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Category: Italiano

La tirannia della flessibilità

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«L’uomo moderno si è già spersonalizzato così profondamente da non essere più sufficientemente umano da tener testa alle sue macchine. L’uomo primitivo, affidandosi al potere della magia, confidava nella sua capacità di dirigere e controllare le forze naturali. L’uomo post-storico, avendo a disposizione le immense risorse della scienza, ha così poca fiducia in se stesso da essere disposto ad accettare la propria sostituzione, la propria estinzione, piuttosto di dover fermare le macchine o anche solo di farle girare ad una velocità inferiore»
Lewis Mumford, 1956
Riassumere un’epoca, descriverne i tratti generali e distintivi, penetrare nei rapporti sociali che la reggono è forse un’impresa impossibile. Potrebbe persino comportare — come spesso accade nelle opere di storici, antropologi, sociologi e compagnia — di pervenire ad un’approssimazione distorta, a genericità che prescindono dal reale rapporto tra società, comunità e individui. In altre parole, quando si parla della cultura di una data epoca si corre fortemente il rischio di lasciare nell’ombra gli individui che se ne distaccano, che se ne separano, che conducono o cercano di condurre un’altra vita, differente. Tuttavia, l’individuo umano non è esente da una propensione ad assimilare i comportamenti altrui, né da un terribile gregarismo che può trasformarlo in docile schiavo o in feroce soldato. Ogni volta che si parla della cultura di un’epoca, di un raggruppamento umano, ci si riferisce sempre alla maggioranza, benché non si dovrebbe mai dimenticare che ogni individuo, anche il più gregario, anche il più conforme ai comportamenti dominanti, è a sua volta attraversato da molte contraddizioni, e può anche essere tentato, davanti ad una delusione o ad un’occasione, di sfuggire alla regola e di costituire un’eccezione. La storia è piena di esempi di come un comportamento accettato come norma generale, che in effetti stabilisce i costumi e le abitudini di una società, abbia spesso diversi effetti indesiderati, più nascosti, più clandestini e tuttavia altrettanto costitutivi della società. Per fare un facile esempio: quando, con l’avanzare dell’industrialismo capitalista, la famiglia nucleare tende ad imporsi come modello (prima in seno alla borghesia, poi negli altri strati della società), si sviluppano affianco altre pratiche, magari contro il modello del matrimonio, pietra angolare della famiglia nucleare patriarcale. È importante tener sempre presente che nessuna descrizione generale di un’epoca può pretendere d’essere esaustiva, né a livello di società, né tantomeno a livello di individuo.
Questa premessa appare necessaria se si intende abbozzare, con devastanti conseguenze per l’idea, per il sogno dell’essere umano libero, ciò che della mentalità contemporanea è in procinto di dominare le relazioni e gli individui. Le modificazioni e i cambiamenti a livello economico, tecnologico e sociale hanno infatti assunto una tale velocità che qualsiasi tentativo di descrizione potrebbe rivelarsi del tutto vano. È un po’ come accade agli economisti più lucidi (e bisogna cercare bene per trovarne qualcuno in mezzo ai ciarlatani dell’utilità) che hanno rinunciato da almeno due decenni a fare ulteriori previsioni sullo sviluppo economico, rendendosi conto che la velocità del cambiamento è tale che qualsiasi previsione, già discutibile in partenza, non è altro che pura speculazione. Ciò non impedisce alle loro speculazioni di produrre effetti notevoli, come quelli che indicano oggi la scomparsa delle specie, ma più che di previsioni si tratta di self fulfilling prophecies (profezie che si auto-realizzano), un concetto d’altronde nato nell’ambito degli economisti. In ogni caso, i cambiamenti nei comportamenti quotidiani si diffondono e si generalizzano così rapidamente che presto non avremo più bisogno dell’iperbole critica di cui si serviva il filosofo tedesco del secolo scorso per mettere in guardia dal fallimento morale che comporta la tecnologizzazione del mondo.
Dalla caserma all’open space
Dopo un primo periodo di caotico e selvaggio sviluppo dell’industria che ha devastato ciò che generalmente veniva ritenuto immutabile sebbene questo stato stesso avesse una sua storicità, l’industrializzazione ostentava le sue prodezze tecniche mentre si rivelava del tutto incapace di mascherare la miseria e l’angoscia che dispensava con le sue miniere e le sue fabbriche, dando impulso per altro a correnti politiche aspiranti ad una regolamentazione. Sia che si tratti del socialismo, con l’idea di un’economia pianificata in funzione dei bisogni della società-Stato; o del liberalismo democratico, con l’idea di un’economia di mercato regolata da uno Stato-arbitro rappresentante i differenti interessi; o del fascismo, con l’idea di un’economia corporativista: tutte queste correnti di massa hanno cercato di fornire una risposta agli assalti della tecnica e agli inediti sconvolgimenti che ne derivano. Il «vuoto morale» generato dalla disumanizzazione dei rapporti sociali non poteva che ricevere, da destra come da sinistra, una risposta da caserma. Parallelamente all’implicita standardizzazione indotta dalle tecniche industriali dell’epoca, i rapporti sociali a loro volta avrebbero seguito lo stesso percorso. L’intera società cominciava ad assomigliare ad una vasta caserma che non aveva più nulla da invidiare al conformismo delle precedenti società contadine, grazie ad una cultura uniformante che prese slancio durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Il consumo di massa veniva allora concepito come una forza molto più potente di arruolamento, livellamento e coesione. La mentalità della fabbrica era una mentalità rigida, inflessibile, con orari cadenzati senza eccezioni (si pensi ad esempio allo sradicamento dell’usanza del Lunedì Santo). In cambio di una vita così triste, si profilava infine all’orizzonte un certo benessere materiale per sempre più strati oppressi dalla società industriale.
Negli anni 70 questa mentalità avrebbe finito per incrinarsi e vacillare, soprattutto sotto l’assalto dei disadattati, degli insoddisfatti, dei sognatori e dei giovani ribelli, con grande sorpresa dei vecchi rivoluzionari da caserma i quali pensavano che ridipingere i muri potesse bastare alla felicità di massa. Rifiuto del lavoro (non creativo), rifiuto delle abitudini rigide, rifiuto della standardizzazione e dell’uniformità, rifiuto di un’identità ancorata al luogo di produzione. Dopo aver eliminato i residui sovversivi contenuti in quegli assalti, dopo aver assassinato, rinchiuso e frantumato le minoranze rivoluzionarie spesso ancora portatrici di certe teorie da caserma (marxismo, leninismo, socialismo di Stato…), questo slancio proteiforme avrebbe incontrato il triste destino di essere assorbito, una volta mutilato e amputato, all’interno di una vasta ristrutturazione della società nel suo insieme. Oggi, questo movimento sembra sul punto di realizzarsi. Gli antichi equilibri economici sono stati trasformati, le mentalità incompatibili con i nuovi modelli di produzione sono state eliminate o isolate, il terreno per far crescere un altro capitalismo occidentale è stato fertilizzato a furia di delocalizzazione, di smantellamento delle grandi strutture produttive e dei loro corollari politici (sindacati, partiti, ecc.), di automazione, di ridefinizione del rapporto tra lavoro e fuori-lavoro (sfumandone i confini), di una certa liberalizzazione dei costumi, ecc.
In ogni caso, la mentalità da caserma d’altri tempi sembra essere oggi più retrograda che mai. La rigidità moralista, basata sui modelli cristiani, ha lasciato posto ad un consumismo per cui la mercificazione di tutti i settori della vita, fino a quelli più intimi, è diventata la norma. E la brutale accelerazione di questi profondi cambiamenti non avrebbe potuto prodursi (senza provocare, potenzialmente, insurrezioni in grado di aprire le porte dell’ignoto), non avrebbe potuto avvenire senza l’introduzione e la generalizzazione delle tecnologie all’interno di tutti i settori della società.
Una nuova mentalità in un nuovo mondo
Vale sempre la pena di ripeterlo. L’industrialismo, le tecnologie, non sono responsabili solo della devastazione e dell’intossicazione duratura del pianeta e dei suoi abitanti. Implicano anche una mentalità che ha il pregio paradossale di presentare molti aspetti di libertà svuotandoli completamente dall’interno, cioè rendendoli incapaci di aspirare alla libertà. Un liberalismo funzionale che è l’esatto opposto del rapporto anarchico con quest’ultima. Oggi, nel nuovo mondo, non si parla ad esempio di luoghi di lavoro, ma di open space. Non si parla di produzione, ma piuttosto di creazione. Non ci si rivolge ai dipendenti, ma ai collaboratori. Non si provoca obbedienza, ma partecipazione. Ovunque questa nuova mentalità, determinata a farla finita con le ultime roccaforti dell’industrialismo «antiquato», fiorisce, prende slancio, riunisce risorse e capitali per «irrompere» sui mercati. E questo cambia tutto, capovolge tutto. Ad una velocità incredibilmente elevata. Chi avrebbe mai pensato che il piccolo piacere colpevole del sabato sera, dopo una dura settimana di sfruttamento, di ordinare una pizza consegnata a domicilio, sarebbe diventato un modello di nutrimento esteso ad un’infinità di altri campi? Che il «lusso» di passare una notte in albergo si sarebbe «democratizzato» fino a trasformare tutti gli appartamenti del mondo in potenziali suite d’albergo?
Col rischio di fissarci sull’albero piuttosto che sulla foresta, potremmo dire che la tecnologia che sta devastando profondamente quanto credevamo di conoscere dell’«essere umano» e del suo modo di relazionarsi con gli altri, è rappresentata da una sottile scatola metallica con uno schermo luminoso e tattile. Dopo la sua diffusione, impossibile fissare un appuntamento con qualcuno in anticipo. È troppo rigido, non rientra nella permanente flessibilità cui siamo condannati (o meglio, che si presume si voglia vivere come un misero surrogato di libertà). Difficile contare su un accordo preso, perché tutto è soggetto a un cambiamento dell’ultimo minuto, d’urgenza, in diretta. Complicato mantenere un segreto o una situazione vergognosa, perché tutto si condivide, va condiviso, pena l’essere asociale. Impossibile non precisare dove siamo, cosa facciamo, perché è la prima domanda che lo schermo o l’interlocutore ci pone prima di avviare quello che ormai passa per dialogo.
Ci si è quasi dimenticati che parlare con qualcuno faccia a faccia non è la stessa cosa che pronunciare parole con o su uno schermo, dietro il quale si trova possibilmente un essere umano. Che mettersi d’accordo con qualcuno non significa implicitamente che si possa cambiare all’ultimo minuto attraverso quella maledetta protesi tecnologica ciò che si era stabilito appena ieri. Abbiamo dimenticato che trascorrere del tempo con qualcuno esclude la presenza di questo fantasma che si intromette nelle relazioni a suon di rumori di chiamata e luminosità cangianti. Abbiamo dimenticato che non è possibile abbandonarsi ad una intensa, a volte sofferta, ma particolarmente umana attività di riflettere quando da un momento all’altro, come un prigioniero nella sua cella, può fare irruzione il guardiano tecnologico. Magari non ce ne siamo dimenticati, ma abbiamo semplicemente rinunciato, più o meno velocemente a seconda della nostra propensione al gregarismo o all’adattamento, stanchi ed esausti di resistere ancora alle sirene e alle sollecitazioni del padrone, della famiglia, degli amici che ci vogliono bene.
I rari «partigiani» che ancora bandiscono, o che semplicemente cercano di limitare drasticamente o ridurre la presenza del collare elettronico del cellulare, hanno vita dura. Non solo perché devono fare i salti mortali se sono in attesa di un contatto con un’istituzione, un’azienda, un proprietario, un medico qualunque (che chiameranno quando e come gli conviene), non solo perché quasi nessun lavoro è ormai disponibile senza essere costretti a comunicare permanentemente col capo e coi colleghi, non solo perché passano di mente gli inviti alle varie socialità (fissati quasi esclusivamente tramite il fantasma, e ovviamente all’ultimo minuto, soggetti agli eterni mutamenti di ora e di luogo…), non solo perché rischiano di perdere ogni contatto (se non rinnovano la loro presenza digitale, cessano di «esistere» agli occhi degli altri).
Hanno vita dura anche perché non è solo la caserma o il prete, non è solo la scuola o il lavoro a far loro subire tutto questo, ma anche i loro cari contribuiscono a questa tirannia della flessibilità. Anch’essi li espongono alla sottomissione dei bit e dei byte. Anch’essi impongono, a volte contro il loro volere e contro la loro (esplicita) volontà, una frequentazione obbligatoria e dolorosa con il fantasma-guardiano, costruendo, anello su anello, catena su catena, il collare tecnologico attorno al loro collo. In nome dell’amicizia, della compagnia, dell’amore, della condivisione, ovviamente. E forse è proprio questo l’aspetto più terribile. Come far capire ad un amico che non solo non sai parlare al telefono, ma che per di più non ti piace affatto farlo? Come far sì che la tua rabbia, la tua frustrazione, il tuo disgusto dopo l’ennesimo cambio di appuntamento per mezzo del fantasma-guardiano non passi per rigidità altezzosa, arroganza elitaria, incapacità di comprendere le preoccupazioni altrui? A volte si ha l’impressione, in mezzo agli ultimi dei Mohicani, che sia tutto vano. Stanchi di apparire irascibili e inflessibili, si finisce per accettare di diventarlo: infrequentabili, troppo rigidi e «per niente fighi».
All’inizio degli anni 90, un testo anarchico ci metteva già in guardia dall’arrivo della nuova mentalità forgiata nei laboratori del potere: flessibile, povera di contenuti e basata «sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può aggiustare». Questa mentalità «produce un degrado morale in cui la dignità dell’oppresso finisce per essere contrattata e svenduta dietro la garanzia di una penosa sopravvivenza». Laddove «tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire», l’anarchismo e gli anarchici non possono che adattarsi col rischio di scomparire in quanto tali. Ed è questo ciò che forse sta accadendo, anche se è difficile rendersene conto e per illustrarlo ci si riduce ad invocare un’immagine stupida e limitata come quella dell’uso generalizzato del collare comunicativo. Come hanno potuto degli anarchici diffondere seriamente non molto tempo fa una proposta come quella della connessione permanente per tentare di sfuggire alle sue nefaste conseguenze? Come ha potuto un qualsiasi anarchico finire con l’accettare di andare in giro in modo permanente con un microfono e un GPS addosso, ossia anche al di là di ogni «necessità» ritenuta inevitabile (come essere raggiungibile per lavoro, per esempio), esponendo non solo se stesso ad intercettazioni e tracciamenti inopportuni, ma anche qualsiasi persona nota o sconosciuta che entra nella gabbia dalle sbarre invisibili che si porta in tasca?
Alla fine degli anni 90 un saggio uscito dall’università ha avuto il merito di cogliere le caratteristiche del nuovo spirito: «L’immagine del camaleonte è tentatrice per descrivere il professionista che sa condurre i propri rapporti al fine di andare più facilmente verso gli altri», giacché «l’adattabilità è la chiave d’accesso allo spirito di rete». Ecco perché è «realista, in un mondo in rete, l’essere ambivalenti…, perché le situazioni che si devono affrontare sono esse stesse complesse ed incerte». Senza troppe ipocrisie, veniva riconosciuto che ciò equivale al «sacrificio… della personalità intesa nel senso di una maniera d’essere che si manifesterebbe con atteggiamenti e comportamenti simili quali che siano le circostanze». Insomma, «per sistemarsi in un mondo connessionista, bisogna mostrarsi sufficientemente malleabili». E chi non accettasse di diventarlo? Allora non ci sono dubbi, «la permanenza e, soprattutto, la permanenza in se stessi o l’attaccamento duraturo a dei “valori” sono criticabili in quanto rigidità incongrua, ovvero patologica. E, a seconda dei contesti, in quanto inefficacia, maleducazione, intolleranza, incapacità di comunicare».
Il prezzo da pagare
Rifiutare la mentalità inculcata dalla scatola metallica e dal suo mondo pare significare scavarsi la fossa, rimanendo in disparte e dimenticati. Non essere connessi equivale ad essere asociali, cupi, intolleranti, rigidi. E non c’è dubbio che il prezzo da pagare per tentare di non farsi fagocitare dall’alta marea della tecnologia della «comunicazione» continuerà ad aumentare col passare delle stagioni e degli anni. Il fantasma-guardiano è diventato così inevitabile, sia che si resti tra i pochi disertori e refrattari che rifiutano di terrorizzarsi quotidianamente a suon di chiamate e messaggi, sia che ci si veda condannati a una solitudine simile a quella che recentemente descriveva un compagno cileno, come quella che va di pari passo con una esistenza trascorsa in clandestinità. Perché in fondo, forse si tratta proprio di una nuova forma di «clandestinità» da sperimentare: quella di sottrarsi ai tentacoli della piovra tecnologica. Non solo, ovvero non tanto per sfuggire alle malintenzionate attenzioni della macchina repressiva in divisa e in toga, quanto per combattere passo dopo passo una repressione quotidiana ben più importante, se così si può dire, che è l’adattamento al nuovo mondo da incubo in movimento. Privare la piovra delle sue antenne e delle sue fibre ottiche perderebbe infatti molto significato se si lasciasse, senza combattere, penetrare il suo veleno nelle nostre vene e in quelle dei nostri complici e cari.
«L’uomo può costruire fuori di sé solo quello che ha innanzitutto concepito dentro di sé», ammoniva un poeta sognatore dell’impossibile. Per costruire un mondo senza autorità, bisogna prima concepirlo. Non programmarlo, schematizzarlo o misurarlo. No, solo concepirlo, nel duplice significato della parola: pensarlo è fecondarlo. Ma per concepire un mondo, bisogna disporre in noi di altro che non sia un riflesso. Ed è proprio questo aspetto dell’umano ad essere ora il bersaglio, assalto dopo assalto, del mondo tecnologizzato. Non si può combattere questo «nuovo umano», questo «uomo nuovo», questo zombi flessibile e connesso — e che cova in ognuno di noi — senza concepire, nel nostro intimo e all’interno dei nostri circoli di affinità, un mondo, un immaginario, un sogno che si distingua qualitativamente dal mondo-gabbia in cui siamo costretti a sopravvivere. Questo immaginario non può rimanere compartimentato nel nostro cervello e nel nostro cuore, a meno di soffocare per il dolore: deve anche invadere la realtà. Al di là delle lotte da intraprendere, delle azioni da considerare, dei conflitti a cui partecipare, o meglio, intimamente con essi, si pone una questione di etica pratica. Rifiutare per quanto possibile, e fino all’impossibile, l’invasione dell’elettronica, non coltivare la dipendenza dagli strumenti tecnologici, non adattarsi all’era dell’istantaneo. Continuare ad occuparsi dell’inchiostro sulla carta per aprirsi su qualcosa di diverso da una squallida riproduzione dell’esistente, appropriarsi del contenuto di questi oggetti quasi desueti che assorbono così rapidamente la polvere del tempo, per arricchire la propria unicità dall’esperienza limitata. Non contribuire all’impoverimento del linguaggio, creatore di mondi. Evitare il ricorso alla tecnologia per risolvere problemi che fino a ieri non ne avevano bisogno. Rifiutare, a costo di apparire obsoleti, intrattabili, irritanti, il modello del «nuovo umano» che si sta diffondendo intorno a noi.
Ecco il nuovo partigiano, un nuovo genere di clandestinità, necessaria per lottare, agire e respirare, in un mondo interamente connesso.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 34, 15 ottobre 2020]
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Guastafeste

