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Author: avisbabel

Storm warnings #45 (September 15, 2021)

Posted on 2021/11/05 - 2021/11/18 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 45 (September 2021) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

 Storm warnings, issue 45 (September 15, 2021) :

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“Reality has never taken the imagination hostage to such an extent as it has in these last days. Our desires and our wildest dreams are dominated by an invisible catastrophe that threatens and confines us, tying our hands and feet to the shackle of fear. Something critical is being played out right now around the unfolding catastrophe. Ignoring the few Cassandras who have been issuing warnings for decades, we have now moved from abstract ideas to concrete facts. As the current emergency with all its prohibitions demonstrates, what is at stake is not only the possibility of survival, but something much more important: the possibility of living. This means that the catastrophe that affects us today is not so much imminent human extinction – to be avoided, we are reassured from above and below, thanks to an absolute obedience to the experts of social reproduction – but rather the invasive artificiality of an existence whose  omnipresence prevents us from imagining the end of the present.”

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Storm warnings #43-44 (August 15, 2021)

Posted on 2021/11/05 - 2021/11/05 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 43-44 (August 2021) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

 Storm warnings, issue 43-44 (August 15, 2021) :

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“Carahue is located 60 kilometers north of Temuco, capital of the Araucania region located in the heart of Wallmapu, a “belt of lands” inhabited by Mapuche communities and dominated by the Chilean state. On Friday, July 9, 2021, at approximately 5:00 pm, a group of weichafé (Mapuche “warriors”) from the  Lafkenche-Letraru Territorial Resistance Organization, armed local organizations that are part of the Coordinadora Arauco-Malleco (CAM), entered the Santa Ana-Tres Palos estate. The estate is operated by the forestry company Forestal Mininco, a subsidiary of the cellulose giant CMPC. The assailants threatened the personnel present, injured a defiant employee and set fire to a minibus, a skidder and a tanker. The carabineros assigned to guard the site then sounded the alarm. As they retreated, the weichafé came across one of their patrols, which opened fire. One weichafe was shot in the head and died on the spot. The next day, the CAM claimed its dead weichafé: Pablo Marchant, “Toñito”, 29 years old, ex-student in anthropology who had joined the Mapuche struggle five years earlier.”

Posted in English

Storm warnings # 42 (June 15, 2021)

Posted on 2021/11/04 - 2021/11/05 by avisbabel

Storm warnings, anarchist bulletin for the social war, issue 42 (June 2021) came out. It is the full English translation of Avis de Tempêtes.

Earlier issues and translations in different languages are available for reading, printing and spreading on the website https://avisbabel.noblogs.org

 Storm warnings, issue 42 (June 15, 2021) :

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“Since its beginnings, the management of the covid-19 epidemic by the authorities has been logically characterized in our latitudes by a predominance of economic imperatives and the preservation of the social order, which even the constantly-invoked medical rationale of the State no longer manages to conceal.
But what is also striking is that the infinite forms of self-organization that could have arisen from different individuals to face the virus, and continue to act in spite of it, were immediately paralyzed by the quicksand of contradictory recommendations and staggering figures: mortality and lethality rates, positivity rates, incidence rates, emergency room and intensive care unit occupancy rates, persistent antibody rates, reinfection rates… and so on. This highlights once again that by starting from the politics of large numbers rather than from oneself – with one’s doubts as well as one’s burning desires – reflection generally ends up being mired in a managerial logic, where productive calculation quickly takes the place of life and its expansive excesses. To break the very model that presides over any statistical reduction of human complexity, to make uniqueness exist beyond averages and to recreate diversity by dismantling the aggregates of data, there are no thirty-six solutions. It is the very terrain where each individual is summoned to bow to a collective superior interest that must be refused. It is one’s own sensitive relationship to life, to death, to illness, to taking risks, to mutual
aid, to the stars, that one has to defend in the face of the social requirement to sacrifice it on the altar of quantity. Whether the latter is called the homeland, economy, common good… or even collective immunity.”

 

Posted in English

A tentoni…

Posted on 2021/10/27 - 2021/11/05 by avisbabel
Soli nella foresta?

«Isère: Complottista e arrabbiato con lo Stato,
incendia alcune antenne-ripetitori»
«Drôme: Il piromane di Pierrelatte:
anti-5G ma non anti-fibra ottica»
«Rhône: Arrestati due monaci
per aver dato fuoco ad alcuni ripetitori 5G»
«Parigi: Antivax sabota 26 antenne 5G
per salvare la Francia dal complotto del Covid19»
(alcuni titoli di giornali negli ultimi mesi)

I servizi statali hanno registrato centinaia di sabotaggi a partire dal 2018 contro infrastrutture di telecomunicazione. Antenne incendiate, fibre ottiche sezionate, centraline bruciate, armadi di distribuzione telefonica scardinati: queste pratiche si sono diffuse in tutto il territorio e hanno avuto un evidente incremento quantitativo nel corso degli ultimi due anni. Anche la qualità delle attività notturne dei sabotatori sembra aver fatto un salto di qualità: ci sono stati sabotaggi che hanno interessato nodi particolarmente sensibili, altri coordinati o ripetuti nella stessa area geografica, alcuni volti a interrompere le comunicazioni di un struttura precisa, in una zona precisa o in un momento preciso… Insomma, malgrado i reiterati avvertimenti delle autorità, le grida di allarme degli operatori e un numero non trascurabile di arresti, continuano gli attacchi contro queste infrastrutture che restano difficili da proteggere da un colpo di tenaglia furtivo o da un incendio notturno.
Tuttavia, pur prendendo indubbiamente di mira le vene del dominio tecnologico, le motivazioni specifiche e le aspirazioni più ampie delle mani che li realizzano rimangono spesso sconosciute. La repressione, di cui uno dei compiti principali è ovviamente quello di individuare gli autori di misfatti che turbano il buon funzionamento della società, ha però svelato in parte la diversità delle persone che si dedicano a queste passeggiate sotto la luna. Leggendo con cautela le notizie dei giornali o le dichiarazioni dei condannati «citate» dai giornalisti, ed evitando di riprendere a nostra volta i «profili» e le «categorie» stabilite dai servizi dello Stato a fini di mappatura, schedatura e repressione, negli ultimi anni abbiamo visto condannare persone assai diverse per attentati contro la connessione permanente. Durante il periodo di massimo splendore dei Gilet gialli, diversi piccoli gruppi hanno effettuato, ad esempio, sabotaggi nel contesto o a margine di questo eterogeneo movimento di rivolta. Altri condannati hanno specificato in tribunale la loro sensibilità ecologista, la loro opposizione al 5G per i suoi effetti nocivi sulla salute e sull’ambiente, la loro appartenenza alla sinistra o il rifiuto da parte loro del controllo. Altri ancora, pur di fronte a prove a proprio carico e infine condannati, hanno rifiutato fino alla fine di lanciarsi in lunghe spiegazioni in tribunale o sulla stampa. Dietro il loro ostinato silenzio potrebbero certo nascondersi visioni poco liberatrici, ma rifiutarsi di parlare con uno sbirro o un giudice, o non vedere il senso di spiegare le proprie tensioni e le proprie idee a un giornalista, non significa necessariamente non avere alcun «problema a venire associato al complottismo o all’estrema destra». Allo stesso modo, non appartenere a nessun ambiente più o meno «militante», non avere un «comitato di solidarietà» che difende le proprie idee quando si viene arrestati, non scrivere lettere pubbliche per spiegare le proprie azioni, non vuol dire far automaticamente parte dei «nazistoidi» che progettano lo scatenamento di una guerra razziale attraverso una diffusione del caos, o dei «complottisti» che si fanno imbottire il cervello da internet, o dei «fondamentalisti» che equiparano le innovazioni tecnologiche all’opera del diavolo.
Ma negli ultimi mesi, titoli di giornale come quelli riportati all’inizio di questo testo hanno perfino messo in discussione quella che qualcuno potrebbe definire «benevolenza» nei confronti del silenzio degli autori di attacchi, arrivando in qualche caso a provocare un attacco di febbre esistenziale nei compagni. Il ragionamento sembra essere così imbastito: se dietro tutti questi atti anonimi — sì, bisogna precisarlo, la maggioranza degli attacchi contro le infrastrutture di telecomunicazione non è stata seguita da comunicati di rivendicazione, e non è stato fornito alcun indizio di appartenenza ideologica agli investigatori né ai diffidenti guardiani della genealogia — ci possono essere anche individui poco affidabili come illuminati da Dio, attivisti patriottici o persone alquanto confuse con poche velleità di approfondimento, … allora ogni attacco anonimo dovrebbe essere trattato come qualcosa che proviene probabilmente, o molto probabilmente, da persone poco raccomandabili.
L’errore logico salta agli occhi, ma poco importano i ragionamenti, le argomentazioni, le valutazioni critiche o gli approfondimenti, quando è più facile sentirsi soli nella foresta piuttosto che apprendere che altre persone non disprezzabili, che non si conoscono e che hanno forse, con molta probabilità, visioni e sensibilità assai diverse dalle nostre, possano ugualmente sgattaiolare attraverso il sottobosco. Soli nella foresta, soli come anarchici, puri servitori di un alto ideale, senza contraddizioni nella nostra vita, senza «macchie» sul nostro blasone patrimoniale, senza dubbi nei nostri pensieri e senza «colpe» nei nostri rapporti e nel nostro modo di vivere, chiaro come un plenilunio e senza alcuna «illusione rivoluzionaria» o «insurrezionale». Eppure, sebbene sia sempre possibile mentire a se stessi, sebbene sia sempre possibile costruire castelli di carte che il primo vento della realtà spazzerà via come sabbia, esistono anche altri percorsi che non si astraggono dal mondo che ci circonda, che non hanno bisogno di issare le nostre idee e coloro che le incarnano in cima a un piedistallo al di sopra di ogni possibilità di errore, al fine di dare un senso alla lotta e un significato alla propria vita.
Perché noi non siamo soli nella foresta. Non siamo gli unici fattori umani del disordine, così come neanche gli esseri umani sono gli unici fattori che turbano i fragili equilibri su cui questo mondo in pieno dissesto cerca di avanzare. Altre persone agiscono, con idee forse meno approfondite delle tue, con sensibilità forse più affinate delle mie, mosse da un immediato desiderio di rivalsa contro un sistema mortifero, da un’oscura vendetta contro una vita privata di senso, così come da una convinzione ideologica o religiosa in conflitto con la marcia tecnologica del mondo.

I perché
«Perché in fondo il succo della questione non riguarda i presunti perché di perfetti sconosciuti di cui comunque non sapremo mai nulla (salvo in caso di un eventuale arresto, malaugurato per chiunque), ma come intendiamo, in seno alla guerra sociale, far risuonare gli atti che ci parlano e vibrano con le nostre idee. Siano essi collettivi o individuali, diffusi o specifici, ampiamente condivisibili o perfidamente eterodossi, totalmente anonimi o etichettati come sovversivi, all’ombra dei riflettori o pubblicizzati dai loro autori in differenti maniere»
(Ricercati interconnessi, luglio 2021)

Di fronte alla constatazione che la foresta non ospita solo anarchici, si aprono sostanzialmente due possibilità, come sempre con mille sfumature intermedie.
La prima consiste nel considerare che, poiché nessun altro oltre a noi condivide le idee anarchiche (almeno nella loro completezza che le differenzia fortemente da ideologie che si possono più o meno fare a pezzi a seconda della situazione e dell’inclinazione del momento), l’insieme degli «atti di rivolta», di «brevi del disordine», di «frammenti di guerra sociale» — poco importa come vogliamo chiamarli — sono sicuramente parte del panorama in cui agiamo, il fondo della trama, ma occorre stare ben attenti a non fornir loro delle motivazioni. Poi, via via che le motivazioni sfuggiranno dalla penombra della foresta dando un colore specifico a questi atti, colore che in linea di principio non ci piacerà mai del tutto (dato che gli anarchici sono gli unici a condividere le idee anarchiche), avremo sempre più bisogno di affermare o di chiarire le nostre intenzioni e motivazioni rispetto a quelle degli altri. Perché qualsiasi silenzio da parte nostra potrebbe portare acqua al mulino di chi non condividiamo. Saremo allora costretti ad accendere torce in mezzo alla foresta, e fare in modo che i roghi che appicchiamo ardano ancora più forti, più alti e più luminosi di quelli degli altri. Correndo quindi il forte rischio che l’identità anarchica diventi in realtà la nostra principale preoccupazione, che si finisca con l’instaurare (anche all’interno della nostra stessa cerchia) una sorta di catechismo che determina i punti positivi e negativi, non riuscendo più a cogliere in definitiva la diversità e la ricchezza delle individualità come un frutto della libertà, ma come una terribile minaccia.
La seconda possibilità resta quella di partire sempre da noi stessi, dalle nostre idee e aspirazioni anarchiche, ma percependo gli altri come «fattori di disordine» e non cose da assimilare o da presentare come se fossero — inconsapevolmente e sotterraneamente — ispirate dal sacro fuoco dell’anarchia, bensì semplicemente come elementi che hanno un loro peso e un significato nella guerra concreta (e non platonica o idealista) condotta dagli esseri umani. Una guerra «sociale», se si vuole, nel senso che attraversa l’intera società e ruota pur sempre attorno alla questione del potere (in tutte le sue declinazioni), e in cui gli anarchici sono coloro che difendono la necessità della distruzione del potere anziché la sua riorganizzazione. Questa «guerra sociale» non è l’espressione della tensione verso la «liberazione totale» né verso «l’anarchia», essa costituisce solo il conflitto da cui emergono e si modificano i rapporti sociali, che a loro volta forgiano le modalità della «guerra sociale». Le motivazioni espresse, tacitamente o esplicitamente, da chi è coinvolto in questa guerra devono allora essere ricollocate nel loro contesto storico, e non estratte per compararle nel pantheon delle astrazioni. Senza beninteso negare il loro peso, questa seconda possibilità (scusate lo schematismo troppo grossolano) non considera tali motivazioni l’unico riferimento, il solo indizio della realtà, ma uno fra i tanti. L’esigenza di stabilire una genealogia degli «atti di rivolta», di sondare le motivazioni dei loro autori, si fa qui sentire di meno — proprio come l’esigenza di rivestire sistematicamente di spiegazioni i propri di atti. Le spiegazioni degli atti singolari lasciano allora posto all’elaborazione di una progettualità che tenta di andare oltre ciascuno di essi, e il fatto che questa progettualità abbia finalità insurrezionali (lo scatenamento di una situazione di rottura) o altre ancora, non farà necessariamente grossa differenza. È vero, come sottolineano certi critici, che ciò potrebbe portare a scartare del tutto il peso delle motivazioni, col rischio di non considerare tale fattore, che non è certo l’unico ma che comunque resta. In questo caso, se le «motivazioni» dietro agli atti di rivolta non sono l’elemento esclusivo che potrebbe interessare gli anarchici per ciò che esse generano, ciò non dovrebbe però spingere a negare completamente la loro influenza nella realtà della guerra sociale.

