato che il piccolo piacere colpevole del sabato sera, dopo una dura settimana di sfruttamento, di ordinare una pizza consegnata a domicilio, sarebbe diventato un modello di nutrimento esteso ad un’infinità di altri campi? Che il «lusso» di passare una notte in albergo si sarebbe «democratizzato» fino a trasformare tutti gli appartamenti del mondo in potenziali suite d’albergo?
Col rischio di fissarci sull’albero piuttosto che sulla foresta, potremmo dire che la tecnologia che sta devastando profondamente quanto credevamo di conoscere dell’«essere umano» e del suo modo di relazionarsi con gli altri, è rappresentata da una sottile scatola metallica con uno schermo luminoso e tattile. Dopo la sua diffusione, impossibile fissare un appuntamento con qualcuno in anticipo. È troppo rigido, non rientra nella permanente flessibilità cui siamo condannati (o meglio, che si presume si voglia vivere come un misero surrogato di libertà). Difficile contare su un accordo preso, perché tutto è soggetto a un cambiamento dell’ultimo minuto, d’urgenza, in diretta. Complicato mantenere un segreto o una situazione vergognosa, perché tutto si condivide, va condiviso, pena l’essere asociale. Impossibile non precisare dove siamo, cosa facciamo, perché è la prima domanda che lo schermo o l’interlocutore ci pone prima di avviare quello che ormai passa per dialogo.
Ci si è quasi dimenticati che parlare con qualcuno faccia a faccia non è la stessa cosa che pronunciare parole con o su uno schermo, dietro il quale si trova possibilmente un essere umano. Che mettersi d’accordo con qualcuno non significa implicitamente che si possa cambiare all’ultimo minuto attraverso quella maledetta protesi tecnologica ciò che si era stabilito appena ieri. Abbiamo dimenticato che trascorrere del tempo con qualcuno esclude la presenza di questo fantasma che si intromette nelle relazioni a suon di rumori di chiamata e luminosità cangianti. Abbiamo dimenticato che non è possibile abbandonarsi ad una intensa, a volte sofferta, ma particolarmente umana attività di riflettere quando da un momento all’altro, come un prigioniero nella sua cella, può fare irruzione il guardiano tecnologico. Magari non ce ne siamo dimenticati, ma abbiamo semplicemente rinunciato, più o meno velocemente a seconda della nostra propensione al gregarismo o all’adattamento, stanchi ed esausti di resistere ancora alle sirene e alle sollecitazioni del padrone, della famiglia, degli amici che ci vogliono bene.
I rari «partigiani» che ancora bandiscono, o che semplicemente cercano di limitare drasticamente o ridurre la presenza del collare elettronico del cellulare, hanno vita dura. Non solo perché devono fare i salti mortali se sono in attesa di un contatto con un’istituzione, un’azienda, un proprietario, un medico qualunque (che chiameranno quando e come gli conviene), non solo perché quasi nessun lavoro è ormai disponibile senza essere costretti a comunicare permanentemente col capo e coi colleghi, non solo perché passano di mente gli inviti alle varie socialità (fissati quasi esclusivamente tramite il fantasma, e ovviamente all’ultimo minuto, soggetti agli eterni mutamenti di ora e di luogo…), non solo perché rischiano di perdere ogni contatto (se non rinnovano la loro presenza digitale, cessano di «esistere» agli occhi degli altri).
Hanno vita dura anche perché non è solo la caserma o il prete, non è solo la scuola o il lavoro a far loro subire tutto questo, ma anche i loro cari contribuiscono a questa tirannia della flessibilità. Anch’essi li espongono alla sottomissione dei bit e dei byte. Anch’essi impongono, a volte contro il loro volere e contro la loro (esplicita) volontà, una frequentazione obbligatoria e dolorosa con il fantasma-guardiano, costruendo, anello su anello, catena su catena, il collare tecnologico attorno al loro collo. In nome dell’amicizia, della compagnia, dell’amore, della condivisione, ovviamente. E forse è proprio questo l’aspetto più terribile. Come far capire ad un amico che non solo non sai parlare al telefono, ma che per di più non ti piace affatto farlo? Come far sì che la tua rabbia, la tua frustrazione, il tuo disgusto dopo l’ennesimo cambio di appuntamento per mezzo del fantasma-guardiano non passi per rigidità altezzosa, arroganza elitaria, incapacità di comprendere le preoccupazioni altrui? A volte si ha l’impressione, in mezzo agli ultimi dei Mohicani, che sia tutto vano. Stanchi di apparire irascibili e inflessibili, si finisce per accettare di diventarlo: infrequentabili, troppo rigidi e «per niente fighi».