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Cosa c’è di più irritante di un compleanno, di un rituale prestabilito che ogni anno ti ricorda che un bel giorno sei nato senza averlo chiesto, rimandandoti a scadenza fissa al tempo che passa fino alla tomba? Per non parlare di quelle cifre tonde che in base all’arbitrarietà del sistema decimale dovrebbero sfociare in una di quelle feste dove l’ipocrisia sociale raggiunge l’acme. Eppure, ciò che vale per l’individuo che può sempre districarsi dalle ricorrenze sparando sull’orologio, assume un’altra dimensione quando il dominio decide di autocelebrarsi. Allora non si tratta più del filo di Crono che si allunga, ma dello spettacolo del padrone che si manifesta per intimare agli schiavi l’enormità della loro servitù. Come un eterno presente il cui solo orizzonte è costituito da catene forgiate col medesimo acciaio: quello dell’autorità.
Le pubbliche commemorazioni di avvenimenti del passato costituiscono un buon esempio del duplice uso degli anniversari da parte dei potenti in carica. Da un lato, imprimere la loro versione della storia nella mente delle persone e, dall’altro, riaffermare la loro legittimità attraverso una continuità regolarmente scossa dal basso dalle rivolte. In Italia, ad esempio, la Festa della Liberazione fissata il 25 aprile (1945) corrisponde alla data che segna la presa dei pieni poteri da parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), mentre lo sciopero generale insurrezionale a Torino e Milano era cominciato il 18 e il 23 aprile, e Napoli era già insorta nel settembre 1943 scacciando gli occupanti nazisti. Così come è  il 28 aprile, tre giorni dopo, la data in cui Mussolini fu giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso in Piazzale Loreto a Milano. Ma la scelta di quella data avrebbe certo ricordato in modo troppo crudo la guerra civile tra i pro- e gli anti-fascisti, a scapito di una «riconciliazione nazionale» allora auspicata sia dai conservatori che dal partito comunista al fine di spartirsi in santa pace il potere. Quanto ai nazisti, le truppe tedesche si sono arrese agli angloamericani il 2 maggio, segnando la definitiva liberazione del territorio della penisola. Ma quest’ultima data avrebbe ovviamente lasciato troppo poco spazio alla resistenza nazionale. Una delle conseguenze dell’istituzione di una ufficialissima Festa della Liberazione fin dall’aprile 1946, mentre i fascisti sarebbero stati amnistiati in massa a partire da giugno per venire in parte riciclati nell’apparato di Stato repubblicano, è che quei rivoluzionari che hanno proseguito la lotta per la libertà nei mesi e negli anni successivi, dopo l’aprile 1945 sono ridiventati «banditi» e «criminali» come sotto il fascismo, e non più «partigiani».
Qui la questione va ben oltre le controversie commemorative e i confini della legalità. È legata piuttosto al fatto di agire in prima persona senza attendere date esterne o masse fluttuanti, a partire dalle proprie temporalità, dalle proprie idee e da esperienze radicate in fondo alle proprie viscere. Allo stesso modo, non si tratta di rinunciare all’utopia dato che i tempi sono spesso senza speranza (e quando non lo sono?), ma per farvi fronte esser capaci nel contempo di coltivare un mondo interiore singolare e di sviluppare le nostre proiezioni su quello che ci circonda: per non lasciarci più semplicemente trascinare dalle burrasche della storia, dobbiamo pur iniziare a fare la nostra. Per dirla con le parole di un compagno come Belgrado Pedrini, che come altri non aveva atteso la rottura del patto tra Stalin e Hitler per combattere armi in pugno contro il fascismo, né si era fermato quel 25 aprile, «Si faccia o no la rivoluzione, io farò la mia».
Ma non c’è bisogno di valicare le Alpi per produrre immaginari legati più all’eternità dell’oppressione statale che alla sua distruzione. Pensiamo ad esempio alla Rivoluzione del 1789, che i dirigenti di questo paese brandiscono ancora oggi come un totem d’immunità quasi culturale, mentre esportano le loro armi in ogni angolo del pianeta (se il massacro nello Yemen, ad esempio, vi dice qualcosa). Ma no, suvvia, niente di tutto questo, noi siamo la patria dei Diritti dell’Uomo! E la presa della Bastiglia, non è persino diventata la nostra Festa Nazionale? Una festa che tra l’altro è stata indicata nel 14 luglio quasi cento anni più tardi, nel 1880, dopo parecchi cambiamenti sotto forma di compromesso tra borghesi liberali e conservatori… certamente in relazione alla presa della Bastiglia, ma anche alla Festa della Federazione dell’anno successivo, che vide il Re prestare giuramento alla Costituzione dopo una messa celebrata da 300 sacerdoti e davanti a un Te deum intonato dalla folla. In quest’ultima scelta, nessuna visione di teste reali mozzate, tutt’altro, né di assalti ad arsenali militari da parte degli insorti per impadronirsi della polvere e dei cannoni. Con questa data è in sostanza un intero movimento, difeso dall’esperienza di un Varlet nel suo opuscolo del 1794, che la continuità repubblicana del potere avrebbe voluto cancellare dalla memoria ribelle: «Per qualsiasi essere senziente, governo e rivoluzione sono incompatibili…».
Infine, al di là della sacralizzazione dello Stato o della proprietà tramite incisione della loro autorità nella pietra marmorea di una Dichiarazione Universale, ricordiamo che uno dei successi poco conosciuti di quel periodo è stato inoltre l’importazione in diverse lingue comuni di due concetti del dominio che avrebbero presto colonizzato le menti: «vandalismo» e «terrorismo».
Il primo termine, coniato nel 1794 da un deputato a partire dal nome di una popolazione considerata la più barbara di tutte (i Vandali), mirava a porre fine alle pratiche di chi continuava ad attaccare le chiese e i castelli per distruggerne il contenuto, come nei bei tempi andati. Attraverso l’invenzione del vandalismo, la ragione di Stato ha inteso arrogarsi il monopolio delle buone distruzioni fattori di progresso — in chiave contemporanea sommergendo villaggi per costruire dighe, radendo al suolo quartieri poveri per farvi passare un treno o costruirvi torri di uffici, distruggendo una montagna per estrarre il litio — opponendosi a quelle malvagie, per forza di cose irrazionali. Ovvero a tutte le altre distruzioni diverse dalle proprie, quelle praticate in modo autonomo, a maggior ragione se attaccano beni fondamentali per lo Stato.
Il secondo termine, risalente anch’esso all’anno 1794, designava il regime di terrore politico del Comitato di Salute Pubblica. Non si nominavano gli attacchi provenienti dal basso contro il potere, per spaventare e squalificarli, ma si indicava il terrore di Stato esercitato in modo indiscriminato. Mentre alcuni gruppi come i populisti russi tentarono di riappropriarsi della parola all’inizio del secolo scorso, nello stesso periodo il potere comprese l’uso interessato che avrebbe potuto farne rovesciandone il significato contro chi gli si opponeva mediante l’azione diretta. Una confusione che si è rapidamente diffusa con l’aiuto dei suoi portavoce di massa (prima la stampa popolare poi la radio), ed è così che ad esempio i sabotatori di reti elettriche, di linee ferroviarie o di fabbriche di armi diventavano partigiani o terroristi a seconda che fossero amici o nemici di uno dei regimi in carica, vale a dire sostenuti dalle potenze alleate o vilipesi dal regime nazista. Così come lo stesso atto di sabotaggio compiuto dagli stessi individui durante gli scioperi insurrezionali del 1947 e del 48 sarebbe diventato «terrorista» piuttosto che «di liberazione» a detta degli stessi dirigenti… ormai passati dagli scranni dell’opposizione a quelli del potere. Ancora una volta, era una data ormai anniversario destinata a fare la differenza, l’8 maggio 1945.
Lo scorso 4 settembre, al Pantheon, la crema progressista del paese si è stretta attorno a Macron per celebrare nientemeno che «un momento fondante del modello repubblicano», ovvero il 150° anniversario della Terza Repubblica (1870). Sì, sì, quella che si concluse quando 572 dei suoi deputati e senatori riunitisi al Gran Casino di Vichy votarono per i pieni poteri a Pétain. Quella che, prima di realizzare la sua grande opera a suon di massacri coloniali, feroce industrializzazione, leggi scellerate e macellerie della prima guerra mondiale, aveva caratterizzato l’inizio del suo regime con il repubblicano squartamento di 20000 insorti della Comune.
All’interno del pesante edificio in pietra bianca, proprio sotto i piedi dei potenti assisi in ranghi meno serrati del solito, c’è la tomba di un grand’uomo in putrefazione che probabilmente li ha lasciati perplessi. Si tratta del primo presidente della Repubblica la cui carriera è stata tagliata di netto prima del suo termine. Che bel giorno è stato quel 24 giugno 1894, quando il pugnale dell’anarchico Sante Caserio è penetrato a fondo nel fegato di Carnot, liberandolo definitivamente del peso del suo fardello. Contrapporre il nostro 24 giugno omicida alla loro ultima buffonata istituzionale del 4 settembre potrà apparire magari ridicolo a molti, ma è più che altro assurdo, tanto la nostra dimensione, quella della qualità, è radicalmente diversa dalla loro, quella della politica. La cosa più importante qui è infatti che un compagno di carne e ossa come noi, un nemico dell’autorità come noi, abbia deciso di forzare il destino armato di coraggio e di determinazione, realizzando la propria storia. «Se il governo usa contro di noi i fucili, le catene, il carcere, dovremmo forse noi anarchici, che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa?» chiese non senza ironia Caserio alla giuria, dopo aver già risposto a modo suo. È nel corso della nostra stessa vita, di fronte alle sfide del presente, che ognuno dovrà trovare la propria risposta. Come solo calendario in tasca, la nostra irragionevole passione per la libertà.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, 33, 15 settembre 2020]
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Quando il sole e il vento…