Azioni che parlano da sole?
«Niente di ciò che viene pronunciato appare
tanto carico di minaccia quanto il non-pronunciato»
Stig Dagerman

In una realtà complessa come la nostra le cose sono ovviamente ancor più complicate e finiscono anche per gettare nella confusione ogni schematismo e ansia, richiedendo ulteriori riflessioni.
Se da un lato il mutismo degli insorti può talvolta finire per offuscare il peso delle motivazioni, dall’altro risponde anche all’esigenza pratica di non fornire indizi al nemico statale. Allo stesso modo, se da un lato difficilmente si può dubitare della necessità di chiarire le ragioni in un contesto confuso, ovvero in un contesto di aspro malcontento che incontra una proiezione strategica dei neofascisti (come nell’attuale opposizione al pass sanitario e negli attacchi contro strutture come i centri vaccinali), dall’altro occorre restare lucidi sul peso relativo delle parole e di ciò che riescono ad esprimere e a trasmettere. Ciò vale ovviamente per qualsiasi espressione linguistica, dal manifesto al volantino passando per la discussione, e fino ad un giornale o ad una rivendicazione: tutte sono condizionate dall’altrui capacità di comprendere ciò che viene scritto o detto.
Se, ad esempio, vogliamo continuare a poter apprezzare le azioni altrui quali differenti espressioni in seno alla «guerra sociale» — dagli attacchi contro la polizia nelle periferie fino ai sabotaggi anonimi di infrastrutture — dobbiamo allora trovare un altro modo per farlo, che non sia semplicemente quello di pesarle sul bilancino dell’anarchismo. Altrimenti dovremo deciderci una volta per tutte ad evocare solo azioni debitamente rivendicate da anarchici, unico modo per evitare alla radice ogni rischio di speculazione, di valutazioni affrettate e di malsane inquisizioni — sapendo che ciò sarebbe solo provvisorio, giacché l’anarchico che ieri ha compiuto una bella azione potrebbe anche rivelarsi oggi una merda nei suoi rapporti quotidiani o cambiar bandiera domani…
In ogni modo, rimane ovviamente importante prendersi il tempo per approfondire in maniera critica il nostro rapporto con gli altri esseri della foresta, così come il nostro modo di agire. Per contro, se in effetti non esiste nessuna ricetta da applicare né vulgata da raccontare, non possono esserci neanche consegne da rispettare sul «come fare», pena l’essere accusati di volersi nascondere dietro immondi nazistoidi o altri fanatici. Nessuno, nemmeno il più ottuso fra loro, può tentare di imporre alle compagne e ai compagni l’obbligo di motivare le loro azioni, di spiegare e giustificare in dettaglio i loro progetti, di etichettare le loro azioni in base a certi requisiti, solo per evitarsi l’acredine di un qualunque cronista della guerra sociale. Spetta comunque a ciascuno agire come meglio crede. A costo di lasciare gli uni nell’ignoranza e nell’incomprensione, e di preservare l’ombra per coprire le attività degli altri. O a costo di deludere gli uni con una esibizione ritenuta troppo indelicata, e di ispirare gli altri con l’affermazione chiara e precisa delle idee e dei sentimenti che hanno ispirato un’azione.
Perché, alla fin fine, le azioni parlano davvero da sole? Da un lato sì, nel senso che sono la manifestazione di un attacco concreto contro una struttura o una persona concreta. La distruzione di un traliccio è la distruzione di un traliccio, poco importa come si vorrebbe interpretarla. Dall’altro no, perché non possono esprimere di per sé tutte le motivazioni, le tensioni, le sensibilità che hanno spinto gli autori a realizzarle. Quindi le azioni sono ciò che sono, un fatto materiale distruttivo che può ispirare o aprire l’immaginazione (oppure no), né più né meno. Allo stesso tempo, sono anche tutti questi atti a costituire il panorama in cui si agisce, e di cui si fa parte. Essi assumono quindi il loro significato anche in un contesto, e non solo grazie all’eventuale espressione esplicita degli autori. Disturbando, interrompendo, mettendo in discussione la vita di altre persone, non potranno mai essere proprietà esclusiva dei loro autori, così come gli autori non saranno mai i soli ad attribuire ad esse un senso (poco importa che sia per apprezzarle o condannarle). Di fronte a ciò, il fatto di rivendicare o meno un’azione non cambia radicalmente la situazione. «Gli altri» non sono semplici spettatori passivi che subiscono senza batter ciglio sia gli atti che i significati che talvolta i loro autori vogliono dar loro: ne sono direttamente coinvolti visto che le loro vite vengono modificate (in modo più o meno passeggero) dall’azione, visto il disgusto o l’entusiasmo che può ispirare in loro, ecc. ecc.
Può allora una rivendicazione aiutare a comprendere un’azione? Ovviamente, così come potrebbe viceversa renderla incomprensibile ai suoi lettori, gonfiandola a tal punto o gravandola talvolta di così tante parole da farla quasi annegare in un trattato e seppellire il semplice suggerimento che essa contiene sempre: distruggiamo ciò che ci distrugge. E d’altro canto, il fatto di rivendicare ci mette davvero al riparo dalla possibilità di essere accomunati a persone poco raccomandabili? Considerato che la foresta è vasta e che le azioni risuonano ben più lontano e al di là delle nostre stesse parole (gli «effetti» della propaganda, attraverso i giornali anarchici o attraverso rivendicazioni anarchiche, saranno comunque relativi), si sarebbe piuttosto propensi a relativizzare questa convinzione, e in ogni caso a non considerare la rivendicazione una sorta di soluzione magica, un bicarbonato destinato a risolvere tutti i problemi posti dalle azioni e dalla loro possibile comprensione.

Sinistra, destra, sinistra, destra: al di fuori!
«Il fatto che da settimane la sinistra vada a spasso mano nella mano con i fascisti/cospirazionisti dovrebbe metterci in guardia sul pericolo insito nell’idea di lotta comune, che ci induce a non badare a chi siano le persone con cui lottiamo, finché si hanno le stesse pratiche e lo stesso obiettivo. Dimentichiamo che queste persone di cui applaudiamo le azioni o con cui manifestiamo hanno posizioni opposte alle nostre su quasi tutto, e che noi in altri contesti saremmo il loro bersaglio»
(Refrattari solidali, rivendicazione contro
Orange a Grenoble, settembre 2021)

Da diversi mesi, buona parte dell’opposizione alle misure sanitarie restrittive del governo sembra essere guidata da personaggi di destra. Anche in altri paesi, come l’Italia, i Paesi Bassi o la Germania, i nazistoidi sono scesi in piazza numerosi e hanno chiaramente segnato la loro presenza nel corso delle mobilitazioni d’altronde molto eterogenee. In diverse occasioni gli anarchici sono stati persino attaccati da gruppi fascisti, e per fortuna è successo anche il contrario. Tuttavia, ritrovarsi sullo stesso terreno del conflitto non significa necessariamente essersi appropriati dell’indigesto vocabolario degli opportunisti in cerca di «fronti comuni» o teorizzanti «oggettive alleanze» come strategia politica. Pur avendo sempre la possibilità di sbattere la porta ed abbandonare un terreno di lotta che non ci sembra offrire alcuna possibilità di sovversione o di azione liberatrice, nessun conflitto potrà comunque mai corrispondere pienamente ai soli criteri anti-autoritari. Agire su un terreno conflittuale che non è «puro» (e quale lo sarebbe?) ovviamente non significa avallare l’autoritarismo che vi può essere presente, e la questione sarà sempre più quella di come agiamo, e in quale prospettiva.
Dall’altra parte del Reno, ci sono ampi settori della sinistra radicale e libertaria che accusano coloro che difendono gli attacchi anonimi contro le infrastrutture di telecomunicazioni o energetiche di fare «fronte comune» con i nazisti, o in ogni caso di giocare il loro gioco (dato che in generale i militanti nazisti pare siano poco inclini a rivendicare e teorizzino inoltre l’attacco alle infrastrutture al fine di accelerare il Tag X, il Giorno del crollo sociale e inizio della «guerra razziale»). Per di più, siccome buona parte del terreno dell’opposizione al 5G sembra essere colà occupato da comitati apertamente complottisti («Querdenker») e condiscendenti nei confronti dell’estrema destra, gli attacchi alle infrastrutture possono non essere più percepiti come sabotaggi al tecnomondo, ma come dimostrazioni della virulenza nazista. Dall’alto dei collettivi antifascisti e dei circoli di movimento vengono poi screditate le azioni non rivendicate, una volta sancito il principio para-poliziesco che «azione non rivendicata contro un’infrastruttura uguale azione nazista». Tanto più che alcuni di loro, da buoni adepti del progresso collettivo e civilizzatore, generalmente non riescono a concepire la portata sovversiva di attentati a quel «bene comune» che a loro dire sarebbe l’elettricità o la connettività virtuale.
Di fronte alle attuali ristrutturazioni tecnologiche del dominio, e da qualsiasi parte lo si prenda, una piccola frase di Orwell — di certo non un nemico di ogni autorità — resta di inquietante attualità: «La vera divisione non è fra conservatori e rivoluzionari, ma fra autoritari e libertari». Al di là del Reno, queste voci della sinistra radicale o libertaria tedesca non solo accusano gli anarchici di voler scatenare una «guerra civile» mediante attacchi alle infrastrutture (allo scopo principalmente di creare disordine e compromettere le catene tecnologiche, pratiche che possono anche far parte di una progettualità insurrezionale), ma poi, puntando il dito accusatore, insistono affinché tali attacchi siano perlomeno accompagnati da attestati politici di buona volontà («giustizia sociale» ed «emancipazione progressiva» invece di scatenamento della libertà, «contro i dominanti» ma comunque comprensivi nei confronti della sottomissione e dell’adesione dei dominati). Di fatto, chiedono solo la continuazione della buona vecchia tradizione opportunista che è sì disposta ad usare l’arma del sabotaggio, ma a condizione che serva da veicolo e da megafono ai propri disegni politici.
E se gli anarchici qui e altrove finissero per fare più o meno lo stesso? Per esigere spiegazioni sugli atti di sabotaggio delle infrastrutture, per distanziarsi di fatto da ogni atto che non sia rivendicato come «anarchico», per vedere solo la mano di nazisti, di complottisti — e perché no, era un classico dello scorso secolo: di servizi segreti stranieri — dietro sabotaggi i cui autori decidono di restare nell’ombra? In tal modo finirebbero così per rifiutare ogni propensione o volontà che auspichi e si adoperi a favore di una moltiplicazione incontrollata dei sabotaggi di infrastrutture di telecomunicazione, energia e logistica, per accettare e valorizzare unicamente la loro moltiplicazione sottomessa ad un controllo ideologico. Ciò significa difendere la libertà, o piuttosto temerla?
Il fatto che dei fascisti/cospirazionisti e perfino dei monaci abbiano attaccato alcuni ripetitori non toglie neanche un briciolo di validità al fatto di attaccare tali strutture, di voler incoraggiare i sabotaggi contro di esse, di desiderare ed operare per l’incontrollabile moltiplicazione di questi ultimi. D’altra parte, ciò potrebbe forse costringerci a riflettere di più sul perché queste azioni possano essere suggerite, sul perché vogliamo davvero che vengano diffuse, riflettere cioè per affinare le nostre prospettive. Se disertare i terreni dove anche altri sono attivi non è un’opzione, se timbrare sistematicamente le azioni non risolve la questione dello «stesso terreno», è perché bisogna cercare ancora più lontano: nella prospettiva che diamo al nostro agire, nelle idee che diffondiamo, nelle metodologie che suggeriamo, nei progetti che elaboriamo.

Quale libertà?
«Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere»
La foresta dell’agire, aprile 2021

Quali prospettive elaborare, allora? Potremmo forse cominciare da quelle che riusciamo a comprendere, ma che ci ispirano di meno. Ad esempio, quella che spesso trapela tra le righe ma stenta ad esplicitarsi: si tratta della prospettiva che pone come obiettivo principale l’esistenza e il rafforzamento qualitativo e quantitativo del movimento anarchico. Un movimento più forte, più ampio, meglio organizzato, che sarebbe in grado di affrontare le forze oscure del fascismo, le manipolazioni complottiste di collera assai reale, le forze di sinistra il cui ruolo sembra proprio essere quello di accompagnare il capitalismo e il dominio verso futuri più sostenibili, più tecnologici, più equi. Un movimento che osi prendere se stesso come punto di riferimento, e sviluppi una capacità di diffusione, di attacco e di rilevanza sufficienti a costituire una forza reale, capace di pesare nel dibattito pubblico, di fare la differenza nelle lotte intermedie, di cacciare i nazisti dalle manifestazioni.
In una simile prospettiva, esiste un forte rischio che il rafforzamento quantitativo del movimento anarchico, anche difficilmente immaginabile (in fondo, pensiamo veramente che le idee anarchiche possano oggi essere condivise dalle masse?), finisca per accontentarsi della rappresentazione di tale rafforzamento. L’effetto-specchio incita facilmente all’esibizionismo, svuotando rapidamente la lotta per sostituirla con un’immagine presa per realtà. Alla fine, una tale prospettiva finisce in genere per puntare anzitutto sul rafforzamento dell’identità anarchica, per arrivare ai ferri corti… con gli altri abitanti della foresta. Così l’identità tenderà a gonfiarsi oltre misura, a sostituire la qualità della sostanza con la preminenza della forma, finendo per misurarsi per paragone, nello specchio della rappresentazione, con tutte le altre identità.
Restano tuttavia possibili altri percorsi, sicuramente un po’ più tenebrosi o pericolosi. Sentieri che non sono fatti per chi ha troppa paura del fango o non sopporta di lavorare nell’ombra. Sentieri al termine dei quali non esistono garanzie e nessun riconoscimento ci attende, che non considerano la mera esistenza degli anarchici e la loro sopravvivenza come l’alfa e l’omega della sovversione o dell’anarchia. È il cammino che si inerpica, scava e si insinua per far deragliare il treno del Progresso e della società attuale. Senza rinunciare alla diffusione delle nostre idee (attraverso vari strumenti), senza sottovalutare l’utilità e la necessità della critica anarchica, il cammino di cui parliamo mira soprattutto a contribuire allo sconvolgimento della situazione, all’esplosione insurrezionale, al crollo di quanto tiene in piedi le strutture produttive e sociali. Questo progetto, questa progettualità, non punta alla crescita numerica del movimento anarchico, né al potenziamento della sua reputazione, ma a far precipitare le situazioni conflittuali in un più ampio pandemonio, perché adoperarsi per la moltiplicazione incontrollata delle azioni e per l’imprevista disconnessione potrebbe consentire l’emergere della libertà, o meglio, è una delle possibilità per far decollare la libertà.
Il fatto che pure alcuni di cui non condividiamo le motivazioni si diano da fare, o che altri di cui non conosciamo affatto le motivazioni vi si dedichino, non suscita in noi un timore paralizzante, né ci induce a partecipare ad una spirale esibizionista (una trappola vecchia come il mondo, conosciuta e tesa da tutti i servizi segreti di ieri e di oggi), ma ci spinge piuttosto ad affinare ulteriormente i nostri suggerimenti, la nostra progettualità, la nostra etica. E soprattutto, ad approfondire sempre più, con i nostri mezzi e le nostre modeste capacità, l’urgente demolizione dell’attuale società.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]
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De tirannie van de flexibiliteit