All’inizio degli anni 90, un testo anarchico ci metteva già in guardia dall’arrivo della nuova mentalità forgiata nei laboratori del potere: flessibile, povera di contenuti e basata «sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può aggiustare». Questa mentalità «produce un degrado morale in cui la dignità dell’oppresso finisce per essere contrattata e svenduta dietro la garanzia di una penosa sopravvivenza». Laddove «tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire», l’anarchismo e gli anarchici non possono che adattarsi col rischio di scomparire in quanto tali. Ed è questo ciò che forse sta accadendo, anche se è difficile rendersene conto e per illustrarlo ci si riduce ad invocare un’immagine stupida e limitata come quella dell’uso generalizzato del collare comunicativo. Come hanno potuto degli anarchici diffondere seriamente non molto tempo fa una proposta come quella della connessione permanente per tentare di sfuggire alle sue nefaste conseguenze? Come ha potuto un qualsiasi anarchico finire con l’accettare di andare in giro in modo permanente con un microfono e un GPS addosso, ossia anche al di là di ogni «necessità» ritenuta inevitabile (come essere raggiungibile per lavoro, per esempio), esponendo non solo se stesso ad intercettazioni e tracciamenti inopportuni, ma anche qualsiasi persona nota o sconosciuta che entra nella gabbia dalle sbarre invisibili che si porta in tasca?
Alla fine degli anni 90 un saggio uscito dall’università ha avuto il merito di cogliere le caratteristiche del nuovo spirito: «L’immagine del camaleonte è tentatrice per descrivere il professionista che sa condurre i propri rapporti al fine di andare più facilmente verso gli altri», giacché «l’adattabilità è la chiave d’accesso allo spirito di rete». Ecco perché è «realista, in un mondo in rete, l’essere ambivalenti…, perché le situazioni che si devono affrontare sono esse stesse complesse ed incerte». Senza troppe ipocrisie, veniva riconosciuto che ciò equivale al «sacrificio… della personalità intesa nel senso di una maniera d’essere che si manifesterebbe con atteggiamenti e comportamenti simili quali che siano le circostanze». Insomma, «per sistemarsi in un mondo connessionista, bisogna mostrarsi sufficientemente malleabili». E chi non accettasse di diventarlo? Allora non ci sono dubbi, «la permanenza e, soprattutto, la permanenza in se stessi o l’attaccamento duraturo a dei “valori” sono criticabili in quanto rigidità incongrua, ovvero patologica. E, a seconda dei contesti, in quanto inefficacia, maleducazione, intolleranza, incapacità di comunicare».
Rifiutare la mentalità inculcata dalla scatola metallica e dal suo mondo pare significare scavarsi la fossa, rimanendo in disparte e dimenticati. Non essere connessi equivale ad essere asociali, cupi, intolleranti, rigidi. E non c’è dubbio che il prezzo da pagare per tentare di non farsi fagocitare dall’alta marea della tecnologia della «comunicazione» continuerà ad aumentare col passare delle stagioni e degli anni. Il fantasma-guardiano è diventato così inevitabile, sia che si resti tra i pochi disertori e refrattari che rifiutano di terrorizzarsi quotidianamente a suon di chiamate e messaggi, sia che ci si veda condannati a una solitudine simile a quella che recentemente descriveva un compagno cileno, come quella che va di pari passo con una esistenza trascorsa in clandestinità. Perché in fondo, forse si tratta proprio di una nuova forma di «clandestinità» da sperimentare: quella di sottrarsi ai tentacoli della piovra tecnologica. Non solo, ovvero non tanto per sfuggire alle malintenzionate attenzioni della macchina repressiva in divisa e in toga, quanto per combattere passo dopo passo una repressione quotidiana ben più importante, se così si può dire, che è l’adattamento al nuovo mondo da incubo in movimento. Privare la piovra delle sue antenne e delle sue fibre ottiche perderebbe infatti molto significato se si lasciasse, senza combattere, penetrare il suo veleno nelle nostre vene e in quelle dei nostri complici e cari.
«L’uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva un poeta sognatore dell’impossibile. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel duplice significato della parola: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo, bisogna disporre in noi di altro che non sia un riflesso. Ed è proprio questo aspetto dell’umano ad essere ora il bersaglio, assalto dopo assalto, del mondo tecnologizzato. Non si può combattere questo «nuovo umano», questo «uomo nuovo», questo zombi flessibile e connesso — e che cova in ognuno di noi — senza concepire, nel nostro intimo e all’interno dei nostri circoli di affinità, un mondo, un immaginario, un sogno che si distingua qualitativamente dal mondo-gabbia in cui siamo costretti a sopravvivere. Questo immaginario non può rimanere compartimentato nel nostro cervello e nel nostro cuore, a meno di soffocare per il dolore: deve anche invadere la realtà. Al di là delle lotte da intraprendere, delle azioni da considerare, dei conflitti a cui partecipare, o meglio, intimamente con essi, si pone una questione di etica pratica. Rifiutare per quanto possibile, e fino all’impossibile, l’invasione dell’elettronica, non coltivare la dipendenza dagli strumenti tecnologici, non adattarsi all’era dell’istantaneo. Continuare ad occuparsi dell’inchiostro sulla carta per aprirsi su qualcosa di diverso da una squallida riproduzione dell’esistente, appropriarsi del contenuto di questi oggetti quasi desueti che assorbono così rapidamente la polvere del tempo, per arricchire la propria unicità dall’esperienza limitata. Non contribuire all’impoverimento del linguaggio, creatore di mondi. Evitare il ricorso alla tecnologia per risolvere problemi che fino a ieri non ne avevano bisogno. Rifiutare, a costo di apparire obsoleti, intrattabili, irritanti, il modello del «nuovo umano» che si sta diffondendo intorno a noi.
Ecco il nuovo partigiano, un nuovo genere di clandestinità, necessaria per lottare, agire e respirare, in un mondo interamente connesso.