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»

Tancredi, Il gattopardo (1958)

 

Come rendere la società industriale eterna? Ecco una domanda che i dirigenti del mondo sono ormai costretti a porsi in maniera diversa. Costretti, nel senso che certi modelli di sfruttamento rischiano di avvitarsi su se stessi qualora le società continuino a seguire lo stesso schema. Ogni estate le foreste vanno in fiamme in proporzioni sempre più apocalittiche, e fino al circolo artico. Le terre si inaridiscono. Le acque del mare salgono. Gli oceani si svuotano di pesci. L’inquinamento uccide irrimediabilmente la fauna e la flora, rendendo l’essere umano ancora più dipendente dall’industria farmaceutica per far fronte a ciò malgrado tutto. Più la devastazione avanza, e più l’artificializzazione del vivente viene accolta come la sola ed unica soluzione.

E in effetti è davvero la sola soluzione. In ogni caso per continuare sulla stessa strada. Regolare ancor più i territori, modificare geneticamente gli organismi, erigere dighe, riorganizzare foreste, fertilizzare il suolo con l’ausilio di prodotti industriali…: ecco le sole possibilità per dare un barlume di vita a ciò che è già morto. In nome della salvaguardia del pianeta, si distrugge quanto rimane ancora del pianeta per costruirne un simulacro. Qualcosa che ci assomiglia, ma non lo è. Essere o apparire, ecco la domanda, avrebbe potuto dire il famoso poeta inglese. La nostra epoca è votata ad essere quella dell’apparire e dei fantasmi. Ovunque, questa «derealizzazione» è in corso e diventa palpabile, inclusi i rapporti umani, fin nel più intimo dell’individuo sottomesso a questa corsa in avanti che lo mutila, lo adatta, lo rende artificiale, copia impoverita di ciò che, un tempo, avrebbe potuto essere.

Qualche decennio fa la Francia scelse fieramente l’onni-nucleare. Ormai installate dappertutto, le centrali erano promesse di un bell’avvenire quali garanti della famosa «indipendenza energetica» del paese. In effetti si è rivelato più «facile» tenere un pugno di ferro su un paese come il Niger, principale fornitore dell’uranio francese e anche uno dei paesi più poveri del mondo, che preservare posizioni strategiche sullo scacchiere petrolifero in Medio Oriente. Oggi il «ciclo francese» della produzione nucleare non è chiuso. Restano molte centrali sempre più vetuste — il cui smantellamento sarà solo un grande esperimento a cielo aperto senza garanzia di successo —, una irradiazione duratura di certe zone, e soprattutto le famigerate scorie, per cui attualmente non esiste alcuna soluzione, salvo sotterrarle e vedere nel tempo cosa accade. Il progetto di sotterramento delle scorie nucleari a Bure è quindi una delle chiavi di volta di tutto il progetto nucleare francese; ed è subito evidente perché la resistenza locale si scontri con una repressione che non intende risparmiare colpi. Una lotta particolarmente importante, come avrebbe dovuto essere quella contro quest’altra «perla» dell’atomo francese, lanciata nel 2006: il progetto ITER nella campagna provenzale, probabilmente uno dei progetti più ambiziosi nell’ambito energetico, sostenuto da 35 paesi, al fine di condurre delle ricerche, col 2035 come nuovo orizzonte pratico, sulla fusione nucleare (una tecnica sperimentale che cerca di imitare il sole fondendo piccoli nuclei atomici per liberare una gigantesca energia, cosa differente dalla fissione attualmente attuata nelle centrali, che «rompe» grossi atomi per recuperarne l’energia).

Ma senza attendere la realizzazione dei progetti a lungo termine dei nucleocrati, altri progressi tecnologici hanno fin d’ora permesso l’esplorazione di massa di «nuove» fonti energetiche, di cui quelle più emblematiche sono senza dubbio l’eolico, il fotovoltaico e ciò che è conosciuto con l’ingannevole nome di «biomassa», ovvero il buon vecchio procedimento di bruciare materiali organici per produrre calore (ed eventualmente elettricità). Nel bel mezzo del confinamento deciso per gestire la pandemia del Covid 19, lo Stato francese ha presentato la sua «programmazione pluriannuale dell’energia», una sorta di foglio stradale per lo sviluppo del settore energetico. Esibito come la dimostrazione degli sforzi dello Stato per andare verso una «transizione energetica» (ossia, ridurre le emissioni di CO2), questo progetto è soprattutto un indicatore per ciò che si dovrebbe, in gran parte, fare nei prossimi anni. Per cogliere l’ampiezza di questa «programmazione» (alla quale lo Stato nella sua migliore tradizione burocratica ha concesso un bell’acronimo che rischia di ritornare sovente nel discorso: PPE), sfortunatamente è inevitabile dare un’occhiata alle cifre dell’evoluzione proiettata fra il 2018 ed il 2028. Quando il progetto si riferisce all’energia, ciò include sia la produzione di calore e di elettricità che l’uso di idrocarburi (principalmente il petrolio). Così spesso vengono paragonati limoni e pere, ma sorvoliamo.

Concretamente, il «PPE» prevede un calo dei consumi d’energia del 15,4% all’orizzonte del 2028. Per ridurre questo consumo, prevede di produrre più che mai: l’industria dovrà produrre auto meno energivore, costruire edifici meglio isolati, installare reti di calore, sostituire camion e bus a diesel con veicoli a gas, ecc. Tutta questa produzione industriale 2.0 e 3.0 comporta ovviamente un importante uso di energia, e nessuno si sente di calcolare quanta energia sarà, in fin dei conti, veramente «economizzata» se si include la produzione di questi nuovi prodotti meno energivori. Ma se questo problema non viene mai discusso, esso rimane nondimeno fondamentale e impone una sola conclusione: quando si considera il sistema industriale nel suo insieme, non esiste nessuna maniera dolce di ridurre il consumo energetico. La sola maniera sarebbe fermare le macchine, abbandonare i bisogni indotti, rinunciare al modello di vita industriale, e un simile «avvenire» non viene ovviamente preso in considerazione, né nei gabinetti dei ministeri, né nella stragrande maggioranza delle case.

Continuiamo coi dati, perché di un certo interesse e un po’ più «palpabile» delle solite abituali chiacchiere sulla «decarbonizzazione» e sulla «transizione».

Nel 2018, con certi territori ormai completamente sacrificati, come il nord della Francia, il parco eolico che produce 15 Gigawatt. L’obiettivo per il 2028, ossia fra meno di dieci anni, è raddoppiare questa produzione passando a 33 Gw. Per avere una misura, il parco nucleare francese produce oggi circa 60 Gw. Dalle 8000 pale eoliche oggi installate, si passerà quindi nel 2028 a 14.500, ossia quasi il doppio, di cui una piccola parte (5 Gw) installata sul mare, soprattutto sulle coste bretoni.

Continuiamo. Nel 2018 la produzione fotovoltaica in Francia (sia i «parchi solari» che i pannelli solari installati sui tetti di aziende e case private) raggiungeva i 10 Gw; nel 2028, dovrà aumentare fino a 44 Gw, ossia quadruplicare. Infine, per rimanere nelle cosiddette «energie rinnovabili», c’è la filiera delle biomasse (il bio non si riferisce a una produzione «biologica», ma al fatto che si tratta di materie organiche). Dedicata soprattutto alla produzione di calore, questa filiera produce tuttavia anche elettricità. La metà di quanto viene bruciato sono rifiuti domestici, seguiti da combustibili solidi (legno, mais, colza) e infine biogas (metanizzazione dei rifiuti mediante fermentazione). Nel 2018, per 42 centrali in funzione, la filiera delle biomasse produceva meno di 1 Gw e aumenterà di poco da qui al 2028, sull’esempio dell’idroelettricità (22 Gw oggi, 26 Gw nel 2023 specialmente grazie ad una ottimizzazione delle dighe esistenti sul Rodano).

Conclusione del «PPE»: lo Stato punta sull’eolico ed il fotovoltaico, al fine di poter «chiudere» entro il 2028 quattro o sei reattori nucleari. Tuttavia, lo Stato è consapevole che «il consenso attorno all’eolico si indebolisce». Sulla scia della campagna di propaganda lanciata per promuovere il 5G, il PPE prevede quindi una grande campagna di «sensibilizzazione» per far accettare la costruzione eoliche un po’ dappertutto. Sapendo che tre progetti su quattro sono oggi oggetto di contestazioni diverse e varie (che comportano qualche ritardo, sebbene il 90% delle procedure giuridiche che contestano i parchi non giungano a termine — riservato ai maniaci del legalismo), è facile prevedere che la futura installazione di sempre più eoliche potrà provocare nuove resistenze. Esistono già un po’ dovunque collettivi e comitati, spesso di tendenza fastidiosamente cittadinista, che protestano contro tali progetti, siano essi nuovi o esistenti. Ma ancor più interessante è che un po’ dovunque vengono effettuati anche sabotaggi contro i pali che misurano il vento (indispensabili per installare un futuro parco eolico), contro le eoliche stesse, e contro i cantieri in corso. Tuttavia, vista la valanga di «critiche» anti-eoliche che sostengono al tempo stesso il nucleare, sembra importante immettere in questa resistenza un rifiuto netto di queste strutture… come del mondo conseguente. Opporsi alle eoliche senza criticare l’industrialismo e il modo di vita che ha generato, può condurre solo alla ricerca di altre strutture ancora, forse meno orribili da vedere, meno rumorose o meno sterminatrici di uccelli e di vegetazione, ma che avranno sempre l’obiettivo di garantire un avvenire alla società tecno-industriale. È la stessa trappola in cui sono caduti un buon numero di ecologisti ferocemente antinuclearisti, preconizzando lo sfruttamento del vento e del sole piuttosto che dell’atomo: oggi possono raccogliere ciò che hanno seminato.