Posted on 2021/10/24 - 2021/10/24 by avisbabel

“De moderne mens is al dermate verregaand van zijn persoonlijkheid ontdaan dat hij niet meer voldoende mens is om het op te nemen tegen zijn machines. De primitieve mens bouwde voort op de kracht van de magie en had vertrouwen in zijn vermogen om de natuurkrachten te sturen en te beheersen. De post-historische mens beschikt over de onmetelijke middelen van de wetenschap, maar heeft dermate weinig vertrouwen in zichzelf dat hij bereid is om nog eerder zijn eigen vervanging, zijn eigen uitsterven te aanvaarden dan de machines te moeten stopzetten of zelfs nog maar op een lagere snelheid te laten draaien.”
Lewis Mumford, 1956

Een tijdperk samenvatten, de algemene en onderscheidende kenmerken ervan beschrijven, doordringen in de sociale verhoudingen die er heersen is misschien wel een onmogelijke taak. Zoals het erg vaak het geval is in werken van geschiedkundigen, antropologen, sociologen en aanverwanten, zou het zelfs kunnen neerkomen op een vervalste benadering, op veralgemeningen die abstractie maken van het levende spel tussen samenlevingen, gemeenschappen en individuen. Met andere woorden, spreken over de cultuur van een bepaald tijdperk houdt het risico in de individuen die er zich van losmaken, die er zich van afscheiden, die een ander leven leiden of proberen leiden in de schaduw te stellen. Evenwel ontbreekt het het menselijke individu niet aan een zekere drang tot assimilatie van de gedragingen van de anderen, noch aan een vreselijke kuddementaliteit die hem kan maken tot gedienstige slaaf of bloeddorstige soldaat. Wanneer je het dus hebt over de cultuur van een bepaald tijdperk of van een bepaalde menselijke groep, spreek je noodzakelijkerwijze in termen van meerderheden, ook al mogen we nooit vergeten dat elk individu, zelfs de meest volgzame, zelfs de meest conforme, op zijn beurt doorploegt wordt door talloze tegenstellingen, dat ook hij ertoe verleid kan worden om in de schaduw van een teleurstelling of een gelegenheid, te ontsnappen aan de regel en uitzondering te worden. De geschiedenis loopt over van voorbeelden hoe gedrag dat aanvaard wordt als algemene norm en effectief de gebruiken en zeden van een maatschappij overheerst, vaak vele tegenstromen kent, die dieper verborgen liggen, bijna geheim gehouden worden, maar tegelijkertijd evenzogoed constitutief zijn voor de maatschappij. Om een makkelijk voorbeeld te nemen: toen met de opkomst van de kapitalistische industrialisatie het kerngezin zich begon op te leggen als model (eerst binnen de bourgeoisie, daarna ook binnen de andere lagen van de maatschappij), begonnen vele praktijken te groeien naast, of zelfs tegen het model van trouwen, de hoeksteen van het patriarchale kerngezin. Het gaat erom altijd in het achterhoofd te houden dat geen enkele algemene beschrijving van een tijdperk aanspraak kan maken op volledigheid.

Deze inleiding leek nodig nu we gaan proberen om de hedendaagse mentaliteit te schetsen, en de vreselijke gevolgen voor de idee, voor de droom van een vrij menselijke wezen. De wijzigingen en veranderingen op economisch, technologisch en sociaal gebied gaan ondertussen zo snel dat elke poging om ze te beschrijven nog ijdeler lijkt dat ooit tevoren. Het doet denken aan de meer heldere economisten (et je moet zoeken voor je er eentje vindt tussen die kwakzalvers van de nuttigheid) die al twee decennia geleden afgezien hebben van nog verder voorspellingen te doen over de economische ontwikkeling omdat ze zich ervan bewust geworden waren dat de snelheid van de verandering dermate hoog ligt dat elke voorspelling nu gewoon pure speculatie geworden is. Uiteraard staat dat niet in de weg dat hun speculaties merkbare effecten hebben, zoals degenen die vandaag wijzen op het uitsterven van de soorten. Het gaat eerder over self fulfilling prophecies, een concept dat trouwens ontstaan is in de kringen van economisten. Wat er ook van zij, de wijzigingen in het dagelijkse gedrag verspreiden en veralgemenen zich zo snel dat we binnenkort geen nood meer gaan hebben aan die kritisch hyperbool waar een Duitse filosoof uit de voorbije eeuw zich van bediende om ons te wijzen op het morele failliet dat de technologisering van de wereld met zich meebrengt.

Van de kazerne naar de open space

Na een eerste periode van chaotische en wilde industrialisatie die verwoestte wat over het algemeen voor onveranderlijk gehouden werd – ook had die toestand zelf een historiciteit – kon de industrie dan wel pronken met haar technische prestaties, ze bleef echter erg onhandig in het verbergen van de ellende en de wanhoop die ze veroorzaakte in en rond haar mijnen en fabrieken. Dat leidde tot de opkomt van politieke stromingen die regulering wilden. Of het nu het socialisme was, met de idee van een economie die gepland wordt in functie van de noden van de maatschappij-staat; het democratische liberalisme met de idee van een markteconomie die gereguleerd wordt door een scheidsrechter-staat die de verschillende belangen vertegenwoordigt; of het fascisme, met de idee van een corporatistische economie : al deze massastromingen wilden antwoord bieden aan de aanvallen van de techniek en aan de ongeziene omwentelingen die ze met zich meebracht. De “morele leegte” die groeide uit de ontmenselijking van de sociale verhoudingen ging, van rechts en van links, een kazerne-antwoord krijgen. In nauwe samenhang met de impliciete standaardisatie die eigen was aan de toenmalige industrietechnieken, gingen de sociale verhoudingen dezelfde weg volgen. De hele maatschappij begon te lijken op een enorme kazerne die niets meer te benijden had op het conformisme van de boerengemeenschappen van daarvoor. Die uniformiseringscultuur kwam in een stroomversnelling terecht tijdens en na de Tweede Wereldoorlog. Massaconsumptie werd toen bedacht als een bijzonder machtige kracht van inlijving, nivellering en samenhang. De fabrieksmentaliteit was een rigide, inflexibele mentaliteit met uurroosters die geen uitzonderingen toestonden (denk bijvoorbeeld aan de uitroeiing van de gewoonte van de Heilige Maandag). In ruil voor een droef en grauw leven daagde er aan de horizon een zeker materieel comfort voor alsmaar lagen van de bevolking die verpletterd worden door de industriële maatschappij. In de jaren ’70 begon deze mentaliteit te barsten en werd ze op de korrel genomen door de onaangepasten, de ontevredenen, de dromers en de jonge rebellen. Ook de oude kazernerevolutionairen die geloofden dat een nieuw likje verf het geluk van de massa’s kon verzekeren waren verrast. Weigering van (niet-creatief) werk, verwerping van rigide gewoontes, verwerping van de standaardisatie en de uniformiteit, verwerping van een identiteit die verankerd lag in de productieplaats. Na er de subversieve inhoud te hebben uitgezuiverd, na de revolutionaire minderheden die vaak zelf nog bogen op kazernetheorieën (marxisme, leninisme, staatssocialisme,…) afgemaakt, opgesloten en gebroken te hebben, ging dit veelzijdige elan het trieste lot kennen van geabsorbeerd te worden in de schoot van een brede herstructurering van de maatschappij in haar geheel. Vandaag staat deze beweging op het punt voltooid te worden. De voormalige economische evenwichten zijn veranderd, de mentaliteiten die niet compatibel zijn met de nieuwe productiemodellen zijn geëlimineerd of geïsoleerd, de bodem om een ander Westers kapitalisme te doen groeien werd bemest met karrenvrachten delokalisatie, ontmanteling van de grote productiestructuren en hun politieke uitvloeisels (vakbonden, partijen, zuilen,…), automatisering, herdefinitie van de verhouding tussen werk en niet-werk (door de grenzen ertussen te laten vervagen), een zekere liberalisering van de zeden, enzovoort. De kazernementaliteit van weleer lijkt vandaag meer retrograde dan ooit. De moralistische rigiditeit, gebaseerd op de christelijke modellen, heeft plaatsgemaakt voor een consumentisme waar de commercialisering van alle domeinen van het leven, zelfs de meest intieme, de norm geworden is. En de brutale versnelling van deze diepgaande veranderingen had niet kunnen plaatsvinden (zonder mogelijks opstanden te ontketenen die de poorten van het onbekende zouden openzetten), was niet mogelijk geweest zonder de invoering en veralgemening van technologie in alle lagen van de maatschappij.

Een nieuwe mentaliteit in een nieuwe wereld

Het is het altijd waard om het nog eens te herhalen. Industrialisatie en technologie zijn niet alleen verantwoordelijk voor de verwoesting en duurzame vergiftiging van de planeet en haar inwoners. Ze induceren ook een mentaliteit die de paradoxale verdienste heeft om vele aspecten van vrijheid te tonen terwijl ze die compleet uitholt. Een functioneel liberalisme dat het exact tegenovergestelde is van de anarchistische verhouding tot vrijheid.
Vandaag, in de nieuwe wereld, praat je niet meer over werkplaatsen, maar over open space. Het gaat niet meer over productie, maar over creatie. Men richt zich niet tot werknemers, maar tot medewerkers. Het gaat niet meer over gehoorzaamheid, maar over participatie. Overal bloeit deze nieuwe mentaliteit, die vastbeslist is korte metten te maken met de laatste industriële rotsburchten “van vroeger”, overal is die in opmars, verzamelt middelen en kapitaal om “disruptie” te veroorzaken op de markten. En dat verandert alles. Aan een ongelooflijk hoge snelheid. Wie zou gedacht hebben dat het schuldige kleine pleziertje van zaterdagavond na een lange week van werk een pizza thuis te laten leveren een model ging worden om je dagelijks te voeden en dat het zich zou uitbreiden naar een eindeloze reeks andere domeinen? Dat de “luxe” van een nacht op hotel doorbrengen zich ging “democratiseren” waarbij nu alle appartementen over de hele wereld mogelijks hotelsuites geworden zijn?

Met het risico ons blind te staren op de boom en het bos niet meer te zien, zouden we kunnen zeggen dat de technologie die het meest verregaand bezig is kapot te maken van wat we dachten te weten van de mens en zijn manier om zich tot andere te verhouden, gesymboliseerd wordt door dat dunne metalen doosje, met een oplichtend aanraakscherm. Sinds de veralgemening van dat slimme ding is het onmogelijk om nog een afspraak met iemand vast te leggen. Té rigide, dat past niet binnen de permanente flexibiliteit waartoe we veroordeeld worden (of beter, die we verondersteld worden graag te leven als een flauwe ersatz van vrijheid). Moeilijk om nog op een gesloten akkoord te rekenen, want alles kan tot op de laatste minuut veranderd en gewijzigd worden, in urgentie, live. Ingewikkeld om nog een geheim te bewaren of een schaamtelijke situatie weg te moffelen want alles wordt gedeeld, alles moet gedeeld worden, zoniet ben je een asociaal. Onmogelijk om nog in het midden te laten waar je bent, wat je doet, want dat is de eerste vraag die het scherm of schermondervrager ons stelt alvorens te beginnen aan wat tegenwoordig doorgaat voor een dialoog. Je zou bijna vergeten dat met iemand oog in oog praten niet hetzelfde is als woorden uitspreken met of op een scherm waarachter zich eventueel een mens bevindt. Dat iets met iemand overeenkomen niet impliciet betekent dat jet het op de laatste moment nog kan wijzigen via die vervloekte technologische prothese. We zijn vergeten dat tijd met iemand doorbrengen de aanwezigheid van dat spook uitsluit die zich de relatie binnenwringt met elektronische geluidjes of lichtflitsen. We zijn vergeten dat het niet mogelijk is om je over te geven aan die intense, vaak pijnlijke, maar bijzonder menselijke activiteit die nadenken is wanneer van de ene op de andere moment, als waren we gevangenen in hun cel, de technologische bewaker de deur kan openzwaaien. Misschien zijn we het niet vergeten, maar hebben we gewoon opgegeven, sneller of trager naar gelang onze neiging tot kuddegedrag of aanpassing, té moe om nog weerstand te bieden aan de sirenes en de aanmaningen van de baas, de familie, de vrienden die allemaal het beste met je voor hebben.

De enkele “weerstanders” die de aanwezigheid van de elektronische leiband nog verbannen of gewoon drastisch te proberen inperken, hebben het niet makkelijk. Niet alleen omdat ze zich in alle bochten moeten wringen wanneer ze op een contact met een instelling, een bedrijf, een eigenaar, een dokter moeten wachten (want die bellen wanneer en hoe hen dat uitkomt), niet alleen om er nog maar weinig jobs overblijven waar je niet verondersteld wordt in permanente en verplichte communicatie te staan met je baas en je collega’s, niet alleen omdat ze uitnodigingen tot uiteenlopende sociale activiteiten mislopen (die worden bijna exclusief via het spook geregeld, en uiteraard vooral op de laatste minuut, en daarenboven nog eens eeuwig onderhevig zijn aan wijzigingen van plaats en tijdstip…), niet alleen omdat ze riskeren alle contact te verliezen (tenzij ze hun digitale aanwezigheid vernieuwen, houden ze op te “bestaan” in de ogen van anderen). Nee, ze hebben het ook moeilijk omdat niet alleen de kazerne en de priester, de school en het werk hen dat doen ondergaan, maar ook hun naasten. Het zijn ook zij die hen de tirannie van de flexibiliteit opleggen. Het zijn ook zij die hen blootstellen aan de onderwerping aan bits en bytes. Het zijn ook zij die hen, soms tegen hun uitdrukkelijke wil, een obligate en pijnlijke omgang met het spook-bewaker opdringen en zo, beetje bij beetje, schakel per schakel, de technologische leiband om hun nek weven. In naam van vriendschap, kameraadschap, liefde, delen, dat spreekt voor zich. En dat is misschien nog wel het ergste. Hoe kan je aan een vriend duidelijk maken dat je niet alleen niet weet hoe je door een telefoon moeten praten, maar dat je er echt helemaal tegenop ziet en het echt helemaal niet leuk vindt? Wat kan je doen om ter vermijden dat je woede, frustratie en afkeer na een zoveelste wijziging van een afspraak via het spook-bewaker niet doorgaat voor een hautaine rigiditeit, een elitaire arrogantie, een niet-begrip voor de zorgen van anderen? Soms kan men de indruk krijgen, onder de laatsten der Mohicanen, dat het allemaal verloren moeite is. Wanneer je het beu raakt om door te gaan voor irritante onbuigzamen, ga je uiteindelijk aanvaarden het ook te worden: onmogelijk in de omgang, te rigide en “echt niet fijn”.

Begin jaren ’90 waarschuwde een anarchistische tekst ons al voor de komst van een nieuwe mentaliteit die in de laboratoria van de macht gesmeden werd: soepel, arm qua inhoud en gebaseerd op “aanpassing op korte termijn, op het principe dat niets zeker is en alles aangepast kan worden.” Deze mentaliteit “produceert een morele degradatie waarbij de waardigheid van de onderdrukten uiteindelijk gekocht en verkocht wordt in ruil voor een moeizaam rondkomen.” Daar waar “alles collaboreert en samenwerkt om individuen te maken die bescheiden zijn in alle opzichten, niet in staat te lijden, de vijand te vinden, te dromen, te verlangen, te strijden, te handelen”, kunnen het anarchisme en de anarchisten zich er niet aan aanpassen zonder als dusdanig te verdwijnen. En dat is misschien wel wat er aan het gebeuren is, zelfs als we nog moeite hebben om er ons rekening van te geven en dat we een dergelijk stom en beperkt beeld zoals dat van het veralgemeend gebruik van de communicatieleiband moeten inroepen om het te illustreren. Hoe kan het dat welke anarchist dan ook uiteindelijk aanvaard heeft om permanent, het is te zeggen, bovenop elke “noodzakelijkheid” die geacht wordt niet te omzeilen te vallen (bereikbaar zijn voor je werk, bijvoorbeeld), met een afluistermicrofoon en een GPS op zich rond te lopen, waarbij hij niet alleen zichzelf blootstelt aan afluistering en geolocalisatie, maar ook elke andere gekende of ongekende persoon die binnenstapt in zijn kooi met onzichtbare tralies? Eind jaren ’90 vatte een universitair essay de kenmerken van deze nieuwe mentaliteit al samen: “Het is verleidelijk om er het beeld van de kameleon bij te halen om de beroeps te beschrijven die z’n eigen relaties weet te richten om makkelijker tot bij de anderen te geraken”, gezien “aanpasbaarheid de toegangssleutel tot de netwerkmentaliteit is. Daarom is “het ambivalente wezen de realist in een netwerkwereld, want de situaties waar hij mee moet omgaan zijn zelf complex en onzeker.” Zonder veel hypocrisie wees de auteur dan op het feit dat zoiets gelijkstond met “opoffering van de persoonlijkheid, begrepen in de zin van een manier van zijn die zich manifesteert doorheen identieke houdingen en gedragingen, wat de omstandigheden ook mogen zijn.” Kortom, “om je in een wereld van connecties te nestelen, moet je voldoende kneedbaar zijn.” En degenen die dat niet zouden aanvaarden? In hun geval is er geen twijfel, “de permanentie, en vooral, de permanentie van het zelf of de duurzame gehechtheid aan “waarden”, zijn bekritiseerbaar als zijnde een ongerijmde rigiditeit, het is te zeggen, een pathologische aandoening. En in functie van de context wordt dat dan inefficiëntie, slechte opvoeding, intolerantie, onvermogen tot communicatie.”

De prijs die moet betaald worden

De mentaliteit weigeren die geïnduceerd wordt door het metalen doosje en zijn wereld lijkt wel neer te komen op het delven van je eigen graf. Je blijft aan de rand, opzij, en je schiet ertussen uit. Niet verbonden zijn komt erop neer asociaal, somber, intolerant en rigide te zijn. En zonder twijfel gaat de prijs die je moet betalen om te proberen niet opgeslokt te worden door het hoogtij van de communicatietechnologie alleen maar hoger worden met de seizoenen en de jaren. Het is zodanig moeilijk geworden aan het spook-bewaker te ontkomen dat we of alleen nog maar vertoeven onder de weinige deserteurs en weigerachtigen die zich niet dagelijks willen laten terroriseren door oproepen en berichten, of onszelf veroordelen tot een eenzaamheid die lijkt op wat een Chileense kameraad onlangs omschreef als een nieuwe vorm van “clandestiniteit”: je onttrekken aan de tentakels van de technologische octopus. Niet alleen om te proberen ontkomen aan de ongewenste aandacht van de repressieve machine in uniform en in toga, maar ook, en misschien wel vooral, om de dagelijkse repressie te bekampen die neerkomt op permanente druk je aan te passen aan de nieuwe nachtmerrieachtige wereld die in opmars is.
Zendmasten en glasvezeltentakels van de octopus uitschakelen zou veel aan betekenis verliezen als we zonder gevecht haar gif in onze aders en die van onze medeplichtigen en naasten laten doordringen.
We kunnen de “nieuwe mens”, die flexibele en verbonden zombie – en die in elk van ons sluimert – niet weigeren zonder niet tegelijkertijd in onszelf en binnen onze affiniteitskringen een wereld te scheppen, een beeld, een droom die zich kwalitatief onderscheidt van de wereldkooi waarin we zitten. Dat beeld mag niet opgesloten blijven in onze hersenen en onze harten, op straffe van verstikking door verdriet: het moet ook de werkelijkheid binnenstormen. Naast de strijden de we aangaan, de acties die we ondernemen, de conflicten waaraan we deelnemen, of beter, in intieme band ermee, stelt zich hier de vraag van de praktische ethiek. Zoveel mogelijk de invasie van elektronica weigeren, de afhankelijkheid van technologische middelen niet cultiveren, je niet aanpassen aan het flitstijdperk. Niet bijdragen aan de verarming van taal, want taal is een schepper van werelden. Het gebruik van technologie mijden om problemen op te lossen die gisteren nog geen technologie nodig hadden. En het model van de “nieuwe mens” weigeren, ook al komen we dan achterhaald, onhandelbaar, irritant over. Dat is onze nieuwe weerstand, een nieuwe vorm van clandestiniteit, die we nodig hebben om te strijden, te handelen en te ademen, in een wereld waar alles verbonden wordt.

[Vertaald uit Avis de Tempêtes, nr. 34, oktober 2020]

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Realtà virtuale

Posted on 2021/10/23 - 2021/11/05 by avisbabel

Qualcuno si ricorda ancora del fenomeno che in pochi mesi del 2016 ha visto quasi 500 milioni di giocatori in oltre cento paesi scontrarsi improvvisamente con la materialità del mondo, col naso inchiodato sullo schermo di un telefonino, in cerca di piccoli personaggi colorati da catturare? Un gioco che aveva messo perfino in subbuglio il responsabile della Direzione della Protezione delle Installazioni Militari (DPID), il quale di fronte alle ripetute intrusioni di civili nel territorio dell’esercito constatava con amarezza che «al momento, diversi siti del ministero, fra cui zone di difesa altamente sensibili (ZDHS), ospiterebbero questi oggetti e creature virtuali». E che aveva anche sollevato le vive proteste dei responsabili del vecchio carcere dei Khmer Rossi, Tuol Sleng, trasformato in museo del genocidio cambogiano, come di quelli dell’ex-campo di sterminio polacco di Auschwitz-Birkenau, i cui siti erano a loro volta invasi da indelicati cacciatori di Pokemon, ossessionati dalle apparizioni fittizie che si sovrapponevano in modo aleatorio ad un ambiente tragicamente reale. E anche se avessimo potuto farci beffe cinicamente di quegli abbrutiti precipitati da una scogliera ad Encinitas (California), o dispersi in mezzo ai campi minati di Posavina (Bosnia-Erzegovina), sempre per catturare quelle prede immaginarie, ciò avrebbe comunque segnato la ributtante diffusione in pompa magna non solo degli smartphone, ma soprattutto delle loro applicazioni di realtà aumentata attorno a noi.

Cinque anni più tardi, questo gioco sviluppato da Niantic — una start-up uscita dall’incubatore di Google destinata a sfruttare e diffondere massivamente la combinazione di telefono cellulare, app Internet, videocamera e geolocalizzazione — ha certo perso la sua vanagloria come qualsiasi moda, ma va da sé che altri tentativi di offuscare definitivamente i confini tra reale e virtuale stanno ribollendo di nuovo nelle pentole degli squali tecnologici. Ognuno avrà sicuramente già testato con amarezza la passività delle folle di zombi prigionieri sprofondati in uno schermo durante i loro spostamenti coi mezzi pubblici, o constatato fino a che punto i rapporti sociali abbiano subito un nuovo assalto di beota virtualizzazione nel corso dei vari confinamenti — e non solo nell’ambito della schiavitù salariale. Allo stesso modo, alcuni politici populisti hanno potuto pavoneggiarsi sotto forma di ologrammi in occasione di incontri simultanei, mentre vecchi cantanti popolari tornati in auge hanno previsto di organizzare tour di concerti con la medesima modalità. Ma tutto ciò suonava un po’ troppo falso, allorquando il colosso Facebook lo scorso 18 ottobre ha fatto il roboante annuncio della creazione di 10.000 posti di lavoro nei suoi laboratori del vecchio continente (Monaco, Parigi, Zurigo, Cork) al fine di «investire nei nuovi talenti europei per contribuire a costruire un metaverso».
Contrazione di meta ed universo proveniente dalla fantascienza, questo grottesco concetto è il progetto di punta del pioniere dell’esibizionismo on line, consistente nientemeno che nello sviluppo illimitato e persistente di una sorta di controfigura digitale del mondo fisico, che interagirebbe di rimando con la realtà sotto forma di universo parallelo. Oltrepassando ampiamente il mondo dei videogiochi, le sue prime espansioni — che mirano a rovesciare in un universo smaterializzato parte dell’esperienza sensibile, sostituendosi parzialmente alla realtà — riguardano già, ad esempio, visite tridimensionali ai musei dal proprio divano, o noiose riunioni di lavoro a distanza in sale digitali, il tutto dirigendo il proprio avatar con un casco per la realtà virtuale infilato sulla testa. Ma gli sviluppatori informatici di tutto il pianeta lavorano ovviamente anche su altri tipi di «realtà immersive» a base di caschi e occhiali «aumentati», in particolare in materia di insegnamento a distanza da svolgere interamente in un mondo irreale (interazioni umane e manipolazione di oggetti), o di prove di calzature di marca mediante il proprio doppio in pixel nei negozi delle città del metaverso… prima di ricevere a casa quelle ordinate.
Quanto a Microsoft, che non è da meno, da parte sua si è appena lanciata in un altro tipo di fusione di un universo virtuale con funzionalità ben reali, come la creazione di «gemelli digitali» delle infrastrutture sensibili, ossia cloni virtuali delle «reti di distribuzione di energia o di fabbriche complesse», dove ogni macchina e ogni sistema vengono riprodotti perfettamente identici (pezzo per pezzo), allo scopo di prevedere costantemente l’usura di un’apparecchiatura o di anticipare il rifornimento di un apparato, il che implica anche la copertura dell’insieme dei sensori in modo che le due dimensioni possano interagire simultaneamente in parallelo. Infine, nella direzione opposta, l’esercito americano ha appena acquistato lo scorso aprile 120.000 caschi IVAS (Integrated Visual Augmentation System) da Microsoft per 22 miliardi di dollari, che non fungeranno più soltanto da addestramento per i soldati ricreandone e modificando virtualmente le condizioni di combattimento, ma diventeranno efficaci in missione, combinando visualizzazione e condivisione di informazioni in tempo reale, commutazione automatica di modalità di visione (termica, ad infrarossi), mappa in sovrimpressione e identificazione del nemico, il tutto oggetto di calcoli informatici permanenti tramite un cloud, al fine di «prendere decisioni tattiche e ingaggiare obiettivi», come si dice nella neolingua militare. Allo stesso modo, nel dicembre 2020, il Comitato di Etica del Ministero della Difesa francese ha ufficialmente dato il via libera alla ricerca sul «soldato aumentato», ovvero né più né meno che un passo verso l’inserimento di chip sottocutanei che consentano loro di inviare o ricevere informazioni, l’operazione alle orecchie per sentire frequenze molto alte o molto basse, o anche l’inserimento di impianti «che permettano di assumere il controllo di un sistema di armamenti».