Bisogna ancora insistere su quanto la produzione energetica sia fondamentale e «critica» per lo Stato e il capitale? Nel mondo intero, gli Stati corrono dietro alle sue fonti, conducono guerre, colonizzano territori allo scopo di assicurarsele. Oramai la corsa è comunque intrapresa per trovare delle «alternative» (o piuttosto dei complementi) al fine di rispondere a una domanda di energia sempre più crescente: gas di scisto, sabbie bituminose, olio di colza e di mais geneticamente modificati, centrali marine, eoliche, centrali solari fotovoltaiche, nanostrutturazione dei materiali conduttori… la ricerca è sfrenata e la competizione feroce. Dall’altro lato, gli Stati che possono permetterselo sviluppano in parallelo dei progetti per accrescere la resilienza delle loro reti energetiche, mettendo in guardia sulla vulnerabilità dell’economia e del dominio statale, molto dipendenti da una rete in fin dei conti troppo fragile considerati gli interessi che rappresenta.

Senza alcuna pretesa, cosa potrebbe fare allora un individuo, un pugno di individui, contro il mostro industriale? Magari non granché di decisivo da soli, e in ogni caso non abbatterlo. Ma molestarlo sì, ritardarne i progetti sì, disturbarlo all’eccesso sì — tutto ciò lo possono fare. Con mezzi semplici, molta immaginazione e un pizzico di coraggio. Quando il sole e il vento vengono messi al servizio del dominio, sono l’oscurità della notte e la calma dei cieli stellati a richiamarci. Si tratta più che mai di restare liberi e vivi in un mondo mortifero, di vivere risolutamente in un mondo in piena decomposizione…

 

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 31-32, 15 agosto 2020]

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Small is beautiful?

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
«Ho studiato il fenomeno della dedizione, spesso cieca, dei tecnici per il proprio compito.
Considerando la tecnologia moralmente neutra, costoro erano privi del minimo scrupolo
nello svolgere le loro attività. Più tecnico era il mondo che ci imponeva la guerra,
più pericolosa era l’indifferenza dei tecnici davanti alle conseguenze delle loro attività anonime».

Albert Speer, architetto membro del partito nazista e Ministro per gli armamenti e la produzione bellica dal 1942 al 1945
Nel 1959, un fisico che aveva partecipato al programma di ricerca che ha portato alla costruzione della bomba atomica, fece una curiosa presentazione in una università californiana. Concluse pronunciando parole che volevano essere profetiche, come si addice ai grandi visionari della scienza: «C’è molto spazio in fondo alla scala». Per decenni la sua profezia generò più speculazioni che accurate ricerche. Fino al giorno in cui i primi laboratori di ricerca cominciarono, negli anni 80, a dedicarsi allo studio dell’«infinitamente piccolo». Battezzate «nanotecnologie», queste ricerche comprendono tutti i procedimenti di fabbricazione o di manipolazione di strutture su scala nanometrica (1 nanometro corrisponde ad 1 miliardesimo di metro; un filamento di DNA umano ha una larghezza di 2 nanometri). Il «grande balzo in avanti» è stato fatto nel 2001, quando gli Stati Uniti riconobbero le nanotecnologie come un settore strategico per la ricerca scientifica, irrorando i laboratori col più grande piano di investimenti della loro storia.
Ma le tenebre durarono ancora per un po’ in fondo alla scala. Passò diverso tempo e molti laboratori faticavano a produrre qualcosa di «concreto», nel senso di applicazioni industrializzabili. Diventarono un po’ più discreti, non solo a causa della feroce concorrenza tra differenti potenze, ma forse anche per timore di una contestazione «irrazionale» e «tecnofobica» come quella incontrata dall’introduzione degli OGM in alcune parti del mondo (oggi in gran parte sconfitta, anche se alcuni paesi come la Francia continuano a vietare la loro commercializzazione per l’alimentazione umana nel proprio territorio — il che non impedisce che la quasi totalità delle coltivazioni di mais negli Stati Uniti sia transgenica, così come il riso in India, il grano e la colza in Argentina, ecc.). Assisteremo dunque all’ennesimo inutile annuncio da parte di scienziati che giurano di «rivoluzionare il mondo»? Dappertutto sono stati creati nuovi laboratori, unità di ricerca, cluster che raggruppano istituzioni e aziende, tutti dediti a ricerche sulle nanotecnologie. In Francia, si contano almeno 240 laboratori di nanoscienze. I «poli di competitività» collegati alle nanotecnologie si trovano a Lione (Lyonbiopôle), Grenoble (Minalogic), Besançon (Microtechniques), Provence Alpes-Côtes d’Azur (Optitec e Solutions Communicantes Sécurisées) e Centre-Limousin (Sciences et systèmes de l’énergie électrique). Invece i più importanti istituti di ricerca sono a Grenoble (Institut des Neurosciences), Saclay (Triangle de la Physique), Strasburgo (Centre International de Recherche aux Frontières de la Chimie) e Aix-Marseille (Institut Carnot). Si noti comunque che la maggior parte delle università dispongono ognuna di almeno un laboratorio specifico per le nanotecnologie e che molte regioni si sono dotate di un «centro di competenze» che raggruppa gli attori della ricerca e della produzione nanotecnologica.
Qualche anno fa, lo Stato francese ha istituito un meccanismo di dichiarazione obbligatoria per le imprese che usano nanomateriali nei propri prodotti. Senza ovviamente riportarne i nomi esatti (non esiste alcuna regolamentazione relativa alla segnalazione di presenza di nanoparticelle prodotte, come avviene ad esempio nel caso di additivi negli alimenti), ma l’ultimo rapporto annuale (relativo al 2019) rileva almeno 900 prodotti alimentari contenenti nanoparticelle. Tra questi c’è il latte per bambini, dolciumi, cereali per la colazione, barrette di cereali o dolci e dessert surgelati. Inoltre l’utilizzo di nanomateriali in altri settori conosce da qualche anno un aumento significativo: nanocomponenti in elettronica, nanoparticelle nei prodotti cosmetici, nanopolveri utilizzate per trattare e migliorare le superfici metalliche, ecc., senza dimenticare — e questo con un po’ meno «trasparenza» — le loro numerose applicazioni in campo militare. E siccome ogni produzione genera la sua parte di rifiuti, i residui dei processi produttivi di nanomateriali si accumulano. Sembra che per il momento questi scarti vengano semplicemente bruciati oppure spediti altrove, preferibilmente verso i campi della morte in Africa (come in Ghana, dove si trova una delle più grandi discariche a cielo aperto per i rifiuti informatici del mondo intero).

E allora? In cosa i nanomateriali differiscono da qualsiasi altro prodotto industriale? Da qualsiasi tossicità prodotta dall’economia? Oseremmo dire, a rischio di dare forse troppo credito all’entusiasmo dei ricercatori, che un’altra soglia qualitativa può essere superata coi nanomateriali, e che non si tratta di una mera estensione quantitativa di ciò che già esiste. Per fare il parallelo con gli OGM: questi costituiscono, sì o no, una soglia-limite in rapporto alla devastazione già provocata dall’agricoltura industriale? Sono semplicemente «un po’ più della stessa cosa» o stanno aggiungendo «qualcosa d’altro» alla somma delle schifezze esistenti? Per gli OGM, non v’è dubbio che la risposta sarebbe generalmente affermativa, trattandosi di manipolazioni che influenzano la struttura stessa del vivente e della sua diffusione nell’ambiente. Ebbene, noi saremmo piuttosto propensi a dare la stessa risposta in materia di nanotecnologie.

La sintetizzazione di composti chimici non è certo nuova. Durante la Seconda guerra mondiale, i complessi chimici del Terzo Reich producevano già un «petrolio sintetico» per rispondere ai bisogni della Wehrmacht. La novità con le nanotecnologie è la scala su cui è possibile lavorare, e soprattutto il fatto che su scala nanometrica le proprietà della materia cambiano. Non si comporta più secondo le medesime leggi fisiche. Il carbonio ad esempio può diventare più resistente dell’acciaio. Il rame può diventare trasparente e l’alluminio esplosivo. Basta e avanza per suscitare l’entusiasmo degli apprendisti stregoni in questo mondo in cui l’artificiale prevale sempre più sul «naturale». Modificare le proprietà della materia potrebbe semplicemente trasformare nel tempo l’insieme della produzione attuale e generare nuovi «insormontabili problemi» (rifiuti, tossicità, limiti fisici…). Basti pensare a come potrebbe essere sconvolto il panorama del trasporto di elettricità, considerata l’attuale perdita di quasi il 5% sulla linea, se alcuni nanomateriali superconduttori venissero usati per sostituire i cavi odierni, costituiti per lo più da una lega di alluminio. O se i microchip diventassero così microscopici (oggi, la loro miniaturizzazione è limitata dalle proprietà dei materiali usati, di solito il silicio) da non essere quasi più rilevabili.
Parlando di irrilevabile, istituzioni di controllo come l’Anses (Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria) ammettono da parte loro che è molto difficile e per il momento abbastanza aleatorio rilevare le nanoparticelle nei prodotti o nell’ambiente. Inoltre le nanoparticelle sono «indistruttibili», non scompaiono mai, viaggiano di corpo in corpo, dai laboratori ai prodotti, dai prodotti alla terra, dalla terra al cibo, ecc. Queste particelle, le cui proprietà sono state modificate, trapassano per di più tutte le membrane e i «filtri» protettivi di cui sono dotati la maggior parte degli organismi viventi. Pertanto, una nanoparticella può passare dallo stomaco o dal polmone al sangue, quindi dal sangue al cervello e così via, e sono disponibili pochissimi dati sulla loro tossicità. A titolo di esempio, lo Stato francese ha vietato nel 2019 in base al «principio di precauzione» l’additivo E171, il biossido di titanio, in tutti i prodotti alimentari ma non nei 4000 farmaci che lo contengono. Secondo cifre ufficiali, lo stesso biossido di titanio utilizzato dall’industria può contenere fino al 2,3% di nanoparticelle. Come per gli altri veleni industriali, la tossicità nanometrica è legata principalmente a una questione di gestione, con soglie modificabili all’infinito in funzione delle necessità del momento.
Per il momento, i «limiti» contro cui si scontra l’attuale produzione capitalistica sono parecchi, ma non costituiscono ostacoli insormontabili tali da annunciare la fine della loro preziosa crescita. Al contrario, costituiscono altrettante «sfide» per un’economia in perpetua ristrutturazione. Ad esempio, le previsioni di penuria di petrolio (tra l’altro abbastanza discutibili) incitano da decenni alla ricerca, alla commercializzazione e alla produzione di idrocarburi alternativi, e oggi possiamo vedere dovunque i disastri causati dal superamento di tale «limite»: monocolture di mais e colza per produrre idrocarburi, esplosione del fracking, sostituzione dei tradizionali motori a combustione con motori elettrici (e domani forse a idrogeno) e così via. Le nanotecnologie svolgeranno sicuramente un ruolo fondamentale nell’ulteriore artificializzazione del mondo. In questo senso, ogni attesa non fa che contribuire al progresso del dominio e delle sue opprimenti prospettive. Perdersi in interminabili discussioni sui gradi di pericolosità delle nanoparticelle rischia allo stesso modo di far perdere di vista che si tratta anzitutto di una via importante per l’economia allo scopo di superare determinate soglie e perpetuare così, ipotecando permanentemente il mondo, la sua mortifera esistenza.
In fondo, come davanti alle altre promettenti tecnologie del dominio, la sola questione di qualche interesse da porre, qui e ora, resta quella dell’attacco distruttivo.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 30, 15 giugno 2020]
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A bassa voce