Questo sviluppo del metaverso in cui gli esseri umani verrebbero zavorrati con dispositivi rivestiti di rilevatori sensoriali per parte della loro giornata, perché possano interagire fra loro in forma più o meno virtuale all’interno di una realtà ricostituita e gestita da algoritmi (per il lavoro, il consumo o il tempo libero), in definitiva qui non fa altro che prolungare il rapporto sociale già ampiamente prodotto dai vari guinzagli elettronici, dove la percezione della realtà viene colta solo indirettamente. Con la particolarità che questa nuova offensiva produttiva verso la derealizzazione tende ormai a colpire poco alla volta tutti i nostri sensi. Di fronte a tutto ciò, se ne resta solo uno da coltivare, non può essere il bene che accresce questa ulteriore mutilazione della nostra sensibilità, bensì il suo opposto, quello che porta a scatenare tutte le cattive passioni, a cominciare da quella della distruzione di tutto ciò che distrugge. E poiché nulla di virtuale si realizza in questo mondo in mancanza di infrastrutture molto materiali — dalle migliaia di satelliti Starlink che richiedono basi terrestri (situate a Gravelines per il nord, a Villenave-d’Ornon per il sud e a Saint-Senier-de-Beuvron per l’Ovest) fino ai famigerati data center così avidi di elettricità o alle antenne e ai cavi in ​​fibra ottica — ciascuno sa certamente cosa resta da fare.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 46, 15 ottobre 2021]

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Scovare il nemico

Posted on 2021/10/20 by avisbabel

Nella Chicago del 1948 la vita non doveva essere facile per la sua famiglia, e ancor meno per lei. Il suo nome era Suvaki Yamaguchi ed era nata su un’isola del Giappone alla fine degli anni 30. Nelle sue vene scorreva sangue di mille colori, tutti sbagliati nel paese a stelle e strisce. Il padre era giapponese, ma di discendenza filippina. La madre era nativa americana, Cheyenne, e fra i suoi avi c’erano americani scozzesi-irlandesi. La piccola Suvaki era quindi la perfetta incarnazione del meticciato, con tutto ciò che ne consegue. Verso la fine della seconda guerra mondiale la sua famiglia venne rinchiusa per un periodo nel campo di concentramento Manzanar, in California, ai piedi della Sierra Nevada. Se questo era il destino degli americani rei di non essere bianchi e di provenire dalla terra del sol levante, figurarsi quello riservato a loro!
Riacquistata la libertà, la famiglia Yamaguchi si trasferì nella celebre metropoli dell’Illinois. Per quella bambina girare per le strade dei quartieri occidentali della città era un’impresa ardua e pericolosa: insulti, canzonature, minacce. Agli occhi di molti bianchi (e pure neri) lei era una «Tojo», dal nome del pilota militare giapponese che iniziò l’attacco a Pearl Harbor. Per di più, il suo corpo cominciava a formarsi in maniera rapida ed eccessiva, troppo rapida ed eccessiva, costringendola ad indossare larghe vesti per nasconderlo. In un giorno d’estate del 1948, poco prima del suo decimo compleanno, la piccola Suvaki stava tornando a casa quando fu circondata da un gruppo di cinque uomini, i quali la caricarono sulla loro automobile. Cosa accadde a quella bambina metà «pellerossa», metà «occhi a mandorla» e troppo procace per la sua età, è purtroppo immaginabile… La scaricarono in un vicolo come un rifiuto, priva di sensi e sanguinante. La sua famiglia sporse denuncia e i responsabili furono identificati. Ma la giustizia aveva ben altro da fare che occuparsi di quanto accaduto ad una mocciosa bastarda sanguemisto, soprattutto quando il giudice era stato ripagato profumatamente, così i cinque uomini poterono tornare indisturbati alle loro faccende. Come se nulla fosse successo.
Ma per Suvaki no, qualcosa era successo — qualcosa di inaccettabile. E se la giustizia non poteva farci nulla, allora, tanto peggio per la giustizia! Dopo quel fatto, la piccola Suvaki crebbe terribilmente in fretta. Il mondo degli adulti prima la mise in una scuola riformatorio, poi a 13 anni le organizzò un matrimonio che sarebbe durato meno di un anno. Da parte sua, Suvaki decise che non sarebbe mai più stata una preda. Grazie al padre imparò le arti marziali, diventando cintura verde di aikido e cintura nera di karate. Diventò una ragazza irrequieta, formò una banda giovanile chiamata Gli Angeli con le amiche italiane, ebree e polacche del suo quartiere.
A 15 anni si trasferì a Los Angeles dove, per iniziare una nuova vita, si procurò dei documenti falsi che attestassero la sua maggiore età. Sostituì il nome con il nomignolo cheyenne con cui la chiamava la madre e conservò il cognome del primo marito. Diventò ballerina di burlesque, fotomodella, attrice.
Ma, soprattutto, essendo una ragazza selvaggia e non una pedagogica militante, prima del suo venticinquesimo compleanno andò a scovare, uno per uno, tutti i cinque uomini che avevano infranto la sua infanzia, prendendosi la sua vendetta. Come avrebbe ricordato nelle sue memorie, «giurai a me stessa che un giorno, in qualche modo, avrei saldato i conti con tutti loro. Non hanno mai saputo chi fossi, finché non gliel’ho detto».
Un paio di anni dopo aver regolato l’ultimo conto venne scelta per recitare in un film destinato a renderla famosa in tutto il mondo. Non dovette sforzarsi troppo per interpretare il personaggio di Varla e rifiutò persino la controfigura. Le bastò essere se stessa: Tura Satana, l’indimenticabile protagonista di Faster, pussycat! Kill! Kill!.

 

[Publicato su Finimondo il 23/7/21 e ripreso en Avis de tempêtes, n°43-44, agosto 2021]

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Il piccolo suggerimento di Lagertha

Posted on 2021/10/20 - 2021/11/05 by avisbabel
Eretto sulla punta settentrionale dell’isola danese della Zelanda, il maestoso castello di Elsinore controlla da secoli lo stretto che porta al Mar Baltico. Se questo monumento è ancora oggi l’orgoglio degli abitanti del posto, altri non mancano di ricordare con malizia che fuori dall’isola resta famoso soprattutto per aver fatto da scenario a una famosa tragedia, di cui di solito si conserva solo il motto «c’è qualcosa di marcio in Danimarca». E per di più, non si può nemmeno contare sulla più recente attualità per smentire il vecchio adagio shakespeariano. Anzi. Il 3 giugno non è infatti stata votata proprio lì la legge che consente di far sloggiare in massa dal paese i richiedenti asilo, subappaltando la loro “accoglienza” a Paesi terzi fuori dall’Unione Europea una volta esaminato il dossier relativo (sono in corso trattative con l’Egitto, l’Etiopia e il Ruanda)? E non è stato, quel territorio del vecchio continente, pioniere nell’imposizione alla popolazione già dal 21 aprile di un Covid-pass obbligatorio per chi ha più di 15 anni e voglia accedere in cinema, stadi, biblioteche, bar o anche… autoscuole e parrucchieri?
D’altra parte, è proprio in questo Paese nordico che è venuto fuori un piccolo suggerimento anonimo, offerto a tutti i contestatori che attualmente fanno fuoco e fiamme per porre fine a queste nuove misure liberticide. Un piccolo suggerimento che è stato ripetuto per due volte (nel caso in cui qualcuno non abbia ben compreso) a una trentina di chilometri dal castello di Elsinore, colpendo appunto qualcosa di marcio nel regno di Danimarca e non solo. Si è manifestato nientemeno che nell’ostacolare i controlli di identità della polizia e quelli del QR sanitario effettuati da qualsiasi altro tirapiedi sabotando le onde che connettono smartphone e tablet ai loro indispensabili database di tutti i tipi.

Vejby (Danimarca), 25 maggio 2021
Il primo allarme per le autorità è arrivato il 25 maggio nella cittadina di Vejby, vicino alla costa zelandese di Kattegat, a circa 50 km a nord di Copenaghen. Lì, un incendio notturno è divampato contro un’antenna-ripetitore e il suo edificio adiacente, tagliando fuori tutti gli operatori di telefonia mobile della zona. Ma non è tutto, visto che le autorità hanno rivelato in punta di piedi che l’infrastruttura carbonizzata ospitava inoltre non solo un radar dell’esercito per il monitoraggio delle acque (in questo caso la Marina), ma anche diverse apparecchiature della rete criptata della polizia danese necessarie al controllo (SINE, SIkkerhedsNettet). Gli inquirenti, dapprima circospetti, si sono subito incuriositi per la presenza di «un grosso buco praticato nella recinzione dietro la struttura protetta», poi hanno transennato l’area prima di farla rastrellare dai cani per tutto il giorno successivo.

Helsinge (Danimarca), 15 luglio 2021
Il secondo allarme è arrivato il 15 luglio nella città di Helsinge, situata a 5 chilometri da Vejby, quando una seconda antenna-ripetitore è andata in fumo intorno alle 2:30 del mattino. Ancora una volta il fuoco ha bruciato i cavi tra l’edificio che ospitava gli apparati di telecomunicazione e l’antenna stessa, prima di risalire su quest’ultima. Le autorità stizzite hanno precisato che «qualsiasi collegamento con precedenti incendi di natura analoga sarebbe stato incluso nell’indagine», poi hanno anche là richiamato i fedeli canidi (quelli a quattro zampe) per ispezionare la zona.

Mentre gli acuti segugi danesi, certo meno esperti sul campo di altri colleghi europei, si stanno concentrando sulla fumosa teoria dell’autocombustione di antenne — certamente stanche di servire il controllo poliziesco e sanitario o di garantire il telelavoro — o sull’ipotesi che possa «trattarsi semplicemente di una strana coincidenza», per parte nostra potremmo azzardare un’altra ipotesi. E un po’ più realistica, che diamine!

Per questo bisogna risalire alle mitiche vichinghe Skjaldmö, guerriere munite di scudi che hanno combattuto anche a centinaia contro i Goti o gli Unni, secondo i racconti delle saghe nordiche. Una di loro, forse la più nota, si chiamava Lagertha e aveva raggiunto il Valhalla già da diversi secoli, quando improvvisamente si dev’essere resa conto che attendere con Odino la grande catastrofe finale sarebbe stato un mero riecheggiare millenarista delle idiozie cristiane. Se questo insulso ventunesimo secolo deve finire per essere rappresentato da musica tecno, videogiochi, serie televisive o, peggio, da fantasmi neonazisti, tanto vale tornare a Kattegat per devastare tutto ciò che ha reso questo possibile. Tornata nella sua amata baia, è proprio là, la scorsa primavera, che è rimasta disgustata da questo mondo mediato da appendici sempre più tecnologiche, dove troppi esseri brandiscono con diletto lo schermo della propria servitù. Lungi da qualsivoglia rassegnazione, si è impegnata ancora una volta a «trascinare il panico degli amici verso il campo nemico», come già narrato dall’odioso monaco che un tempo tramandò la sua leggenda. Se le è certo mancato il tempo per comprendere i nuovi rapporti sociali all’origine di tutta questa merda, ci è voluto poco per dare fuoco gioiosamente alle due torri di cavi e radar che la circondavano. Queste strutture di telecomunicazione non solo urtavano la sua stessa sensibilità, non solo sbarravano ogni orizzonte desiderabile, ma fornivano concretamente al nemico gli strumenti di un controllo permanente e diffuso, risparmiandogli parecchie battaglie.

Apprendendo un po’ più tardi ciò che il poeta anglosassone ha inserito nell’Amleto sulla Danimarca, Lagertha non poteva fare a meno di sorridere. Camminando sul bordo delle onde, ha proceduto ancora meglio, pensando che se l’intero pianeta era ormai colpito dallo stesso marciume tecnologico che ci priva a poco a poco di ogni autonomia, il rimedio primitivo appena impiegato per riflesso a Vejby come a Helsinge avrebbe invece continuato a funzionare sempre a meraviglia…

[Publicato su sansnom.noblogs.org e ripreso en Avis de tempêtes n°43-44, agosto 2021]
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Politica dei grandi numeri

Posted on 2021/10/20 by avisbabel
Fin dal suo inizio, la gestione dell’epidemia di Covid-19 da parte del potere è stata logicamente segnata alle nostre latitudini da una predominanza degli imperativi economici e da una preservazione dell’ordine sociale, cosa che oggi nemmeno la ragione medica di Stato tanto invocata riesce più a celare.
Ma ciò che colpisce è che le infinite forme di auto-organizzazione che avrebbero potuto emergere dalle singolarità individuali per far fronte al virus e continuare ad agire malgrado il virus, siano state d’un tratto come paralizzate dalle sabbie mobili di raccomandazioni contraddittorie e di cifre sfibranti: tasso di mortalità e di letalità, tasso di positività, tasso di incidenza, tasso di passaggio al pronto soccorso e di posti occupati nelle terapie intensive, tasso di anticorpi persistenti, tasso di reinfezione… e via di questo passo. Ciò evidenzia ancora una volta che ponendosi sul terreno della politica dei grandi numeri invece di partire da se stessi — con i propri dubbi come con i propri infuocati desideri — la riflessione finisce generalmente per impantanarsi in una logica gestionaria, in cui il calcolo produttivo prende rapidamente il posto della vita e dei suoi eccessi dispersivi. Per spezzare lo stesso schema che presiede ad ogni riduzione statistica della complessità umana, bisogna dare vita ad un’unicità al di là dei media e ricreare diversità smontando gli aggregati di dati — non ci sono molte altre soluzioni. Questo è lo stesso terreno in cui ogni individuo è invitato a piegarsi di fronte ad un interesse superiore collettivo che sarebbe da rifiutare. È il suo rapporto sensibile con la vita, la morte, la malattia, i rischi da prendere, il mutuo appoggio, le stelle da cogliere, che va difeso davanti all’esigenza sociale di sacrificarlo sull’altare della quantità. Che quest’ultima si chiami patria, economia, bene comune… o anche immunità collettiva.
Se il metodo medico di comprensione statistica è certo costitutivo del rapporto contemporaneo con le epidemie, come mostra il vecchio dibattito tra contagionisti e infezionisti durante quella del colera nel 1832 (per gli uni la malattia si trasmette dal contatto coi malati, per gli altri dall’insalubrità dell’ambiente) o anche la prima elaborazione matematica a partire dall’epidemia di peste in India (1927), questo rapporto autoritario che ingabbia le singolarità ha tuttavia radici assai più lontane ancora. Si potrebbe magari farlo risalire alle origini della scrittura in Bassa Mesopotamia, dove tale invenzione non era concepita come un mezzo per rappresentare il linguaggio, ma direttamente per bassi fini di contabilità amministrativa e commerciale, collegando intrinsecamente i primi numeri incisi su tavolette alla comparsa del dominio statale (con le sue esigenze di identificare, tassare, misurare, classificare, uniformare, gestire, prevedere). Tanto che potremmo persino chiederci se non sia con la stessa nozione di calcolo e con la volontà di quantificare il mondo che è cominciato il processo di addomesticamento dei nostri sensi.
Oggi non stupisce nessuno che in materia medica come in molte altre, la politica statistica dei grandi numeri sia diventata padrona nell’amministrazione della nostra vita da parte dei potenti, come ha ancora mostrato l’epidemia di Covid-19. Per quanto riguarda le autorizzazioni pubbliche per i vaccini (e i farmaci), il criterio viene definito tranquillamente rapporto benefici/rischi, basando gli studi su piccoli campioni considerati rappresentativi, a partire dai quali vengono poi proiettate estrapolazioni sull’insieme dei nostri congeneri, riducendo la vita ad una collezione di macchinari più o meno standardizzati e funzionali. A costo di trasformare la popolazione mondiale in cavie di un gigantesco laboratorio sperimentale con misture a base di chimere genetiche, di cui uno degli attuali miracoli scientifici non è quello di evitare i vaccinati né d’essere contaminati, e neppure d’essere contagiosi, ma solo di sviluppare le forme gravi della malattia.
Nella stessa logica, al fine di effettuare il loro smistamento in materia di cure vitali, pesanti, costose, di emergenza o crisi, tra chi può eventualmente sopravvivere e chi tutto sommato non serve più, gli statistici in camice bianco ad esempio assegnano quotidianamente dei punteggi ai pazienti. Questi non sono ovviamente collegati alla complessità di ogni individuo, sulla quale la fabbrica inospitale non si prende comunque la briga di soffermarsi, ma sulle probabilità medie di sopravvivenza potenziale al momento di questo smistamento decisivo: abbiamo così il punteggio di fragilità (da 1 a 9, con gli ultimi livelli attribuiti in base alla «aspettativa statistica di vita a 6 mesi»), il punteggio OMS (da 1 a 4, basato ad esempio sul fatto che si resti allettati «più o meno il 50% della giornata») e il punteggio GIR (da 1 a 6, determinante il livello di dipendenza, legato al fatto che un individuo possa effettuare un certo numero di compiti «spontaneamente, totalmente, correttamente o abitualmente»). È questa combinazione di punteggi, tanto performativa quanto arbitrariamente normativa, a determinare ufficialmente chi può vivere o morire, qui tra un paziente affetto da Covid e una persona vittima di un incidente stradale o di un infarto, e là tra due malati di Covid. Uno smistamento chiamato pudicamente selezione o priorizzazione, e di cui è meglio conoscere in anticipo le griglie di valutazione in caso di cura.
Ovviamente, è possibile sottolineare che questi strumenti di gestione dalla pretesa scientifica e oggettiva sono innanzitutto il riflesso di un mondo che ha bandito la qualità e l’individuo a beneficio dell’efficienza e della massa, dopo aver espropriato ciascuno di ogni autonomia, all’interno di un ambiente sempre più degradato che a sua volta richiede una moltiplicazione di situazioni di crisi o d’emergenza. E che quando aleggia la paura e la morte, per molti è indubbiamente più rassicurante trincerarsi dietro il noto della fredda razionalità di Stato che affrontare l’ignoto sperimentale di individui liberamente associati per farvi fronte. A ciò si potrebbe rispondere con un sorrisetto, che quando non si ha alcuna pretesa né volontà di gestire la merda esistente a un livello così globale come quello di una società, neppure in maniera alternativa, si può tuttavia auto-organizzarsi per tentare di porvi fine.
Attualmente, questo rapporto autoritario del quantitativo non riguarda unicamente la gestione clinica immediata della situazione instabile in corso — che passa anche attraverso la priorità assoluta data alla Covid-19 rispetto ad altre gravi malattie con pesanti conseguenze posticipate nel tempo — ma include anche un’altra dimensione di cui si intravedono appena le premesse: il rapido adattamento dell’apparato statale a un’epidemia che non è disposta a fermarsi, creando un nuovo tipo d’ordine sanitario e produttivo segnato in poco più di un anno da un’accelerazione dell’artificializzazione tecnologica della nostra vita.
Tralasciando la Cina che figura troppo facilmente da comodo spaventapasseri, la molto democratica Corea del Sud, per esempio, ha fissato fin dal marzo 2020 un tracciamento dei contatti della popolazione sfruttando i dati personali accumulati dai vasti sondaggi sanitari, come la situazione finanziaria, le fatture telefoniche dettagliate, lo storico di geolocalizzazione, le immagini di videosorveglianza pubblica o le informazioni trasmesse dalle amministrazioni e dai datori di lavoro. Tutte informazioni raccolte e poi integrate in un registro nazionale e liberamente accessibile, indicante la nazionalità delle persone, la loro età, il sesso, il luogo della loro visita medica, la data del loro contagio e informazioni più precise come l’orario di lavoro, il loro rispetto di misure come indossare la mascherina in metropolitana, le fermate abituali, i bar o i centri massaggi frequentati. Un gran bell’esempio di abbinamento di algoritmi informatici per alimentare la costruzione di un modello epidemiologico e permettere una gestione ottimale da parte delle autorità, il tutto completato da quarantene individuali obbligatorie, implementate tramite un’applicazione di geolocalizzazione sonora e che avvisa direttamente le forze dell’ordine se gli individui interessati si spostano, o se il loro smartphone è spento per più di 15 minuti, al fine di formare un «recinto elettronico» attorno ai refrattari, con in aggiunta chiamate casuali della polizia e una segnalazione al vicinato tramite SMS della presenza di una persona contagiosa.
Per quanto caricaturale sia questo esempio ben reale, potrebbe non essere un caso se un rapporto senatoriale uscito all’inizio di giugno in Francia per delineare alcune prospettive in vista di future epidemie (o di «catastrofi naturali o industriali, o attacchi terroristici») che richiedano reclusioni di massa, abbia appunto avanzato alcune proposte in tal senso. Nell’èra della connessione permanente, quando chiunque passeggia volontariamente con una spia elettronica in tasca, abituatosi a poco a poco al telelavoro, alla telemedicina e all’insegnamento a distanza, per il sogno totalitario cosa c’è di meglio di un democratico digitalizzato, a cui poter finalmente disattivare da remoto il pass per il trasporto, trasformando gli smartphone in braccialetti elettronici (coi selfie alle forze dell’ordine per dimostrare la propria presenza) o consegnare/ritirare dei lasciapassare differenziati di ogni tipo sotto forma di codici QR grazie a una Crisis Data Hub centralizzata?
Per chi, poniamo, ha iniziato a travestirsi in viaggio, vedendo pattuglie di droni della polizia durante il gran confinamento; per chi si è immobilizzato vedendo aggiungersi nello spazio pubblico a telecamere di videosorveglianza intrusive nuovi dispositivi di controllo del corpo come i rilevatori termici, i certificati di spostamento e altri certificati di vaccinazione; per chi è giunto più spesso di tanti altri alla conclusione che è molto meglio essere soli e selvaggi che accompagnati da reti algoritmiche… è certamente tempo di alzare gli occhi verso quei grossi cavi di rame tesi nel cielo o sporgersi verso tutte quelle canaline in cui le catene del ventunesimo secolo sfrecciano sotto i nostri piedi alla velocità della luce.
[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 42, 15/6/21]
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La foresta dell’agire

Posted on 2021/10/20 - 2021/10/20 by avisbabel

In ordine sparso

«Suggeriamo perciò, in Italia e fuori, a tutti coloro che vogliono molestare, fino a fiaccarlo, il nemico, la guerriglia autonoma e per ordine sparso; di piccole entità più difficilmente raggiungibili e identificabili»
“Non molliamo”, gennaio 1927

Forse è giunto il momento di provare a tornare sulle ipotesi organizzative, sul rifiuto o l’assenza delle stesse, nella piccola galassia di individui, di piccoli gruppi, di vari progetti differenti, di costellazioni conflittuali, che si riconoscono nella lotta per l’anarchia, una lotta certo dai metodi più variegati, ma che si svolge qui e ora. Una lotta che pone al centro il problema della distruzione. Distruzione di quanto ostacola la libertà e l’anarchia, anziché la sua gestione. Distruzione di ciò che opprime, sfrutta e devasta, piuttosto che un’educazione popolare di coloro che aderiscono, più o meno coscientemente, a ciò che opprime, sfrutta e devasta. Distruzione di tutto ciò che media, di tutto ciò che sopprime l’autonomia a favore della dipendenza, più che la creazione di piccoli isolotti alternativi negli interstizi del dominio. Le discussioni che ci allontanano da questa distruzione e dal nostro modesto contributo ad essa; le discussioni che non si interrogano su come incoraggiare la distruzione, su come contribuire a creare condizioni materiali e soggettive che favoriscano la distruzione, ci conducono solo al ristagno della paralisi.
Ciò detto, intendiamoci bene. La distruzione non è solo questione di fuoco, di sabotaggio, d’insurrezione o di armi. Se da un lato la distruzione comprende la soppressione materiale delle strutture e delle persone autoritarie, dall’altro implica una critica corrosiva dei rapporti sociali che sostengono, favoriscono e riproducono tali strutture, fino a toccare le nostre stesse responsabilità, i nostri compromessi, le nostre rinunce, che sono altrettanti mattoni dell’edificio sociale da demolire. La distruzione non è tanto un affare di guerra, dove sono tracciate le linee di demarcazioni tra amici e nemici; ciò di cui stiamo parlando va ben oltre un tale schema probabilmente troppo facile per spiegare l’eternità dell’oppressione e dello sfruttamento nel calvario della storia umana. Inoltre la distruzione, come fatto materiale violento, non è riducibile al semplice atto della distruzione (che essa si esprima contro le cose o contro gli uomini, da questo punto di vista  non fa alcuna differenza: l’atto di distruggere comporta comunque l’uso della violenza — offensiva o difensiva, giustificata o meno, in fondo si tratta di questioni che ognuno e ognuna deve risolvere da sé, senza le stampelle che qualche ideologia, sistema filosofico o convinzione religiosa possa offrire). Occorrono non solo braccia, ma anche testa; non solo una preparazione mentale, ma anche cuore; non solo uno sforzo e una convinzione individuali, ma forse anche il sostegno di chi abbiamo vicino.
Ciò che rimette sul tavolo la questione di un’ipotesi organizzativa è per l’appunto il soffio che vogliamo dare alla distruzione. È il primo passo da fare. Per parlare di organizzazione, bisogna prima mettersi d’accordo in quale prospettiva, con quale scopo, per quale progettualità, intendiamo dotarci di strumenti organizzativi. A ben pensarci, ogni individuo è già di per sé un’organizzazione. Lo stesso dicasi per ogni nucleo di affinità. Ma ciò di cui vorremmo parlare è una dimensione supplementare, più ampia, che si interroga sui possibili legami organizzativi tra gli individui, i gruppi di affinità, le variegate e differenti costellazioni.
Ma in quale prospettiva? Sicuramente non quella di «costruire una forza» per pesare nel dibattito pubblico, né di avere una rappresentanza anarchica nelle lotte e nei movimenti sociali. L’ipotesi organizzativa di cui vorremmo discutere in reciprocità, non è né un’ambasciata che rappresenti gli interessi del piccolo mondo anarchico, né un’agenzia interinale in cerca di nuove reclute, né un centro di divertimento aperto a coloro che non sanno cosa fare della propria vita e dei propri dilemmi, né un club di discussioni filosofiche per promuovere la chiacchiera infinita, né un’assemblea in cui tutto ruota attorno a una celebrazione collettiva che eclissa l’affinità e l’autonomia individuale, né una chiesa dove si va in cerca di conforto recitando i testi sacri, e neppure una impresa di demolizione in cui discutere solo di materiali, di tecniche, di specializzazione a oltranza e di esecuzioni ripetitive.
Ovviamente è sempre più facile dire ciò che non si vuole che parlare di ciò che si vuole. Tanto più che, in un dibattito come quello che proponiamo, la scelta delle parole può rivelarsi rapidamente un ostacolo alla comprensione reciproca, un certo termine rischia di colpire — più o meno inutilmente — la sensibilità di qualcuno, gli artifici della grammatica possono indurre a fantasticare di calcoli sulla cometa e castelli tra le nuvole. Ma arretrare davanti a un rischio del genere, anziché accettare i limiti di qualsiasi espressione linguistica (in qualche modo, ci si avvicinerà comunque a dire ciò che intendiamo e, paradossalmente, talvolta non dire nulla rende meglio ciò che si intende dire), significherebbe abbandonare un terreno magari rischioso, ma non sterile.
Ma perché parlare oggi di una ipotesi organizzativa? Riassumiamo velocemente, a rischio di ripetere ciò che altri hanno già detto altrove, e probabilmente meglio, alcuni tratti del tempo in cui agiamo. Innanzitutto, ci sembra che più il dominio avanza, più i sistemi si estendono e si espandono, più si (ri)affacciano dei fattori di instabilità. Una instabilità che si esprime ad ogni livello: dalla vita individuale passando per i traballanti equilibri geopolitici e i nuovi settori economici disgreganti fino al clima del pianeta che dobbiamo abitare. Il treno del progredire dell’addomesticamento del vivente avanza a tutta velocità, sempre più veloce, ma ogni sasso sulle rotaie, ogni granello di sabbia, provoca riverberi sempre più forti alla macchina lanciata a tutta velocità. Ormai da diversi decenni, e in modo sempre più determinante, i grandi pianificatori, dall’economista che prevede modelli a dieci anni fino allo scienziato che pontifica sullo stato del mondo futuro, sono costretti ad ammettere di avere notevoli problemi a fare previsioni che possano fungere da modello. Che troppi fattori, troppi cambiamenti rapidi, troppi imprevisti perfino, inducono ad una modellizzazione a medio e lungo termine. L’esempio facile e attuale è ovviamente la pandemia da Covid19, che ha portato gli Stati a confinare miliardi di persone, a frenare gli apparati produttivi, a sostituire in tutta fretta le classiche valvole di sfogo della pace sociale (dalle attività sportive alle preghiere collettive, dalla frequentazione dei bar alle attività culturali) con protesi e surrogati telematici.
Le instabilità provocano ovviamente cambiamenti significativi nei rapporti sociali. Confusione e paranoia si avvicendano con la nostalgia di uno Stato sociale o di un mondo uniforme su basi rigide o religiose; perdita di significato e sensazione di obsolescenza della vita stessa dialogano — per contrasto — con spettri della fine del mondo, la guerra civile, la catastrofe finale. Le instabilità possono trasformare un piccolo pretesto, un piccolo dettaglio, in una formidabile esplosione — in tutti i sensi, intendiamoci bene, non solo nel senso di esplosioni di libertà.
Tutto ciò cos’ha a che fare con gli anarchici? Da un lato, niente. Indipendentemente dalle condizioni e dalle epoche, gli anarchici restano i nemici di ogni autorità, indipendentemente da quale forma assuma. Si agiteranno, e forse agiranno, in tempi di democrazia come in tempi di dittatura, in tempi di emergenza climatica come in tempi di guerra civile, in tempi di pacificazione sociale come in tempi di rivoluzione. Dall’altro lato, tutto. Poiché le condizioni in cui cerchiamo di agire, e in cui, fatalmente, viviamo, influenzano fortemente ciò che facciamo, ciò che più attira la nostra attenzione, ciò che fa cristallizzare le nostre ostilità e… come possiamo concepire di organizzarci. Sarebbe stupido ritenere che organizzarsi in un regime democratico sia esattamente lo stesso che organizzarsi sotto una dittatura militare. Certo, ci sono continuità — in particolare, la continuità dell’autorità — che occorre comprendere e sottolineare, ma esistono anche differenze. Ecco perché i giochi non sono ancora fatti e i modi di organizzarsi dipendono dalle nostre progettualità, che a loro volta non si inscrivono nell’etere assoluto, ma nelle condizioni reali dello scontro.