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Arrabbiati. Alle nostre latitudini, gli individui affetti da rabbia venivano sottoposti a severe misure di detenzione fino all’inizio del XIX secolo, poiché si pensava che la malattia di cui soffrivano potesse trasformarli in animali selvatici. Oggi si vogliono rinchiudere gli arrabbiati che non rispettano né i limiti di spostamento né i gesti-barriera quotidiani (tre multe e potenzialmente si è arrestati, grazie allo stato di emergenza prolungato al 23 luglio), giacché si ritiene che il male dell’insubordinazione di cui soffrono necessiti della loro trasformazione in esseri addomesticati. Ma ciò significa dimenticare troppo in fretta che la rivolta può scoppiare anche nel cuore di questi luoghi di infamia, come ad Uzerche (Corrèze) lo scorso marzo, dove duecento prigionieri hanno devastato e poi incendiato circa 300 celle. In questa grande prigione sociale a cielo aperto, l’attuale laboratorio del «deconfinamento» significa null’altro che un tentativo di stringere le sbarre delle gabbie in cui tentiamo di sopravvivere, e di cui la galera sarebbe sia il punto cieco che l’apice (come punizione e come minaccia). Distruggerle tutte non è quindi solo una necessità per avanzare verso l’ignoto di una pratica esagerata di libertà, è anche uno slancio di vita elementare — siano esse di cemento munito di torrette, di cavi interrati o di servitù volontaria.
Attaccare. Lo Stato e i suoi alleati occasionali a tratti sconcertanti che raccomandavano di autorecludersi in massa nel nome del bene comune mentre il dominio si dava carta bianca, ci sono rimasti male. Sia in periferia, dove gli scontri con la polizia non si sono fermati — con incendi di telecamere, di volanti e di edifici istituzionali —, che durante le passeggiate al chiaro di luna che hanno provocato un po’ dovunque la distruzione di decine di strutture di telecomunicazione, questi 55 giorni di confinamento nell’esagono sono stati anche contrassegnati da una certa conflittualità. Non quella di manifestanti che rivendicano un cambiamento dall’alto, ma quella di piccoli gruppi mobili che agiscono direttamente senza aspettarsi né chiedere nulla a nessuno, prendendo di mira due pilastri indispensabili a questo mondo: gli sbirri e i gendarmi garanti di un ordine spietato, e le reti di dati che gli consentono di funzionare in ogni circostanza (dal telelavoro alla telescolastica, dall’economia alla telegiustizia). Se già si sapeva che la guerra sociale non conosce tregua, è rimarchevole che alcuni ribelli e rivoluzionari non abbiano ceduto al ricatto volto alla pacificazione della mano del potere che cura a suo piacimento (selezionando, ad esempio, chi deve morire o vivere), mentre lava l’altra che colpisce, mutila, assassina e imprigiona. Ora che queste due mani si congiungono esplicitamente per formare gli sbirri in camice bianco delle Brigate Sanitarie e altri dispositivi di tracciamento; ora che i poteri di polizia si estendono a una miriade di tirapiedi armati della loro buona coscienza sanitaria (seguaci dei braccialetti elettronici, secondini col volto ben mascherato, controllori di temperature troppo alte, guardiani delle distanze di sicurezza); ora che è più che mai evidente che la digitalizzazione della nostra sopravvivenza continuerà ad accelerare… questi differenti attacchi e sabotaggi condotti in condizioni più difficili del solito potrebbero avere qualcosa da dirci: la normalità è la catastrofe che produce tutte le catastrofi. Non si tratta di implorare il suo ritorno urgente o la sua educata revisione a chi sta in alto, ma di impedirne il ritorno, sia teoricamente che praticamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta.
Dati. Dai campi in cui gli input chimici permanenti sono misurati da droni e satelliti, fino agli esseri viventi addomesticati dall’ecologia della catastrofe munendo gli alberi di sensori e gli animali di chip, attraverso città intelligenti che intendono valorizzare il minimo flusso, dobbiamo affrontare continuamente questa economia del dato che quantifica il mondo riducendolo a una serie di cifre ingurgitate dai computer (presto quantistici), ma anche ad astrazioni matematiche che permettono ogni potere. Cosa c’è di più apparentemente oggettivo dei dati, se non fosse che questi sono influenzati dalla scelta arbitraria di ogni loro misura e criterio iniziali la cui domanda contiene già la risposta e che questa elaborazione di modelli è proprio ciò che consente di integrare l’autorità della gestione senza mai mettere in discussione le cause del problema, per concentrarsi sulle sue sole conseguenze previste? Come affermavano qualche anno fa alcuni feroci oppositori del nucleare e del suo mondo, dopo la distruzione volontaria di rilevatori di radioattività nei pressi di centrali nucleari: «Staccata dai suoi usi, la misura è un surrogato di sapere, quale che sia la sofisticazione delle conoscenze che vi sono investite per farla apparire. Essa diventa uno strumento ideologico quando, come il denaro, permette di modulare le effettive disuguaglianze senza rovesciare i rapporti di dominio che ne sono la causa».
La moltiplicazione di rilevatori di calore con droni e termocamere, la modellizzazione epidemiologica mediante algoritmi di comportamenti sociali ed interazioni umane per registrare, sorvegliare e tracciare, alla fine non fanno altro che consacrare una misurazione di tutto ciò che non può essere risolto dagli individui singolari, per farli rientrare nei ranghi o isolarli. Per l’ennesima volta, se l’epidemia di covid-19 non è che il pretesto per accelerare e consolidare una griglia tecnologica e sociobiologica non prevista, costituisce nel contempo il suo schema ideale nel nome di ciò che è in gioco: il pericolo di una morte improvvisa che rinvia alla vita in sé e non alla sua qualità. È così che finiamo per belare «viva la vita» come qualsiasi mistico religioso, piuttosto che cercare di rafforzare ed estendere il legame tra quest’ultima e la rivolta contro l’esistente che le dà un senso.
Distanziamento sociale. L’integrazione di distanze di sicurezza asettiche tra gli esseri umani nelle strade, nei trasporti, nelle caserme di addestramento o in quelle di sfruttamento è in linea col progetto di un dominio su corpi-soggetti atomizzati che interagiscano essenzialmente in modo telematico. In un momento in cui ciascuno è chiamato a diventare un imprenditore autonomo che valorizza anche il suo capitale-salute, perché rischiare l’ignoto al di fuori della famosa cerchia familiare che costituisce notoriamente un modello di salubrità fisica e mentale? Il distanziamento fisico permanente tra individui permetterebbe così che il gregge si mantenga in buona salute e produttivo malgrado l’epidemia in corso e quelle a venire, facilitando la sorveglianza, l’identificazione e l’isolamento dei corpi sospetti, indocili o superflui grazie ad una massa circolante meno compatta. Allo stesso modo consentirebbe di accelerare una ristrutturazione del flusso dei contatti e dei rapporti umani ottimizzandoli maggiormente affinché non si perdano più in tutti questi eccessi di vita troppo umani e decisamente improduttivi. Ammettiamo che contestare un tale progetto verso un mondo meglio ordinato e più fluido che arriva fino alla minima nostra interazione fisica sarebbe a dir poco irresponsabile!
Un simile progetto di massa non può beninteso funzionare in modo unilaterale grazie al solo manganello, e cosa c’è di meglio di un’epidemia col suo corteo di morti per poter contare sulla partecipazione di una maggioranza di cittadini impauriti che preferiscono la sicurezza alla libertà, la gerarchia accettata alla reciprocità senza delega, l’autorità rassicurante all’auto-organizzazione incerta? A titolo di esempio, gli occhi del potere che già si esercitavano a individuare ogni assembramento sospetto, a reprimere qualsiasi movimento incontrollato di massa, a regolare i comportamenti imprevedibili al di fuori della circolazione ordinaria non sono più soli: «mantenete la distanza» e che ognuno rimanga chiuso nel suo perimetro invisibile, rischia di diventare una delle ingiunzioni più banali, sia essa sbraitata da un drone poliziesco o borbottata da qualcuno perso nel suo schermo.
Il fatto che le misure di distanziamento sociale siano seguite ben oltre situazioni e relazioni interindividuali particolari, dal senso di colpa o dal riflesso di obbedienza, mantiene soprattutto l’illusione che questa società di concentramento e di flussi non sia la fonte dell’epidemia di covid-19, ma che sia sufficiente gestire bene questo momento adattandosi alle nuove condizioni perché tutto l’orrore di questo mondo possa continuare a propagarsi (quasi) come prima. Il diffuso rispetto per questo distanziamento da sé e dagli altri, insostenibile senza grossolane contraddizioni, è il risultato di un esercizio difensivo di temperanza e autodisciplina — integrato perfino in alcuni incontri o manifestazioni — che non solo non agisce contro l’esistente mortifero, ma per di più rafforza solo l’insieme delle separazioni che già lo attraversano. Separazioni in seno alla pienezza della vita per estrarne la sfera del lavoro che consenta l’economia, o quella del sapere condiviso che permetta l’educazione; completa separazione tra ciò che produciamo e le sue finalità; separazione, inoltre, tra il pensiero e l’azione, che apre la strada alla politica.
Una volta che la vita viene sezionata in pezzi catalogati e staccati gli uni dagli altri, una volta che il mondo interiore, il linguaggio e l’immaginario vengono ridotti a riprodurre un eterno presente col dominio come unico orizzonte, non restava ancora che distanziare radicalmente gli atomi fra di loro e con il loro ambiente immediato all’interno della massa informe: la crescente virtualizzazione dei rapporti vi sta in parte provvedendo, il distanziamento fisico generalizzato potrebbe completare questo lavoro di separazione dal reale, trasformando senza ritorno ciò che resta di direttamente sensibile in ognuno di noi.
Virus. Se ciò che preoccupa le belle anime del movimento è frenare la diffusione su scala collettiva del covid-19, si pensa veramente che moltiplicare i piccoli gesti individuali distanziati, mascherinati e di barriera cambierà la situazione, come si autogestisce la propria dose di radioattività in territorio contaminato per continuare a consumare e a produrre? Non è ovvio che gli imperativi economici li rendano altrettanto vani a livello globale quanto il differenziare i rifiuti per salvare il pianeta? Anche a costo di comportarsi da amministratori responsabili del disastro, perché non tentare allora di sradicare i principali focolai di contaminazione che ormai sono noti a tutti, come il trasporto pubblico, i commissariati, le scuole, le fabbriche e i magazzini? Tanto più che si conosce da secoli anche un comprovato rimedio contro i virus: il fuoco. Certo, questo rischierebbe di provocare tutta una serie di altri problemi, come quello di un mondo che ci ha reso completamente dipendenti, ma alla fine bisogna pur sapere cosa si vuole: cercare di frenare il virus chiedendo allo Stato più mezzi per gli ospedali e la ricerca, così come il rigoroso tracciamento delle persone contaminanti, oppure occuparsene direttamente da soli devastando l’organizzazione sociale ed economica che lo favorisce e lo propaga. Sempre che si voglia salvare qualcosa, ovviamente.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 29, 15/5/20]
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Ad alta voce

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
Alternativa. Detto semplicemente: di fronte ad un virus o a qualsiasi disastro, non esiste gestione di massa che possa essere anti-autoritaria. Quali che siano le buone intenzioni di chiunque intenda occuparsi di tutti e di ciascuno, resterà un pastore che trasforma gli altri volenti o nolenti in greggi. In un rapporto anarchico in cui prevalgano la libertà, la reciprocità e l’unicità, l’auto-organizzazione generalizzata degli individui non sopporta nessuna uniformità, nessuna gestione, nessuna separazione delegata a specialisti, nessuna soluzione (ancor meno tecnica o medica) valida per tutti, e diciamolo un po’ crudelmente: nessuna efficacia quantitativa. Ciò che conta non è la certezza o la sicurezza, non è la data di una morte inevitabile da quando siamo nati, ma la qualità individuale, piena ed intera, della vita così come ognuno intende esplorarla. Di fronte al Covid-19 come ad ogni cosa, la prospettiva anarchica è quella di auto-organizzarsi in completa autonomia dalle istituzioni per prendersi cura gli uni degli altri a livello individuale e di coordinamento, e di continuare a minare le fondamenta del dominio.
Reclamare di fatto un confinamento (e domani un deconfinamento) diverso — quando non addirittura lo stesso dello Stato —, reclamare uno sfruttamento e un’istruzione po’ più o un po’ meno a distanza, ovvero sbirri più disarmati e prigioni più vuote, non significa battersi per la libertà. Significa promuovere un’autorità alternativa, una mera riconfigurazione dello stesso anziché la sua spietata distruzione. Non è altro che un miserabile realismo senza mezzi che non spinge fino in fondo il suo spaventoso ragionamento. In alto i cuori! Elencate in maniera un po’ dettagliata le aziende non essenziali che lo Stato dovrebbe ancora chiudere, secondo voi. Per parte nostra, è l’intera economia che vogliamo rovinare. Continuate a stabilire chi deve uscire immediatamente dal carcere, e di conseguenza chi deve rimanerci. Per parte nostra, lo vogliamo raso al suolo con tutti fuori. Spiegateci infine quali misure di polizia militante sarebbero previste contro tutti i refrattari a un confinamento alternativo o ad un tracciamento bio (nessuna gestione di massa senza monitoraggio, giusto?, altrimenti è l’anarchia).
Quando non ci si limita a parlare, essere favorevoli a misure di confinamento di massa, a queste o ad altre più indolori, cioè a misure di reclusione collettiva, non può che significare disciplina, controllo e amministrazione degli individui, oppressione delle loro varie possibilità di auto-organizzazione autonoma, e repressione dei refrattari. Il tutto nel nome dell’emergenza e del bene comune, ovviamente.

Altrove. Pandemia globale e accettazione sociale. Nessun Gran Confinamento nei Paesi Bassi, in Svezia e in Germania. Autodisciplina? Scienziati lunatici? Chiari interessi economici di fronte alla Cina o agli Stati Uniti che non si sono affatto fermati? Tanto meno un Gran Confinamento prolungato in altri continenti, dove la sopravvivenza nell’economia informale non è sufficientemente garantita dalle briciole statali. Là c’è il coprifuoco di notte o dal pomeriggio ma si lascia sopravvivere di giorno, là si cerca di confinare alternando, una settimana su due, uomini o donne, prima una zona poi un’altra… Là come dappertutto lo Stato improvvisa senza dirlo, militarizza per mantenere il potere, scientifizza come gli viene, propaganda per indorare la pillola. Spettri di moti per fame. Spettri di guerre civili. Gestione autoritaria pragmatica che si adatta in base alla resistenza che pensa di trovarsi davanti. Là come qui, d’altronde.


Attaccare. In un periodo come questo, in cui lo Stato e il capitalismo si ristrutturano piuttosto rapidamente, ma non sono pertanto garantiti della stessa stabilità per affrontare le nuove turbolenze sociali che potrebbero sorgere, non restare confinati e attaccare è più che mai importante. Oltre ai loro dispositivi di controllo e sorveglianza, gli snodi di circolazione di energia e di dati rimangono un obiettivo fondamentale in un momento in cui la pandemia tecnologica è parte integrante di tale ristrutturazione.

Detenzione. Tutte e tutti reclusi nella grande prigione sociale. Il tipo, la dimensione e il colore delle gabbie possono variare ed accavallarsi come tante bamboline russe. Ospedali psichiatrici, campi di lavoro, centri per stranieri, caserme di addomesticamento, campi profughi, templi della sottomissione, laboratori del consenso, celle familiari o galere. È da queste ultime, dove le condizioni sono più drammatiche, che continuano a partire segnali di fumo in tutto il mondo. Contro il confinamento dapprima per la fine dei colloqui, poi per il timore di venire contaminati e quindi di morire tra quattro mura sovraffollate, infine per esigere la libertà, come campeggiava su uno striscione degli ammutinati della prigione di San Juan de Pasto (Colombia). E noi, qui fuori, che pensiamo che la libertà consista nell’auto-recluderci e nell’obbedire agli ordini del potere, noi che non abbiamo né sbarre che offuscano l’orizzonte, né filo spinato che lacera la nostra carne, né garitte di sentinelle che ci sparano a vista, non abbiamo proprio nessuna struttura da devastare, nessuna gabbia da incendiare?


Domani. Il deconfinamento sarà sicuramente solo un altro momento del confinamento e durerà per molti lunghi mesi. Sarà forse un po’ meno duro per i cittadini più lavoratori e più esemplari, ma certamente più duro per tutti gli altri, tracciando nuove linee di demarcazione tra i due. Permessi di circolazione interna differenziati, esami obbligatori del sangue o della temperatura, tracciamento digitale incrociato, quarantene obbligatorie, controlli di identità abbinati a una schedatura sanitaria, limitazione degli assembramenti, mascherine nei trasporti, lavoro forzato per rilanciare l’economia, incremento della caccia ai potenziali ri-contaminatori. E frontiere sempre sbarrate al di là dei soli indesiderabili, come con la Spagna che intende farlo per tutta l’estate allo scopo di prevenire una seconda ondata di epidemia in autunno.

Gregge. In fin dei conti, alcuni ritengono che la maggioranza degli individui saranno colpiti da questo nuovo virus. I giochi di confinamento e di deconfinamento non servono quindi ad evitare una contaminazione generale (ci vorrebbe una gestione alla cinese per questo, come minimo) ma sono piuttosto misure di massa destinate a rallentarne la progressione, stabilizzando i picchi ospedalieri pur mantenendo l’economia a galla. Più ci sono persone che restano a casa, meglio lo Stato può gestire la disorganizzazione temporanea nell’industria e i servizi che ritiene importanti grazie ai suoi indispensabili scagnozzi armati. Il confinamento/deconfinamento è anzitutto una questione di continuità e di mantenimento dell’ordine, non di protezione di una popolazione da cui si prepara a difendersi in caso di crisi sociale derivante da una crisi sanitaria. Quanto al virus, gestisce il gregge sperando che una parte sufficiente della popolazione (60%) finisca, certo il più lentamente possibile, per essere definitivamente immunizzata in modo che cessi di diffondersi non trovando più ospiti (il che è una ipotesi molto relativa, dato che la durata di vita degli anticorpi contro il Covid-19 pare sia breve, portando piuttosto a prevedere una serie di ondate infettive). E qualora ciò non accada, lo Stato intende gestire il suo gregge con lo stesso genere di misure drastiche fino all’arrivo promesso per il 2021 di un futuro eventuale vaccino (il che, tra l’altro, significa inoculare artificialmente parte del virus, senza alcuna garanzia che gli anticorpi perdurino abbastanza a lungo o che l’originale non muti).
Dal primo confinamento iniziale per la paura e la servitù volontaria fino ai deconfinamenti mediante algoritmi in camice bianco, con svariate spole di andata-e-ritorno, siamo molto lontani dall’uscire dal rifugio. Per sfuggire alla statistica dei grandi numeri, forse bisognerebbe cominciare a ribaltare il tavolo senza attendere nulla dal potere, e non comportarsi più come un gregge che si considera vivo solo perché non è morto.

Guanti. Per proteggersi dalla porta che si spacca. Dalla rete metallica che si trancia. Dalla merce che cambia rapidamente di mano. Dalla vetrina che si sfonda. Dall’obiettivo che si incendia. Guanti e mascherine per proteggersi dalle impronte digitali e dal DNA, per mantenere una distanza vitale dai laboratori scientifici del virus poliziesco.

Pompieri. Qua una parte della testa del corteo parigino distribuisce mascherine protettive ai vigili, in Cile una parte della Primera Linea pulisce la metropolitana. Supermercati da espropriare? Metropolitane da incendiare? Dopo, sì dopo, i domani canteranno. Forse. O per niente. Quando il governo concederà più permessi di uscita. Nell’attesa si autogestisce il confinamento. Si umanizzano le carenze dello Stato. Auto-organizzarsi per attaccare gli sbirri, saccheggiare i magazzini alimentari o sabotare le arterie tecnologiche della prigione sociale sarebbe troppo rischioso. La rivolta potrebbe essere più contagiosa del virus, chi lo sa? Pianificatori del male minore. Contro-potere tutto contro il potere.

Primavera. Il meteorologo che ti insulta tutti i giorni prevedendo un tempo radioso prima di intimarti a restare in casa. Le nuvole al cesio della foresta di Chernobyl, in fiamme da una settimana, sarebbero forse più convincenti. Ma, come è noto, si fermano alle frontiere.

Responsabilità. Non si può essere responsabili del passato che esisteva prima di noi, né di tutti gli esseri umani che popolano la terra, il continente, il paese, la regione, la città, il villaggio, il quartiere, il vicinato. Per contro, nonostante l’oceano di dominio in cui ci bagniamo — un oceano imposto dalla servitù di molti e la repressione degli altri — si può essere responsabili delle proprie azioni per combatterlo. Laddove ogni vita è sacrificata sull’altare del profitto e dell’autorità, la sola responsabilità individuale possibile in rapporto a ciò che ci circonda è la coerenza tra l’idea anarchica che ci muove e i nostri atti che la rendono viva. Nessun piccolo gesto salverà il pianeta, nessun auto-confinamento impedirà la propagazione del virus. Identificare il nemico nel progresso industriale, la tecnoscienza o lo Stato colpendo le loro strutture senza riprodurre i loro meccanismi di dominio, sarebbe viceversa già più salutare. Sempre che si intenda salvare qualcosa, ovviamente.


Ritorno alla normalità. Non ci sarà questo genere di ritorno all’indietro. Perché noi non lo vogliamo (la normalità che c’era prima era già il problema). Perché neanche loro lo vogliono (ah, era ancora pieno di rigidità troppo umane e di piccoli formalismi, questo prima). Perché la normalità è il gigantesco laboratorio del presente, con i suoi droni e la sua sopravvivenza digitale, con i suoi militari e il suo forsennato produttivismo. Perché come è stato detto che il XX secolo in realtà è iniziato nel 1914 con la Prima grande macelleria industriale mondiale, il XXI secolo ha appena realizzato una svolta definitiva nell’attuale anno 2020, con conseguenze ancora incerte per tutti. Sta a noi fare in modo che tutti i loro calcoli e previsioni del nuovo ordine tecnologico deraglino per sempre.

Stato. Ad eccezione di noti imbecilli i quali ritengono che incoraggiare a spezzare il confinamento equivalga a negare la contagiosità del Covid-19 o ad assumere un gesto infantile di sfida, è ovvio che nessuna azione o auto-organizzazione (in diversi ambiti) possa realizzarsi virtualmente. Per di più, il confinamento di massa è strutturalmente una misura resa possibile da una gigantesca concentrazione autoritaria di forza e mezzi che rimanda direttamente allo Stato. Di fronte a una minaccia così generalizzata contro cui si atteggia a sovrano protettore dei piccoli come dei grandi, si può persino immaginare che risulterà quello che ha fatto, malgrado gli errori, il minimo necessario, o ancor peggio, l’inevitabile, preservando e organizzando la sopravvivenza della maggior parte delle persone pur sospendendo alcuni diritti di base. Quest’ultimo terreno non è certo quello dei nemici dell’autorità, da tempo avvezzi a questi giochi d’equilibrio sospesi tra emergenze decretate dall’alto e intensità della guerra sociale. Se si desidera ardentemente distruggere lo Stato, attaccare la sua onnipotenza confinante che esacerba e rafforza i rapporti di servitù come di cittadinismo, una prospettiva anarchica non può che lottare per una libertà smisurata.

Vivere. Tutto c’era già e tutto accelera. Il che significa respirare in un mondo costruito su fiumi di sangue, di sofferenza, di miseria, di guerre e di avvelenamento generalizzato del vivente. Morte lenta o morte rapida. Vita sospesa e insulsa sopravvivenza dappertutto. «Non potete ucciderci, perché siamo già morti». Rivolta cabila, davanti ai militari, 2001, all’inizio del millennio. «Ci hanno tolto così tanto che ci hanno rubato persino la paura». Sollevamento cileno, davanti ai militari, 2019, venti anni dopo. Era prima. Quando eravamo di fronte a qualcosa di visibile, di palpabile e di attaccabile. Non una dose radioattiva o un microrganismo. Eppure, i rapporti sociali sarebbero magicamente scomparsi con questo Covid-19 che non è una catastrofe naturale? Si muore globalmente di questo nuovo virus oppure del mondo che lo genera consentendo la sua rapida proliferazione in tutto il pianeta: massiccia deforestazione, metropolizzazione e concentrazione urbana, cibo industriale standardizzato, ingestione ad alte dosi di chimica farmaceutica, avvelenamento senza precedenti della terra, dell’acqua e dell’aria, ipermobilità, ecc.? Uscire per fermare tutto piuttosto che contemplare il disastro dietro uno schermo è allora proprio il minimo se si desidera un mondo totalmente diverso. Meglio vivere in libertà che morire confinati. La rivolta è la vita.