Tempi di instabilità, sicuro, ma anche tempi di uno sviluppo terribilmente rapido nel dominio. La raffinatezza della sorveglianza che vediamo progredire giorno dopo giorno è solo la punta dell’iceberg, perché questa sorveglianza è possibile solo grazie alla riproduzione, nel suo insieme, del mondo cui partecipiamo. La sorveglianza tecnologica non sarebbe possibile senza l’onnipresenza di apparecchi tecnologici, anche nella tasca di ciascun cittadino. Di fronte a questa avanzata, che fa saltare una barriera dietro l’altra e assomiglia più ad una valanga mentre acquisisce forza che all’acqua del mare dalla lenta risalita, alcune ipotesi organizzative, così come alcuni modi di agire, rischiano davvero di diventare non solo obsoleti, ma del tutto inadeguati alle reali condizioni dello scontro. Se noi rifiutiamo, per ragioni non solo operative, ma anche di cuore, di accompagnare il dominio nel suo slancio tecnologico bloccando sempre più le nostre attività nel mondo virtuale, con ciò non vogliamo insistere davanti ad ostacoli invalicabili, ma trovare percorsi più sconosciuti, meno individuabili, più furtivi ed agili. Sapere dove si trova il nemico è una cosa, non avvicinarlo attraverso percorsi che ora può sorvegliare 24 ore su 24 giorno è un’altra cosa.
Se i nostri barometri indicano importanti instabilità meteorologiche, le nostre mappe di ieri ci servono ancora per orientarci. Non per copiarle, né per seguirle ciecamente, ma per farvi affidamento al fine di spianarci la strada. Così, le parole che abbiamo ritrovato in una pubblicazione italiana del 1927 riecheggiano in noi. «In ordine sparso», cioè colpendo il nemico nei suoi punti nevralgici e tentacolari, senza lasciarsi obnubilare dalle cittadelle di potere che lui agita davanti ai nostri occhi. Sparso, è agire senza formare colonne compatte, senza costruire accampamenti permanenti e indifendibili; è agire rompendo ogni simmetria nello scontro. Il suggerimento non è affatto nuovo, ma più la megamacchina si espande, più acquisisce senso. «Guerriglia autonoma» — evocavano nel 1927 — da intendere come una lotta offensiva di lunga durata, una lotta che non si vuole ridurre ad una bravata, ma che cerca di prolungare le ostilità. Una guerriglia, in effetti, in un territorio ormai interamente occupato dal nemico, dal mostro tecnologico. Ma non una guerriglia nel nome di un partito, o di una classe, no, una guerriglia «autonoma», cioè, che trovi le proprie ragioni di agire in se stessa, che non cerca alcuna rappresentazione (perché, cosa sarebbe la rappresentazione, se non il riconoscimento da parte dell’altro allo scopo di domarlo o inquadrarlo meglio?). Senza l’intenzione di riprendere oggi il termine di «guerriglia» per definire forzatamente l’insieme delle attività che rendono possibile l’attacco e l’offensiva, poiché ciò potrebbe portare a ridurre gli individui con le loro diversità a «guerriglieri», creando una nuova gabbia che distilla l’uso di un metodo da una identità ben riduttiva. Infine, per logica si arriva all’informalità, vale a dire al rifiuto di strutture fisse, di una rappresentanza pubblica, di sigle perenni, ecc.

Un progetto organizzativo

«I gruppi d’attacco sono autonomi e indipendenti, una garanzia affinché la creatività sovversiva non possa essere ridotta a schema unilaterale e fisso, oltre ad essere la miglior difesa dai tentacoli della repressione e la migliore situazione immaginabile per restare agili e imprevedibili. Soltanto a partire da una tale autonomia, è immaginabile ed auspicabile il coordinamento informale e agente; un coordinamento che coincida con delle prospettive e dei progetti condivisi. I piccoli gruppi di fuoco non sono separati dall’insieme delle attività rivoluzionarie, ne fanno parte. Nuotano come pesci nell’oceano della conflittualità sociale. L’arcipelago dei gruppi di lotta autonomi lancia una guerra diffusa che sfugga ad ogni controllo, rappresentazione e accerchiamento da parte del dominio»
“Salto”, agosto 2014

Può darsi che questo sentimento sia condiviso da altri, o forse no. Abbiamo l’impressione che da qualche tempo, nel contesto francese da dove parliamo, ci sia un riemergere, o piuttosto una comparsa, di pratiche d’attacco diffuse e continue, sparse ed agili. È chiaro che non tutti i sabotaggi e gli attacchi saranno stati realizzati in una prospettiva di anarchia, né da anarchici. Gli anarchici non sono gli unici ribelli. Ma che un certo agire anarchico, multiforme ma tenace, abbia cominciato a colpire in modo più specifico le infrastrutture del potere, ci sembra sia più una constatazione che un mero auspicio. E questo agire si sta sviluppando in modo informale, senza centralità, sotterraneamente, sul filo di desideri e scelte individuali e di incontri di affinità. Ma tutto questo può anche scontrarsi con una mancanza di costanza, di approfondimento, di progettualità più ampie, di progetti più incisivi. Allora la domanda da porsi, a nostro avviso, non è tanto «come diventare più forti», e neppure «come diventare più efficaci», ma sapere se vogliamo, e possiamo, allargare il nostro sguardo, guardare più lontano e magari anticipare le condizioni di uno scontro forse ancor meno favorevoli. Diciamo «ancor meno», nel senso che dopo gli anni 70 si ha più la tendenza a dire che le tensioni sovversive si sono ritrovate piuttosto a giocare in difesa (spesso con coraggio e tenacia, questo è certo), con pochi echi negli strati sociali più ampi e con una generale mancanza di progettualità a medio termine. C’è da dire che, negli ultimi anni, la stagnazione è stata interrotta a più riprese. Le ipotesi relative all’insurrezione e alla rivolta più o meno delineatesi negli ultimi anni sono state talvolta persino confermate, come all’emergere di alcuni movimenti eterogenei, che si raccoglievano attorno a un certo rifiuto, superando le divisioni delle categorie sociali, con una carica piuttosto esplosiva (vedi i Gilet gialli). Ma anche l’ipotesi che non escludeva che un «imprevisto» potesse sparigliare le carte e far saltare le dighe del pacificazione sociale, come è accaduto in Cile, dove le proteste contro l’aumento delle tariffe del trasporto urbano (una lotta tutto sommato abbastanza «banale») sono sfociate in una vasta rivolta, grazie anche alle mani calorose che hanno cambiato la situazione dando alle fiamme le stazioni della metropolitana — facendo piombare la capitale cilena in un caos che ha dato vita ad un’esplosione di rabbia forse senza precedenti in quel paese.
Ed è qui che entriamo nel campo dell’ipotesi organizzativa. Non ci si organizza per piacere, ci si organizza con un determinato obiettivo, al fine di realizzare una certa cosa. In tal senso, un’ipotesi organizzativa attuale non dovrebbe corrispondere a una volontà di crescita infinita, ma ad una più o meno precisa progettualità di attacco. Per questo pensiamo che ogni sperimentazione, sempre sul terreno dell’informalità (sotterraneamente), con dei coordinamenti tra individui e gruppi autonomi, possa contribuire ad approfondire i sentieri che decideremo di percorrere in un prossimo futuro. Un coordinamento non è un modello prefissato che funziona sempre secondo le stesse «regole». Si adatta e prende forma in base al motivo per cui si decide di dargli vita. Ciò detto, un coordinamento sarebbe possibile solo in presenza di determinate condizioni materiali. Si tratti di precise conoscenze, di discussioni di fondo, di affinità, nulla è da trascurare. E se le condizioni materiali dovessero mutare improvvisamente (e durevolmente)? Da qui la necessità di riflettere e discutere di un’ipotesi organizzativa.
Cosa fare se la volontà, lo sforzo, l’entusiasmo incontrano sempre più difficoltà nel superamento degli ostacoli che ci separano dal nemico che vogliamo colpire? Come fare a sviluppare una progettualità che guardi oltre la pubblicazione di un giornale, la realizzazione di un’azione, o l’apertura di uno spazio? Un’ipotesi è appunto l’organizzazione informale, così da mettere insieme parti che, prese separatamente, non hanno lo stesso peso o le stesse possibilità. Sarebbe una sorta di amplificatore dei nostri raggi d’azione — qualsiasi essi siano. In una simile ipotesi organizzativa, pur esistendo una divisione di compiti (non tutti possono fare tutto allo stesso tempo), non deve comunque esserci alcuna gerarchia. Ciascuno contribuisce alla realizzazione del progetto, che si articola in tutti i settori (logistica, azioni, approfondimento, diffusione delle idee, cure, autodifesa contro la repressione, ecc.). Potremmo argomentare che le cose siano già così. Siamo d’accordo, ma c’è pochissimo collegamento organizzativo — sempre informale — tra ciascuno di essi. Questa potrebbe essere la prima cosa su cui riflettere oggi, pur mantenendo rigorosamente la necessaria compartimentazione. L’affinità su cui si basa un tale progetto organizzativo non è l’affinità che caratterizza i rapporti individuali. È più legata alla condivisione del progetto che alla reciproca conoscenza di ciascun individuo. Questo è anche il motivo per cui i percorsi possono separarsi quando il progetto è realizzato, o addirittura non più condiviso da tale compagno o tale gruppo.
Pensare, quindi, un tessuto organizzativo che rafforzi l’autonomia di ciascuna delle sue parti, e che si basi, fondamentalmente, sui gruppi di affinità. Poi pensare a come questo tessuto, agile per natura, possa fornire un sostegno in tempi meno favorevoli, più difficili. Se un tale tessuto è destinato a favorire «le condizioni materiali e soggettive della distruzione», deve effettivamente esserlo nel senso più ampio. Se c’è bisogno di imparare, di esercitare lo sguardo e il braccio, di saper camuffare i propri passi — senza questo, qualsiasi progetto di attacco cadrebbe nell’improvvisazione più assoluta — e che tutto ciò dipende, in primo e in ultimo luogo, dalle scelte, dai desideri e dagli sforzi individuali, c’è anche un’altra dimensione da esplorare e da costruire. Raccogliere informazioni, mantenere i contatti, avere agganci locali, comunicare discussioni e dubbi fra le diverse costellazioni, organizzare una logistica, condividere conoscenze, provvedere a rifugi e a punti di riposo… fa tutto parte di ciò che ci sarebbe «da guadagnare» costruendo, o approfondendo, i tessuti organizzativi esistenti e potenziali. La sfida è avanzare in questa direzione senza creare centri, senza costruire punti fissi, senza instaurare una divisione prestabilita di compiti (che altrimenti diventerebbero «ruoli», riducendo la ricchezza degli individui e rendendo più complicata la reciproca fecondazione così importante se si parte dalla prospettiva di stimolare, rafforzare ed arricchire l’autonomia di ciascuna e ciascuno).
Infine, un tessuto organizzativo informale è un tessuto vivo, non un «involucro ermeticamente chiuso». Si estende attraverso e sulla base delle affinità, in tutti i sensi. Se ha le caratteristiche implicite di qualsiasi percorso di lotta (discrezione, compartimentazione, autonomia), non sigilla le porte, lasciando che tutto si basi sulla miriade di affinità individuali. Qualcuno potrebbe argomentare che questo non sia «efficace», che i risultati non si vedranno, che un tale modo di concepire l’auto-organizzazione non offra garanzie — ma a nostro avviso, anche se un tale metodo organizzativo è più lento, va anche più a fondo, oltre ad essere il miglior baluardo contro ogni tendenza verso la gerarchia.

Sentieri da esplorare

«Sparare prima degli altri, e più velocemente,
è una virtù da Far West, buona per un giorno,
dopo bisogna sapere usare la testa,
ed usare la testa significa avere un progetto.
E l’anarchico non può essere soltanto un ribelle,
ma deve essere un ribelle munito di un progetto.
Deve cioè unire il cuore e il coraggio
con la conoscenza e l’avvedutezza dell’azione»
Alfredo M. Bonanno

Nel cuore dei nemici dell’ordine esistente è radicata una forte credenza. Essa ha assunto molteplici sembianze nel corso degli ultimi secoli, caratterizzati dal frenetico sviluppo del capitalismo industriale, ma la sua sostanza è sempre la stessa. La crescita del capitalismo, l’estensione, il radicamento e l’approfondimento del dominio avrebbe un limite, scontrandosi con un ostacolo finale, soccombendo alle sue contraddizioni. Per alcuni, la concentrazione del capitale finirà col soffocare la concorrenza e farà quindi collassare il capitalismo sotto le proprie contraddizioni. Per altri, sarà il prosciugamento delle risorse energetiche come la benzina a segnare la fine del tecnomondo. Altri ancora sostengono che gli equilibri degli ecosistemi siano stati così turbati, che il crollo della vita sulla terra così come pensiamo di conoscerla sia inevitabile. Queste credenze, che contengono una speranza — anche cupa — che tutto questo merdaio conoscerà inevitabilmente una fine, fanno venire in mente una credenza assai diffusa dopo la Seconda guerra mondiale: mai più genocidi. Cinquant’anni dopo, sullo stesso suolo europeo, le epurazioni etniche hanno ritmato una guerra civile nell’ex-Jugoslavia. Altrove nel mondo, neanche mezzo secolo dopo è emerso il volto oscuro dell’umanità. Mai più genocidi, mentre gli Stati si dotavano di un armamentario nucleare capace di perpetrare mille volte il genocidio attuato dai nazisti. La storia non segue una traiettoria rettilinea, non ci sono superamenti definitivi. La possibilità del genocidio marcerà sempre al fianco dell’essere umano. Troppi compagni e compagne percepiscono la stessa rivoluzione — anche quando è intesa come un lungo processo di trasformazione — come un superamento definitivo, l’avvento del regno della libertà, come se, in nuce e in potenza, non fosse tutto costantemente possibile e presente.
Detto questo, anche se le instabilità che il dominio sta attraversando non sono affatto «mortali» per il sistema, ciò non significa che sarebbe inutile riflettervi e anticipare, per quanto è possibile, i possibili scenari, molto diversi, che si profilano all’orizzonte del tecnomondo lanciato a tutta velocità. Tutti questi scenari hanno caratteristiche di continuità e di rottura, e nessuno esclude definitivamente l’altro. Ad esempio, il deterioramento climatico a cascata può dare luogo sia ad una felice rottura della società concentrazionaria, che ad un’accelerazione dell’artificializzazione del vivente e perfino a guerre civili. Una rivolta confusa ma massiccia può aggiornare una dittatura militare, ma anche far vacillare le basi del vivere-insieme (inclusa l’ideologia del cittadino) per dare luogo a conflitti etnici, religiosi, clanici,… o ad ampi esperimenti di autogestione e di mutuo soccorso.
Se in superficie, è soprattutto la calma piatta che sembra regnare in un’Europa pacifica in molle decadenza davanti alle altre potenze mondiali, non possiamo permetterci di escludere tali scenari dal nostro immaginario. Tuttavia, in alcune parti del mondo, alcune aree si stanno desertificando a causa dell’aumento delle acque. Altrove, milioni di persone sono costrette ad abbandonare i luoghi in cui sono nate a causa di contaminazioni diventate mortali. Alcuni moti sono scaturiti — anche se non è il loro solo «risultato», e per fortuna — da atroci guerre civili. E anche sul continente europeo, mentre stiamo scrivendo — è in corso in Ucraina una guerra di trincea. Nello stesso tempo, in Irlanda del Nord, le tensioni montano ancora e fanno aleggiare lo spettro di una ripresa delle ostilità tra le diverse parti coinvolte. In Germania, non passa settimana senza sentire che è stato smantellato l’ennesimo gruppo di neonazisti che si prepara, si arma, si addestra, si coordina e pianifica, o che interi paesi si apprestano a dare la caccia ai rifugiati. In Grecia, in piena crisi economica, si è palesato il vecchio spettro della guerra civile che contrappone «la destra» e «la sinistra», prima d’essere messo in condizione di non nuocere dalle abili strategie distensive condotte da un governo detto di estrema sinistra. Tutto ciò cova costantemente sotto la placida superficie dei paesi europei.