[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n.28, 15 aprile 2020]
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Incatenati alla corona

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel

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Entrare nel vivo

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
La realtà che ci circonda è vasta. La detestiamo, perché traspira oppressione e sfruttamento. L’aborriamo, perché malgrado tutte le teorie e tutte le spiegazioni, malgrado l’odio che auspichiamo feroce tra le classi, malgrado le mille spiegazioni fornite per giustificare non solo l’acquiescenza ma perfino l’adesione al potere di grandi masse di oppressi, siamo costretti a constatare — mandando all’aria le mille mistificazioni vittimiste — che questa realtà è in gran parte il risultato della servitù volontaria. A partire da questo, abbiamo davanti due strade. O rinunciamo a qualsiasi interazione con questa realtà, cercando di forgiarci una vita — l’unica che abbiamo — che valga ancora la pena d’essere vissuta… sarebbe comprensibile. Oppure cerchiamo di interagire con questa realtà, affrontandola con le nostre idee e i nostri desideri sovversivi, col rischio di venire fagocitati da essa e di finire per unirci alla grande marcia funebre dell’umanità.
In effetti, queste due strade non sono poi così distanti come si potrebbe pensare. Fuggendo, ci scontriamo comunque con la realtà; viceversa, anche intervenendovi, le consegniamo la nostra parte di un altro mondo, quello che creiamo in modo impreciso dentro di noi. Solo la morte può porre fine a tutte le interazioni — per quanto, a ben guardare e senza cadere nel culto della carogna, anche la morte può avere un significato nella realtà. Lasciando da parte una prospettiva che vorrebbe «uscire» dal mondo, trovare o costruire un «al di fuori», quali sono le condizioni per un’interazione, per un intervento rivoluzionario nella realtà? Dato che questo aggettivo ha perso molto del suo significato negli ultimi decenni, precisiamo fin d’ora che per «rivoluzionario» intendiamo la tensione trasformatrice, lo sconvolgimento dei rapporti sociali esistenti — cosa ben diversa dall’associarlo in modo semplicistico all’avvento di una «Grande Sera» in cui folle ebbre di rivolta uscissero in strada per cambiare tutto da un giorno all’altro. Di fronte alla realtà che aborriamo, come possiamo dunque decidere di intervenirvi, consci di non essere stelle cadenti sbucate dal nulla, ma che le nostre idee, le nostre aspirazioni, per quanto differenti siano, sono pure influenzate da questa stessa realtà — in sostanza, che non siamo esseri caduti dal cielo, ma individui in carne e ossa cresciuti in questo mondo?
È sicuramente difficile cogliere tutti gli aspetti di quello che chiameremo «intervento rivoluzionario». Invece di chiederci che cosa ne faccia parte, non potremmo cominciare con quanto non ne fa parte? È una prima distinzione necessaria che caratterizza l’anarchismo, o perlomeno certi approcci all’anarchismo. L’anarchico non vive due vite — anche se le condizioni di clandestinità, d’illegalità, di segretezza, inseparabili da qualsiasi lotta, possono talvolta portare ad uno stato di schizofrenia alquanto affliggente. Non si è lavoratori al mattino quando ci si reca al lavoro e anarchici la sera quando si va ad incontrarsi coi compagni al locale vicino. L’anarchico non è un «militante», nel senso che non può, a meno di trasformare il proprio anarchismo in un mero programma politico tra gli altri, dividere la sua vita, il suo tempo, tra attività dedicate alla «militanza» e attività dedicate alla sua «vita». In lui alberga una tensione permanente, che talvolta può perfino diventare una vera lacerazione — che può condurlo, non di rado, a rinunciare a tutto e a ridiventare «una pecora in mezzo al gregge». Poiché non crede nelle forze sotterranee che spingerebbero ineluttabilmente il mondo verso la libertà, né nei meccanismi economici che porterebbero all’emancipazione (cosa che rendeva compatibile, per un Friedrich Engels, essere al tempo stesso padrone di un cotonificio per vent’anni e, diciamo, lottare per la causa del proletariato), ha un rapporto innanzitutto etico con ogni aspetto della sua vita. Le sue scelte, i suoi atti, le sue rinunce, lo definiscono anarchico, forse più delle idee di cui discute con i compagni o delle minacce apocalittiche che magari rivolge al dominio seduto in un bar. Non «milita», «è» un anarchico, anarchico inteso non come acquisizione di certe idee e pratiche, ma, per l’appunto, in relazione alla tensione tra ciò che pensa, ciò che vuole, ciò che vive e ciò che fa. Prima ancora di affrontare «l’intervento rivoluzionario», vediamo già una moltitudine di problemi aprirsi davanti a noi.
Non si può pensare all’intervento rivoluzionario esclusivamente come ad una battaglia d’idee. Se l’approfondimento delle idee è importante, non è né immaginabile né possibile trasformare la realtà sulla base di un dibattito pubblico o di una contraddizione logica. I libri, i testi, fanno certo parte dell’attività di un rivoluzionario, ma un libro non è un’arma. Un libro può corrodere pregiudizi e ideologie (che contribuiscono, senza dubbio, a questa spaventosa «servitù volontaria» che conduce le masse, mentre cantano, verso il macello), ma non può abbattere un padrone o demolire una prigione . Per abbattere un padrone occorre un’arma; per demolire una prigione occorrono strumenti di distruzione. Ma prendere un’arma in mano non ci rende ancora capaci di abbattere un padrone: per far ciò, dovremmo essere convinti che è giusto, che è adeguato, che ha un senso abbattere il padrone. Come vediamo, non si possono sbrogliare tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario senza parlare di nuovo al vento.
Le nostre idee allora sono solo fortezze astratte? Analizziamo questa società e comprendiamo come il padrone, tutti i padroni, debbano essere soppressi se vogliamo andare verso una società «senza Dio né padroni». Ma nella realtà non s’incontrano «tutti i padroni», è un’astrazione che rende l’idea concepibile per la ragione, ma non immediatamente operativa nella realtà. Quello che noi possiamo trovare è quel padrone, un padrone, diversi padroni riuniti magari attorno a un tavolo in una birreria parigina. Per cui non c’è da stupirsi quando, traboccanti d’idee sanguinarie di vendetta contro «tutti i padroni», si rischia di ritrovarsi piuttosto disarmati di fronte ad un padrone concreto, pur avendo il coltello tra i denti. Ecco perché tra le idee anarchiche e la realtà del dominio bisognerebbe immaginare e costruire un ponte, un’incursione. Questa è forse la definizione più ampia da poter dare nel parlare di «progetto» e di «progettualità».
Mettendo assieme tutti gli aspetti dell’intervento rivoluzionario, è possibile superare una fase ancora più difficile: immaginarli insieme per costruire un progetto che ci consenta di intervenire nella realtà. Ma attenzione, compagne e compagni che state leggendo, non è una chiacchiera o una masturbazione mentale. Questo tipo di progetto, così inteso, è qualcosa di ben altro che fare questo o quello, pubblicare un giornale o scrivere un libro, fare una rapina o incendiare una industria, organizzare una riunione o far crescere un orto. Cerca di includere, se non tutti, almeno quanti più aspetti è possibile dell’intervento rivoluzionario, per orientarli verso qualcosa da trasformare nella realtà. Ovviamente si può argomentare che fare un bollettino anarchico come questo abbia senso di per sé, che è comunque interessante contribuire all’approfondimento delle idee e alla fermentazione della discussione. Ovviamente si può dire che un attacco contro una struttura del dominio è sempre benvenuto ed è significativo, al di là di qualsiasi prospettiva più ampia in cui sia inserito (o meno). È vero, però c’è un ma… Se si fanno le cose per nostra stretta soddisfazione personale, perché no, la riflessione può anche fermarsi là, senza il bisogno di sovraccaricarsi con altre domande. Ma osiamo dire che un simile approccio corre il forte rischio di mordersi la coda, di svuotarsi dall’interno, perché la soddisfazione personale ne richiede sempre un’altra, più lontana, e così via fino a quando ci si rende conto o che non c’è più nulla da soddisfare (si è «vuoti»), o che non si è più capaci di soddisfare se stessi (e sopraggiungono la depressione e l’amarezza). Se, viceversa, vogliamo caricare ciò che facciamo di un significato che vada oltre il nostro desiderio individuale, di un significato che possa parlare anche agli altri (e perché no, al mondo intero), si è portati a pensare le cose in modo diverso, occorre pensarle altrimenti.
Per riprendere l’esempio di questo bollettino, se fosse solo per la soddisfazione di scrivere qualche (bella, a seconda dei gusti) parola sull’anarchia, vi posso dire in tutta franchezza che smetterei subito. Il mondo è già pieno di belle parole sull’anarchia, che sono là, alla portata di chiunque voglia afferrarle. No, pubblicare questo bollettino ha senso per me perché partecipa, talvolta in modo adeguato e talvolta probabilmente meno, a una progettualità più ampia, che va ben oltre questi fogli mensili messi a disposizione.
Ed ecco il ma. Io non posso, non voglio, sovraccaricare le cose fatte di un senso maggiore di quello che hanno. D’altra parte posso, e voglio, dare alle cose da fare un significato più ampio quando sono collegate, quando si parlano, quando sono pensate in un insieme all’interno di un progetto, ovviamente provvisorio e certo non come un programma da realizzare. Ogni cosa, presa singolarmente, assumerà allora un altro colore, un altro gusto, qualora venga pensata così. La diffusione di volantini, ad esempio, che può diventare presto una routine deludente, può trasformarsi in altro se è pensata in relazione a un progetto. L’incendio di un’antenna, cosa magari un po’ più complicata di una semplice passeggiata notturna, echeggia in modo diverso quando un simile attacco s’inserisce in un più ampio progetto che parta da un’analisi della società contemporanea, o dal ruolo della comunicazione digitale nella riproduzione dei rapporti sociali e nell’economia capitalista. La pratica di questo genere di sabotaggi contro obiettivi sparsi un po’ dovunque, facilmente identificabili, aventi una funzione importante nel buon funzionamento della società, potrebbe quindi potenzialmente diffondersi come proposta concreta per opporsi alla duplicazione digitale del mondo e all’inaudita schiavitù di cui è portatrice. Allo stesso modo, organizzarsi in base alle affinità assume ancor più significato se si inserisce in un progetto che tenda verso, o preveda, la possibilità di un coordinamento, di un’organizzazione informale tra diversi gruppi d’affinità, ovvero con altri individui uniti in forme organizzate miranti ad attaccare le strutture del dominio.
Molti di noi, ciascuna e ciascuno a modo proprio, ne hanno abbastanza di frequentare assemblee tenute da piccoli politicanti, di vedere le nostre aspirazioni frenate da un ambiente tendente alla mediocrità e al realismo, di partecipare a lotte e a cortei dove siamo chiamati a ricoprire il ruolo di «radicali di servizio» approntato per noi dai fautori della strategia dei «rapporti di forza», di ritrovarci al rimorchio di autoritari e gestori dei conflitti. Se tu che stai leggendo non avverti questo e continui a vedere un senso nel possibilismo radicale, buona fortuna, queste righe ti saranno di ben poca utilità. Perché ciò che stiamo proponendo è di farla finita con tutto questo, pur consapevoli che ciò che viene buttato fuori dalla porta potrebbe rientrare insidiosamente dalla finestra. Perché abbiamo bisogno di questa rottura. Negli ultimi anni del resto sta emergendo un po’ dovunque in questo maledetto Esagono, ovviamente nei modi di volta in volta più disparati. Stanchi di correre dietro all’ennesimo movimento sociale e di ritrovarsi in balìa di neo-blanquisti di ogni genere, parecchi anarchici, anti-autoritari, nichilisti, singoli individui agiscono, attaccano e cercano di intervenire da diversi anni nella realtà in mille modi differenti in tutto il territorio, coi propri tempi e in piena autonomia. Sta così dipanandosi una profusione di azioni dirette, per di più in un contesto sociale (poco importa che sia più o meno apprezzato) agitato da cui scaturiscono anche riflessioni e pratiche nuove, a volte può darsi confuse, ma almeno non irreggimentate negli stretti recinti della «mobilitazione sociale» e delle sue corti di militanti.
È per questo che intendiamo qui esortare, suggerire, una riflessione su quella che definiamo «progettualità». E precisiamo subito che non si tratta di una proposta per una progettualità, ma magari per delle progettualità, perché la ricchezza di approcci che si scorgono oggi nell’agire delle compagne e dei compagni non deve in nessun caso essere legata al letto di Procuste perché si adatti a un qualsivoglia «progetto unico». Il confronto, lo scambio, la comprensione reciproca delle diverse progettualità è possibile solo qualora queste vengano enunciate, delineate — con la parola scritta o sussurrate all’orecchio, in maniera dettagliata o almeno abbozzate. Lungi da ogni logora «professione di fede», perché non creare delle connessioni tra l’idea e l’intervento nella realtà, contro la realtà? In questo, la discussione potrebbe diventare, ed è forse il momento, eminentemente operativa, vale a dire concernente prospettive concrete a breve e medio termine, con un elenco delle cose che si potrebbero fare, fino alle ipotesi di ciò che si ritiene di poter condurre in modo conflittuale in questa realtà, di come quest’ultima potrebbe svilupparsi, modificarsi, trasformarsi alla luce del nostro intervento. Una vana chiacchiera? Non credo. Difficile? Probabile.
Da «parte nostra», ovvero da questi fogli che escono ormai da due anni, potremmo enunciare un progetto maturato in maniera informale in quest’ultimo periodo (vale a dire, senza un centro e tramite contributi diretti e indiretti), attraverso numerosi scritti, scambi ed esperimenti. Partendo da un approccio insurrezionale dell’anarchismo che ci è caro, da un anarchismo cioè basato sull’auto-organizzazione, l’autonomia, l’informalità e l’attacco, ci sembra che un tale progetto dovrebbe nel contempo continuare ad analizzare l’evoluzione dello Stato, la ristrutturazione tecnologica dell’economia e della società, e l’intreccio di questa ristrutturazione con le guerre, l’abbrutimento, la perdita del linguaggio e l’assalto all’interiorità degli esseri umani. Tali analisi portano a considerare «la guerra sociale» non in base a criteri classici (scontro tra sfruttati e sfruttatori, più o meno mediati dalle diverse strutture di gestione come il partito o il sindacato), ma piuttosto come un insieme, contraddittorio e complesso, tra lotte specifiche che si articolano contro una precisa struttura o nocività del potere, esplosioni di rabbia — espressione di una diffusa ma molto effimera insofferenza —, mobilitazioni di massa che sfuggono alla mediazione politica classica (come i gilet gialli), o anche interventi più specificamente «anarchici» che tendono alla disorganizzazione, alla destabilizzazione della ristrutturazione tecnologica della società.
Mettendo da parte i primi tre ambiti — per il momento, anche perché altri sono probabilmente nella posizione migliore per farlo, in particolare per quanto riguarda le lotte specifiche in corso — possiamo abbozzare una possibile progettualità su questo quarto aspetto. Essa consiste grosso modo nel proporre come campo d’intervento le infrastrutture, spesso facilmente identificabili, che oggi permettono in gran parte il funzionamento della società connessa: i trasporti, l’energia, la comunicazione. Se solo l’insurrezione può aprire orizzonti veramente altri, rivoluzionari, si può comunque già agire senza attendere che rallenti la corsa del treno del dominio che avanza a tutta velocità verso l’abisso, o anche tentare di farlo deragliare. L’eventualità che una proliferazione di attacchi contro queste infrastrutture possa portare ad una significativa destabilizzazione, ovvero ad una rivolta di massa, non può certo essere garantita (comunque sia, eterna diffidenza verso tutti coloro che ci invitano ad agire sbandierando garanzie), pur non essendo esclusa. Lo si è potuto vedere di recente in Cile, dove il sabotaggio dei trasporti pubblici nella capitale all’interno di una contestazione, ci sia permesso di dirlo, piuttosto banale, contro l’aumento del prezzo dei biglietti, ha, se non scatenato, almeno fatto da scintilla o favorito una rivolta di grande ampiezza. È un’ipotesi, né più né meno, ma che pone in ogni caso questioni operative immediate in ciò che c’è da pensare, preparare e fare.
Inoltre, al di là dei quattro gatti anarchici sparsi qui e là, si può constatare che anche diversi conflitti locali sono incentrati sulle infrastrutture. Qui a venir contestata è la costruzione di un parco eolico, là è una linea dell’alta tensione; altrove, ci si oppone all’apertura di una miniera, all’installazione di un ripetitore o di un apparato 5G (questa mostruosità ancora sottovalutata per ciò che realmente inaugura: un’interconnessione di ogni oggetto, ossia una rete invisibile che collegherà tutto al dominio). Molti di questi conflitti presentano certamente forti connotazioni cittadiniste, ma si vede anche come possano essere più inclini a favorire la pratica del sabotaggio che quella del pettegolezzo: non si discute con una struttura ostile, la si distrugge.
A chi ritiene che una tale progettualità sia extra-terrestre e, considerata l’adesione entusiasta delle masse alle protesi tecnologiche, che rimanga appannaggio volontarista di qualche illuminato, potremmo rispondere evidenziando i piccoli conflitti che brulicano un po’ dovunque, ma anche tutti quei piccoli gruppi che già hanno deciso di colpire questo tipo di strutture specifiche durante il movimento dei gilet gialli.
Tuttavia, la cosa più importante non è nemmeno questa. La cosa più importante è che una tale progettualità (e — lo ripetiamo, perché sarebbe davvero un peccato essere fraintesi su questo punto — senza escluderne altre, a condizione che siano argomentate e discutibili, altrimenti riguardano solo chi le sviluppa, senza aggiungere altro), una tale progettualità, quindi, potrebbe contenere diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario. Essa ci permetterebbe di abbandonare nettamente dei percorsi che non sono i nostri e che possono solo condurre alla cogestione, alla politica, alla riproduzione di miti confortanti sulle «masse», gli «sfruttati», i «proletari», per imboccare una via che sia nostra, che ci appartenga, anche a costo di sbagliare (auspicando di avere la capacità di valutarlo  in maniera critica costantemente, ma andando fino in fondo alle cose piuttosto che a metà). Su questa strada, tutto è da scoprire, anche se possiamo attingere a certe esperienze del passato e soprattutto cogliere i suggerimenti che la realtà ci lancia di continuo.
Infine, il fatto di rifiutare la centralizzazione e preferire la diffusione e l’ordine sparso all’accentramento, l’agire in pochi alla manifestazione di massa, l’autonomia materiale e mentale al programma da realizzare, offrirebbe a tale progettualità delle qualità non insignificanti.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 26, 15 febbraio 2020]
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Speranza