Lo scatenamento della libertà

«Rivoluzionari anarchici, diciamolo a voce alta: non abbiamo speranze che nel diluvio umano; non abbiamo avvenire che nel caos… il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Cosa temete dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dallo scontro di tutte le dottrine?… Esiste, in verità, disordine più spaventoso di quello che vi riduce, voi e le vostre famiglie, a un pauperismo senza rimedio, a una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa esservi più funesta della morale, della scienza, delle leggi e delle gerarchie di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui avanzate senza armi? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?»
Ernest Cœurderoy

Va detto che alcune condizioni, alcuni pretesti o anche alcune azioni potrebbero far precipitare le cose. Ma precipitare verso cosa? Verso la rivoluzione sociale e la trasformazione libertaria dei rapporti sociali? Se nulla è impossibile, non per questo è più probabile. Un imprevisto cambiamento nell’ordine europeo provocherebbe anzitutto disordine, e il disordine — ciò non dispiaccia ai cuori troppo ottimisti — non è di per sé sinonimo di trasformazione libertaria. Si può affermare che la libertà è un fattore di disordine. Che essa distrugge ciò che la ostacola, scuotendo così l’ordine stabilito. «Non ci sarà più rivoluzione finché non scenderanno i cosacchi», diceva Ernest Cœurderoy, amareggiato per la sconfitta delle insurrezioni proletarie a Parigi a metà del XIX secolo. Aveva ragione: la libertà porta il disordine, ed è nel disordine che tutto può essere sperimentato. Dalle cose più turpi alle cose più belle. Tutto qui.
Se siamo disposti ad accettare l’ignoto, se siamo pronti a scatenare la libertà, possiamo finalmente allontanarci dal gauchisme che malgrado tutto abbiamo ereditato. Possiamo allora dire addio alle entità fantasmatiche che dovrebbero perseguire gli stessi scopi di emancipazione (la classe, gli oppressi, i poveri, ecc.) per rivolgerci completamente agli individui, con le loro contraddizioni, le loro scelte, le loro responsabilità. Possiamo dire addio agli schemi che ci informano che occorre elevare le coscienze prima di scatenare le ostilità. Possiamo dire addio ai determinismi che ci hanno illuso, circa il fatto che il fratello proletario non sparerebbe mai sul suo simile, ma prima contro il padrone (nonostante tutte le flagranti negazioni al riguardo che la storia ci ha sbattuto in faccia). Possiamo dire addio al ruolo dei messia, che porterebbero la luce in un mondo di tenebre, che alcune teorie rivoluzionarie vorrebbero farci giocare — fino al punto di farci trucidare da una popolazione reazionaria come è successo a Pisacane e ai suoi compagni nel 1857.
Scatenare la libertà, è accettare l’imprevisto che il disordine porta con sé. È accettare che sebbene la libertà non sempre sia benigna, potendo anche assumere un volto sanguinario, la esigiamo comunque. Non vogliamo una libertà priva di rischi, né pretendiamo dalla libertà che ci conferisca prima degli attestati di buona vita e di morale. Perché non sarebbe libertà, ma addomesticamento camuffato con abiti libertari, il miglior terreno perché il germe dell’Autorità ricominci a crescere — come è successo a molte insurrezioni imbrigliate, oltre alla reazione, dagli stessi rivoluzionari, magari per umanesimo, allo scopo di frenare ogni «eccesso» e di mantenere la rotta sul paradiso promesso dell’autogestione.
Oggi, per coloro che non temono il disordine più della continuità della marcia radiosa e mortifera del progresso tecnologico, non si tratta più tanto di pesare nella bilancia dei rapporti sociali e degli equilibri politici, si tratta di far deragliare il treno. Di far saltare le dighe che trattengono le acque stagnanti in pieno marciume. E a nostro avviso, un modo adatto per tentare di contribuirvi (ben sapendo che non siamo i soli a giocare e che contano pure altri fattori), è rivolgere lo sguardo verso ciò che sostiene e mantiene il sistema — le sue arterie: le infrastrutture di energia, telecomunicazioni e trasporti, su cui si basa ormai buona parte della vita economica, politica e sociale. Ma senza garanzie, senza prima assicurarsi che ci sia una massa critica sufficiente per affrontare una rottura nelle telecomunicazioni o nell’energia, perché sarebbe come riciclare l’a-poco-a-poco d’altri tempi (presa di coscienza – scaramucce – sommosse – insurrezione – rivoluzione, con la freccia del determinismo storico puntata da sinistra a destra), un’ipotesi che si può ora scartare definitivamente dal cuore delle metropoli europee. Ma rifiutando anche di seguire una logica che ci trasformerebbe in esperti tecnici capaci di far piombare il mondo nell’oscurità, per poi stare ad osservare, a distanza di sicurezza, quello che succede; scartando l’ipotesi del «colpo fatale» che provochi un blackout generalizzato (un po’ troppo simile per i nostri gusti all’illusione della «Grande Sera» da XX secolo o al «colpire il cuore dello Stato» degli anni 70).
Se è giusto affermare che agiamo prima di tutto — e di fatto, anche dopo — per noi stessi, per praticare la libertà invece di sognarla, tuttavia non è tutto qui. La libertà è totale, non sopporta ostacoli, vuole dispiegare le sue ali: ecco perché può andare alla ricerca, o anche scontrarsi, con l’insurrezione, lo scatenamento di massa di libertà. Un’ipotesi organizzativa attuale ha interesse a camminare con le proprie gambe. Da un lato, favorendo le condizioni per l’attacco — che comprenda davvero tutto, perché le sue condizioni coincidono con la vita stessa — e dall’altra, anticipando, preparandosi, organizzandosi per essere in grado di prolungare le ostilità (contro ogni potere, vecchio o emergente), anche in un momento di maggiore instabilità, di disordine generalizzato (che può assumere sia la fisionomia di un declino dello Stato e di conseguenza una autorganizzazione spontanea della sopravvivenza; sia quello di un conflitto generalizzato tra mille frazioni diverse, sconvolgendo le carte geografiche e politiche degli Stati in decomposizione o in ricostruzione).
Nel disordine, le regole tacitamente in vigore stanno sempre meno in piedi, soprattutto quando la situazione si prolunga. Chiedersi cosa poter fare in una simile situazione non è peregrino, una domanda che è stata posta anche molto recentemente, per esempio ai rivoluzionari in Siria che vedevano la rivolta sprofondare verso la guerra civile. Tuttavia, se un tale scenario fa paura, siamo certi che questi timori siano davvero i nostri, e non siano instillati dallo Stato? Abbiamo forse paura della libertà, ovvero, dell’assenza di regole fisse? Agire al di fuori della legge quando è la legge statale a regnare è una cosa, ritrovarsi in una situazione di assenza di qualsiasi legge (tranne quella della libertà intesa come libertà di agire — e della forza bruta) è un’altra. Ma il nostro vero posto, come anarchici, come nemici di qualsiasi ordine stabilito, non è proprio in una situazione del genere? Non dovremmo sentirci più a nostro agio da «Banditen», come le autorità naziste definivano i resistenti italiani che attaccavano?
Senza ottimismi fuori posto, né timori inculcati dal traboccare di pace sociale, possiamo già, nelle battaglie di oggi, organizzarci per le possibili battaglie di domani. Perché, se proseguiamo sulla via dell’attacco alle arterie del dominio, e senza alcuna garanzia, possiamo tuttavia essere sicuri di due cose. Innanzitutto, che lo Stato non lo apprezza affatto ed è consapevole (sempre più) della propria vulnerabilità da questo lato. Prima o poi reagirà di conseguenza, e sarebbe un peccato dover fermarsi per una mancanza di previsione, di preparazione e, sì, di organizzazione (intesa come supporto e sostegno, e non come entità rappresentativa o politica) su un percorso così buono. In secondo luogo, se per una ragione o per l’altra (una coincidenza di fattori, una moltiplicazione di fuochi di rivolta, un caso imprevisto), funzionasse, che le braccia delle macchine-robot si blocchino, che i computer si spengano in certi spazi / tempi, che il controllo capillare del territorio non sia più assicurato; quindi, se funzionasse, sarebbe un peccato limitarsi a sdraiarsi per guardare le stelle, così come sarebbe decisamente sciocco credere che le masse di sfruttati, abituate e intossicate dalla dipendenza da un’autorità e dalle macchine e non desiderose di autonomia, farebbero lo stesso. Quindi, se ciò funzionasse, potremmo già immaginare, progettare e prepararci per essere fra quelli che portano la libertà, nel proprio cuore e nelle proprie pratiche, in seno al disordine. Per affrontare non solo lo Stato, ma anche altre entità di autorità che non tarderanno a formarsi per ripristinare il controllo di una zona, per instaurare l’ordine (anche nelle vesti di un ordine cosiddetto rivoluzionario), per soffiare sulle braci dell’odio religioso, settario e «razziale».
Ecco alcune immense sfide per coloro che oggi si pongono la questione organizzativa, e che si ritrovano orfani dei modelli del passato resi obsoleti dallo sviluppo del dominio e dalle credenze ereditate da lotte eclissatesi sotto l’avanzata delle tecnologie. Ma il nostro tempo buio in cui nessun colpo, neppure un’insurrezione di massa, sembra fondamentalmente riuscire ad turbare la marcia forzata della messa-in-gabbia tecnologica del mondo e della devastazione del pianeta e della vita, è quello in cui viviamo. Se possiamo pur sempre sbattere la porta dietro di noi, possiamo anche vivere a fondo, intensamente, risolutamente: toccare la libertà con le nostre lotte, far vibrare l’amore contro la metallica freddezza del mondo, sentire sulla pelle la vicinanza complice di altri con cui si condividono alcuni percorsi, cantare con tutto il cuore la gioia di una vita di ribellione contro i salmi della rassegnazione e della sub-vita.

La foresta dell’agire

«Ascoltatemi dunque!
Fate che il vostro passo sia cadenzato
e leggero come quello d’un danzatore,
ed entrate con me nella foresta»
Renzo Novatore

A passi leggeri, entriamo a nostra volta nella foresta. La foresta in cui poterci incontrare al riparo da spie tecnologiche, dove poter, al prezzo di un piccolo sforzo, attraversare ancora ampi spazi senza che la nostra immagine sia ripresa da obiettivi e dove poter, cosa niente affatto trascurabile, ascoltare il nostro respiro, bagnare i nostri piedi, sentire i nostri corpi vibrare all’unisono con la nostra mente.
Se la foresta di oggi non è tanto un’entità geografica, ma forse prima di tutto uno spazio mentale creato e ricreato costantemente, alcuni ambienti potrebbero essere più propizi di altri — tutta la questione risiede, alla fin fine, in ciò che vogliamo fare, e con quale prospettiva facciamo quel che facciamo. Anche il richiamo della foresta è quindi un’esortazione a non aver paura di abbandonare i luoghi troppo esposti, a fuggire dal chiuso dei vicoli in cui ci ritroviamo bloccati, a prendere il largo quando le dighe erette fanno ristagnare le acque. A ciascuna e ciascuno le proprie valutazioni (restare nelle metropoli oppure no, esplorare le zone più periferiche della società industriale oppure no), ma osiamo scegliere, per quanto è possibile, il nostro terreno di lotta con tutto ciò che comporta (perché «la vita» e «la lotta» sono tutt’uno), senza rimanere agganciati, più per forza d’inerzia che per scelta, a quanto è diventato impraticabile, desolante, soffocante. Non c’è un al di fuori, ma ci sono terreni più favorevoli di altri per lottare e respirare.
Le nostre foreste sono sogni di piccoli gruppi di sabotatori con bottiglie piene nel proprio zaino, luoghi di scambio dove poter dormire tranquillamente, scrupolosi passeggiatori notturni muniti di seghe e tenaglie, con notti trascorse a guardare le stelle per chiarirsi le idee, fonti di ispirazione cui abbeverare i nostri cuori lacerati da tanto disgusto e tanta oppressione, briganti che depredano carovane mercantili, accampamenti invisibili da dove partire all’assalto. La foresta, è il mondo sotterraneo in cui tocchiamo la libertà nel nostro agire. Per trovarla, non c’è nessuna freccia che indichi il percorso. I suoi alberi e i suoi ruscelli si stagliano davanti ai nostri occhi mentre camminiamo, camminando. Andando in avanti. Verso l’azione.
Ma le nostre foreste sono sotto attacco. Alcune forze ostili le occupano sempre di più per setacciarne ogni metro quadrato. Dal momento che non sono territoriali, che non sono entità da difendere, non ci facciamo intrappolare in una battaglia di difesa. Noi le portiamo con noi, queste foreste, in tutto ciò che facciamo. I nostri scontri saranno sempre furtivi — compagni, il tempo dell’ultima battaglia, in fondo a una radura circondata da scogliere, senza vie di fuga, non è ancora arrivato. Ma per non ritrovarci in una simile situazione — o almeno non troppo presto, sarebbe una disdetta — è necessario camminare, adesso, trovare i rifugi solidali, condividere le carte, scambiare le nostre bussole.

[Tradotto da Finimondo. Avis de tempêtes, n. 40, 15/4/21]
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