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel
Noi ci culliamo — talora inebriandoci — con fallaci parole che rappresentano solo vaghe astrazioni.
Pretendiamo che la speranza sia il nostro sostegno, se non la nostra guida, nell’aspra lotta che conduciamo nel corso della nostra effimera esistenza.
E coloro che considerano la speranza una chimera a volte sono solo disillusi che, dopo molte speranze infrante, dubitano di tutto e di se stessi.
Ma, a parte questi disincantati dalla vita, tutti gli esseri umani non vedono forse nella speranza il faro luminoso che li guida e verso cui tendono i loro sforzi? Essendo la speranza in un futuro migliore l’unica vera ragione di vita, per tutti?
È così che il credente si rassegna al triste destino della sua vita terrena, contando ingenuamente in una ricompensa nell’aldilà.
Questo è anche il motivo per cui l’eterna vittima pone il proprio futuro nelle mani di un padrone e non si scoraggia, sebbene costantemente ingannata.
Sono queste fallaci speranze che contribuiscono a prolungare miseramente una vita sociale talmente assurda e monotona.
Sperare significa credere in un’ipotetica felicità e aspettarsela ingenuamente dagli dèi, dai padroni o dal cieco caso.
Farsi cullare da una speranza ingannevole significa far addormentare ogni energia in se stessi, talvolta è rinunciare persino a qualsiasi idea di lotta, significa preparare un avvenire che è solo un ritorno del passato e una triste continuazione del presente.
Non dobbiamo avere alcuna fiducia cieca; non crediamo in niente; nessuno può migliorare la nostra vita meglio di noi stessi. Acquisiamone coscienza e mettiamo la nostra energia in continua attività. Lottiamo e reagiamo contro tutto ciò che ostacola la nostra esistenza. La speranza indebolisce e imbroglia. Ci fa marcire nel tran-tran di un’ebete ingenuità o sprofondare in un tetro scoraggiamento.
La volontà, madre dell’azione, è un reale fattore di vita.
Bisogna agire, non sperare.
Albert Soubervielle en L’idée anarchiste, n.5, 8 maggio 1924
[Avis de tempêtes, n°25, gennaio 2020]
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Un’arte antica

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

«A dirla in breve, tutti i Numi aborro»
Eschilo, Prometeo incatenato

Molti secoli dopo la tragedia di Eschilo, il figlio di un contadino scozzese si imbatté in un fenomeno che il Prometeo della leggenda non avrebbe rinnegato: il fuoco, come conoscenza e come arte. Venuto ad annettere alla Corona britannica le isole del Sud Pacifico, James Cook descrisse così nel suo diario la visione che gli apparve quando raggiunse le coste australiane nel 1770: «Ovunque siamo, vediamo fumo durante il giorno ed incendi di notte… Quel continente è un continente di fumo». Questa arte del fuoco abilmente gestita dagli aborigeni consentiva loro di coltivare terre aride (con la tecnica agricola del debbio), di favorire certe sostanze che attirano le prede, di formare boschi aperti o mantenere praterie erbose che favorivano la caccia. Ogni giorno, centinaia di fuochi aborigeni mantenevano ciclicamente un paesaggio a mosaico che alternava campi, praterie e foreste aperte. La specificità pirofila di parte della flora australiana di arbusti è tale che ancora oggi addirittura un quinto di quelle specie hanno bisogno del fuoco per la germinazione dei loro semi.
Ma cosa volete che un piantatore di bandiere capisca in materia d’arte prometeica, lui che fin dal suo primo approccio si rivolse a colpi di moschetto agli abitanti di quelle terre? Dopo aver ampiamente sterminato gli aborigeni (passati dai 750.000 dei tempi di Cook ai 20.000 del 1920) e represso non senza resistenza le loro pratiche incendiarie al fine di introdurre bestiame e recinti, i coloni non si resero nemmeno conto che i loro allevamenti estensivi di pecore avevano sterilizzato il terreno di quel fragile ambiente in meno di una generazione. Se a questo si aggiunge il fatto che l’Australia è diventata a poco a poco una gigantesca miniera a cielo aperto (con 60.000 miniere abbandonate e 400 ancora attive), si arriva ai giganteschi incendi che stanno devastando quel continente dal mese di novembre.
In primo luogo, quel megafire ha fatto abbondantemente parlare di sé perché sta divorando un paese ricco sorpreso dalla sua furia, al punto che il suo governo attende ormai l’arrivo delle piogge estive come se fossero un nuovo messia. Poi, poiché a differenza del precedente storico di vastità ancora maggiore (un’area di 117 milioni di ettari era bruciata nel 1974-75, ossia undici volte più di oggi), questo non sta interessando solo l’interno più desertico ma direttamente il volto radioso del paese situato sulle coste orientali e meridionali: le metropoli di Sydney, Melbourne e Canberra, così come numerosi bacini di turisti (parchi nazionali e altre riserve naturali allestite). Per tre volte da novembre, è stato dichiarato lo stato d’emergenza per una settimana nelle province del New South Galles e della capitale, causando l’evacuazione forzata di 100.000 persone (tra cui 30.000 beoti vacanzieri) e l’intervento dell’esercito. Il dispiegamento sull’area di cinquemila soldati con ampi poteri — che vanno dalle evacuazioni forzate e le requisizioni di beni alla sospensione delle libertà in vigore — con aerei, gipponi blindati e navi da guerra, dà un assaggio di cosa sia una qualsiasi gestione statale di una catastrofe che mette in pericolo i suoi interessi. Un rapporto che consente anche di coordinare meglio pompieri e assassini in uniforme per gerarchizzare le priorità, poiché una infrastruttura critica da preservare viene sempre prima di qualsiasi abitazione, e una miniera di titanio, o tantalio, o torio, o nichel, o litio, o carbone, o tungsteno con cui l’Australia rifornisce a profusione l’industria di morte viene sempre prima di qualsiasi famiglia di koala.
Senza ironia, la situazione è tale da venire descritta in loco «Chernobyl del clima». Non perché l’Australia è il terzo produttore mondiale di uranio con il suo radioso giacimento Ranger sfruttato nel bel mezzo del famoso parco naturale di Kakadu per rifornire le centrali giapponesi, ma perché le colonne di fumo rilasciato nella stratosfera da questi mega-incendi che si moltiplicano dall’Amazzonia alla Siberia e dal bacino del Congo all’Artico, fungono già da modello per studiare le conseguenze di un eventuale inverno nucleare. Tuttavia, proprio come Chernobyl o Fukushima, questa catastrofe non ha proprio nulla di «naturale», la sfrenata devastazione dell’ambiente non è un semplice errore di negligenza dell’attuale organizzazione sociale suscettibile di essere corretto una volta riconosciuto dai suoi dirigenti, ma una delle ovvie conseguenze del capitalismo.
Come tutti i miti, quello di Prometeo è stato oggetto delle più diverse interpretazioni, poiché la loro funzione è proprio quella di mobilitare il passato in funzione dello sguardo da portare sul presente. E come avrebbe potuto sfuggirvi il Titano greco, lui che rubò con un atto di ribellione il fuoco sacro dell’Olimpo per portarlo agli umani, prima di essere condannato da Zeus a restare incatenato mentre un’aquila arrivava ogni giorno per divorargli il fegato? A partire da quel fuoco sottratto, simbolo di conoscenza, alcuni si sono soffermati ad esempio sugli scontati tormenti di Prometeo come una metafora della paura del futuro; altri l’hanno usato per mettere in guardia gli umani da una volontà di onnipotenza tecnica al limite dell’eccesso; e altri ancora lo hanno talvolta invocato in nome del destino mitico delle masse proletarie in marcia verso la grande sera.
Ma cosa accadrebbe in fin dei conti se, invece di rifugiarsi dietro il mito di un necessario intermediario trafficante di fuoco, ci si sbarazzasse una volta per tutte della sua figura per voltarsi verso l’utopia e agire in prima persona? Quella delle coscienze individuali insorte, quella dei favolosi Titani che spezzano le catene forgiate dagli dèi moderni dell’autorità e del progresso. Oh, come sembrerebbe allora assurdo ad ogni essere la cui protesi tecnologica non serve né da coscienza né da cuore, chiedere ai tiranni di risolvere un problema di cui sono la causa! Oh, come sembra più che mai tempo di fermare tutto noi stessi sviluppando quest’arte antica, diffusa e mirata, contro tutto ciò che ci distrugge. Perché ciò che non aveva capito un esterrefatto James Cook prima che i suoi discendenti cospargessero l’Australia di veleni, è che il problema non è il fuoco, ma contro chi e contro cosa sia indirizzato.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 25, gennaio 2020]

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